lunedì 25 febbraio 2013

Julien Ries: una vita dedicata all'uomo.




Il cardinale Julien Ries è morto alle 13.20 di sabato 23 febbraio, nella clinica Notre Dame di Tournai, in Belgio, dove era stato ricoverato il 1° febbraio scorso per una grave insufficienza cardiaca. Fra due mesi avrebbe compiuto 93 anni, essendo nato a Fouches, nel comune di Hachy (attualmente Arlon), in diocesi di Namur, il 19 aprile 1920.
Ordinato sacerdote il 12 agosto 1945, era stato eletto alla Chiesa titolare di Belcastro col titolo personale di arcivescovo il 6 gennaio 2012 e aveva ricevuto l’ordinazione episcopale l’11 febbraio successivo, nella chiesa di Notre Dame di Villers-Saint-Amand. Benedetto XVI lo aveva creato e pubblicato cardinale nel concistoro del 18 febbraio 2012, assegnandogli la diaconia di Sant’Antonio di Padova a Circonvallazione Appia, della quale aveva preso possesso il 20 ottobre scorso. Le esequie saranno celebrate sabato 2 marzo, nella cattedrale di Tournai. 
Dopo aver frequentato le scuole primarie a Fouches, era entrato nel 1933 nel seminario di Bastogne, dove era rimasto fino al 1941, perfezionandovi gli studi umanistici e filosofici. Dal 1941 al 1945, in pieno tempo di guerra, aveva frequentato il seminario maggiore di Namur, ricevendovi l’ordinazione sacerdotale il 12 agosto 1945. Su richiesta del vescovo diocesano André Marie Charue, aveva proseguito gli studi di teologia e di orientalistica all’Università Cattolica di Lovanio, dove è rimasto fino al 1950. Intanto, nel 1948, si era laureato in teologia e nel 1949 in filosofia e storia orientale. Nel 1953 aveva discusso la tesi di dottorato in teologia, dal titolo: I rapporti della cristologia manichea con il Nuovo Testamento nell’eucologio copto di Narmouthis (Medĭnet Mădi) — poi pubblicata nelle «Ephemerides Theologicae Lovanienses» — avendo come relatori Lucien Cerfaux e Louis Théophile Lefort. Durante il periodo universitario aveva anche prestato servizio pastorale nella diocesi di Namur. Dal 1949 al 1950 era stato vicario a Martelange, poi, dal 1950 al 1959, docente di religione all’ateneo di Athus, quindi parroco-decano di Messancy, incarico mantenuto dal 1959 al 1968, anno in cui aveva iniziato il ministero di parroco di Suarlée, conclusosi nel 2000.
Lungo e brillante il suo percorso accademico nell’università cattolica di Lovanio, dove nel 1960 era stato nominato professore incaricato e dove, nel 1968, era diventato professore di Storia delle religioni presso la facoltà di teologia e l’Istituto orientalista, incarico mantenuto fino al 1991. La sua attività nell’ateneo era stata caratterizzata da un’attenzione particolare alle religioni orientali, in particolare alle figure di Mitra e di Zaratustra, e poi all’induismo, al buddismo e all’islam. Aveva tenuto vari corsi sul sacro, il mito, il rito, i simboli. Si era specializzato anche nello studio delle religioni dell’Egitto faraonico, dello gnosticismo, del manicheismo e delle antiche religioni germaniche e scandinave. Aveva fondato il Centro di storia delle religioni e aveva creato e diretto quattro raccolte di pubblicazioni di storia delle religioni: le collane «Homo Religiosus», «Collection Cerfaux-Lefort», «Information et Enseignement» e «Conférences et Travaux».
Nel 1969, durante il trasferimento dell’università francofona e la sua ricostruzione a Louvain-la-Neuve, era stato incaricato della istituzione del Centro Cerfaux-Lefort, allo scopo di riorganizzare la biblioteca universitaria. E nel Centro era rimasto fino al 2011, occupandosi delle grandi raccolte di libri e riviste per Louvain-la-Neuve, per i Paesi dell’est dell’Europa e per l’Africa francofona.
Dal 1975 al 1980 era stato presidente dell’Istituto orientalista di Louvain-la-Neuve e, dal 1979 al 1985, consultore del Segretariato per i non cristiani. Tra il 1982 e il 2000 aveva partecipato diciassette volte come conferenziere al Meeting per l’amicizia tra i popoli promosso a Rimini da Comunione e liberazione. 
Molti i riconoscimenti e le onorificenze assegnategli. Nel 1986 l’Académie Française gli aveva conferito il premio Dumas Millier per le sue pubblicazioni sul tema del sacro e nel 1987 aveva ricevuto il premio Furtado per «l’insieme della sua opera scientifica». Prelato d’Onore di Sua Santità, era stato insignito fra l’altro del titolo di commendatore dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Nel 2010 aveva ricevuto la laurea honoris causa in filosofia e scienze dell’educazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore, alla quale l’anno precedente aveva donato la sua biblioteca, la totalità dei suoi scritti e la corrispondenza avuta con storici delle religioni di tutto il mondo. Con questo vastissimo materiale è stato costituito l’Archivio Julien Ries per l’antropologia simbolica.
Dopo essere divenuto professore emerito nel 1991, aveva ricevuto il significativo omaggio dei suoi colleghi, che ne avevano celebrato l’opera con quatto volumi di Festschriften, miscellanea di studi in suo onore. Aveva poi tenuto un corso semestrale all’Institut Catholique di Parigi e un altro presso la facoltà di teologia di Lugano, in Svizzera, sul tema L’antropologia religiosa. Dal 2000 era cappellano della Famiglia Spirituale L’Oeuvre nella casa madre di Villers-Notre-Dame. E proprio dalle religiose dell’Oeuvre è stato amorevolmente assistito anche negli ultimi giorni, durante il ricovero nella clinica belga. 
Moltissime le sue pubblicazioni scientifiche. Nell’imponente bibliografia contenuta nel volume L’Antropologia religiosa. Il contributo di Julien Ries alla storia delle religioni (a cura di Natale Spineto, Jaca Book, Milano, 2008) sono annoverati ben 645 titoli di libri, saggi e articoli per riviste. Fra le sue pubblicazioni, da ricordareIl Sacro nella storia religiosa dell’umanità (1982) e Trattato di antropologia del sacro (1989-2009). Un centinaio di testi sono contenuti nel Dictionnaire des religions, edito sotto la direzione del cardinale Paul Poupard. La sua Opera Omnia, suddivisa in dodici parti tematiche, è in corso di pubblicazione in Italia dalla Jaca Book di Milano.
L'Osservatore Romano 26 febbraio 2013

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Il commento che segue è di Massimo Introvigne.


Persa tra il Conclave e le elezioni italiane rischia di passare sotto silenzio o quasi la morte, avvenuta sabato scorso, del cardinale belga Julien Ries (1920-2013), un antropologo di fama mondiale e uno dei maggiori e più influenti intellettuali cattolici del nostro tempo.
Ho conosciuto Julien Ries in circostanze molto particolari, in occasione del rapporto sulle «sette» pubblicato dal Parlamento belga nel 1997 e delle relative proposte di legge contro le «sette». Presentate agli ingenui come misure per fermare le attività di Scientology e di altri gruppi controversi – risultato, peraltro, mai conseguito –, queste leggi offrono in realtà a giudici mali intenzionati strumenti per accusare anche istituzioni cattoliche di essere una «setta» e di manipolare i propri membri.
Il rapporto belga del 1997 elencava tra le «sette» la Famiglia spirituale «Das Werk», «L’Opera» – da non confondersi con l’Opus Dei –, una comunità maschile e femminile fondata da Madre Julia Verhaeghe (1910-1997). Di questa comunità Julien Ries era cappellano e portavoce, mentre chi scrive era impegnato a denunciare il carattere raffazzonato e pericoloso per la libertà religiosa in genere del documento prodotto dal Parlamento belga.
Ci trovammo dunque dalla stessa parte della barricata. E scoprimmo che dietro l’attacco dei parlamentari all’Opera c’era un sacerdote ultra-progressista, don Rick Devillé, lo stesso che avrebbe poi guidato la polizia nel 2010 a scoperchiare le tombe di due cardinali sostenendo l’assurda tesi secondo cui lì dentro i vescovi belgi avevano nascosto documenti sui preti pedofili.
La battaglia contro le bufale sull’Opera di don Devillé fu insieme comica, per il carattere palesemente delirante di alcune accuse del sacerdote belga, e tragica, perché un Parlamento lo prendeva sul serio e gli riservava ben dodici pagine di un suo rapporto ufficiale. Ne nacque un rapporto di collaborazione e stima con Julien Ries, che riuscì a mantenere un atteggiamento bonario e pacato, finalmente apprezzato anche da una stampa ostile, su una vicenda che pure lo faceva soffrire, e che trovò una felice conclusione nel 2001 quando, nel quarto anniversario della morte di Madre Verhaeghe, il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) approvò l’Opera come congregazione di diritto pontificio.
Poco dopo venne l’11 settembre 2001, che mi offrì nuove occasioni per collaborare con Julien Ries su un tema che anche a lui stava a cuore, il fondamentalismo islamico, e per incontrarlo diverse volte a Lovanio. Le conoscenze di Julien Ries in materia di religioni erano, in effetti, enciclopediche.
Era nato ad Arlon il 19 aprile 1920 e aveva frequentato il seminario minore, poi quello maggiore, a Namur, nella difficile situazione del Belgio in guerra e occupato dai tedeschi. Dal 1945, l’anno in cui è stato ordinato sacerdote, alla morte è sempre stato legato all’Università di Lovanio, il grande centro della cultura cattolica in Belgio, dove è diventato dottore in teologia con studi sul cristianesimo copto e sul manicheismo, poi professore di storia delle religioni.
L’Università lo ricorda anche per il lungo e faticoso lavoro di ricostruzione della sua grande biblioteca dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. La Santa Sede lo chiamò come consultore presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso nel 1979, e Benedetto XVI, attento lettore dei suoi scritti, lo creò cardinale nel Concistoro dell’11 febbraio 2012.
Nel 2009 Ries aveva fatto dono della sua biblioteca privata e della sua corrispondenza all’Università Cattolica di Milano, cui – non meno che a Lovanio – era molto legato, e dove si è costituito nel 2010 un «Archivio Julien Ries per l’Antropologia simbolica».
Ries rimarrà nella storia degli studi sulle religioni come il fondatore dell’antropologia religiosa in quanto disciplina autonoma. I suoi punti di riferimento sono due storici delle religioni e antropologi non cattolici: Mircea Eliade (1907-1986) e Gilbert Durand (1921-2012), quest’ultimo commemorato su queste colonne in occasione della sua scomparsa avvenuta il 7 dicembre 2012.
Entrambi questi autori avevano esercitato un’influenza fondamentale perché alla dimensione religiosa dell’uomo fosse riconosciuto quel ruolo che un’antropologia positivista e anti-religiosa tendeva a negare.
Ries, però, aggiunge una dimensione teologica e un solido ancoraggio insieme storico e paleontologico. Studia la preistoria, le pitture rupestri e collabora con Yves Coppens, il paleontologo francese reso famoso dalla scoperta nel 1974 di «Lucy», un’ominide vissuta in Etiopia oltre tre milioni di anni fa. Ries elabora la teoria dell’«homo religiosus» secondo cui l’uomo, fin dal suo emergere nella preistoria, si caratterizza per la sua apertura ai simboli e al sacro e per la naturale religiosità.
La religione è dunque una caratteristica primordiale e ineliminabile dell’uomo, il che rovescia completamente i presupposti dell’antropologia positivista degli inizi del XX secolo e permette una critica radicale anche dello strutturalismo. In una delle ultime interviste, il cardinale ha rivelato che fu dopo una corrispondenza con l’allora cardinale Ratzinger che cominciò a mettere al centro della nuova scienza che aveva fondato, l’antropologia religiosa, le diverse nozioni dell’Aldilà che si erano formate nella storia.
Anche la sopravvivenza dopo la morte, spiegava Ries, è un’idea che è presente fin dalla preistoria e definisce l’uomo come tale. Tuttavia, non tutti i popoli hanno concepito l’Aldilà nello stesso modo. Per gli antichi Egizi – che affascinavano particolarmente il cardinale belga – e per gli Etruschi l’Aldilà è meraviglioso, mentre per le religioni mesopotamiche antiche dopo la morte ci attendono lavoro e fatica.
Secondo Ries, queste distinzioni sono importanti perché rivelano i caratteri fondamentali delle civiltà che le hanno elaborate.
Il cardinale Ries lascia un’opera immensa, la cui edizione più completa è in corso di pubblicazione in lingua italiana, presso la casa editrice Jaca Book. E un messaggio di speranza, che emerge in particolare dai suoi studi sul fondamentalismo islamico, condotti soprattutto dopo l’11 settembre 2001.
Il fondamentalismo propriamente detto è estraneo all’«homo religiosus» e non è neppure un dato «tradizionale». Deriva invece dall’influsso di una certa modernità sulle religioni: un influsso pericoloso, ma di cui le religioni possono e devono liberarsi. C’è però anche un fondamentalismo laicista – Ries lo aveva visto all’opera proprio nella controversia belga sulle «sette» cui ho fatto cenno all’inizio –, da cui si potrà uscire solo accettando la verità, che la scienza antropologica oggi dimostra, secondo cui la religiosità è la dimensione fondamentale e imprescindibile della persona umana. 



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Di seguito lunga intervista rilasciata lo scorso agosto a Roberto Fontolan e pubblicata dall'Osservatore Romano, nella quale Ries racconta i suoi studi, riflette sull’homo religiosus e la modernità, spendendo importanti parole anche sul Meeting di Comunione e LIberazione, del quale è stato assiduo frequentatore. Clicca qui per leggere l'intervista

Febbraio 6, 2012 Lorenzo Fazzini
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Qui di seguito propongo due interviste di Ries:


Julien Ries: «Al Meeting ho visto che la perversione del ’68 appartiene al passato»
«Sono ottimista, il materialismo non prevarrà e il cristianesimo riprenderà il suo posto in Occidente. L’ho capito al Meeting di Rimini, dove ho visto coi miei occhi che la perversione del Sessantotto ormai appartiene al passato». Articolo apparso sul numero 29/2009 di Tempi.

«Un uomo di una semplicità straordinaria. Un profeta. Aveva capito benissimo quale risposta dare ai giovani di fronte alla crisi del Sessantotto». A padre Julien Ries si illuminano gli occhi quando gli si chiede un ricordo di don Luigi Giussani. Perché fu proprio il fondatore di Comunione e liberazione a portare in Italia, culturalmente parlando, questo studioso gesuita belga, “padre” di una nuova antropologia religiosa che vede nell’homo religiosus una categoria antropologica paritaria a quella di homo herectus e habilis, tanto la tendenza al trascendente è innata e radicale nell’essere umano, secondo le pluridecennali ricerche di Ries. 
Personaggio incredibile, padre Julien: potrebbe vantare la stessa reputazione di sant’Agostino, dal momento che come il teologo di Ippona Ries ha scritto («sempre a mano», precisa sorridente) più di quanto un uomo normale possa leggere in vita. Con il suo bastone di legno, che sempre lo accompagna nelle sue splendide 89 primavere, non ha temuto di affrontare un viaggio internazionale in solitaria da Lovanio (nella cui Università cattolica è docente emerito di Storia delle religioni) fino ad Abano Terme, dove lo abbiamo incontrato in un frizzante pomeriggio di primavera inoltrata. «Vengo qui da 30 anni, una volta ogni sei mesi», esordisce. Una sapienza “di una volta”, quella di questo ricercatore del sacro nelle pieghe della storia umana: conosce cinque lingue antiche (greco, latino, ebraico, copto e siriaco: «Sa, per i manoscritti antichi», dice quasi a scusarsi di cotanta preparazione) e parla francese, tedesco, lussemburghese, fiammingo. 
È difficile condensare in breve il pensiero e l’opera di padre Ries. A settembre Jaca Book, l’editore italiano che ne pubblica l’Opera Omnia (giunta ora al sesto degli undici volumi previsti: La storia comparata delle religioni e l’ermeneutica è l’ultimo uscito), darà alle stampe la raccolta dei suoi interventi al Meeting di Rimini, la kermesse agostana dove Ries è stato ospite per ben 17 edizioni. Per farsi un’idea di questo personaggio fuori del comune, si può cominciare con una domanda: la mentalità scientista alla Dawkins-Odifreddi, che ormai ha conquistato uno spazio enorme nella pubblicistica mondiale e nella mentalità corrente, potrà un dì scalzare la valenza dell’homo religiosus? Gli occhi dell’anziano professore belga si infiammano: «No, questo non succederà, mai. L’uomo è religioso da sempre, lo attestano le sue prime manifestazioni culturali di auto-scienza».
Professor Ries, lei ha scritto che «il radicale sak- ci conduce al “reale”, alla “realtà fondamentale degli esseri e delle cose”». Se dunque il sacro ci conduce al reale, perché oggi ci troviamo di fronte a molteplici attacchi contro il concetto stesso di sacralità religiosa?
Il prefisso sak- è fondamentale per comprendere il sacro, è il radicale che ha creato il linguaggio sacro di tutto il mondo indoeuropeo, in Europa, India e Iran. Tutte le lingue indoeuropee (ad esempio quella greca con il termine aghios) utilizzano il radicale sak- per indicare il senso del reale. Quello che ho constatato lungo il mio lavoro di ricerca è che il linguaggio del sacro è stato usato in un senso diverso ed è stato cambiato nel corso della storia. Sto scrivendo un libro, che sarà la decima parte del Trattato di antropologia del sacro, il cui prossimo volume, in uscita in autunno per Jaca Book, si intitolerà Mutamenti e metamorfosi del sacro. Accolturazione, inculturazione e sincretismo. Qui mostro come la nozione del sacro è stata trasformata e semplificata. Tutto ciò è successo nel XX secolo nella letteratura degli autori che discendono da Émile Durkheim, il quale ha cambiato il significato del sacro, rendendolo una categoria di carattere sociale. Per Durkheim, infatti, il sacro deriva dalla società. Egli arriva a questa affermazione studiando alcune popolazioni indigene dell’Indonesia. Ma questa interpretazione del sacro è, a mio parere, ideologica, cioè indica un falso dio, una dottrina che forza la realtà. Ciò significa che si arriva a cambiare la realtà storica. E infatti nel nostro mondo postmoderno è stata portata avanti questa interpretazione del sacro, visto che il neoliberismo, il marxismo, il nazismo mischiano tutti la dottrina del materialismo con la mancanza di trascendenza. Le ideologie restano a un livello orizzontale, invece il concetto del sacro ci fa alzare in senso verticale. 
Si parla oggi, molto, di “ritorno del sacro” in Occidente, dopo la stagione della “morte di Dio”. Ma allo stesso tempo vi è chi – l’ultimo è stato l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn – parla di «ultimi giorni del cristianesimo in Europa». Che idea si è fatto sulla condizione del cristianesimo nel Vecchio Continente?
Io sono ottimista. Il cristianesimo sta veramente per riprendere il suo posto nella società europea. Mi viene da paragonare la situazione attuale alla parabola evangelica del buon seminatore, che getta il seme in terra il quale deve morire e da lì viene la ricchezza del raccolto. Penso che questo insegnamento del Vangelo debba guidarci nella condizione attuale. Vedo un segno di ottimismo nei giovani: ho passato una vita intera in mezzo a loro, ho conosciuto la crisi del ’68, che è stata veramente la perversione dei valori. A quel tempo mi chiedevo: come uscirne? A Lovanio ci riunivamo un po’ in segreto io e altri colleghi professori dell’Università cattolica per capire insieme la strada migliore da percorrere. C’è stato un evento che mi ha insegnato “come” venirne fuori: sono stato invitato al Meeting di Rimini per la prima volta nel 1982 da don Luigi Giussani. Era l’anno in cui arrivò anche Giovanni Paolo II. Mi era stato chiesto di fare una relazione di introduzione al sacro, insieme ad Angelo Scola, oggi patriarca di Venezia. Ho spiegato la mia concezione del sacro e ho trovato un uditorio di duemila persone, per lo più giovani, tutti attentissimi. Poi, per tutta la settimana del Meeting, gruppi di ragazzi e ragazze, 200-300 alla volta, mi hanno chiesto di continuare a parlare loro di questo argomento. Ho potuto vedere con i miei occhi che c’era una nuova generazione di giovani dopo il ’68. 
Quali altri segnali la rendono ottimista nel guardare al futuro del cristianesimo in Europa?
Ho assistito al fenomeno delle Giornate mondiali della gioventù: sono veramente eventi che cambiano in meglio i giovani, ho conosciuto persone che ne sono tornate trasformate. E questi incontri durano da 25 anni! Poi vedo i movimenti ecclesiali, i focolarini, Comunione e liberazione, l’Azione cattolica, le Communautés nouvelles francesi che lavorano nel campo della nuova evangelizzazione (è il caso della comunità L’Emmanuel): trovo tutto ciò davvero straordinario. Questi giovani non esitano a parlare della fede nelle strade, creano scuole di evangelizzazione, hanno molte vocazioni. Qui vediamo in atto una rinascita straordinaria del cristianesimo: all’opera sono i giovani, e questo vuole dire che siamo davanti a qualcosa di nuovo per il futuro. La generazione del Sessantotto sta per scomparire, viene rimpiazzata da queste nuove generazioni che sono in azione in Francia, Italia, Spagna, Germania e Polonia. Non possiamo pensare che il cristianesimo stia per scomparire in Europa. Io sono superottimista.
Padre Ries, chi è l’homo religiosus?
Con la mia opera ho cercato di mostrare una nuova antropologia religiosa: nei primi tre volumi ho raccolto i dati delle mie ricerche, da cui si evince che da migliaia di anni l’uomo è religioso. Nelle prime attestazioni culturali dell’umanità, le grotte primitive di 40 mila anni fa, sono già presenti segni dell’homo religiosus habilis, capace di dar conto della sua aspirazione al trascendente mediante la cultura. L’uomo non è dunque solo habilis o herectus, ma anche religiosus, perché ha avuto coscienza della trascendenza. Già Mircea Eliade affermava che l’osservazione della volta celeste è all’origine della scoperta di una realtà che supera l’uomo. Al Meeting di Rimini del 1988 proposi a un architetto di Milano di costruire una galleria con un cielo in alto, sul soffitto. Alla fine la struttura fu realizzata, ed era sempre piena di gente che si metteva per terra ad ammirare questa volta celeste.
Ha fatto breccia ormai perfino negli atti ufficiali delle Nazioni Unite la tendenza a bollare come “islamofobia” qualsiasi critica rivolta al mondo musulmano. Da grande studioso di storia delle religioni, lei cosa ne pensa? 
L’islam di oggi, in contrasto con il mondo moderno, ha creato quello che in Francia si chiama “islamismo”, cioè la presentazione dell’islam non solo come la vera religione, ma come la dottrina che deve dirigere il mondo attuale. Questa interpretazione è stata data per la prima volta dai Fratelli Musulmani, fondati in Egitto, per i quali il Corano dovrebbe diventare la costituzione del pianeta. Per loro il libro sacro dell’islam non dovrebbe solo rimpiazzare le altre religioni, ma tutte le legislazioni nazionali. Questa è una concezione pericolosa, ma va anche rimarcato che si tratta di un islam deformato, che prende in considerazione solamente alcuni passi del Corano. I cristiani sono chiamati a dialogare con i musulmani, però non con questi islamisti che propugnano un movimento politico violento. Questi gruppi non sono maggioritari nel panorama islamico, anche se io non sono in grado di affermare se si tratti di un fenomeno in crescita o meno. Certamente questa tendenza si sta affermando in Iran. Attualmente, comunque, il problema maggiore del mondo islamico è la guerra tra sunniti e sciiti, come vediamo in Iraq. Questo conflitto è iniziato a partire dal quarto califfo. E non sappiamo quando ne vedremo la fine.


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È necessario trasmettere entusiasmo per Cristo. Come fecero i profeti Giussani e Lubich




Di seguito l’intervista a Julien Ries a cura di Armando Torno, apparsa sul Corriere della Sera del 4 febbraio 2012.

Julien Ries, professore emerito a Louvain La Neuve di Storia delle religioni, è cappellano presso la Famiglia spirituale l’Oeuvre a Villers Saint Amand (nel Belgio vallone). La Cattolica di Milano, alla quale ha lasciato biblioteca e archivio, gli ha conferito la laurea honoris causa nel 2010. La nomina a cardinale è giunta per i suoi lavori scientifici e culturali. Riceverà la berretta il 18 febbraio. Le sue opere complete stanno uscendo da Jaca Book, casa editrice con cui collabora da un quarto di secolo. Lo abbiamo intervistato.
La porpora a 92 anni. Cosa dice il suo cuore?
«È stata una grande sorpresa, ero totalmente meravigliato. Non me l’aspettavo. Nella vita capita quello che succede nell’evoluzione: un imprevisto permette un salto in avanti. Ho riflettuto sulle ragioni e ho pensato che prima di me c’era stato Franz König, di Vienna…».
Che giocò un importante ruolo nel Concilio…
«…come storico delle religioni. Era un grande conoscitore dell’Iran e aveva, tra i molti lavori, comparato l’escatologia di Zoroastro con l’Antico Testamento. Ma, al di là di tutto, credo che siano i miei studi di storia delle religioni e anzitutto quelli sull’antropologia religiosa che hanno giocato nella nomina».
Continuerà la sua opera o la porpora è troppo pesante?
«No, non lo è; anzi è una leva che permette di avere una visione migliore della missione intrapresa e un’idea più entusiasta del lavoro ancora da compiere. La mia giornata di studio e di raccoglimento continuerà. Comincio alle 5 di mattina: preghiera e meditazione, poi celebro la messa a cui vengono le suore dell’”Oeuvre”. Tengo una omelia tutti i giorni, nella quale ricordo santi e avvenimenti della Chiesa per orientare il nostro lavoro. Traggo ispirazione da Ambrogio, che influenzò anche Agostino. Dalle 9 fino alle 12 mi dedico allo studio e alla scrittura. Lo stesso faccio dalle 3 di pomeriggio alle 6 di sera. Poi la cena. E il riposo».
Cosa manca oggi alla cultura?
«Primariamente la coscienza della storia, della storia dell’umanità. È una disciplina quasi dimenticata. E la storia della cultura ha bisogno di essere conosciuta per sapere dove mettere i piedi. Il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes, che parla della relazione Chiesa-mondo, ha posto un capitolo importante sulla cultura, che andrebbe riletto oggi. Per la Chiesa è stato un impegno serio e il lavoro di figure quali il cardinale Ravasi ne è la prova».
Cosa va scoperto e valorizzato nella cultura di oggi?
«La cultura attuale ama la superficie e ha perso il senso: smarrirlo equivale a non trovare più la ragione della vita. In Europa, per esempio, manca la coscienza della storia cristiana. C’è dunque un lavoro in profondità da fare e occorre, tra l’altro, attivare il dialogo con i non credenti. Non si deve inoltre avere alcuna paura per l’immigrazione, ma non si possono trasformare le periferie in luoghi di parcheggio che ricordano la colonizzazione, quando i nativi erano posti in “campi” e gli europei  vivevano per proprio conto. Io seguito a utilizzare il termine acculturazione per esprimere l’accoglienza simpatetica di altri popoli. Uso poi il vocabolo inculturazione per esprimere come l’annuncio del Vangelo debba tener conto di rivolgersi a culture diverse».
Riscoprire la Chiesa. È possibile ancora?
«Per riscoprire la Chiesa è necessario trasmettere un entusiasmo per Cristo, che la nostra generazione ha quasi perso. Ma ai giovani è possibile. Si tratta di ritrovarlo nel Vangelo: ci vogliono profeti per la nostra epoca. Ce ne sono stati di recente, come don Giussani, Chiara Lubich e altri».
Lei è considerato il più grande antropologo religioso del nostro tempo. Un giudizio sull’antropologia «non» religiosa…
«L’antropologia “non” religiosa è una scienza orizzontale, guarda l’uomo nelle sue dimensioni sociali e, a volte, con occhi che fanno fatica a vedere, come quella strutturale di Lévi-Strauss. In noi c’è un’altra dimensione. Sant’Ireneo diceva che l’uomo che sta ritto in piedi è la gloria di Dio. Occorre vedere assieme alla dimensione orizzontale quella verticale: l’uomo è piantato verso il cielo. Dunque all’antropologia non deve mancare la trascendenza e l’antropologia religiosa è marcata dalla trascendenza. Da qui l’importanza dell’homo religiosus».
Teilhard de Chardin. Questo gesuita turba ancora la Chiesa?
«Sta tornando! Le ricerche attuali sull’evoluzione mostrano la visione chiara e lungimirante che aveva Teilhard. È stato De Lubac a indicare per primo il vero volto di Teilhard. Oggi la Chiesa riconosce che commise un errore nel metterlo da parte».
Il mondo sta cambiando. È solo crisi economica?
«La crisi economica profonda ha le sue radici nel neoliberismo. Si è puntato su ricchezza e beni materiali e non si è capito che sono campi da regolare. Siamo in un contesto di materialismo liberale. Accanto ad esso, c’è una crisi dello spirito per la perdita di veri punti di riferimento culturali. La mondializzazione è un monogambismo, ma per camminare occorrono due gambe. Occorre rileggersi le encicliche che denunciavano le società con una sola gamba».
I fondamentalismi religiosi?
«Hanno toccato molte fedi, e ne hanno fatto delle ideologie. Nell’Islamismo si mischia politica e religione, ma è il progetto politico che prevale e si vuole fare di esso la costituzione del mondo. Il fondamentalismo indù sta ripetendo un errore simile al nazismo, considerando necessaria, indispensabile ed unica per l’India appunto l’identità indù. Perderebbe in tal modo la grande visione dell’uomo e del mondo. Nel cristianesimo osserviamo lo stesso fenomeno con l’integrismo che seleziona i testi e trasforma la religione in ideologia. Lo abbiamo visto nella guerra del Golfo. L’ideologia fondamentalista sovverte l’uomo religioso, diviene intolleranza ideologica e rende il dialogo impossibile».
Molti suoi lavori si rifanno alla Preistoria. Perché?
«Ho trovato in essa le nostre radici. Con la Preistoria noi vediamo che in partenza l’uomo è marcato dal simbolismo ed è homo religiosus; e questo lo caratterizza. Da oltre due milioni di anni osserviamo la crescita di ciò che chiamiamo ominizzazione e seguiamo il percorso dell’umanità sino al Paleolitico superiore alle grandi grotte dipinte: segno, con la già precedente sepoltura dei morti, di un grande senso della trascendenza. C’è una crescita della coscienza nella storia dell’umanità che porta alla nascita delle grandi culture e religioni, ma noi notiamo che dal suo apparire l’uomo è simbolico e religioso. Questa consapevolezza è importante per il nostro tempo, per tale motivo mi sono interessato di Preistoria. Oggi abbiamo bisogno delle costanti del sacro: simboli, miti, riti. Oggi sappiamo che la Preistoria, un tempo considerata separata dalla storia per la mancanza della scrittura, è già storia. Non c’è alcuna rottura da quando appare l’uomo».