martedì 26 febbraio 2013

Messaggio di Gesù ai vincitori delle elezioni

Di seguito il Vangelo di oggi, 27 febbraio, mercoledi della II settimana di quaresima, con un commento.


Ricordiamoci spesso di Gesù Cristo,
perché il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo
e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo
noi “rischiamo” di fare come Lui.

Don Giussani


Dal Vangelo secondo Matteo 20,17-28

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i Dodici e lungo la via disse loro: “Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà”.
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: “Che cosa vuoi?”. Gli rispose: “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. Rispose Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?”.
Gli dicono: “Lo possiamo”. Ed egli soggiunse: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio”.
Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.



Il commento



“C’è però una ferita nel cuore, per cui nell’uomo qualcosa si distorce ed egli non riesce con le sue sole forze a permanere nel vero, ma fissa l’attenzione in cose particolari e limitate. Il disegno originario, ciò per cui l’uomo è creato, è stato alterato dall’uso arbitrario della libertà; gli uomini tendono così ad un particolare che, sganciato dal tutto, viene identificato con lo scopo della vita… Uscire da questa parzialità non è nelle nostre mani: nessuno di noi riesce da solo a riportarsi ad uno sguardo vero sul reale” (L. Giussani, Generare tracce). Chiamati a libertà sperimentiamo d’essere schiavi di noi stessi, come "obbligati" alla parzialità delle nostre idee, dei nostri giudizi, dei nostri pensieri, dei nostri progetti, delle ore, dei minuti, delle parole, delle “nostre” cose, come stretti dalle catene della carne soggiogata alla morte. Siamo schiavi del peccato, la “ferita” che ci obbliga a fissare lo sguardo sull’angusto orizzonte che a malapena riescono ad abbracciare due poveri occhi spenti. In noi è vergato un disegno originario, di amore e donazione, ma non possiamo realizzarlo. Sbattiamo contro un muro e, alla fine, i limiti che ci racchiudono si trasformano in regole di giustizia, confini ben limitati del dovuto e del buono. Andare oltre? Impossibile. La carne rende impotente ogni tentativo di varcare il limite, al di là del quale vi “è” l’altro; oltre il perimetro di sicurezza del nostro egoismo c’è il baratro, la buia morte, ed essa è inaccettabile. Viviamo imprigionati in un desiderio strozzato che si fa sentire, pungente, nell’ansia di primeggiare, d’essere sempre in prima fila, e far breccia nei cuori altrui, e potere, e prestigio, e denaro. Così, ad esempio, anche la sessualità, tra adolescenti, tra fidanzati, tra chi è sposato, è usata per soddisfare se stessi; nessun sacrificio, nessuna rinuncia. E' impossibile, le membra e le menti sono come annegate nel fiume dell'autorealizzazione. Siamo tutti così: ogni giorno, come una risacca, riemerge in noi il medesimo desiderio, la solita concupiscenza: alla destra e alla sinistra del potere, finalmente strappati alla precarietà d’una vita grigia spesa a eternizzare la morte della routine. Mentre però la vita ogni giorno ci porta "a Gerusalemme", e la storia ci presenta un "calice" attraverso le difficoltà, i problemi e i fallimenti. Bere a quel calice è la via alla realizzazione del destino segnato in ciascuna nostra cellula. Uscire dalla parzialità d’una vita inginocchiata davanti agli idoli del mondo non è nelle nostre mani. Per questo ci viene porto un calice, quello di Gesù, il segno della sua passione d’amore inchiodata al legno della Croce con cui si dona a noi per unirci a Lui; in ogni eucarestia, in ogni evento della nostra vita, il suo sangue versato per noi, la sua vita offerta per il nostro riscatto ci raggiunge proprio attraverso quanto ci umilia e ci strappa dall'alienazione dell'egoismo e della superbia. Bere il suo calice significa, infatti, partecipare della Nuova Alleanza, attingere alla Coppa che chiude, come un sigillo, il Seder della notte di pasqua, per uscire risorti dalla morte e donarsi all'altro; bere al calice di Cristo per gustare, misteriosamente, proprio al culmine del dolore che costituisce l'amore, la libertà che si fa pienezza, anticipo della terra, gioia e felicità, pace e dolcezza che la carne, pur riuscendo per ipotesi a realizzare ogni suo desiderio, non è capace di raggiungere e sperimentare. Il suo calice è ripieno di Vino buono, quello che scaturisce miracolosamente dall'acqua della nostra debolezza, il migliore, quello del Regno, della Vita Nuova, dell’eterno amore che vince la morte. Sì, nel calice della croce è celata la vita, la nostra libertà, l'unguento capace di guarire le nostre ferite. Berne è la salvezza, che ci fa liberi dal peccato e dalla morte che segnano il limite di ogni nostra esistenza. 

Liberi in Lui siamo così riconsegnati al nostro vero destino, che è amare e dare la vita. Servi e schiavi, senza difendere nulla perché tutto ci è donato. "Graziati", senza alcun merito, per il puro amore di Cristo riversato in noi per amare. Lavoro, amici, fidanzati, genitori, figli, studio, sport, diverimenti, riposo, sessualità, tutto è così trasfigurato in una luce d'amore, di dono, di pace. Assaporiamo allora la vera beatitudine, essere servi e schiavi. E lì, all'ultimo posto che la storia ci dona, dietro a tutti, alla moglie, al marito, ai fratelli, al figlio, al collega, l'orizzonte si allarga non più rinchiuso nella parzialità del particolare, quella di chi fa di se stesso il centro dell'universo, e diveniamo "i primi", coloro cioè che, come "primizie"gustano le delizie del Cielo, per annunciarle e testimoniarle a ogni uomo schiavo della carne e della terra. L'ultimo posto, infatti, è l'unico che compie il naturale desiderio di essere i primiprimi come il Primogenito, guardando tutto dal basso verso l'alto, capovolgendo criteri e gerarchie, nella follia di un conteggio che fa saltare la matematica dell'orgoglio. E' il paradosso divino al quale siamo chiamati: il Padre "celeste" guarda tutto dall'alto abbracciando il senso pieno di ogni esistenza, dal concepimento alla morte, dove ogni particolare è incastonato nel suo progetto totale, proprio perché, nel suo Figlio, ha deposto lo sguardo sull'ultimo posto della terra, il più distante dal Cielo. In esso, infatti, si comincia a contare dall'ultimo posto, quello del suo Re e Signore: così "tra di voi" nella Chiesa, nelle famiglie cristiane, ovunque vi sia un fratello del Primo tra i risorti dalla morte. La carne nostra madre naturale ci spinge a primeggiare secondo i suoi criteri, quelli meschini e parziali della terra: come "la madre dei figli di Zebedeo", che cerca per loro i primi posti nel Regno di Gesù, incapace di comprendere che esso si realizza attraverso il rifiuto e la Passione del suo Re. Per questo, figli concepiti da nostra madre nel peccato originale e da questo feriti, siamo spesso sintonizzati su tutt'altro canale, e all'annuncio della Croce "non sappiamo cosa chiedere" e possiamo solo rispondere con le esigenze dettate dalla carne che rifiuta ogni sofferenza; crediamo di poter bere al calice di Gesù pregustando il suo trionfo, ma sorvoliamo sul cammino del Golgota che ad esso conduce. Ci "sdegniamo" delle pretese altrui, ma siamo schiavi della carne come loro, mossi dagli stessi appetiti di grandezza e potere, come accadde ai "due fratelli" (due fratelli come i figli di Zebedeo) che si presentarono a Gesù perchè giudicasse sulla questione della loro eredità, entrambi convinti che la vita dipenda dai beni, e preda della stessa cupidigia, l'uno per aver rubato al fratello e l'altro per averlo denunciato. Eppure, nonostante l'incipienza della carne, il Signore "ci chiama a sé" e ci annuncia che "berremo al suo calice", anche se non ci è rivelato "il posto" che ci sarà assegnato nel futuro celeste che ci attende: nel Regno dei Cieli la carne non saprà distinguere un posto da un altro, perché "Cristo sarà tutto in tutti", e tutti sazierà del suo amore incorruttibile. Per questo, sulla terra, l'ultimo posto, quello che ha preso il Signore, ci ammaestra e prepara a quello che occuperemo in Cielo: dove siamo con Cristo è già il Paradiso, i prati d'erba fresca dove non manchiamo di nulla e dove diveniamo i "più grandi"; è quanto domandiamo nel Padre Nostro implorando che sia fatta la volontà di Dio "come in Cielo così in terra": essa, infatti, è l'unico nostro autentico riposo, e si compie sempre occupando ovunque l'ultimo posto. Rinati nelle acque di misericordia del seno della Chiesa, nostra madre spirituale, siamo condotti, giorno dopo giorno, a seguire l'Ultimo tra gli ultimi, e i suoi passi che "si avviano a Gerusalemme": "Lo scaturire del sangue di Cristo è la sorgente della vita della Chiesa. San Giovanni vede nell’acqua e nel sangue che sgorgano dal corpo di nostro Signore la sorgente di quella vita divina che è donata dallo Spirito Santo e ci viene comunicata nei sacramenti" (Benedetto XVI). Per questo la Chiesa è la comunità che ci accompagna "lungo la via" e ci insegna a vivere secondo lo Spirito che ci fa discernere nel prossimo la Gerusalemme preparata per noi, il Golgota dove stendere le braccia in un amore senza confini: "Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore" (Benedetto XVI). Dietro, all'ultimo posto, crocifissi con Cristo, per afferrare le esigenze e i bisogni di tutti, diluendo il proprio io nei desideri altrui, non per compromesso o paura, come oggi il mondo ci induce a fare, evaporando personalità e unicità. Ultimi, invece, per amore, perché l'unica e autentica realizzazione della persona creata da Dio è vivere nell'altro, dimenticando se stessi. Riscattati, apparteniamo ormai a Cristo, per appartenere ad ogni uomo, amico o nemico. Niente dominio, niente potere, in Lui la nostra vita diviene una sinfonia d'amore inesausto, sino al Cielo.