sabato 2 febbraio 2013

L'unica cosa che rimane per sempre

   
Oggi 3 febbraio celebriamo la
IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno C  

Di seguito testi e commenti. Buona domenica!
Pb. Vito Valente.


MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 105,47
Salvaci, Signore Dio nostro,
e raccoglici da tutti i popoli,
perché proclamiamo il tuo santo nome
e ci gloriamo della tua lode.

Colletta

Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l'anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

 
Oppure:
O Dio, che nel profeta accolto dai pagani e rifiutato in patria manifesti il dramma dell'umanità che accetta o respinge la tua salvezza, fà che nella tua Chiesa non venga meno il coraggio dell'annunzio missionario del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura  
Ger 1,4-5.17-19
Ti ho stabilito profeta delle nazioni.
 

Dal libro del profeta Geremia
   
Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te
come una città fortificata,
una colonna di ferro
e un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».
   

Salmo Responsoriale  
Dal Salmo 70
La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Seconda Lettura    1 Cor 12,31-13,13 forma breve  13, 4-13
Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi   
Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
[ La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
 ]

Canto al Vangelo  
Lc 4,18

Alleluia, alleluia.

Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione.

Alleluia.

  
  
Vangelo   Lc 4,21-30
Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Parola del Signore.

* * *
COMMENTI

1. Congregazione per il Clero
«Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Dopo averci convocati, Domenica scorsa, alla presenza del Signore per ascoltare dalla sua bocca l’inaudita verità, che cioè è in lui, nella persona di Cristo, che si compiono le promesse dei profeti, le attese messianiche di Israele, poiché è lui l’atteso, l’Unto di Dio, la Santa Chiesa ci pone, oggi, dinanzi alla reazione dei primi, che ascoltarono questa parola di verità.
Ad un primo sguardo, gli abitanti di Nazareth, convenuti nella sinagoga, sembrano essere entusiasti di Gesù. Scrive, infatti, San Luca: «Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». I nazareni, osservandolo, ascoltandolo parlare, vedendo con quanta delicata fermezza, con quale originaria autorevolezza si rivolge loro, profondamente toccati dalle “parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, non fanno altro che parlare di Cristo, rendendogli, così, testimonianza. Ma – aggiunge l’evangelista – «dicevano: “non è costui il figlio di Giuseppe?”».
Di fronte all’inequivocabile “novità” di Cristo e all’insopprimibile meraviglia che ne deriva, gli abitanti di Nazareth sembrano “disinnescare” la grazia dell’incontro con Cristo, in un modo tristemente noto anche a questa nostra epoca: essi riducono la realtà che hanno di fronte. Mentre Gesù annuncia loro di essere l’inviato del Padre, l’Unto invocato da Israele, colui che tutto il popolo, ardentemente, attendeva, i nazareni antepongono alla realtà una propria idea, un preconcetto: dal momento che conosciamo il nome di suo padre, Giuseppe, il carpentiere che tuttora lavora nella nostra cittadina, poiché della sua vita fino ad oggi possiamo tracciare le coordinate spazio-temporali, egli non può essere colui che afferma di essere.
Quale assurdità! Lo hanno davanti ai propri occhi, sono colpiti dal suo parlare, Cristo si manifesta loro come mai aveva fatto nei trent’anni di vita nascosta a Nazareth, tutta la realtà dice loro che v’è qualcosa di assolutamente nuovo, che non può che essere preso nella più seria considerazione, eppure si ritirano in un’irragionevole ottusità, escludendo aprioristicamente qualunque “rivelazione”: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Così l’uomo fugge la responsabilità del reale. Sì, perché, quanto più la realtà che abbiamo dinanzi è vera, grande e gratuita, tanto più siamo chiamati a rispondere, con la salutare fatica del personale ecoinvolgimento. E, poiché sarebbe palesemente falso non coinvolgersi di fronte ad una tale realtà, talvolta, l’ipocrisia umana arriva, piuttosto, a negarla: questo accade nel rapporto diretto con Cristo, ma accade anche – oggi – di fronte al bambino concepito nel ventre di sua madre, all’assoluta sacralità – e quindi indisponibilità – della vita fino al suo termine naturale, all’originarietà della famiglia fondata sul matrimonio, quale cellula costitutiva ed insostituibile della società, al bisogno religioso dell’uomo in taluni regimi politici. E, poiché – dice San Paolo – la realtà, invece, è Cristo (cfr. Col 2,17), è sempre lui, infine, ad essere negato.
«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria» (Lc 4,24). Nei Vangeli, emerge sempre, con evidenza assoluta, la divina pazienza di Cristo, la pedagogia che adotta con i suoi interlocutori, convertendo in bene anche l’ipocrisia dei farisei, mentre cercano di trarlo in errore con le domande più subdole; con pazienza, affronta persino il tradimento di Giuda, l’ignominioso processo e l’ingiusta condanna. Ma, in due circostanze, egli reagisce sempre con fermezza: quando la bocca dei demoni cerca di rivelarne l’identità e quando gli uomini cercano di definirlo dentro i confini della cerchia parentale. Quando, mentre predicava, una donna si alza, esclamando: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!» (Lc 11,27), egli risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28). E a chi gli annuncia che sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle lo stanno cercando, egli, guardando chi gli sta attorno, dice: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre» (Lc 8,20).
Poiché il concepimento di Cristo, il suo ingresso nel mondo, avviene per l’adesione della libertà umana, per l’adesione di Maria al progetto del Padre, così l’appartenenza a lui avviene attraverso l’accoglienza della sua divina identità, confessata dal Padre sulle rive del Giordano: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Aderendo a Cristo, aderendo alla verità di lui, allora diveniamo, anche noi, una sola carne con lui, sangue del suo sangue. E se non vi è patria alla quale Cristo possa appartenere, nella quale sia possibile abituarsi a lui, poiché egli è sempre nuovo, sempre fecondo di vita, dal momento che egli stesso è la verità e la vita, è vero altresì che nemmeno l’uomo, in fondo, può avere una patria su questa terra, poiché in nessun luogo egli può “riposarsi” da se stesso, dall’insopprimibile domanda di significato, di senso, di pienezza che egli è.
Solo in luogo, che tutti gli altri luoghi abbraccia e supera, questo è possibile. Solo nella Chiesa, solo in quella porzione di umanità che Dio ha preso e trasformato, per farne la sua presenza nel mondo, solo qui è possibile all’uomo scoprire davvero se stesso, l’abissale desiderio del suo cuore, il suo destino ultimo, mentre contempla il figlio che è nato da Maria, l’amore crocifisso e risorto che quotidianamente si offre per noi sull’altare e ci attira dentro di sé, verso la comunione piena con lui.
Domandiamo, dunque, alla Beata Vergine Maria un cuore “allergico” ad ogni riduzione del reale e povero di “patrie”, perché tutto radicato in Cristo Dio, che, qui sulla terra, non ha dove posare il capo (cfr. Lc 9,58), ma che, a quanti lo accolgono, apre, fin d’ora, le porte del Paradiso. Amen!
* * *
2. Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp.
SE NON AVESSI LA CARITA’…
Dedichiamo la nostra riflessione alla seconda lettura, dove troviamo un messaggio importantissimo. Si tratta del celebre inno di san Paolo alla carità. Carità è il termine religioso per dire amore. Questo dunque è un inno all’amore, forse il più celebre e sublime che sia mai stato scritto.
Quando apparve sulla scena del mondo il cristianesimo, l’amore aveva avuto già diversi cantori. Il più illustre era stato Platone che aveva scritto su di esso un intero trattato. Il nome comune dell’amore era allora eros (da cui il nostro erotico ed erotismo). Il cristianesimo sentì che questo amore passionale di ricerca e di desiderio non bastava a esprimere la novità del concetto biblico. Perciò evitò del tutto il termine eros e ad esso sostituì quello di agape, che si dovrebbe tradurre con dilezione o con carità, se questo termine non avesse acquistato ormai un senso troppo ristretto (fare la carità, opere di carità).
La differenza principale tra i due amori è questa. L’amore di desiderio, o erotico, è esclusivo; si consuma tra due persone; l’intromissione di una terza persona significherebbe la sua fine, il tradimento. A volte perfino l’arrivo di un figlio riesce a mettere in crisi questo tipo di amore. L’amore di donazione, o agape, al contrario, abbraccia tutti, non può escludere nessuno, neppure il nemico. La formula classica del primo amore è quella che sentiamo sulle labbra di Violetta nella Traviata di Verdi: “Amami Alfredo, amami quant’io t’amo”. La formula classica della carità è quella di Gesù che dice: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”. Questo è un amore fatto per circolare, per espandersi. Un’altra differenza è questa. L’amore erotico, nella forma più tipica che è l’innamoramento, per sua natura non dura a lungo, o dura soltanto cambiando oggetto, cioè innamorandosi successivamente di diverse persone. Della carità invece S. Paolo dice che “rimane”, anzi è l’unica cosa che rimane in eterno, anche dopo che saranno cessate la fede e la speranza.
Tra i due amori però – quello di ricerca e quello di donazione –, non c’è separazione netta e contrapposizione, ma piuttosto sviluppo, crescita. Il primo, l’eros, è per noi il punto di partenza, il secondo, la carità, il punto di arrivo. Tra i due c’è tutto lo spazio per una educazione all’amore e una crescita in esso. Prendiamo il caso più comune che è l’amore di coppia. Nell’amore tra due sposi, all’inizio prevarrà l’eros, l’attrattiva, il desiderio reciproco, la conquista dell’altro, e quindi un certo egoismo. Se questo amore non si sforza di arricchirsi, cammin facendo, di una dimensione nuova, fatta di gratuità, di tenerezza reciproca, di capacità di dimenticarsi per l’altro e proiettarsi nei figli, tutti sappiamo come andrà a finire.
Il messaggio di Paolo è di grande attualità. Tutto il mondo dello spettacolo e della pubblicità sembra impegnato oggi a inculcare ai giovani che l’amore si riduce all’eros e l’eros al sesso. Che la vita è un idillio continuo, in un mondo dove tutto è bello, giovane, sano; dove non c’è vecchiaia, malattia, e tutti possono spendere quanto vogliono. Ma questa è una colossale menzogna che genera attese sproporzionate, che, deluse, provocano frustrazione, ribellione contro la famiglia e la società, e aprono spesso la porta al crimine. La parola di Dio ci aiuta a far sì che non si spenga del tutto nella gente il senso critico di fronte a quello che quotidianamente le viene propinato.
* * *

Commenti Patristici

S. Bruno di Segni
E dicevano: non è questi il Figlio di Giuseppe? Questo dunque solo sembrava avere di meno, che non era un estraneo, che conoscevano i suoi parenti e che lì era stato allevato. Se infatti fosse venuto da un altro luogo e fosse stato a loro del tutto sconosciuto, allora sarebbe stato sicuramente degno di venerazione e di riverenza.
Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria. Questo infatti dicevano togliendo credito e non prestando fede alle cose che avevano sentito dire di lui. Ed è come se dicessero: "Se sei medico, se puoi curare gli infermi e respingere le malattie, cosa che noi non crediamo, cura prima te stesso, cura la tua carne, cioè i parenti e i vicini e la tua stessa patria, e quelle cose che abbiamo sentito che hai fatto a Cafarnao e in altre città, falle ora anche qui nella tua patria, affinché le vediamo". Aggiunse allora: In verità vi dico: Nessun profeta è ben accetto in patria. Perciò dice: "Non curo la mia patria, perché non sono ben accetto in essa, perché in essa non trovo la fede e perché nella mia patria non credono in me come credono gli altri. Si diletta nelle mie parole, è ammirata dai miei discorsi e si scandalizza dei miei parenti. Tanto meno mi conosce quanto più degli altri ha avuto familiarità con me".
Vi dico anche: C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia se non a una vedova in Sarepta di Sidone. "Non sono stato mandato a voi" dice "non sono venuto a curare voi, a sanare voi", perché non a tutte le vedove fu mandato Elia. Questo infatti voleva significare: "E ciò che io compio nella verità, Elia lo faceva in figura". Io sono venuto a curare, a saziare di cibi spirituali e a strapparla da ogni sorta di fame e di povertà, quella vedova di cui è scritto: benedirò la sua vedova, sazierò di pane i suoi poveri(Sal 131, 15). Questa vedova è la Chiesa nel suo insieme e si può anche intendere singolarmente di ogni anima fedele.
Viene infatti il Signore a chiamare tutti, a predicare a tutti, ma non viene a sanare e a sfamare tutti. Se infatti non fosse venuto e non avesse parlato loro, non avrebbero peccato, ma ora non hanno scusa per le loro colpe. Pertanto quando il Signore predica, il cielo si apre, la fame è tolta, le anime dei fedeli si inebriano del nettare celeste. Al contrario, minaccia gli increduli e gli iniqui, dicendo: Ecco, io manderò su di voi non fame di pane, né sete di acqua, ma di udire la parola del Signore (Am 8, 11).
Prosegue: C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato, se non Naaman, il Siro. È la stessa similitudine di prima. I molti lebbrosi, infatti, sono i molti peccatori. Il solo Naaman si intende come il solo popolo delle genti, e anche ciascun fedele. Questi, venendo al Signore e credendo infine alle sue parole, fu immerso, sanato e mondato.
All’udire queste cose tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno. Furono pieni di sdegno perché avevano capito che quelle parole erano state dette contro di loro e non riconobbero di essersi mostrati indegni del fatto che venisse a visitarli un tale e tanto grande profeta.
Si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte nel quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò. Si sdegnino pure gli uomini quanto vogliono, fremano e si adirino. Sicuro è il Signore, non ha timore di nulla, ha tutto in suo potere, e se lui stesso non lo vuole, non può essere trattenuto.
(Dal Commento su Luca I, V, 15)
Origene
Stando al solo racconto di Luca, Gesù non ha ancora soggiornato a Cafarnao, e non si racconta che egli abbia compiuto miracoli in quella città per il semplice motivo che non vi si è fermato. Ma prima della sua venuta a Cafarnao la sua presenza è segnalata nella sua patria, che è Nazaret e così egli parla ai suoi concittadini: Certo mi citerete quel proverbio: medico, cura te stesso. Tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte a Cafarnao, falle anche qui nella tua patria. Io credo che un mistero sia nascosto in questo passo, ove Cafarnao, che raffigura i gentili, passa avanti a Nazaret, che raffigura i giudei. Gesù, sapendo che nessuno gode di onori nella sua patria, né egli stesso, né i profeti, né gli apostoli, non ha voluto predicare nella sua città, e ha predicato tra i gentili nel timore che i suoi compatrioti gli dicessero: Certo mi citerete quel proverbio: medico, cura te stesso.
Verrà in effetti il tempo in cui il popolo giudeo dirà: Tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte a Cafarnao, cioè i miracoli e i prodigi compiuti tra i gentili, falle anche presso di noi, nella tua patria, mostra cioè anche a noi ciò che hai mostrato al mondo intero; annunzia il tuo messaggio a Israele, tuo popolo, affinché almeno quando la totalità dei pagani sarà entrata, sia salvo allora tutto Israele (Rm 11, 25-26). Per questo mi sembra che, secondo una linea ben precisa e logica, Gesù, rispondendo alle domande poste dai Nazareni, abbia detto loro: Nessun profeta è ben accolto nella sua patria; e penso che queste parole siano più vere secondo il mistero che secondo la lettera.
Geremia non è stato ricevuto bene ad Anatot, sua patria, né Isaia nella sua, quale essa sia stata, e uguale sorte hanno avuto gli altri profeti: mi sembra pertanto che sia meglio comprendere questo rifiuto intendendo che la patria di tutti i profeti è il popolo della circoncisione che non hanno bene accolto né loro, né le loro profezie. Invece i Gentili, che abitavano lontano dai profeti e non li conoscevano, hanno accettato la parola di Gesù Cristo. Nessun profeta è ben accolto nella sua patria, cioè dal popolo giudeo. Ma noi che non appartenevamo all’alleanza ed eravamo stranieri alle sue promesse, abbiamo accolto i profeti con tutto il nostro cuore; e Mosè e i profeti che hanno annunziato il Cristo appartengono più a noi che a loro: infatti, per non aver accolto Gesù, essi non hanno accolto neppure coloro che lo avevano annunziato.
Così, dopo aver detto: Nessun profeta è ben accolto nella sua patria, aggiunge: In verità io vi dico, c’erano molte vedove in Israele ai giorni di Elia, quando il cielo stette chiuso per tre anni e sei mesi. Ecco il significato di queste parole: Elia era un profeta e si trovava in mezzo al popolo giudeo, ma nel momento di compiere un prodigio, benché ci fossero parecchie vedove in Israele, egli le trascurò e venne a trovare una vedova di Sarepta, nel paese Sidone, una povera donna pagana, che raffigurava in stessa l’immagine della futura realtà. Infatti il popolo d’Israele era in preda a una fame e sete, non di pane e d’acqua, ma di ascoltare la parola di Dio (Am 8, 11). Quando Elia venne da questa vedova, di cui il profeta parla dicendo: I figli dell’abbandonata sono più numerosi dei figli della maritata (Is 54, 1), appena arrivato, moltiplicò il pane e il cibo di questa donna.
Eri tu la vedova di Sarepta, nel paese di Sidone, nel paese da cui viene fuori la Cananea che desidera veder guarita la propria figlia e che, a causa della sua fede, merita di vedere accolta la propria preghiera. C’erano dunque molte vedove in Israele, ma a nessuna di esse Elia fu inviato se non alla povera vedova di Sarepta.
Cristo aggiunge ancora un altro esempio che ha il medesimo significato: C’erano molti lebbrosi in Israele nei giorni del profeta Eliseo, e nessuno di essi fu mondato, salvo soltanto Naaman il Siro, che certamente non apparteneva al popolo di Israele. Considera il gran numero di lebbrosi esistente sino ad oggi in Israele secondo la carne, e osserva d’altra parte che è dall’Eliseo spirituale, il nostro Signore e Salvatore, che vengono purificati nel mistero del battesimo gli uomini coperti dalla sozzura della lebbra, e che a te sono rivolte le parole: Alzati, va’ al Giordano, lavati, e la tua carne ritornerà sana (2 Re 5, 10). Naaman si alzò, se ne andò e, bagnandosi, compì il mistero del battesimo, in quanto la sua carne divenne simile alla carne di un fanciullo (2 Re 5, 10). Quale fanciullo? Di colui che, nel bagno della rigenerazione, nascerà in Cristo Gesù, cui appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
(Dalle Omelie su Luca, 33)