venerdì 15 febbraio 2013

Luciano Manicardi: "L'umano soffrire" 1





Pensando e pregando per Benedetto XVI e per tutti coloro che soffrono, nel corpo e nello spirito...
* * *
La sofferenza ha qualcosa da dirci
sull’uomo e su Dio
Evangelizzare le parole sulla sofferenza è l’intento di queste pagine, che accostano la nostra esperienza dell’umano soffrire con l’esempio lasciato da Gesù nel prendersi cura dei malati e nel farsi carico della sofferenza per trasfigurarla. Se imparassimo a essere “ospiti” dell’umano che è in noi, ne avremmo cura come di un dono prezioso e saremmo condotti alla sollecitudine verso l’umano sofferente che è nell’altro. Malattia fisica e psichica, crisi nel cammino della vita, sofferenza e invecchiamento non sono “per la morte”, ma appelli al credente perché risvegli la propria umanità rendendola più conforme a quella di Cristo. Nella consapevolezza che, come scriveva Dietrich Bonhoeffer, “Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione / sazia il corpo e l’anima del suo pane / muore in croce per cristiani e pagani / e a questi e a quelli perdona”.
Luciano Manicardi (Campagnola Emilia 1957), monaco di Bose e biblista, collabora alla rivistaParola, Spirito e Vita. Attento all’intrecciarsi dei dati biblici con le acquisizioni più recenti dell’antropologia, riesce a far emergere dalla Scrittura lo spessore esistenziale e la sapienza di vita di cui è portatrice. Presso le nostre Edizioni ha pubblicato Il corpo e, assieme a Enzo Bianchi, Accanto al malato e La carità nella chiesa.
Introduzione
IL VOLTO DEL SOFFERENTE
La sofferenza è esperienza universale. L'uomo è anche homo patiens (1)Quando queste affermazioni diventano esperienza vissuta, spesso drammatica, a volte tragica, esse ci segnano. E noi comprendiamo, non semplicemente in modo razionale, ma anche con le viscere, che la sofferenza costituisce il caso serio dell' esistenza. O quantomeno un' esperienza che può aprirci una strada verso ciò che nella vita è essenziale e vero. Può. Non è detto che avvenga. Tante persone sono state indurite, intristite e abbrutite dal dolore. Il credente, poi, sa e sente che attorno alla sofferenza si gioca qualcosa di decisivo riguardo sia all'uomo che a Dio, all'immagine dell'uomo e all'immagine di Dio. Di fronte alla sofferenza le domande si moltiplicano e le risposte spesso mostrano la loro falsità o debolezza o inconsistenza. Il credente interroga anche Dio e questa interrogazione è terribile. Di fronte al bambino morto, all'inerme ucciso, all'uomo torturato, a chi nasce malformato, noi diventiamo un interrogativo, la realtà diviene un enigma. E Dio stesso diventa un interrogativo per noi. Da questo interrogativo radicale nasce la sete di autenticità umana, di giustizia, di compassione, e sorge pure il desiderio della ricerca e di un'indagine che interpelli le Scritture e la tradizione cristiana, ma anche le scienze umane, l'antropologia e la sociologia, la psicologia e la psichiatria, le scienze della comunicazione, eccetera. Nella convinzione che la sofferenza ha qualcosa da dirci sull'uomo e su Dio.
In particolare, la fede cristiana, che ha al suo cuore la rivelazione inaudita dell'incarnazione, del Dio che si è fatto uomo, carne fragile, non può ritenere estraneo a sé nulla di ciò che è umano. Sofferenza, malattia e morte comprese. Anzi, è convinzione di chi scrive che ciò che è autenticamente umano è anche autenticamente spirituale, e che l'autenticità spirituale deve sempre passare attraverso il vaglio di ciò che è autenticamente umano. Le pagine che seguono nascono proprio da questo intento: ripensare i discorsi cristiani su malattia, sofferenza e morte radicandoli nel terreno della rivelazione biblica, evangelica in particolare, e restituirli alla concretezza dell'umano sofferente. Insomma, il senso è di evangelizzare e di umanizzare il discorso cristiano su sofferenza, malattia e morte. Cosa che comporta il tenere sempre presente il soggetto sofferente più che la sofferenza, la persona malata più che la malattia, l'uomo morente più che la morte. Nell'ambito di cui ci stiamo occupando l'uso dell'astratto può corrispondere a una volontà di fuga, a quel non coinvolgimento che impedisce l'incontro con il concreto sofferente, malato, morente. Cioè, con il suo volto.
Inoltre questo libro vorrebbe aiutare, propugnare e auspicare il radicarsi sempre più convinto e profondo
 di una cultura dell' ascolto. E in particolare, dell' ascolto del sofferente. Sappiamo di trovarci in un contesto culturale che, circa il soffrire e il morire, si muove tra rimozione e spettacolarizzazione: vi è chi ha parlato di "rimozione della morte ed epopea del macabro" (2). La spettacolarizzazione del dolore, la morte in diretta, lo scialo di sofferenza esibita alla curiosità morbosa, la sofferenza "vera" degli altri vista attraverso la mediazione protettiva dei mass media, sembrano far parte di un grande rito di esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa. Sorge la domanda: sappiamo sostenere la visione di un concreto volto sofferente? Ha ancora un senso e una praticabilità la compassione o è oramai soffocata tra indifferenza, rimozione, abitudine, paura?
Umberto Galimberti ha posto l'accento sull' assenza di una cultura dell' ascolto che sappia farsi attenta alla solitudine e alle sofferenze degli uomini. In particolare, che sappia dare tempo e accoglienza al depresso:
Educati come siamo alla cultura dell'applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell' ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz'ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso non lo troviamo mai. Con i farmaci, utili senz' altro, interveniamo sull' organismo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra, chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? Tale è la nostra cultura (3).
Certo, sappiamo bene come sia difficile ascoltare, se ascoltare indica l'atto di aprirsi e accogliere la sofferenza dell' altro: "La maggior parte degli orecchi si chiude alle parole che cercano di dire una sofferenza" 4. Si innalzano barriere per evitare che la sofferenza passi da chi la vive e la esprime a chi la ascolta. Eppure, senza questa cultura dell' ascolto del sofferente noi condanniamo l'altro alla solitudine e all'isolamento mortale e precludiamo anche a noi la possibilità di una consolazione e di una comunicazione nella nostra sofferenza. Prosegue Galimberti:

Ascoltare non è prestare l'orecchio, è farsi condurre dalla parola dell' altro là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c'è il silenzio dell'altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel volto di pietra del depresso, tace per non confondersi con tutte le altre parole (5).

La domanda che qui si deve porre è: sappiamo dare tempo, attenzione ed energie all'ascolto di chi soffre? E sappiamo ascoltare la sofferenza profonda che è in noi, premessa indispensabile per porci sempre più attentamente in ascolto della sofferenza dell' altro? Ascoltare significa dare la parola, dare tempo e spazio all' altro, accoglierlo anche in ciò che egli rifiuta di sé, dargli diritto di essere chi lui è e di sentire ciò che sente e fornirgli la possibilità di esprimerlo. Ascoltare è atto che umanizza l'uomo e che suscita l'umanità dell' altro. Ascoltare è far nascere, dare soggettività, permettere all'uomo di realizzare il proprio nome e il proprio volto. Ovvero la propria umanità.
Il volto, infatti, è l'emergenza dell'identità. Il volto è epifania dell'umanità dell'uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità:
La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c'è una povertà essenziale ... Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere (6).
La sofferenza può dunque sfigurare il volto e cancellare, con la sua brutale violenza, l'umanità della persona, ma la sofferenza può anche, paradossalmente, restituire umanità al volto del violento.
Gli internati nei campi di sterminio nazisti si vedevano annientare umanamente venendo spogliati del nome e ridotti a numero, quindi privati del proprio volto: si doveva eliminare dal volto del detenuto ogni residuo di individualità. Ha testimoniato Primo Levi:
Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l'un l'altro (7).
La fatica, la paura, il terrore, la fame, gli orrori quotidiani, tolgono carne alla pelle che resta fragile involucro di ossa:
Prima della morte fisica, regna nei campi la liquidazione dell'individualità attraverso lo smantellamento del volto, la cancellazione dei tratti sotto la durezza delle ossa che ricopre una pelle privata di carne. La stessa magrezza... che conforta l'aguzzino nel sentimento di non avere a che fare con uomini, ma con un residuo che bisogna eliminare ponendosi solo problemi amministrativi e tecnici (8).
Ed Elie Wiesel testimonia:
Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un'intossicazione. Fui trasferito all' ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte. Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più (9).
Al tempo stesso è anche vero che la sofferenza può ridare dignità a chi la violenza l'aveva usata fino al giorno prima. Con toccante lucidità Barbara Spinelli commenta così le immagini del volto di Saddam Hussein violato dalle mani del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati e dall'ispezione dei suoi denti, come fosse una bestia da soma cui, al mercato, si spalanca la bocca per guardare lo stato e l'età della dentatura e si controlla se nel suo pelo non s'annidino pidocchi:
Ecco un dittatore feroce... il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositore, e tuttavia d'un tratto non sembrava più l'orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignità che poco prima non possedeva, uno sguardo di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanità e precisamente questa umanità è stata imbestialita dai modi dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione ... Quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario ... è un'incalcolabile sconfitta morale (10).
Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato dal dolore, deformato dalla malattia, devastato da cicatrici, ustionato, alterato dall' alienazione), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l'umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci pone di fronte a quello sguardo d'amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose (11). Sintetizziamo la narrazione: Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l'anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: "Ma tu sei il mio Mumintroll". E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l'estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima. Insomma, non solo ci è necessaria una cultura dell' ascolto, ma anche una cultura dello sguardo: e questo con urgenza ancora maggiore considerando lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui mass media. Sappiamo volgere uno sguardo umano e umanizzante al sofferente?
Il percorso disegnato dai capitoli di questo libro si muove attorno all'idea che l'umanità di Gesù, narrata
 nei vangeli, può insegnarci a vivere il confronto con la sofferenza e l'incontro con i malati. Può umanizzarci. E renderci più evangelici.
Può anche farci comprendere che essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo. Dietrich Bonhoeffer, che dalla lettura di un testo di Maritain era stato colpito da una citazione di Karl Marx che diceva: "È facile essere un santo quando non si vuole essere un uomo" (12), si sofferma su questa essenzializzazione dell' esperienza cristiana:
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d'uomo, ma l'uomo. Non è l'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo (13).
L'aprirci al dolore di Dio nel mondo, nella vita quotidiana, è anche il destarci all'umano lacerato, oscurato, menomato nella persona sofferente, nel portatore di handicap, nella persona segnata dalla malattia fisica o psichica; è cogliere la passione di Dio nel dolore e nella sofferenza dell'umano che è nell'uomo. Parlando dell'umano che è nell'uomo intendo riferirmi a qualcosa che è comune a ogni singola persona, a ogni singolo viso, ma che al contempo va oltre il singolo individuo, e non coincide neppure con la cosiddetta "specie" umana. Del resto, vi è la possibilità di un'umanità disumana: l'uomo non è naturalmente umano e umanizzato, così come non è naturalmente libero. L'umanità e la libertà sono conquiste per cui si lotta e doni alla cui accoglienza occorre aprirsi. Si verificano spesso disumanità nella chiesa, nelle relazioni fraterne comunitarie, così come nei rapporti familiari, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra anziani e giovani, e poi nelle relazioni sociali e politiche, così come nelle relazioni più personali e intime, nelle relazioni sessuali, nell'amore (o in ciò che chiamiamo tale). Quante volte dobbiamo constatare che il nemico è l'amico, è il vicino, il familiare, il confratello... Dovremmo imparare pertanto a considerarci ospiti dell'umano che è in noi. Ospiti, non padroni. Così potremmo imparare anche ad aver cura dell'umano che è in noi e a essere solleciti verso l'umano sofferente che è nell'altr014. Forse, l'umano che è in noi è esattamente il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio (cf. Gen 1,26-27). Si comprende come il divenire umani sia per il cristiano l'opera della fede e implichi l'obbedienza alla parola del Dio creatore che ha detto: "Facciamo l'uomo" (Gen 1,26). Anche noi, anche gli uomini, sono implicati in quel "facciamo"! L'uomo è chiamato a collaborare con Dio affinché cresca in lui quell'umanità che è il vero riflesso della luce divina nel mondo, è il luogo di Dio nel mondo, luogo che - come l'azione dello Spirito - va ben oltre le confessioni cristiane e gli spazi ecclesiali! Umanità che non può essere eliminata neppure dalla più devastante sofferenza. E la sofferenza, nei suoi molteplici volti, è oramai appello al credente perché risvegli la propria umanità rendendola sempre più conforme a quella di Cristo (15).
Una poesia di Dietrich Bonhoeffer, intitolata Cristiani e pagani, mi pare che si presti bene a chiudere
 questa introduzione e a condurre alla lettura delle pagine successive:



Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l'anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona 
(16).





[1] Cf. v. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998.[2] S. Natoli, "Rimozione della morte ed epopea del macabro", in Parola, Spirito e Vita 32 (I995), pp. 341-358.
[3] U. Galimberti, "Pantani nel deserto dei depressi", in La Repubblica, I8 febbraio 2004.
[4] C. Chalier, Sagesse des senso Le regard et l'écoute dans la tradition hébraique, Albin Miche!, Paris 1995, p. 91.
[5] U. Galimberti, "Pantani ne! deserto dei depressi".
[6] E. Lévinas, Etica e infinito. Il Volto dell'Altro come alterità etica e traccia dell'Infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 100.
[7] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, p. 42.
[8] D. Le Breton, Des visages. Essai d'anthropologie, Métailié, Paris 1992, p. 287.
[9] E. Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, p. 112.
[10] B. Spinelli, "Saddam, i due minuti di odio", in La Stampa, 21 dicembre 2003.
[11] T. Jansson, Racconti dalla valle dei Mumin, Salani, Firenze I995.
[12] Si veda l'edizione critica: D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, a cura di C. Gremmels, E. e R. Bethge, in collaborazione con I. Tödt, Queriniana, Brescia 2002, p. 504, n. 7.
[13] Ibid., p. 499.
[14] Cf. P. Sequeri, L'umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002.
[15] Cf. L. Manicardi, L'umanità della fede, Qiqajon, Bose 2005 (Testi di meditazione 123).
[16] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, pp. 480-481.

BIBLIOGRAFIA
In questa breve bibliografia riporto solamente titoli di opere non citate nelle note del libro.

L'aide aux malades. Comment les entourer et les assister, a cura di B. Doerflinger, C. Britz, sr. Anne-Marie, A.-J. Meyer e D. Ledogar, Droguet & Ardant, Paris 1993.

BERNARD, CH. A., Sofferenza, malattia, morte e vita cristiana, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990.
BIANCHI, E., MANICARDI, L., Accanto al malato, Qiqajon, Bose 20062.
BIANCHI, E., AIDS: vivere e morire in comunione, Qiqajon, Bose 1997.
CATALAN, J.-F., "Guérison et salut", in Id., L'homme et sa religion. Approche psychologique, Desclée de Brouwer, Paris 1994, pp. 173-190.
CHABERT, Y., PHILIBERT, R., Croire quand on souffre..., Éditions Ouvrières, Paris 1993.
CHIODI, M., L'enigma della sofferenza e la testimonianza della cura. Teologia e filosofia dinanzi alla sfida del dolore, Glossa, Milano 2003.

Dieu à l'épreuve de notre cri, a cura di A. Gesché e P. Scholas, Cerf-Université catholique de Louvain, Paris-Louvain 1999.

DUBIED, P.-L., L'angoisse et la mort, Labor et Fides, Genève 1991.
"... ero malato... ", Servitium 64 (1989).
GENTILI, A., "Pregare e guarire. La pratica spirituale come terapia", in Guarigione dell'uomo, oggi negli esercizi spirituali, FIEs, Roma 1987, pp. 95-146.
GEVAERT, l, Male e sofferenza interrogano. Atteggiamenti cristiani di fronte alla sofferenza, Elledici, Leumann 2000.
GRÜN, A., L'arte di perdonare, Messaggero, Padova 2001.
IDE, P., È possibile perdonare?, Ancora, Milano 1997.
JANKÉLÉVITCH, VL., Le Pardon, Aubier, Paris 1967.
LIZZOLA, L, Aver cura della vita. L'educazione nella prova: la soffe renza, il congedo, il nuovo inizio, Città Aperta, Troina 20053.
LOVSKY, F., L'églije et les malades depuis le Ire siècle jusqu'au début du xxe siècle, Editions du Portail, Thonon-Ies-Bains 1958.
MANICARDI, L., "Comunità cristiana, sofferenza e disagio mentale: quale interazione tra comunità e malato?", in Di fronte al dolore dell'anima. La comunità cristiana e il malato psichico,Centro volontari della sofferenza, Roma 2004.
-, Nelle tenebre una luce. Itinerari di vita nella sofferenza, Centro volontari della sofferenza, Roma 2004.
MANIGNE, l-P., Peut-on parler de la souffrance?, Desclée de Brou wer, Paris 1991.

Manuale di pastorale sanitaria, a cura di G. M. Comolli e I. Ponti celli, Edizioni Camilliane, Torino 1999.

MARCOLI, A., Passaggi di vita. Le crisi che ci spingono a crescere, Mondadori, Milano 2003.
NATOLI, S., L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1987.
Il perdono, Concilium XXII/2 (1986).
PIAZZA, G., Sofferenza e senso. L'ermeneutica del male e del dolore in Ricoeur e Pareyson, Edizioni Camilliane, Torino 2002.
PINKUS, L., Psicologia del malato, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985.
PRÉVOST, J. P., "Vieillir ou n,e pas vieillir? Le point de vue de l'Ancien Testament", in Eglise et Théologie 16 (1985), pp. 9-23.
Salute, malattia e morte nelle grandi religioni, a cura di A. Pangraz zi, Edizioni Camilliane, Torino 2002.
-, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987.
SCHATTNER, M., Souffrance et dignité humaine, Mame, Paris 1993.
SÖLLE, D., Souffrances, Cerf, Paris 1992.
SONTAG, S., Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.
THÉVENOT, X., "La compassion: une réponse au mal?", in Le Supplément 172 (1990), pp. 79-96.
TODESCHINI, E., Accanto ai disabili, Edizioni Camilliane, Torino 2002.
VARONE, F., Ce Dieu censé aimer la souffrance, Cerf, Paris 1988.
VASSE, D., Le poids du réel, la souffrance, Seuil, Paris 1983.


NELLA MALATTIA

La malattia come evento spirituale

Che significa parlare della malattia come evento spirituale? Anzitutto non significa discettare su un'ipotetica "spiritualità del malato". Sono i malati stessi a rifiutare questa ipotesi ghettizzante, stando almeno alle parole dell'Union catholique des malades:
Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono una cappella d'infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di una spiritualità ecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una nuova scuola di spiritualità, in cui tutti i problemi della vita siano esaminati e adattati alla situazione di coloro che hanno familiarità con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto attraverso un'ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta di rivolgersi a noi e di parlarci "in quanto malati" come se non si volesse sapere null' altro di noi; prima di essere malati, siamo degli uomini e dei figli di Dio ... Dovunque altrove, nella famiglia, nella professione, nella città, siamo forzatamente distaccati dalle attività comuni, un po' messi a parte, se non tenuti in disparte. Il sentimento di questa distinzione, di questo isolamento e di questa inutilità è forse ciò che vi è di più penoso nella malattia. Perché volerei mettere ancora a parte anche nella chiesa (1)?

Unica è infatti la spiritualità cristiana, e il battezzato, con il suo sensus fidei, cercherà di vivere in Cristo ogni situazione della sua vita.
La malattia si presenta come evento spirituale anzitutto in quanto fa emergere o risveglia nei malati stessi una dimensione spirituale prettamente antropologica che si pone sul piano del senso della vita e dei valori dell' esistenza. Mostrando che l'uomo non ha potere su di sé, che la vita e la salute non sono realtà scontate né dovute né immediatamente disponibili, la malattia guida l'uomo a un ri-centramento, a considerare ciò che nella vita è veramente serio ed essenziale. Nella malattia emerge la domanda spirituale dell'uomo, o meglio, l'uomo stesso si manifesta come domanda di senso, come bisogno di riconoscimento personale, come appello che chiede ascolto, come desiderio di gratuità, come esigenza di presenza. Il malato non è riducibile alla parte del corpo o all' arto menomato, ma è
 una totalità sofferente. La malattia, infatti, investe il piano fisico e psichico dell'uomo, e mette in crisi i valori e le scelte, le relazioni e le attività che hanno presieduto a un'intera vita. Insomma, questa dimensione spirituale è a monte delle forme religiose del trascendente e diviene nel malato il compito umanissimo di dotare di senso la malattia (2).Questo faticoso cammino non è certo risparmiato al cristiano il quale non conosce vie che aggirino o evitino il dolore, ma solo una via che lo attraversa insieme con il Dio a cui egli può sempre rivolgersi con la preghiera. Il senso cristiano dell' esperienza di malattia non è già dato, non è una ricetta da applicare impersonalmente, ma avviene nell'incontro fra lo Spirito santo e la particolare umanità del malato, la sua fede, l'ambiente familiare ed ecclesiale che gli è vicino. In base alle sue particolari condizioni psicofisiche e alla sua fede, il malato cercherà di vivere anche la malattia nella fede del Cristo che ha condiviso la totalità della condizione umana, anche la sofferenza e la morte. Allora la malattia potrà essere non solo subita, ma anche vissuta, e vissuta spiritualmente come un'immersione battesimale, come una partecipazione all' evento pasquale. Si tratterà di dare il nome di croce alla propria malattia, cioè di vivere con Cristo nella malattia come nella salute (cf. 1Ts 5,10). Il Cristo crocifisso, infatti, ha abitato le situazioni infernali della sofferenza e della disperazione umana. Allora la malattia può diventare, per il cristiano, una via di coinvolgimento con la morte e resurrezione di Cristo. Il teologo Xavier Thévenot ha distinto tre tempi nella sofferenza accostandoli in modo suggestivo al triduo santo:
Un tempo di "siderazione" in cui si è paralizzati dallo shock, dallo "stupro" della disgrazia che ci coglie (la perdita di un figlio, essere colpiti da una malattia grave, restare handicappati da un grave incidente). All'inizio, una vera sofferenza è sempre troppo forte. Poi, il tempo dell'elaborazione del lutto, in cui si impara a liberarsi dai propri sogni attraverso la rivolta, la depressione, la regressione, eccetera. Un terzo tempo, infine, che è quello del lavoro di Pasqua. Si ritrova qui la struttura del triduo pasquale. Il venerdì santo, in cui si è come schiacciati dall' eccesso rappresentato dal male; il sabato santo che è il tempo del silenzio in cui si riorganizza la propria vita, la propria memoria, le proprie speranze; il tempo di Pasqua che è un tempo di speranza, ma una speranza che non si confonde con il riposo completo. È ancora un lavoro, l'intraprendere un cammino. Il Dio in cui si trova riposo non è affatto un Dio di tutto riposo(3).

Ecco la malattia come evento spirituale! Lo Spirito di Dio e lo spirito dell'uomo (cf. Rm 8,16) cooperano all' elaborazione del senso della malattia: l'uomo assume coscientemente la propria debolezza e infermità aprendosi con la fede e la preghiera all' azione dello Spirito santo che viene in aiuto alla sua debolezza (cf. Rm 8,26) e lo porta a leggere la propria malattia come debolezza in Cristo (cf. 2Cor 13,4).

La reazione alla malattia

Chi legge il libro di Giobbe si trova di fronte alla reazione rabbiosa, alla protesta e alle bestemmie di un uomo di fronte alle sventure della vita e massimamente di fronte alla malattia che l'ha colpito. La malattia sconvolge il quadro familiare in cui Giobbe vive innestando conflitti e tensioni, incomprensioni e insofferenze nelle relazioni con le persone vicine. Il disfarsi del corpo di Giobbe si accompagna ad alterazioni psichiche e alla messa in questione dell'immagine di Dio, creatore del corpo umano stesso. E così vediamo Giobbe che accusa, maledice, protesta contro Dio, così come arriva a litigare e combattere con gli amici che, venutolo a trovare, ben presto si trasformano in suoi nemici (4).
Ora, noi sappiamo che il difficile iter di assunzione di una malattia grave comprende diverse tappe tra cui c'è il momento della protesta, dell'aggressione, della rivolta. È un momento di sfogo emotivo, di scoppio violento dei sentimenti di chi si rende conto di essere effettivamente stato colpito da una malattia grave o di restare paralizzato a causa di un incidente, eccetera. L'aggressione, la rabbia, non avendo un oggetto preciso contro cui indirizzarsi, si scagliano indistintamente contro tutto ciò che si presenta a tiro e tutti possono esserne bersaglio. Tutto può divenire occasione di rimostranza e di lamento. L'aggressione può anche essere portata contro di sé con desideri o manifestazioni di autodistruzione. È dunque particolarmente importante, in questa fase, la vicinanza intelligente delle persone che accompagnano il malato. Non si tratta tanto di zittire le imprecazioni del malato, di soffocare con imbarazzo i suoi lamenti per non disturbare gli altri o per non far fare brutta figura ai parenti, di correggere le cose sconvenienti che il malato pronuncia. Non si
 tratta cioè di ergere barriere per fermare ciò che deve trovare sfogo. È vero che il malato può dire cose irrazionali o ingiuste, ma è ancor più vero che questa fase di ribellione è un passo importante nel cammino di assunzione della crisi che la malattia comporta, e rientra nella resistenza a cui il malato è chiamato. Il malato cerca, in quel modo, di esprimere ciò che sta accadendo alla sua vita, di dire il proprio dolore, ed è indubbio che questa operazione costituisca la tappa iniziale del cammino verso una possibile guarigione. Il nostro dramma, rispetto a Giobbe e all'uomo biblico in genere, è che l'età moderna ha perso completamente la capacità di esprimere e dare forma ai sentimenti e agli affetti fondamentali della nostra esistenza e del nostro corpo. Nei salmi spesso l'uomo malato grida, urla, sfoga la propria angoscia, chiede "perché", protesta contro Dio: noi oggi, invece, siamo privi di questa facoltà di esprimere la nostra sofferenza. Prima di morire fisicamente moriamo della morte della parola in noi, siamo monchi della capacità di esprimere la sofferenza. La società moderna inibisce la manifestazione del dolore, soffoca la protesta, spegne il lamento, anestetizza e sterilizza non solo gli ambienti ospedalieri, ma anche le emozioni e i sentimenti dei malati. Non si può non ricordare qui come il Salterio sia una riserva di linguaggio e una scuola che può insegnare al malato le parole, la grammatica e la sintassi dell' esprimere la propria sofferenza (5).
E come dimenticare le parole di Giobbe stesso ai suoi amici: "Al malato è dovuta la pietà degli amici,
 anche se ha abbandonato il timore di Dio" (Gb 6,14). E Dio stesso, stando alla finale del libro di Giobbe, gradisce maggiormente le invettive di Giobbe piuttosto che le prediche dei suoi amici (cf. Gb 42,8). Quando il malato vive questi momenti cosi critici, chi gli è vicino e l'accompagna è chiamato al faticoso compito di accoglierlo cosi com'è, per ciò che sente e per come esprime ciò che sente. Quando l'accompagnatore, o colui che sta accanto al malato accetta come un semplice fatto che il malato senta ciò che sente e lo esprima, il malato si sente autorizzato a smettere di tentare di convincerlo e può tentare di cominciare a comprendere che cosa c'è dietro ai suoi sentimenti cosi irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e il malato non ha bisogno di consigli o di risposte di altri. Potrà dare la sua risposta.
Il momento dell' espressione della collera e della protesta sono manifestazioni di vitalità, di reazione e non di resa alla malattia. Allora le lacrime, il pianto, il grido, divengono valvole di sfogo importanti attraverso cui il malato, esprimendo - anche se non con linguaggio discorsivo - la propria sofferenza, manifesta un potere sulla sua malattia. Accogliere il malato anche nella sua ribellione diventa cosi un fattore essenziale per i suoi accompagnatori, affinché il malato stesso non si rinchiuda nella prigione dell'isolamento di chi si ribella contro tutti e contro tutto e neppure resti preda delle spire dell' autodistruzione.

Malattia e preghiera

L'etimologia collega la preghiera alla precarietà. La malattia, che fa sentire all'uomo la precarietà del suo esistere, il suo essere sovrastato da forze che lo dominano e la sua condizione di corpo minacciato, è una situazione in cui a volte anche l'uomo non credente vede sorgere in lui un' apertura al trascendente, una preghiera, o almeno un' attività linguistica che ha un "dio" come destinatario sia di suppliche che di invettive, di invocazioni e di bestemmie. Per il cristiano la preghiera è ricerca di integrazione fra la vita tutta e tutte le situazioni esistenziali, dunque anche la malattia, e il Dio rivelato in Gesù Cristo (6).
Se la preghiera è l'eloquenza della fede, la malattia, che mette in crisi l'integrità psicofisica dell'uomo, costituisce anche una prova della fede, dell'immagine di Dio che il malato nutre, e segna l'inizio di un cammino per rifare l'unità spezzata fra la propria vita personale e l'immagine di Dio, tra fede e vita. Che altro è, infatti, la preghiera se non il cammino in cui il credente, a partire dalle prove della propria vita, purifica e converte le proprie immagini di Dio ponendole davanti al Cristo crocifisso, piena e definitiva rivelazione del volto di Dio?
L'esempio di Paolo è significativo. Afflitto da una "spina nella carne" che con tutta probabilità consiste in una malattia, egli prega intensamente il Signore di
 liberarlo da questa sofferenza, ma la sua preghiera incontra questa risposta del Signore: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9). La preghiera di Paolo resta non esaudita, ma non inefficace: essa infatti porta Paolo ad accogliere la volontà di Dio e a mutare la sua immagine di Dio vedendosi maggiormente conformato all'immagine di Dio che è il Cristo crocifisso. La preghiera cristiana aiuta la conformazione del credente al Cristo crocifisso.
Abbiamo qui un criterio importante della preghiera cristiana e della preghiera di domanda in particolare. La preghiera esprime una relazione filiale e manifesta la fiducia con cui un figlio si rivolge al Padre: in questa relazione tutto può essere chiesto, anche - ovviamente - la guarigione, non solo la forza di sopportare la prova. Del resto, quando l'uomo prega porta tutto se stesso nella preghiera, anche il desiderio di pienezza di vita, anche le persone con cui vive o ha vissuto, anche la sua storia passata e il suo anelito di futuro. L'Antico e il Nuovo Testamento sono pieni di domande di guarigione rivolte a Dio e a Gesù e la tradizione cristiana ha forgiato quell'immagine del "Cristo medico" cui sono rivolte bellissime preghiere e in base alla quale Ambrogio scrive: "Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se bruci dalla febbre, egli è la fonte d'acqua; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita" (7).
Al tempo stesso, la relazione di filialità espressa nella preghiera all'Abba, trova per il cristiano un esempio normante nella preghiera del Figlio, Gesù Cristo. E la
 preghiera di Gesù al Getsemani chiede sì che, se possibile, il calice passi da lui, ma subito aggiunge: "Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36), "Non come voglio io, ma come vuoi tu" (Mt 26,39). Vi sono un modo e un contenuto che rappresentano i limiti al cui interno la preghiera cristiana di domanda deve sempre accettare di avvenire: modo e contenuto che si sintetizzano nella croce di Cristo. La preghiera cristiana non chiede che Dio faccia la volontà dell'uomo, ma porta l'uomo a discernere e a sottomettersi alla volontà di Dio. La preghiera del malato è dunque anche una lotta nella quale egli potrà arrivare a dare il nome di croce alla propria malattia che non guarisce.
In questo suo cammino faticoso è certamente consigliabile al malato la preghiera dei salmi: questi, infatti, rappresentano una riserva di linguaggio estremamente ricca per uomini moderni che sono incapaci di "dire" la sofferenza, di "dire" il proprio corpo (il malato che prega nei salmi sempre legge e dice il proprio corpo, mostrando così che pregare è leggere la propria situazione esistenziale davanti a Dio per vivere in obbedienza a Dio), e di dirli "davanti a Dio". I salmi, in cui spesso l' orante prega a partire da una situazione di sofferenza, sono al tempo stesso una testimonianza e un modello: testimonianza di chi si trova nella malattia o l'ha traversata, modello per chi oggi vive un' analoga esperienza e, mediante l'appropriazione, trova nelle parole del salmo le parole con cui dire la sua situazione. Certo, normalmente la malattia fa emergere la qualità e la misura di preghiera cui si era abituati: se non si è mai pregato, sarà difficile inventare la preghiera nei momenti più critici. Ma anche quando non si sa o non si riesce a esprimere verbalmente una preghiera,
 per mancanza di forze, per impotenza, la fede riconosce che il malato, nella sua stessa debolezza e fragilità, è supplica vivente rivolta al Signore, è preghiera.
L'accompagnatore poi, che ha a lungo ascoltato il malato, può arrivare a discernere se è possibile proporre al malato di pregare insieme, di ascoltare insieme la parola del Signore contenuta nella Scrittura, nei vangeli. E comunque l'accompagnatore potrà sempre pregare intimamente, in cuor suo, di fronte alla non disponibilità del malato. Di certo, l'accompagnatore è chiamato a stare vicino al malato anche nella distanza da lui, e questo con l'intercessione. Nell'intercessione, nel ricordare davanti al Signore il malato, l' orante ottiene in dono uno sguardo rinnovato e purificato su di lui, uno sguardo più conforme allo sguardo di Dio stesso.
E non si dimentichi mai che la preghiera per il malato e con il malato non può non rivestire una dimensione ecclesiale: una comunità cristiana locale che si riunisca in preghiera attorno a un malato riconosce nella sua persona il sacramento del Cristo che edifica la comunità con la potenza della sua debolezza.

I salmi dei malati

All'interno del Salterio vi sono alcuni salmi pronunciati da uomini malati (8). Vi possiamo annoverare almeno i salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri salmi (ad esempio, salmo 107,17-22), e ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per "dirci nella malattia", per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dare forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza, per parlare a Dio o, almeno, cercarne il volto, nella situazione di angoscia e dolore. Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di "linguaggi della sofferenza", estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell'afasia, nell'incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l'uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (cf. Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in salmo 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso salmo 88)9, è protesta che chiede conto a Dio ("Perché": Sal 22,2; "Fino a quando?": Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (cf. Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (cf. Sal 5,2), è pianto (cf. Sal 6,7-9).
Chi prega, infatti, nei salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo. L'esperienza di malattia costringe l'uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l'orante dei salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all' orizzontalità che anticipa la morte (cf. Sal 6,3; 102,4). Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l'orante che si sente privato dell'integrità della vita (cf. Sal 13,4; 38,11; 88,10). L'orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell' angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell' aridità di chi soffre la sete (cf. Sal 31,10: accanto a "occhi" e "ventre" è ovvio che l'ebraico nefesh significa" gola", non" anima" come traduce la Bibbia CEI). Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l'uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell' energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno (cf. Sal 22,15; 38,11; 102,5). La carne in cui non c'è più nulla di sano (cf. Sal 38,4.8), i fianchi che ardono infiammati (cf. Sal 38,8), il ventre torturato dalla pena (cf. Sal 31,10), le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l' orante cerca di ritrovare davanti a Dio l'unità vitale infranta dalla malattia. Pregare i salmi manifesta dunque un aspetto liberante che
consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter "parlare" ciò di cui abbiamo preso l'abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale (10).
E i salmi ci ricordano che l' orante è un corpo orante:

Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all' anima, ma al contrario, perché l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di "mormorio", "sussurro". Il corpo è il luogo dell' anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: "Tutte le mie ossa diranno: 'Chi è come te, Signore?'" (Sal 35,10) (11).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l' orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: nel salmo 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui sta il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto sta il tempo di Dio, colui "i cui anni non hanno fine" e a cui egli si rivolge chiedendo che "presto" intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere... Le notti insonni, l'alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l'angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con cui si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il salmista nella sua malattia.
Nei salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l'orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell' esistenza di un uomo. Là dove c'è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi salmi l'orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cf. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di "morte nella vita" (12).
La supplica, dunque, linguaggio dell'uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita ("Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore": Sal 115,17-18).
Ma forse, l'elemento che più colpisce all'interno dei salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso. Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l' orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all'interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose. Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l'uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimesso nelle mani del Signore della vita e recuperato al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All' orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i salmi, "perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie" (Sal 103,3)13.

Fede e guarigione

Carissima Chiara, condivido la tua convinzione che lo sviluppo e l'evoluzione delle malattie subisce forti influssi da parte del cervello delle persone ammalate. In particolare questo è vero quando si tratta di patologie nelle quali è coinvolto il sistema immunitario come appunto la xxx. Ne consegue che nella storia della tua malattia ha certamente influito 1'atteggiamento "attivo" da te sempre mantenuto nel contrastarne la progressione... La tua fiducia tanto volitiva da apparire talvolta caparbia, indipendentemente da quale ne sia la fonte (la fede in un Dio misericordioso, il tuo forte carattere, la tua formazione o altro), secondo il mio modesto parere di medico curante ha senza dubbio contribuito a migliorare la prognosi inizialmente pessimistica dell'illustre immunologo (un' aspettativa valutata al di sotto dei dieci anni) che per primo confermò il mio sospetto clinico ... Non so se fede e volontà possano effettivamente modificare l'attività del sistema immunitario tanto da alterare l'evoluzione naturale di malattie come la xxx, posso comunque testimoniare che l'evoluzione della tua malattia è stata fortemente condizionata dal tuo modo di affrontarla (14).
Con queste parole dello specialista che l'ha seguita fin dagli inizi della sua malattia vent' anni prima, termina il libro di Chiara M. in cui l'autrice presenta, attraverso stralci dai suoi diari e brani di lettere scritte a diversi amici (tra cui spicca Chiara Lubich), la vicenda drammatica e luminosa dell'insorgere e aggravarsi di una rara malattia sempre vissuta nella fede cristiana e con fiducia verso il futuro. Un libro che costituisce una testimonianza di fede preziosa capace di dare conforto e speranza a chi vive situazioni di malattia che conducono a gravi forme di disabilità, ma anche e soprattutto una lezione di fede e di essenzialità verso chi è in buona salute.
E le parole finali del medico curante pongono l'accento sull'impatto che la fede può avere nel decorso di una malattia. Ora, che il "fattore fede" (si tratti semplicemente di fede-fiducia nella medicina, nel metodo terapeutico usato, nel personale medico curante o di fede religiosa) intervenga nel processo di guarigione di una persona è asserito in ambito medico soprattutto là dove si attua un approccio olistico alla malattia in cui il medico e il personale curante si aprono anche al mondo spirituale e psichico del paziente e tengono conto del rapporto di interazione mente-corpo. Allora
 si può vedere come il "fattore fede" possa intervenire nella guarigione del paziente o in una prolungata remissione della malattia o in una sopravvivenza molto più lunga rispetto a quella deducibile dalle statistiche o ipotizzata inizialmente dai medici (15).
Ora, il rapporto tra fede e guarigione è attestato esplicitamente più volte nei vangeli: Marco 9,23-24 (prima della guarigione del ragazzo epilettico Gesù dice al padre del ragazzo: "Tutto è possibile a chi crede" e questi risponde: "Credo! Aiuta la mia incredulità!"); Matteo 15,28 (alla donna cananea che lo supplica di guarire sua figlia, Gesù dice: "O donna, la tua fede è grande"); 8,13 (la guarigione del servo del centurione è preceduta dalle parole di Gesù: "Va', ti avvenga come hai creduto"); 9,22 (la guarigione della donna emorroissa è accompagnata dalle parole di Gesù: "Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata"); 9,28-29 (a due ciechi che lo supplicano Gesù chiede: "Credete che io possa fare ciò?" ed essi rispondono: "Si, Signore"; e Gesù a loro: "Vi avvenga secondo la vostra fede"); Luca 17, 19 (al lebbroso che, vistosi guarito, torna a ringraziarlo, Gesù dice: "La tua fede ti ha salvato").
Gli stessi racconti evangelici delle guarigioni operate da Gesù presentano una struttura dialogica in cui Gesù non guarisce in modo magico, ma sempre costruendo una relazione autentica con il malato o con colui che intercede per il malato, sicché l'uomo non è mai puramente passivo in queste narrazioni, ma opera
 in sinergia con Gesù con la fede e la preghiera. Questo è talmente vero che alcuni di questi racconti, come la guarigione della figlia della donna straniera (una sirofenicia in Marco 7,24-30, una cananea in Matteo 15,21-28) autorizzano la domanda: chi ha compiuto il miracolo e chi ha creduto?
In 
Marco 7,24-30 Gesù, di fronte a una donna sirofenicia che lo supplica di guarire la figlia, reagisce ricordando alla straniera che l'economia della salvezza conosce la priorità di Israele sulle genti. "Prima" Israele, poi le genti: "Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". La donna riprende logica e immagini di Gesù, operando però una variante che spiazza Gesù stesso e che si rivela vincente. Poiché sul piano dei tempi della storia di salvezza (prima i giudei, poi i pagani) la donna non ha alcuna possibilità di vittoria, ella, riprendendo la parola di Gesù sui cagnolini sposta la questione sul piano dello spazio delle genti: "I cagnolini sotto la tavola". La donna mostra il suo rispetto per il piano di salvezza, accoglie le parole di Gesù (anche quella sui" cani", termine applicato in ambiente giudaico alle genti) e, con umiltà, sposta il discorso sul terreno dello spazio che appartiene alle genti. A quel punto Gesù sposa le parole e il comportamento della donna e, dichiarandosi vinto, le annuncia la guarigione della figlia a causa della parola che lei stessa ha pronunciato. La redazione di Matteo (15,21-28) sottolinea l'ostinazione della donna che non si scoraggia di fronte al rifiuto di risponderle anche una sola parola da parte di Gesù, poi al fastidio che provoca nei discepoli, e infine alle parole di Gesù che sembrano escludenti e senza speranza per lei. Ma è Gesù che deve poi arrendersi e riconoscere la grandezza della fede della donna: la testardaggine si è rivelata segno di fede grande, coraggiosa e perseverante. La guarigione avviene conformemente alla volontà della donna ("Ti avvenga come vuoi"). Quasi che Gesù dicesse: "Sia fatta la tua volontà". Anche qui sorge la domanda: a chi va attribuita la guarigione? Chi la compie (16)?
Ora, secondo questi racconti evangelici la fede comporta alcuni elementi.
La volontà di guarire. Il desiderio di vivere e l'atto di concentrare le proprie energie interiori e spirituali verso questo fine è un elemento spesso attestato nei racconti di guarigione. La volontà di vivere non è un' astrazione teorica, ma una realtà anche fisiologica che possiede caratteristiche terapeutiche (17).
La collaborazione per guarire. Nelle guarigioni di Gesù è sempre attiva la sinergia tra malato e Gesù. In Marco 8,22-26 questa collaborazione è plasticamente espressa: il cieco si lascia condurre fuori dal villaggio, si lascia mettere la saliva sugli occhi, risponde alle domande che Gesù gli pone, accetta la ripetizione dei gesti terapeutici. Insomma si lascia prendere per mano da Gesù (cf. Mc 8,23).
La preghiera. La preghiera (si pensi soprattutto ai salmi) come protesta e invocazione, come espressione di speranza o grido angosciato che crede e cerca un interlocutore capace di intervenire, è passo importante di guarigione, esprime la volontà di non darla vinta al
 male, è reazione vitale e atto in cui si nomina ciò che sta avvenendo alla propria vita e lo si porta davanti a Dio.
L'abbandono fiducioso. Rimettersi al Signore in un abbandono fiducioso e sereno (cf. Sal 131; Rm 8,35) comporta l'accettazione di sé e la gratitudine per il Signore, e questo diviene forza vitale nel credente: "Per avere un effetto risanatore, la fede deve essere un abbandono fiducioso alla provvidenza di Dio" (18).
Credere anche quando tutto sembra perduto. La fede cristiana, che crede la resurrezione dai morti e confessa il Crocifisso-Risorto quale salvatore del mondo, è forza capace di traversare le tenebre, è luce nelle tenebre. Si può applicare alla fede e alla sua forza terapeutica quanto fu scritto da una vittima della shoah: "Credo al sole anche quando non brilla, credo all' amore anche quando non si mostra, credo in Dio anche quando tace" (19).
L'intercessione. La fede degli altri, di coloro che portano il malato a Gesù o pregano Gesù perché guarisca il malato sono un elemento che interviene con efficacia nei racconti evangelici e che mostra come la struttura dialogica dei racconti di guarigione sia la struttura stessa dell' amore. E che la forza della fede è nell'amore che la abita e la muove.







[1] L. Lochet, "Au service des malades: l'Union catholique des malades", in La Vie Spirituelle 353 (1950), pp. 63-64.
[2] Cf. V. E. Frankl, Homo patiens.
[3] X. Thévenot, "Une véritable provocation au changement", in L'Actualité Religieuse dans le Monde 75 (I990), pp. 26-27.
[4] Cf. G. Ravasi, Giobbe, Boria, Roma I979; Ph. Nemo, Giobbe e l'eccesso del male, Città Nuova, Roma I98I; M. Ciampa, Domande a Giobbe. Modernità e dolore, Bruno Mondadori, Milano 2005.
[5] Cf. B. Bozak. "Suffering and the Psalms of Lament. Speech for the Speechless, Power for the Powerless", in Église et Théologie 23 (1992), pp. 325-338.
[6] Cf. E. Bianchi, s. v. "Preghiera", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, a cura di G. Cinà, E. Lacci, C. Rocchetta e L. Sandrin, Edizioni Camilliane, Torino 1997, pp. 927-937.
[7] Ambrogio, Sulla verginità 16,99.
[8] Cf. H. Duesberg, Le Psautier des malades, Éditions de Maredsous, Maredsous 1952; L. Manicardi, "Il Salterio dei malati", in Parola, Spirito e Vita 40 (1999), pp. 41-63.
[9] Cf. Id., '''Perché, Signore, mi respingi?' (Sal 88)", in Parola, Spirito e Vita 30 (1994), pp. 61-80.
[10] M. Collin, Le livre des Psaumes, Cerf, Paris 1995, pp. 52-53.
[11] P. Beauchamp, "La prière à l'école des Psaumes", in Concordance de la Bible. Les Psaumes, a cura di O. Odelain e R. Séguineau, Desclée de Brouwer, Paris 1980, p. XVII.
[12] Cf. H.-J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, pp. 270-272.
[13] Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere. Saggio di filosofia morale, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 163-170.
[14] Chiara M., Crudele dolcissimo amore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 251-252.
[15] Cf. Th. A. Droege, The Faith Factor in Healing, Trinity Press lnternational, Philadelphia I99I; H. Benson, The Mind-Body Effect, Simon & Schuster, New York I979; N. Cousins, Head First: the Biology of Hope and the Healing Power of the Human Spirit, Penguin Books, New York I990.
[16] Cf. E. Pousset, "Les récits de guérison dans les évangiles synoptiques. Essai de lecture et conséquences théologiques", in Atelier de théologie du Centre Sèvres, La guérison du corps, MédiaSèvres, Paris 1992, pp. 95-110.
[17] Cf. N. Cousins, La volonté de guérir, Seuil, Paris 1980.
[18] K. Rahner, "Potere di guarigione ed energia risanatrice della fede", in Id., Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 19692, p. 505.
[19] Citato in B. Siegel, L'amour, la médecine et les miracles, Robert Laffont, Paris 1989, p. 184.



ACCANTO AL  MALATO
Accompagnare il malato
Oramai da alcuni decenni l'espressione" accompagnamento del malato" si è venuta diffondendo negli ambienti della pastorale sanitaria e in tutti quegli ambienti interessati a umanizzare la situazione di sofferenza in cui il malato si trova (1). Di che cosa si tratta? Non si tratta di una relazione tra funzioni o ruoli (medico-malato), ma tra persone: essa afferma il primato della relazione e la qualità personale del malato. Non è una prestazione che debba venire remunerata con denaro, ma sta nello spazio della gratuità. Non è una visita occasionale, ma si inscrive nella durata ed esige la fedeltà e la perseveranza dell'accompagnatore. Non è lasciata semplicemente alla spontaneità, ma è una scelta: e una scelta sia da parte del malato (che desidera tale accompagnamento o accetta la proposta di essere accompagnato) che dell'accompagnatore (che fa di tale attività un atto di libertà e di responsabilità e che deve anche essere aperto a ricevere dei rifiuti da parte del malato). Non è una scienza, ma un'arte che si impara giorno dopo giorno. Non è tanto una "buona azione", quanto una "buona relazione", o almeno la faticosa e quotidiana costruzione di tale relazione buona. Essa è pertanto molto esigente, coinvolgente, e non può essere lasciata semplicemente all'improvvisazione. Essendo anzitutto una relazione in cui l'accompagnatore si pone in una situazione di radicale accoglienza e ascolto del malato, essa esige da lui una profonda qualità umana. E anzitutto richiede conoscenza di sé e l'attitudine a quel lavoro interiore che porta alla chiarificazione dei motivi che spingono una persona a volersi impegnare in tale relazione. Si tratterà infatti di divenire "presenza" per il malato, ma mantenendo quella distanza salutare che impedisce la fusionalità, custodisce la libertà del malato e mantiene la relazione in uno spazio di autenticità. Inoltre questa distanza assicura anche all' accompagnatore momenti e tempi di "respiro", di tranquillità con se stesso. Infatti, la relazione di accompagnamento di un malato impegna profondamente anche a livello emotivo e l'accompagnatore dovrà saper essere maturo ed equilibrato in questo gioco relazionale: capace di lasciare trasparire le proprie emozioni all'interno di una comunicazione sincera, ma anche di non lasciarsene travolgere o di non turbare il malato con un' emozionalità non controllata. Questa conoscenza della propria umanità è dunque un requisito essenziale per un accompagnatore.
L'autenticità deve sempre trasparire nell' agire e nella persona dell'accompagnatore: se l'accompagnamento è vissuto come un dovere, fosse pure santo e virtuoso, esso entra nell'inautenticità; se l'accompagnatore
 ha come obiettivo quello di "convertire" il malato o di convincerlo a "diventare come lui", non fa opera di accompagnamento, ma di sciacallaggio. L'accompagnatore deve poi sapere che la difficile relazione in cui si è impegnato richiede pazienza, attesa dei tempi dell'altro, il rimettersi al malato come guida della relazione (così che anche l'accompagnatore si trova a sua volta accompagnato). L'ascolto del racconto del malato esige molta attenzione e un atteggiamento di accoglienza. Certo, non sempre l'incontro sarà abitato da parole e si esprimerà in un colloquio (2), ma l'ascolto richiede attenzione anche al linguaggio del corpo, ai lineamenti del viso, agli sguardi: il corpo, infatti, è trasparenza delle emozioni, soprattutto quando ci si trova in situazioni di debolezza e di sofferenza, e chi ha praticato accompagnamento di malati conosce l'intensità di comunicazione che può essere raggiunta da uno sguardo o da un contatto tattile. Conoscere le proprie facoltà sensoriali, le proprie capacità mentali, la propria intelligenza e la propria volontà, deve andare di pari passo con la conoscenza dei propri limiti e delle proprie fragilità e debolezze, che divengono anche l'umile coscienza dei limiti del proprio accompagnamento: conoscendo i nostri limiti sapremo di non essere onnipotenti, di non poter seguire tutti i malati, e sapremo soprattutto quali sono le nostre deficienze in quelle relazioni in cui ci impegneremo. Inoltre, nella coscienza della propria reale debolezza ci si situa nella propria intima verità e ci si rende più vicini a colui che vive la debolezza della malattia. L'accompagnatore deve anche riconoscere diritto di esistenza e di ospitalità al sentimento di stanchezza o al senso di affaticamento che vede eventualmente nascere in sé nei confronti del malato, a quei sentimenti e a quelle emozioni che potrebbero ingenerare una colpevolizzazione, ma che vanno riconosciuti, nominati e affrontati. Insomma, egli non deve temere la propria umanità (3).
L'accompagnatore spesso non ha competenze mediche o psicologiche specifiche, ma deve avere una competenza umana che renda significativa la sua relazione con il malato. Poi, è certamente necessario un approfondimento della conoscenza di "ciò che avviene" durante una relazione di aiuto ed è bene approfondire la conoscenza dell' ambiente in cui vive il malato e del suo funzionamento; è bene intrattenere relazioni con il personale medico e infermieristico che ha rapporti con il malato; è cosa buona se si riesce a instaurare un legame cordiale con i familiari del malato... Insomma, sono necessarie l'apertura e la disponibilità a un lavoro di formazione {studio e acquisizione di competenze, ma anche duttilità umana e creazione di rapporti} continuo: può essere "accompagnatore" solo colui che è "in cammino". Si tratta infatti di camminare accanto a qualcuno per un tratto di strada, e una strada particolarmente accidentata come quella della malattia. Sempre rispettando la volontà del malato, l'accompagnatore potrà veder venire il momento in cui proporre una preghiera insieme o l'accostamento a un gesto
 sacramentale. Certo, nulla può essere predeterminato nel cammino di accompagnamento del malato, ma occorre disponibilità illimitata verso il volere del malato e apertura all' azione dello Spirito santo, prontezza di spirito e creatività!
Infine, è importante ricordare che 1'accompagnatore non è isolato, non agisce individualisticamente, in proprio nome, ma a nome di un'istituzione, e l'accompagnatore cristiano compie un' azione ecclesiale, opera a nome della comunità cristiana, e pertanto cercherà sempre di comportarsi come "inviato" che agisce a nome della chiesa e di vivere la relazione con il malato come una relazione a tre, in cui il Terzo presente fra lui e il malato è il Signore stesso.
Visitare il malato
Due testi biblici, uno dell'AT e uno del NT, attestano l'estrema importanza della visita al malato (4). In Siracide 7,35 si esorta: "Non esitare nel visitare gli ammalati, perché per questo sarai amato". Il testo significa che, visitando il malato, l'uomo obbedisce al comando di amare il prossimo ed è a sua volta riamato. In Matteo 25,36 Gesù, giudice escatologico, proclama: "Ero malato e mi avete visitato". La visita al malato diviene incontro misterioso eppure reale con il Cristo presente nel malato: visitando il malato, si fa l'esperienza del Cristo che ci visita nel malato stesso. Eppure la Bibbia attesta che la visita al malato è operazione delicatissima e rischiosa: i conoscenti che visitano il malato nel salmo 41 diventano i suoi nemici; gli amici che visitano Giobbe in realtà falliscono l'incontro e sono percepiti da Giobbe come "medici da nulla" (Gb 13,4), "consolatori stucchevoli" (Gb 16,2), "raffazzonatori di menzogne" (Gb 13,4), come presenze moleste e nemiche. L'esempio del loro fallimento è istruttivo per molti che volendo fare un' opera di misericordia corporale pensano che basti la buona intenzione di "fare" tale visita per aver compiuto il bene. Ma la visita al malato non va da sé: è sempre difficile incontrare l'altro, ma ancor più difficile è incontrare in verità il malato. L'errore degli amici di Giobbe, che spesso è il nostro, consiste nel presentarsi al malato come "salvatori", cioè nella convinzione di sapere, meglio del malato stesso, ciò che il malato deve fare; nella certezza che, visitando il malato, si sta facendo il bene per lui e davanti a Dio; che si è senza dubbio capaci di consolarlo e di aiutarlo. Spesso poi si va dal malato "a mani piene" e non "a mani vuote": cioè, armati di strumenti (Bibbia, libro spirituale, doni, eccetera) che più che aiutare un incontro autentico, diventano elementi di difesa e di presa di distanza dall'impotenza del malato. Andando dal malato come "salvatori" gli amici di Giobbe innescano un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori e finendo per divenire a loro volta i bersagli delle accuse e del risentimento di Giobbe. Così ciascuno dei due attori del dramma (visitatore e malato) appare di volta in volta persecutore e vittima, a partire dalla pretesa del visitatore di essere salvatore, dunque figura di cui il malato ha bisogno. Ma una relazione di necessità e di bisogno esce dalla gratuità e dalla libertà che sono essenziali alla sua riuscita. Per visitare il malato occorre entrare nell' ottica che non si ha potere sul malato e che solo tentando di condividere, per quanto possibile, la sua impotenza e la sua debolezza, lo si potrà incontrare.
Occorre comprendere che il capezzale del malato non è il luogo per una predica o per una lezione di morale o di teologia e che la debolezza del malato non può divenire l'inconscia conferma della propria forza. La visita al malato si situa nello spazio dell'incontro significativo per l'altro, incontro che fa emergere la qualità personale del malato: egli non è un "numero" o un "caso clinico", ma una persona che vive il drammatico oggi della malattia (5). Guai se la visita divenisse l'occasione con cui il visitatore si sente valorizzato dalla debolezza del malato e rafforzato nella sua significatività! È al malato che si deve lasciare guidare la visita, è lui che deve essere ascoltato, è a lui che deve essere lasciata la parola, è lui il maestro da ascoltare: è in lui che si identifica il Cristo, non nel visitatore (cf. Mt 25,36).
Se poi la visita avviene a domicilio, nella casa del malato, allora ci si deve assolutamente attenere, con infinita discrezione, al quadro relazionale posto dal malato: i muri della sua casa sono impregnati di ricordi significativi, sono ricchi di storia affettiva, sono lo spazio vitale del malato. Va poi tenuto conto della inevitabile asimmetria tra malato e visitatore: quest'ultimo fa parte del mondo dei "sani"; quando si avvicina al malato che giace nel letto rischia di guardarlo dall'alto in basso, visibilizzando così il potere che ha sul malato: chiunque accompagni un malato sa che deve chinarsi e porsi al livello degli occhi del malato per poter comunicare con lui. Il malato - e qui emerge la fatica della visita autentica - chiede al visitatore di abbassarsi, di indebolirsi, di impoverirsi, gli chiede di entrare in una comunicazione fatta non solo e non tanto di parole, ma soprattutto di silenzio vigile, di ascolto, di discernimento del linguaggio del proprio corpo. Soprattutto nelle situazioni estreme si comunica con gli occhi e con le mani, con lo sguardo e con il tatto. Il malato, che spesso è un corpo manipolato e costretto a subire approcci tattili che, pur essendo curativi, sono intrusivi e aggressivi, vedendosi destinatario di gesti di tenerezza e delicatezza, si sente accolto nel suo corpo debole e dunque rispettato nell'intimità del suo essere personale. Così è essenziale al malato il sentirsi accolto nei suoi stati emozionali senza alcun atteggiamento di censura da parte del visitatore. Se la visita al malato è così delicata, è bene non lasciarla in balia dell'improvvisazione e delle buone intenzioni senza discernimento, ma occorrerà sempre, almeno, porsi due domande: perché vado a visitare un malato? Come lo visito? Allora si comprenderà come l'arte della visita all'uomo nella malattia non è solo qualcosa da fare, un'opera facendo la quale noi compiamo il bene sempre e comunque, ma un evento che richiede un profondo lavoro su di sé e un discernimento su ciò che ci
 abita, sulle motivazioni profonde che ci guidano; in definitiva, su chi siamo e sul senso che hanno gli altri per noi.
Condividere la verità del malato
Un testo biblico presenta una situazione che spesso, anche oggi, il malato vive con profonda angoscia. Si tratta del salmo 41, in cui un uomo malato viene visitato da conoscenti. Dice quest'uomo dei suoi visitatori:
Chi viene a visitarmi dice parole false,
raccoglie cattiverie nel suo cuore
e, uscito, sparla nelle piazze.
Contro di me mormorano i miei nemici:
"L'ha colpito un male incurabile,
non si alzerà più dal letto in cui giace"
 (Sal 41,7-9).
Il malato sente come nemici i suoi visitatori. Perché? Perché egli percepisce che essi si comportano con lui in modo non limpido: dicono il falso, oppure sanno ma non dicono. Con lui si esprimono con parole false, o forse, meglio, inconsistenti, cioè con parole banalmente rassicuranti ("Vedrai che presto ritorni a casa", "Ti vedo meglio"), con parole che parlano di un futuro che in realtà non ci sarà e a cui essi stessi non credono, tant'è vero che, usciti fuori, esprimono ciò che veramente pensano, ovvero che il malato non ha scampo né speranza ("Hai visto com' è ridotto?", "Poverino, non gli resta molto da vivere"). Dietro alle parole di circostanza, vuote, non all' altezza della gravità dell'evento della malattia e dell' approssimarsi della morte di un uomo, si nasconde la rimozione della morte e la non volontà di farvi i conti. Il malato però intuisce la doppiezza e la falsità dei suoi amici-nemici e questo lo deprime, lo avvilisce e lo irrita (6).
Siamo di fronte al difficile problema della comunicazione al malato della reale gravità della sua malattia, soprattutto quando si ha a che fare con una prognosi infausta (ad esempio, il cancro), problema che crea alcune delle più penose situazioni che si verificano al capezzale di un malato: la congiura del silenzio, l'inganno pietoso, la creazione di un clima di ipocrisia in nome di un malinteso affetto nei confronti del malato, i silenzi imbarazzati, le risposte evasive, le frasi che spengono le domande insistenti del malato ("Ma cosa dici?", "Non pensare a queste cose..."), l'umiliante paternalismo. Tutto questo accresce l'insicurezza del malato, alimenta i suoi dubbi e soprattutto lo lascia solo in un momento critico e decisivo della sua esistenza facendolo magari sentire tradito dai suoi stessi cari. Ovviamente su questo problema, impropriamente chiamato della "comunicazione della verità al malato", non esiste alcuna legge da applicare astrattamente: occorrerà sempre vagliare caso per caso, ascoltare ogni malato e adattarsi al suo linguaggio e alle sue modalità recettive tenendo presenti le sue condizioni psicologiche, la sua eventuale fede cristiana, la sua levatura culturale, la sua capacità di ricevere e assumere positivamente la comunicazione anche infausta (a volte questa comunicazione e la sua stessa modalità può causare stati depressivi o pulsione di suicidio) (7). Si tratterà perciò di una comunicazione graduale, personalizzata, in cui dovranno essere coinvolti non solo i medici e il personale sanitario, ma anche i familiari, le persone care, soprattutto le persone rilevanti e significative affettivamente per il malato. Solo da chi conosce e ama il malato (e anche dal personale curante, se ha stabilito rapporti di stima e fiducia, di rispetto e confidenza con il malato) potrà venire non una brutale sentenza di morte, ma una comunicazione compartecipata e compassionevole (8). Occorre inoltre tener presente che il malato intuisce e sa, molto più di quanto si sia disposti a credere, la sua malattia e il suo reale stato.
Ciò che rende arduo il problema è la cultura di rimozione della morte in cui si è immersi: occorre avere chiaro che la morte è parte costitutiva dell' esistenza e che la malattia è una modalità dell' esistenza. Se questo è vero, allora il malato ha il diritto di essere a conoscenza del suo stato di salute e dell'eventuale gravitào mortalità della sua malattia perché ciò che è in gioco non è una "verità" su di lui posseduta da altri, ma è la sua stessa vita, è lui stesso con la rete di relazioni affettive, familiari, professionali, sociali, eccetera, che deve ora fronteggiare nella nuova situazione. Il problema non è dunque comunicare la verità al malato, ma condividere la verità del malato. Una diagnosi infausta scatena meccanismi di autodifesa e di elusione
 anche nei familiari e nel personale curante e richiede un lavoro su di sé di assunzione della morte e del dolore da parte di chi deve poi anche comunicarla e fame partecipe il malato. Il diritto del malato a essere informato sul suo stato di salute, come sulle medicine che gli vengono somministrate e sulle terapie che gli vengono prospettate, va di pari passo con il dovere del medico o di chi è al corrente della reale condizione del malato di non giocare questo sapere come potere. Ciò che è in gioco è l'autenticità della relazione con il malato e la verità umana, esistenziale del malato stesso: questa non può essergli sottratta, non può essergli celata da altri che la gestiscono contro la sua volontà. Ne va della sua dignità umana. Del resto, tra i diritti stabiliti dalla Carta del malato utente dell' ospedale vi è il diritto di essere informato. Per il cristiano poi è una necessità insita nella sua stessa fede conoscere l'esito mortale a cui lo sta portando la malattia da cui è afflitto: così egli potrà assumere gradualmente la sua situazione ed elaborarla nella fede cogliendola come" debolezza in Cristo", e potrà prepararsi alla morte, che per lui è anche momento di passaggio da questo mondo al Padre. E così egli potrà non essere sorpreso dalla morte come da evento inatteso, ma fare della morte un compimento del vissuto e l'inizio di una nuova vita.
Portare il malato, portare il fratello
È frequente, nei vangeli, l'annotazione che dei malati "vengono portati" a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt'al più essere sostenuti, essi sono semplicemente "accompagnati", "condotti", "guidati" fino a Gesù. È così che gli vengono presentati "malati oppressi da varie malattie e sofferenze" (Mt 4,24) e "molti indemoniati" (Mt 8,16). In alcuni casi si può esitare circa il significato esatto del verbo utilizzato, potendo questo designare sia l'atto di "condurre", "accompagnare", sia quello di "portare": dipende dal livello di autonomia del malato in questione. Questo vale per il verbo phérein (letteralmente "portare") usato in Marco 1,32 (tutti i malati e gli indemoniati), in 7,32 (una persona sorda e muta), in 8,22 (un cieco), in 9,17. 19-20 (un giovane che ha uno spirito muto). Ma in alcuni casi è assolutamente certo che il malato viene portato, essendo egli steso su un giaciglio, su una barella. In Marco 6,55 si annota che, giunto Gesù a Genesaret, gli abitanti della zona "cominciarono a portargli malati sulle barelle". Interessante è soprattutto il brano di Marco 2, 1-12 (con i paralleli in Matteo 9, 1-8 e Luca 5,17-26). Dice il testo di Marco:
Essendo entrato di nuovo a Cafarnao, alcuni giorni dopo, si seppe che era in casa. E si radunarono molti, così che non c'era più posto neppure davanti alla porta; ed egli annunziava loro la Parola. E vennero, portando a lui un paralitico, sorretto da quattro persone. E non potendolo presentare a lui a causa della folla, scoperchiarono la terrazza dalla parte dove era [Gesù] e, fatta un'apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico. E Gesù vedendo la loro fede, disse al paralitico: "Figlio ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,1-5).
Segue la discussione con gli scribi e la guarigione del paralitico a cui Gesù si rivolgerà con queste parole: "'Dico a te, alzati, prendi la tua barella e va' a casa tua'. E quello si alzò e subito, presa la barella, uscì dinanzi a tutti" (Mc 2,11-12). Colpisce la figura dei quattro uomini che portano il malato sorreggendo la pesante barella (forse il pagliericcio, il lettuccio su cui giaceva il malato a casa sua): persone anonime, forse familiari o amici o semplicemente conoscenti del malato che si sono offerti per realizzare quello che possiamo supporre fosse un desiderio profondo del malato stesso: incontrare Gesù. I quattro sono anonimi, definiti solamente da quell'atto di "portare il malato". E si indovina il legame profondo tra il malato e i suoi portatori: c'è un'intesa, un'inseparabilità, una complicità buona che si instaura tra essi. Questo gesto di portare il malato che è impotente a muoversi, che non ha l'autonomia di camminare è oggi conosciuto da molti, sia che sostengano una barella, sia che spingano una carrozzella, sia che sorreggano colui che non si regge in piedi, ed è un gesto che chiede di combinare forza e delicatezza, decisione e amore, intelligenza e carità. È un gesto che esprime la carità in cui si manifesta la fede. Una carità già conosciuta da Giobbe che dice di sé: "lo ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo" (Gb 29,15), dove il farsi pietoso accompagnatore del cieco e sostegno dello zoppo viene visto come un divenire parte del corpo del malato, tale è il rapporto intimo che si stabilisce fra i due. Il portatore dona un po' della sua forza all'invalido, il malato condivide un po' della sua debolezza con il portatore. Questa condivisione, questa relazione, questa partecipazione è talmente intima e profonda che diviene corporea: uno sceglie di portare il peso che il malato è, mentre il malato accetta di lasciarsi portare. Ed è proprio questa condivisione che rende non umiliante per il malato l'esperienza di sapersi peso che viene portato: occorre al malato l'umiltà di accogliere la propria dipendenza, la propria non-autonomia, e al portatore la delicatezza e l'intelligenza di compiere una cosa assolutamente naturale e normale, in nome dell' affetto, dell' amicizia o, almeno, dell'umanità. Così il gesto non appare tanto di "assistenza", quanto l'espressione naturale della relazione vitale, umana, che unisce i due. C'è perfino da chiedersi se in quella esperienza non vi sia una sorta di realizzazione molto concreta dell' esperienza ecclesiale di sentirsi membra di uno stesso corpo, un corpo in cui un membro non può dire all'altro "io non ho bisogno di te" (cf. 1Cor 12,21).
Nel brano di Marco la determinazione dei portatori emerge di fronte alle difficoltà e agli ostacoli che trovano sul loro cammino. Non riuscendo a portare il paralitico davanti a Gesù perché la folla e la calca lo impedivano, non esitano a salire sul tetto della casa in cui si trova Gesù e "fatta un' apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico" (Mc 2,4). È un tipo di casa costituita dal solo pianterreno e il cui "tetto" è una terrazza fatta di fango e paglia e sostenuta da traversine di legno. Era pertanto abbastanza facile salire sulla terrazza, attraverso una scala esterna, togliere lo strato di fango e paglia secchi, e fare un buco attraverso la travatura di legno. Quel gesto diviene per Gesù visibilizzazione della fede dei portatori: Gesù, infatti, "vista la loro fede" (v. 5), perdona e guarisce il paralitico. L'atto di portare il malato all'incontro con Cristo diviene dunque una vera e propria intercessione. Etimologicamente "inter-cedere" significa "fare un passo tra", "interporsi" fra due parti, indicando così una compromissione attiva, un prendere sul serio tanto la relazione con Dio, quanto quella con gli altri uomini. In particolare, è fare un passo presso qualcuno a favore di qualcun altro. L'intercessione è la preghiera in cui con più evidenza si manifesta la pienezza del nostro essere come relazione con Dio e con gli uomini. E l'intercessione mostra anche l'unità profonda fra responsabilità, impegno storico, carità, giustizia e solidarietà da un lato, e preghiera dall'altro (9).
Abbiamo qui, inoltre, una bella immagine della solidarietà che si dovrebbe vivere nelle comunità cristiane: vi è l'esperienza di essere portati dagli altri nelle proprie miserie e malattie, nei propri peccati e nelle proprie debolezze. È l'esperienza di essere portati perché si è incapaci di camminare da soli. Qui, il gesto di portare il malato assume un connotato di sacramentalità e di esemplarità: è segno di ciò che il Padre fa con il credente e il modello di ciò che dovrebbe avvenire nella chiesa tra i fratelli. In questo gesto vi è il sacramento di una verità spirituale che riguarda ogni cristiano: ognuno è bisognoso di essere portato dall' altro. Scrive Dietrich Bonhoeffer:
"Portare i pesi gli uni degli altri" (Gal 6,2). La legge di Cristo è una legge del "portare". Portare vuol dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano. Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Nel portare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. E i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo.
La Scrittura parla spesso di "portare". Essa esprime con queste parole tutta l'opera di Cristo: "Erano le nostre malattie che egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato"
 (Is 53,4) (10).
Un gesto così semplice, che tanti uomini e donne compiono quotidianamente, si rivela dunque così ricco di implicazioni spirituali e teologiche: portare il malato, portare il fratello, portare la croce. Il tutto reso possibile dal Cristo che ha preso su di sé e portato i nostri peccati e le nostre malattie (cf. Mt 8,17). Nella fede, infatti, Cristo ci porta, e nella fede i credenti possono ascoltare le parole di Cristo che dice: "Venite a me voi tutti... imparate da me che sono mite e umile di cuore... Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,28-30).
Una storiella che si narra nella vita di abba Bishoi, un monaco copto del IV-V secolo (morì nel 417 d.C.), dice che, poiché egli fruiva di frequenti visioni di Cristo, alcuni monaci gli chiesero di guidarli a incontrare Cristo. Avendo egli ricevuto un messaggio dal Signore, disse ai monaci di recarsi in un certo posto nel deserto, dove avrebbero trovato Cristo ad attenderli. Lungo il
 cammino essi videro, ai lati della strada, un uomo anziano, malato e sfinito, che chiedeva loro di portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Ma essi, desiderosi di incontrare Cristo, ignorarono le suppliche dell'anziano. In coda al loro gruppo giunse Bishoi che, quando vide l'anziano malato, se lo caricò sulle spalle portandolo lungo la strada. Giunto là dove i monaci attendevano Cristo, sentì il peso dell'uomo farsi più leggero, poté rialzare la schiena e constatare che l'anziano era scomparso. Allora rivelò: Cristo era seduto lungo la strada, e aspettava qualcuno che lo aiutasse. Nella loro fretta di vedere Cristo, gli altri monaci si erano dimenticati di essere cristiani. Lui, portando di peso l'anziano malato, aveva portato Cristo stesso (11).
Accanto al morente
Sappiamo bene come la cultura in cui siamo immersi operi una rimozione della morte dalla scena sociale: la morte oggi è de-socializzata, ridotta a fenomeno individuale, ed è nascosta, celata, strappata ai luoghi del vivere (la propria casa) e relegata, il più delle volte, a quegli ambienti asettici che sono gli ospedali: oggi si muore in modo certamente più igienico di un tempo, ma anche in una maggiore solitudine (12). La rimozione della morte è fenomeno constatabile nella paura della stessa parola "morte", spesso sostituita da quei pietosi e illusori camuffamenti che sono gli eufemismi: oggi non si muore, ma si scompare, si viene a mancare all'affetto dei propri cari, si passa a miglior vita... La repulsione di fronte alla salma, l'allontanamento dei bambini dalla visione di un morto, la riduzione della malattia mortale a problema tecnico affidato a personale specializzato, il carattere burocratico delle pratiche funerarie, sono ulteriori manifestazioni di questo fenomeno che relega la morte nella non-vita, la allontana dalla società rendendola oscena (nel senso etimologico di escluderla dalla "scena" del vivere).
Eppure la morte è parte integrante e momento culminante dell' esistenza. Ridare umanità e dignità al morire così che la morte possa essere vissuta come un atto umano che non solo pone fine alla vita, ma che la porta anche a compimento è dovere urgente per una cultura che voglia essere autenticamente rispettosa dell'umano. Questa rimozione della morte spiega anche perché si sia smarrito a livello sociale e familiare il valore dell'accompagnamento del morente (13). In verità, il tempo che precede la morte è estremamente prezioso: è occasione per il malato di fare un bilancio della propria vita e di riaffermare le opzioni che hanno guidato la sua esistenza; è momento in cui egli manifesta il bisogno di riconciliarsi con il proprio passato (con sé e con le persone con cui è in tensione o in conflitto) per potersi congedare serenamente dalla vita; è tempo di sistemare affari e situazioni economiche o di lavoro per non lasciare pendenze; è tempo necessario per rivedere le persone care e dire loro" addio" (14)... Stare accanto a un malato terminale significa stare accanto a chi sta vivendo un momento cruciale dell' esistenza: non dovremmo neppure parlare di "morenti", ma di persone che vivono gli ultimi giorni o settimane della loro vita. E chi vive questo accompagnamento può sperimentare come chi sta per morire possa insegnare molto a chi resta in vita: il confronto con la morte dell'altro ci rinvia subito a ciò che è essenziale e 'Centrale nell' esistenza (15).
Il malato terminale conosce certamente dolore fisico, ma anche angoscia, svalutazione di sé, smarrimento spirituale, sensi di colpa: è essenziale che egli possa trovare uno spazio umano che gli consenta di esprimere e dar voce a ciò che prova; se egli viene curato a casa propria, questo è certamente più facile. Valorizzando i gesti semplici della vita quotidiana e offrendogli la possibilità di una conversazione vera, in cui egli può esprimere se stesso, il malato può sentire accanto a sé quella presenza amorosa che è terapeutica non meno delle cure farmacologiche e di cui egli ha assolutamente bisogno. Il familiare o l'accompagnatore che è accanto al malato cercherà di mettere in atto una forma di comunicazione tale da poterlo raggiungere: la parola, certo, ma quando questo non è possibile, ecco che
 lo sguardo, il sorriso, le lacrime, il toccare con delicatezza e tenerezza, il tenere la mano del malato, diventano vie percorribili. Infatti, c'è una voce che tocca, un tono di voce che carezza, e c'è una mano che parla, un gesto che sussurra. Nei momenti di disperazione e angoscia può avvenire che il moribondo, come un bambino piccolo, chiami la madre: allora, il gesto di "cullare" il malato, di adagiarlo sul proprio petto e abbracciarlo con tenerezza potrebbe dargli la sicurezza e il senso di protezione che lo rasserenano. L'accompagnatore non ha tanto da fare: deve solo comunicare la propria presenza amorosa. È questa vicinanza che strappa il malato alla più penosa delle sensazioni: quella di essere abbandonato, escluso dal mondo dei vivi. Del resto, opportunamente interpretata ascoltando la sofferenza da cui scaturisce, la domanda di "farla finita" che il malato a volte formula, nella maggior parte dei casi non è affatto una richiesta di "eutanasia", quanto una supplica con cui il malato chiede alleviamento del dolore e di non essere lasciato nella solitudine. Egli chiede se interessa ancora ai vivi, se è ancora degno di amore, se può ancora considerarsi tra gli esseri umani (16). Qui si colloca l'importante compito dell' accompagnatore di confermare il malato nella sua dignità e nella sua preziosità, anche se la malattia lo paralizza o lo sfigura rendendolo irriconoscibile a se stesso. Questo il messaggio che l'accompagnatore dà al malato: tu sei e resti un essere umano, nella pienezza della tua dignità. Lo stesso respiro irregolare del morente dichiara che, nella sua angoscia, egli cerca una presenza personale che stia insieme a lui e lo tranquillizzi. In questa tranquillità, il malato si sentirà anche autorizzato, quando sente che la sua ora è venuta, di lasciare i legami con la vita e oltrepassare la soglia della morte. E anche quando il malato appare assente, sembra non capire, non comunicare e non rispondere, occorre perseverare nel restargli accanto: se lo si lasciasse e ci si astenesse dallo stargli vicino e dal continuare 'a parlargli o a comunicare con lui in modo non verbale, lo si considererebbe già morto e lo si abbandonerebbe alla morte. Chi è accanto al malato terminale è posto a confronto con la propria sofferenza e vulnerabilità, e con le emozioni che la morte dell' altro suscita in lui: egli deve riconoscere ma anche governare e tenere a distanza tutto ciò, perché la propria sofferenza non si sovrapponga a quella del malato impedendo all' accompagnatore di ascoltare il dolore e i bisogni del malato stesso. È certamente faticoso e pesante accompagnare un morente, ma è un atto di grande umanità che può arricchire profondamente chi lo compie. In un contesto culturale che esalta il piacere, l'efficacia, la bellezza patinata, il successo, è difficile cogliere il senso e il valore degli ultimi istanti di un uomo agonizzante. Anzi, lo spettacolo della fragilità umana, di un corpo privo di forze, scosso dai rantoli può essere sentito terrificante! Ma quelli sono anche gli ultimi momenti, gli ultimi gesti, gli ultimi sguardi, magari gli ultimi sorrisi di una persona con cui abbiamo condiviso un percorso di vita. E questo è di importanza straordinaria. Il cristiano poi, potrebbe affrontare questo compito autorizzandosi a una parafrasi certamente legittima di Matteo 25,35-36: "Ero morente, e mi siete stati accanto" .

[1] Cf. M.-G. de Klopstein, Aaompagner les malades, Les Éditions de l'Atelier-Editions Ouvrières, Paris 2000; A. Brusco, La relazione pastorale di aiuto. Camminare insieme, Edizioni Camilliane, Torino 1993.
[2] Cf. R. Buckman, Cosa dire? Dialogo con il malato grave, Edizioni Camilliane, Torino 1990.
[3] Cf. G. Piret, "Les émotions et l'accompagnement des malades", in Vie consacrée 2 (1997), pp. 112-117.
[4] Per una esposizione più ampia e dettagliata del nostro tema rinvio ad altri miei contributi: L. Manicardi, "Il malato e gli altri. Riflessioni sulla visita al malato", in Parola, Spirito e Vita 2 (1999), pp. 183-200; Id., "La visita al malato nella sacra Scrittura", in Camillianum II (2004), pp. 363-372; Id., "Visitare i malati: approccio biblico", in Firmana 2-3 (2005), pp. 79-88.
[5] Cf. D. Casera, s.v. "Visita al malato", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, pp. 1377-1381.
[6] Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere, pp. 179-194.
[7] Cf. I. Schinella, "Condivisione della verità all' ammalato", in Rassegna di teologia 5 (1990), pp. 487-501; cf. anche C. Iandolo, Parlare col malato. Tecnica, arte ed errori della comunicazione, Armando, Roma 1993, pp. 171-183.
[8] Cf. M. Faggioni, S.v. "Verità al malato", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, pp. 1351-1360.
[9] Cf. E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano 1999, pp. 117-120 (sulla preghiera di intercessione).
[10] D. Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 19798, pp. 127-128.
[11] Cf. O. F. A. Meinardus, Monks and Monasteries of the Egyptian Deserts, The American University in Cairo Press, Cairo 1992, p. 105.
[12] Cf. N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1985.
[13] Cf. M. Abiven, P. Baudry, B. Cassaigne, O. de Dinechin, M. Domergue, M. Tavernier, X. Thévenot, J. Trublet, P. Verspieren, Avec celui qui meurt, Assas, Paris 1992. Il testo contiene la dichiarazione dei vescovi francesi Respecter l'homme proche de sa mort. [14] Cf. D. Hons, "Maladie grave et fin de vie. Réflexions sur la souffrance et son accompagnement", in Nouvelle Revue Théologique 2 (1997), pp. 252-255.
[15] Cf. M. de Hennezel, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 1998.
[16] Cf. Ead., La dolce morte, Sonzogno, Milano 2002.

LINGUAGGI
Guarire con la solidarietà
La parabola evangelica del buon samaritano consente di riflettere sul rapporto tra solidarietà e guarigione. Si tratta di un testo molto noto e che proprio per questo necessita di una lettura rinnovata, forse inedita, per manifestare tutte le sue potenzialità (1) .
La parabola del buon samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell' altro è appello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà. È importante cogliere la parabola vera e propria (cf. Lc 10,30-35) in continuità con il breve dialogo tra il dottore della legge e Gesù che la precede (cf. vv. 25-29): si vedrà così che la parabola è la narrazione con cui Gesù insegna la vera solidarietà al dottore della legge che gli pone la domanda simbolo della non responsabilità e della non solidarietà: "Chi è il mio prossimo?". In particolare Gesù invita il dottore della legge a passare dal sapere al fare: egli risponde bene, rettamente, in modo ortodosso (orth6s: v. 28) alla domanda postagli da Gesù (cf. Lc 10,26-27), ma sembra non arrivare a fare il legame tra sapere e fare, tra conoscenza delle Scritture e sofferenza dell'uomo, tra corpo delle Scritture e corpo dell'uomo ferito, tra spirito e mano. Non arriva ad amare realmente e dunque a compiere la Scrittura. Capiamo così l'ammonimento ripetuto due
 volte: "Fa questo e vivrai!". (Lc 10,28); "Va' e anche tu fa' lo stesso" (Lc 10,37). Gesù insegna che la solidarietà è un reale farsi prossimo all'altro nella sua sofferenza: la solidarietà, dunque, come arte della vicinanza, della presenza all'altro nel suo bisogno.
Ora, il sacerdote e il levita vedono l'uomo ferito, quasi morto, ma passano dall' altra parte della strada: perché? Perché questo rifiuto della solidarietà? Forse per non contrarre impurità con un quasi-cadavere, ma certamente vi è qualcosa di più radicale e che anche noi sperimentiamo: l'uomo malato, ferito o morente può farci paura. E allora noi capiamo che per entrare nella vera compassione che sfocia poi nella solidarietà non basta vedere l'uomo ferito, ma occorre vedere anche le proprie resistenze alla compassione, vedere la propria vulnerabilità, riconoscere che compassione e solidarietà suscitano in noi anche rifiuto e ripugnanza. Non è da escludere che la presenza dell'uomo ferito sia sentita come una vera e propria scocciatura che riempie di collera sacerdote e levita: perché costui è là a interrompere il mio cammino, i miei ritmi già prefissati e pacifici? N asce in me la volontà di escluderlo dal mio orizzonte perché mi infastidisce: allora passo dall'altra parte della strada.
Io credo che per leggere onestamente questa parabola dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita, e che i tre personaggi sono tre momenti dell'unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi, per arrivare alla vera solidarietà, siamo chiamati a riconoscere le opposizioni alla solidarietà e alla compassione che ci abitano. Anche noi, per incontrare il sofferente dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo, e averne compassione.
E forse dovremmo cercare di guardare la scena della nostra parabola mettendoci nei panni dell'uomo ferito. Si entrerebbe in un' altra visione del mondo e si potrebbe entrare nella storia di quest'uomo che conosce quattro tappe:
1. È un uomo normale, come me, come tutti, che sta facendo la sua strada (v. 30a).
2. L'inatteso rende quest'uomo sventurato, quasi morto, a causa della violenza. Costui diviene uomo picchiato, ferito, rapinato, maltrattato, condotto a un passo dalla morte (v. 30b).
3. Davanti al sacerdote e al levita quest'uomo diviene l'uomo di cui non ci si prende cura, che patisce l'indifferenza omicida: sperimenta di essere un nulla, uno da evitare (vv. 31-32).
4. Davanti al samaritano diviene l'uomo aiutato, soccorso, che conosce chi si prende gratuitamente cura di lui, diviene colui che sperimenta la compassione dell'altro (vv. 33-35).
Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po' in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: "Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia". Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un'unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura che impedisce di cogliere quella di chi è impotente, in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all'altro sofferente è la paura dell'isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all' altro e diventare presenza nella sua solitudine. Scrive Emmanuel Lévinas:
Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all' altro, l'invocazione all'altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all' altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell' altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell' altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità (2).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere la compassione è attitudine essenziale. È l'attitudine del samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione (esplanchnisthe)" (Lc 10,33) e fece divenire responsabilità e solidarietà la compassione. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell'uomo, nel suo intimo, ed evitare di ridursi ad attivismo per cui si fanno tante cose per gli altri, ma si fallisce l'incontro con la persona che il bisognoso è, e non si cambia nulla in se stessi. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta, e la solidarietà testimonia che ogni uomo è un fratello e che io ne ho una responsabilità. Il samaritano manifesta la sua responsabilità facendo tanto per quell'uomo; due serie di sette verbi (nel testo greco) dicono la totalità dell'impegno del samaritano: ha fatto tutto quello che poteva. E la doppia ricorrenza del verbo epimélomai (vv. 34-35) dice a cosa tende la compassione che rende l'uomo solidale con l'altro uomo:prendersi cura dell' altro uomo.
Un'ultima suggestione: il dialogo tra Gesù e il dottore della legge verteva sull' amare il prossimo. La parabola mostra che il samaritano è colui che si è fatto prossimo all'uomo ferito: lui è il prossimo. Colui che ama il prossimo allora è forse il ferito che, nella sua assoluta impotenza, concede all' altro l'occasione di divenire se stesso, di farsi umano a immagine di Dio, di divenire compassionevole come Dio è compassionevole. Non abbiamo qui la rivelazione velata dell'amore universale che dal crocifisso morente e impotente scende su ogni uomo? Non abbiamo qui l'esperienza che spesso facciamo quando diciamo che stando accanto a un malato o a un morente scopriamo che è più ciò che lui ha dato a noi che non il contrario?
Non abbiamo qui forse il sacramento della potenza della debolezza? Non abbiamo qui forse lo svelamento del fatto che colui che ha vissuto la solidarietà in modo radicale è il Signore Gesù Cristo nel suo farsi uomo, fino alla condizione dello schiavo, fino alla morte di croce, fino a condividere l'impotenza e gli inferi dell'uomo?
La compassione
Scenario: un campo allestito da Médecins sans frontières al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l'arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emotivi: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere. Di fronte a una giovane donna sventrata la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c'è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. E di morire così due volte. "Accompagnando la solitudine dell' essere vivente fino all' estremo limite in cui è possibile tenergli compagnia, Daniel ha abolito la solitudine di questa donna morente e, nello stesso tempo, ora lo so con certezza, la solitudine umana universale, per un istante". Questa la testimonianza di Xavier Emmanuelli nel suo libroPrélude à la symphonie du nouveau monde (3)E questa a me sembra la più plastica e drammatica espressione della compassione. Non a caso simile a quelle rappresentazioni, diffuse in occidente tra il XIII e il XVII secolo, tendenti a raffigurare la compassione del Padre e chiamate "trono di grazia" (il Padre, assiso, sostiene la croce cui è appeso il Figlio) o "la pietà del Padre" (il Padre sostiene il corpo morto del Figlio) (4).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere, la compassione è attitudine essenziale. Dal punto di vista teologico la Bibbia attribuisce la compassione anzitutto a Dio e ne fa l'elemento in base al quale Dio "vede" la sofferenza del popolo e si appresta a intervenire in suo favore (cf. Es 2,23-25; 3,7-8); Cristo poi, appare nei vangeli come narrazione e personificazione della compassione di Dio, ben espressa nell' atteggiamento del buon samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione" (Lc 10,33). Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell' altro, il samaritano è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso. La compassione non è solamente un sentimento che si impone al cuore dell'uomo, ma diviene scelta, responsabilità. Essa è risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell'uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte; è il no radicale all'indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell'altro uomo. La compassione, facendo della sofferenza una sofferenza per l'altro, spezza l'isolamento in cui l'eccesso di sofferenza rischia di rinchiudere l'uomo. L'impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l'umanità dell'uomo che riconosce l'altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell'incontro con l'altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. Il gesto di compassione del medico ricordato sopra è costituito da una vicinanza fisica fatta di tenerezza e delicatezza (che trasmette calore al corpo sofferente), da parole pronunciate (che esprimono una comunicazione, danno senso e instaurano una vicinanza comunionale), da una presenza che rimane accanto (e non abbandona chi se ne va). Certo, la compassione nasce in chi accetta di lasciarsi ferire e colpire dalla sofferenza dell' altro, sicché solo chi riconosce la propria vulnerabilità sa aprirsi alla sofferenza altrui. Scrive Emmanuel Lévinas: "Solo un io vulnerabile può amare il prossimo" (5). E di fronte al malato per cui non c'è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, parlandogli, esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? Scrive Agostino: "lo non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l'alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri" (6). Sì, nella compassione vi è la rivelazione di qualcosa che è profondamente umano e autenticamente divino.
Perdonare per guarire
Perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subito. Fare anche del male ricevuto l'occasione di un dono. Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di chi ha commesso il male: il perdono perdona ciò che non è scusabile, ciò che è ingiustificabile - il male commesso - e che tale resta (7). Il perdono non toglie l'irreversibilità del male subito, ma lo assume come passato e, facendo prevalere un rapporto di grazia su un rapporto di giustizia, crea le premesse di un rinnovamento della relazione tra offensore e offeso. Il perdono pertanto si oppone alla dimenticanza (si può perdonare solo ciò che non è stato dimenticato) e suppone un lavoro della memoria. Il ricordo del male subito apre la via al perdono nella misura in cui elabora il senso del male subito: noi uomini non siamo infatti responsabili dell' esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente (e magari nell'infanzia o comunque in situazioni di assoluta nostra impotenza a difenderci e magari da persone da cui avremmo dovuto aspettarci solo bene e amore), ma siamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito (8). Il lavoro del ricordo che sfocia nel perdono può così liberare l'offeso dalla coazione a ripetere che lo potrebbe portare a riprodurre e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito (9). Dietro all'atto con cui una persona perdona vi è già la guarigione della memoria: non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell' ombra lunga del male subito, ostaggi del proprio passato. Al tempo stesso il perdono implica un "lasciar andare", uno spezzare non certo il ricordo, ma il debito contratto da chi ha commesso il male. In questo si coglie l'essenza del per-dono come dono sovrabbondante (10). L'atto del perdono si mostra così capace di guarire non solo l'offensore, ma anche l'offeso: il perdono "è la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata" (11), agisce in maniera gratuita, non condizionata dall'atto che l'ha provocato, e quindi libera dalle conseguenze del male sia colui che l'ha commesso, sia colui che l'ha subito. Il perdono, mentre libera l'offensore dal debito contratto facendo il male, libera anche l'offeso dal rischio di vivere i suoi giorni in ostaggio del male subito un tempo.
Certo, il cammino del perdono è lungo e faticoso (12).
Per non darla vinta al male che abbiamo subito e che potrebbe continuare a legarci a sé impedendoci di proiettarci nel futuro, occorre anzitutto, come primo passo, rinunciare alla volontà di vendicarsi, di compiere ritorsioni. Cedere a questa tentazione equivarrebbe a entrare nella spirale del male da cui si vuole uscire!
Quindi occorre riconoscere che si soffre per il male subito, riconoscere la propria ferita e la propria povertà. Ovvero si tratta di riconoscere che il male subito ci ha tolto quell'integrità che avremmo potuto avere e ci ha resi diversi, più vulnerabili perché vulnerati, più poveri perché abbiamo perso irrimediabilmente qualcosa. Il male subito ha realmente ucciso una parte di noi, una possibilità di vita che avremmo avuto se... non fosse successo quello che è successo.
Essenziale nel cammino di guarigione dal male subito è allora il poter condividere con qualcuno la propria sofferenza. Raccontare la propria sofferenza a chi
 sa ascoltare con amore e partecipazione significa essere liberati da quella penosa sensazione di assoluta solitudine che chi ha subito il male nutre in sé: egli infatti vede che il peso della propria sofferenza è condiviso da un altro. Può iniziare così un processo di riconciliazione con l'immagine dell'altro che non è sequestrata unilateralmente dalla dimensione odiosa e negativa dell'offensore. A questo punto l'altro rappresenta anche un volto amico, accogliente e affidabile.
Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male subito: solo così si può farne il lutto e assumerne la perdita. Vi sono infatti dei mali subiti che noi rimuoviamo impedendoci di guardarli in faccia e di accettarli. Ma così ne restiamo succubi. È anche importante, in questo itinerario verso il perdono, dare alla collera il permesso di esistere in noi, accettare il fatto che noi vorremmo ripagare l'altro con la stessa moneta. Ed è importante poterla esprimere, tale collera. Del resto, perdonare non è naturale, ma a noi è molto più facile la ritorsione, la ripicca.
Ulteriore tappa è quella del necessario perdono a se stessi. Spesso il male subito, soprattutto se da persone amate e vicine, produce in noi sensi di colpa che rischiano di paralizzarci e di schiavizzarci: non ci si perdona di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di essersi messi in situazioni che si sono rivelate a cielo chiuso, di avere pazientato troppo a lungo in situazioni difficili fino a subirle supinamente... Un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilia con sé, sarà difficile farlo con l'altro.
Allora si potrà anche comprendere il proprio offensore, comprendere non nel senso di scusare, ma di
 guardarlo come un essere umano e un figlio di Dio: allora si aprirà la strada al perdono come atto in cui ritrovo colui che è già mio fratello, ma che il male ha allontanato da me.
Tappa ulteriore sarà di trovare un senso al male ricevuto: se i fatti passati sono incancellabili, il senso di quanto è avvenuto (si tratti di male subito o inferto) non è già dato o fissato una volta per tutte. Nei racconti della Genesi, Giuseppe trova un senso salvifico al male che ha subito tempo addietro da parte dei suoi fratelli (cf. Gen 45,4-8; 50,20). Per il cristiano questa è una tappa che innesta il perdono nella dinamica pasquale. Nel perdono il male non ha l'ultima parola, la morte non vince sulla vita, l'amore ha la meglio sul male e la riconciliazione può subentrare alla fine della relazione.
Ma poi, in questo cammino, è fondamentale riscoprire perdonati noi stessi, perdonati da Dio in Cristo, e questo farà sì che l'atto di perdono che si compirà non sarà tanto (o soltanto) un atto di volontà, ma l'apertura al dono di grazia del Signore.
Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato. Ma una volta accordato (con quella forza performativa che ha l'espressione "io ti perdono") non sappiamo come esso agirà nel cuore e nella mente dell'offensore che oramai è perdonato.
E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato ("può", non "deve": a grandezza e perdono consiste nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla mi assicura che esso cambierà il cuore di colui che ha fatto il male né che costui cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dell' evento pasquale, dello scandalo e del paradosso della croce. Anche sulla croce la potenza di Dio si manifesta nella debolezza estrema del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l'unilateralità di un amore asimmetrico che è l'unica via per aprire a tutti la strada della salvezza. Riflesso dell' evento pasquale, il perdono cristiano non si colloca sul piano etico, ma su quello escatologico: là dove c'è perdono c'è lo Spirito di Dio, c'è Dio che regna e Cristo si rende presente.
Il linguaggio delle lacrime
Spesso il pianto è compagno della sofferenza. Ma la polivalenza semantica del pianto lo rende un linguaggio estremamente misterioso e articolato, che merita un approfondimento.
"Il paese delle lacrime è così misterioso", fa dire Antoine de Saint-Exupéry al suo piccolo principe (13). Ma il pianto è anche quanto di più noto e sperimentato vi possa essere tra gli uomini: è una caratteristica umana tipica e universale, un' espressione specifica dell'umanità (14). Noi nasciamo con la capacità di piangere, dotati di questa abilità, eppure sappiamo ben poco sul pianto: perché piangiamo? Perché esprimiamo con questo medesimo linguaggio emozionale sia gioia che dolore? Associamo il pianto a situazioni di sofferenza, ma siamo disposti ad affermare che piangendo ci sentiamo meglio, che le lacrime producono un benefico sfogo di emozioni represse e che hanno un valore catartico: "Le lacrime danno sollievo all'anima" (15). Spesso espressione di angoscia, esse producono anche un piacere fisico. Forse, più ancora che a uno sfogo, le lacrime sono tese a un ri-orientamento delle emozioni. Esse fanno spostare la nostra attenzione dalla mente al corpo e così sciolgono il dolore psicologico.
Dal punto di vista fisiologico si distinguono tre tipi di lacrime: basali, riflesse e psicologiche o emotive. Le lacrime basali costituiscono il velo permanente che lubrifica gli occhi; le lacrime riflesse sono quelle che sgorgano, ad esempio, quando si tagliano le cipolle; le lacrime psicologiche esprimono uno stato d'animo e da esso traggono origine. Queste lacrime sono diverse per funzione e per composizione: contengono infatti concentrazioni diverse di sostanze chimiche, ormoni e proteine; le lacrime emotive presentano una più elevata concentrazione di proteine rispetto a quelle riflesse. Descritte da fisiologi e oftalmologi come una sorta di sandwich fluido, con uno strato interno di mucina a contatto con la superficie dell'occhio, uno strato acquoso intermedio e uno esterno composto da oli che
 impediscono alle lacrime di evaporare troppo rapidamente, esse sono "composite", miste, plurivalenti, anche a livello espressivo: angoscia e gioia, compassione e autocommiserazione, sincerità e falsità, amore e paura... "Le lacrime non sono mai solo e semplicemente un segno di piacere, sofferenza, sincerità, doppiezza, paura o eroismo. Non esistono lacrime pure" (16).
Se spesso il pianto è individuale e nascosto, abbiamo poi gli usi culturali e rituali, religiosi e sacrali, sociali e pubblici del pianto. Insomma, il pianto è un linguaggio, le lacrime sono parole non verbali, sono una forma di comunicazione. Interessante, da questo punto di vista, la tesi di chi ritiene che la vocalizzazione evolutivamente più antica sia il pianto di separazione: poiché i primi mammiferi erano nottambuli abitatori delle foreste, questo pianto serviva ai genitori per ritrovare la prole dispersa e, più in generale, alla comunicazione interna al gruppo. Il pianto davanti a un' altra persona mira a suscitare una sua reazione, esprime una richiesta di attenzione. Con il pianto cerchiamo di trasformare in sostegno la negatività degli altri: chi assiste al pianto altrui si sente colpito da tale esternazione di vulnerabilità e normalmente tende a farsi vicino, a consolare, a confortare. Le fragili e quasi evanescenti lacrime hanno un grande potere! Il pianto è un mezzo usato dagli umani per restare in contatto tra di loro. Lo stesso pianto infantile non esprime solo il bisogno che chiede di essere soddisfatto, ma tende anche a creare un legame tra il piccolo e i genitori.
Il pianto poi non sempre è di facile o univoca interpretazione: di fronte a chi piange spesso siamo in imbarazzo (e cerchiamo parole e, soprattutto, gesti, che siano adeguati alla pregnanza del linguaggio di pianto dell' altro) e tentiamo di interpretare le sue lacrime. Lelacrime svelano un aspetto dell'anima, e quasi la mettono a nudo. Esse sono l'eloquenza discreta dell'anima, il linguaggio del cuore. Sono la parte visibile, per quanto tremula e trasparente, del nostro desiderio. Esse uniscono mirabilmente interiorità ed esteriorità, corpo e anima. "Le lacrime consumano la loro vita fuori dal corpo, testimoniando al suo esterno la sua più autentica interiorità" (17). Sono la visibilità dell'invisibile. Questa loro tipicità le rende un linguaggio spesso sentito come più autentico e profondo delle parole stesse: "Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza" (18); "Grazie alle lacrime io posso vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore empatico che riceve il messaggio 'più vero': quello del mio corpo e non già quello della mia lingua" (19). Lelacrime ci dicono qualcosa sulla sapienza del corpo esprimendo una dimensione della verità insita nel corpo che le parole e il discorso concettuale non sanno manifestare. Del resto, il pianto si verifica spesso quando meno siamo capaci di verbalizzare adeguatamente emozioni complesse e travolgenti: esso sa dare voce a una miscela di stati d'animo contrastanti.
Come linguaggio comunicativo esso esprime desiderio, aspettativa, preghiera. Nei salmi la preghiera dell'orante è spesso accompagnata dalle lacrime, tanto nella malattia ("Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore ... Il Signore ascolta la voce del mio pianto": Sal 6, 7-9; "Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo le lacrime": Sal 102, 10), quanto in altre situazioni difficili (cf. Sal 39,13; 42,4; 80,6). Il pianto, sempre effuso dal salmista "davanti al volto del Signore" (Sal 142,3), è così una preghiera che il Signore gradisce e ascolta: "Hai contato i passi del mio vagare, hai raccolto le mie lacrime in un vaso" (Sal 56,9). Nella tradizione ebraica le lacrime sono sentite come linguaggio di preghiera più potente ed efficace della preghiera silenziosa e del grido. Le lacrime cadono a terra, ma la loro efficacia sale al cielo: in un certo senso esse cadono verso l'alto; le lacrime sono la terra che irrora il cielo (20).
Si comprende che le lacrime abbiano potuto acquisire un'importanza straordinaria nella tradizione spirituale cristiana sia d'oriente che d' occidente (21). Esse manifestano la sincerità del pentimento e della compunzione di colui che sa riconoscere i propri peccati davanti al Signore: chi prega con lacrime viene sentito essere simile a chi si getta ai piedi del Signore e gli chiede pietà, come quella prostituta che in poco tempo lavò con le sue lacrime tutti i suoi peccati (cf. Lc 7,36-50). Il testo evangelico suggerisce che le lacrime in questo caso sono linguaggio che esprime amore. Le lacrime per i propri peccati divengono invocazione di purificazione e non a caso esse sono viste addirittura come rinnovamento (non sostituzione!) del lavacro battesimale. Gregorio di Nazianzo parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico di Mosè, avvenuto nell'acqua del mar Rosso (cf. 1Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito santo e quello dei martiri che avviene nel sangue (e che anche Cristo ha conosciuto). Un detto di un anziano afferma: "Ogni opera buona che l'uomo può fare è fuori del corpo, mentre colui che piange purifica anima e corpo; le lacrime infatti lavano il corpo e lo santificano". Le lacrime sono state sentite presto come un dono (tò chdrisma ton dakryon; gratia lacrimarum) e invocate esse stesse, nella convinzione che esse "conducano alle soglie della regione misteriosa" (lsacco di Ninive). In effetti il pianto che accompagna la preghiera non è semplicemente dovuto al ricordo dei propri peccati commessi e al pentimento, ma anche alla compassione di chi vede le sofferenze da cui altri sono schiacciati, al dolore provocato dalla visione della durezza di cuore e indifferenza di altre persone, al desiderio della comunione con il Signore, alla percezione nella fede della visita del Verbo durante la pratica dell' ascolto della parola di Dio nella lectio divina (e si tratta allora di lacrime gioiose e dolci), al timore del giudizio... La preghiera accompagnata da lacrime opera quella purificazione del cuore che consente al credente di "vedere Dio" (Mt 5,8), di esperirne, nella fede, la presenza: "Bisogna sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime" (22). Preghiera esse stesse, le lacrime appaiono anche come condizione di veridicità della preghiera e sono implorate. La preghiera è "la madre e anche la figlia delle lacrime" (Giovanni Climaco). Un oremus della liturgia cattolica romana precedente la riforma liturgica chiedeva cosi il dono delle lacrime: "Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fontana d'acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione, affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, il perdono".
Linguaggio silenzioso ed eloquente, materia dell'anima e trasparenza del corpo, le lacrime esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore cosi come l'angoscia per la distanza dell'uomo da Dio. E in tal modo dicono qualcosa circa il mistero dell'uomo e della sua relazione con Dio.
Paradossalmente, le lacrime invocano anche la propria fine. Come noi sperimentiamo la fine dei nostri pianti, cosi la rivelazione biblica profetizza la fine del pianto con l'immagine del Dio che, nella Gerusalemme celeste, asciugherà le lacrime da ogni volto. L'Apocalisse spera la fine del pianto e la morte della morte: "Non ci sarà più morte, né lutto, né affanno ... Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 2 I ,4). La nostra personale storia e la storia dell'umanità intera sono spesso storie scritte dalle lacrime, da pianti sommessi o disperati, irrefrenabili o contenuti, pianti che sono una pressante richiesta a Dio perché consoli, faccia giustizia, risani le ferite, mostri il suo volto, instauri per sempre e per tutti il suo Regno di pace e giustizia. Le lacrime versate davanti a Dio invocano: "Venga il tuo Regno!".
La collera
Spesso, nella malattia o di fronte a eventi che mettono in crisi e fanno soffrire, l'uomo vede crescere in sé la collera e sente il bisogno di manifestarla. Essa è una maniera importante e vitale di espressione dell'uomo nella sofferenza. Ma spesso essa viene repressa, trattenuta perché sentita come peccaminosa e degna di biasimo. Anche chi è vicino al sofferente cerca di zittire la sua collera, sicché il potenziale vitale insito in essa rischia di andare perduto.
Ora, la collera è un'emozione (23). Come tale essa non è né buona né cattiva. Eppure nella nostra tradizione culturale e religiosa l'ira gode di cattiva fama. Perché? Perché viene spesso equiparata tout court alla violenza, perché viene sentita come incompatibile con l'amore, perché è ritenuta sconveniente da una tradizione culturale che fin dalla più antica trattatistica filosofico-morale l'ha considerata una passione, attribuendola alla parte irrazionale dell' anima, perché è elencata tra i vizi capitali nella tradizione cristiana (24).
Eppure per la tradizione biblica la collera è ambivalente. Può certamente essere peccaminosa, ma anche santa. Gesù è modello di mitezza e dolcezza (cf. Mt 11,29), ma è anche colui che, "fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi" (Gv 2,15), è colui che guarda "con ira" (Mc 3,5) coloro che stavano a vedere se avesse guarito un uomo malato in giorno di sabato per poterlo poi accusare, è colui che si adira con i discepoli che impediscono ai bambini di avvicinarsi a lui (cf. Mc 10,14) e rivolge loro parole di fuoco (cf. Mc 8,17-21), così come rivolge espressioni traversate dall'ira profetica nei confronti di ipocriti e menzogneri (cf. Mt 23,13-36).
Il problema non è dunque l'andare in collera in quanto tale, ma che uso fare della collera, come esprimerla, e che cosa essa rivela di colui che si è adirato. Scrive Agostino: "Nella nostra dottrina si chiede all'anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l'oggetto della sua paura" (25). La collera, infatti, è rivelatrice di nostre vulnerabilità: essa ci consente di conoscerci. Perché una determinata situazione o un certo gesto o atteggiamento o parola di un altro hanno suscitato collera in me? Che cosa dice, su di me, la mia collera? Queste domande ci mostreranno che la collera traduce ed esprime essenzialmente il senso di invasione del nostro territorio (simbolico) da parte di un altro, oppure la nostra paura di non essere
riconosciuti, rispettati, compresi, oppure il nostro stato di fatica e di stress.
Ovviamente è poi fondamentale il modo di espressione della collera: se la collera non è addomesticata, se il soggetto non assume la responsabilità delle proprie emozioni e dunque della collera, essa può esplodere con quella violenza che si manifesta sia a parole che con gesti, e può uccidere. Di certo, è importante che essa trovi vie di espressione. La collera repressa può essere ancor più mortifera di quella espressa. Scrive Gregorio Magno:
In certi casi l'ira impone all' animo agitato di non parlare e quanto meno si esprime fuori, tanto più brucia dentro e non rivolge la parola al prossimo, e così, con il non parlargli, gli dice quanto non lo possa vedere ... Può darsi che con l'andar del tempo l'animo irato perda completamente l'amore del prossimo... Spesso l'ira chiusa nell'animo con il silenzio ribolle con più veemenza e, pur senza parlare, forma voci violente ... Così avviene che l'animo turbato sente più grande strepito nel suo silenzio e la fiamma dell'ira chiusa in cuore lo consuma ancor di più (26).
Il primo omicidio, secondo la Bibbia, nasce proprio da una collera repressa, taciuta, rimossa. "Caino fu molto irritato" (letteralmente "a Caino bruciò molto": Gen 4,5), ma egli non dà parola alla sua collera e non risponde a Dio che lo invita al dialogo (cf. Gen 4,6-8). Così la collera, coltivata e nutrita interiormente, diviene rancore, odio, e l'odio è capace di fare a freddo ciò che la collera potrebbe fare solo a caldo. E Caino uccide Abele. Il testo biblico esprime molto bene sia il fatto che la collera è molto visibile e si manifesta a livello somatico ("Il volto di Caino fu abbattuto": Gen 4,5), sia il fatto che la collera ha a che fare con la relazione con l'altro, con la capacità o meno di reggere il faccia a faccia. O perché ha il volto abbattuto, rivolto a terra, o perché innalza il proprio volto al di sopra di suo fratello, Caino sempre sfugge all'incontro faccia a faccia con Abele e il non-incontro diviene omicidio: "Caino si innalzò contro Abele, suo fratello, e lo uccise" (Gen 4,8) (27). Di certo, vi è una collera incontrollata che disumanizza l'uomo rendendolo simile a una bestia: la collera sfigura l'uomo e il parossismo dell'ira rende l'uomo tanto spaventoso quanto ridicolo. La descrizione dell'iracondo fatta da Giovanni Crisostomo porta al suo acme il topos per cui chi va in collera si fa simile alle bestie:
Non può certo chiamare Dio Padre buono chi ha un animo selvaggio e disumano, chi non conserva i segni e le caratteristiche di quella bontà che è del Padre celeste, ma, allontanandosi dalla divina nobiltà, trasforma il suo aspetto in quello di una bestia. Se uno salta come un toro, scalcia come un asino, conserva nella memoria il male ricevuto come un cammello. È goloso come un orso, è arrabbiato come un lupo, ferisce come uno scorpione, è subdolo come una volpe e nitrisce come un cavallo pazzo d'amore alla vista delle femmine, come può far salire al cielo una voce degna della sua natura di figlio e chiamare Dio Padre? Come si può definire un essere simile? Una bestia? Ma le bestie sono preda di uno solo di questi vizi, lui invece li concentra tutti in se stesso ed è più stolto della loro stoltezza (28).
Soprattutto, un momento di collera può rovinare il bene costruito in tanto tempo e con infinita pazienza.
Tuttavia la Scrittura e la tradizione parlano anche di una santa collera, di una collera-virtù, di "una collera che nasce dallo zelo e che è una virtù" (29). Come definire una santa collera? Che cosa rende santa la collera (30)?
È santa la collera che tiene in contatto con Dio o con l'altro uomo. La collera di Giobbe esprime la sua volontà di non fare a meno di Dio, di non staccarsi da lui; essa lo mette in un rapporto di opposizione talmente personale con Dio che non può certo accontentarsi di spiegazioni di seconda mano. Rischio della collera è quello di condurmi a troncare la relazione con la persona con cui sono adirato: non esprimo la collera, ma faccio come se l'altro non esistesse più, ne faccio un lutto anticipato.
È santa la collera che non si arroga il diritto di fare vendetta dando così il via a una spirale di violenze e ritorsioni senza fine.
È santa la collera che non ha in se stessa il proprio fine, ma tende a ritrovare la pienezza della relazione con l'altro.
È santa la collera che si accende di fronte all'ingiustizia, all' oppressione, alla violenza perpetrata dai prepotenti. Ed è santa la collera che mi separa da situazioni di violenza subita che rischierebbero di trascinarmi nella confusione e nell'informe e che mi separa da persone che mi manipolano e mi usano.
È santa la collera che si dà un limite: "Adiratevi, ma non peccate. Non tramonti il sole sopra la vostra ira" (Ef 4,26).
È santa la collera che si scaglia contro immagini colpevolizzanti o distorte di Dio e che rompe con sistemi ideologici o religiosi che contraddicono l'umano, come fa Giobbe che rifiuta il principio della retribuzione.
È santa la collera che tende alla purificazione del cuore: si tratta, secondo la tradizione ascetica cristiana, di rivolgere la collera contro ciò che Satana ha seminato nel cuore umano. Così la collera diventa fattore importante di purifica zio ne del cuore in quanto mobilita tutte le energie della persona nella lotta contro il Tentatore.
Quest'ultima espressione ci porta a considerare le modalità di terapia, o meglio, di buon uso della collera. Si tratta cioè di recuperare l'energia vitale nascosta nella collera.
Indirizzare la collera contro i cattivi pensieri: "Durante la tentazione non metterti a pregare prima di aver pronunciato, con collera, alcune parole contro il tuo tentatore ... Se rivolgerai ai demoni qualche espressione irosa, renderai vani i progetti dei tuoi avversari" (31). La collera rientra così nella lotta spirituale.
Cercare la riconciliazione prima di coricarsi, come sta scritto nella Lettera agli Efesini 4,26: "Il sole non tramonti sulla vostra ira".
Imporsi il silenzio, non reagire a caldo, ma prendere una distanza fra la causa scatenante la collera e la reaZlOne.
Mettersi al posto dell' altro. Scrive Seneca:
Non c'è nessuno che sappia dire a se stesso: "Questa cosa che mi fa adirare o l'ho fatta anch'io o l'avrei potuta fare"; nessuno valuta l'intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall'odio o dalla mira di un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s'è messa a disposizione di altri. Mettiamoci al posto di chi ci fa adirare e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare (32).
Esprimere in modo non violento la collera. Se io dico all'altro '~tu sei pazzo", "tu sei stupido" (cf. Mt 5,22), lo uccido. Sono molto diversi i due seguenti modi di espressione della collera dovuta, ad esempio, al ritardo a un appuntamento tra due amici: "Quando ti aspetto mezz' ora rispetto all' ora convenuta, vado in collera perché nelle relazioni io ho bisogno di fiducia. Mi piacerebbe ora che tu mi dicessi come ti senti ascoltando queste mie parole"; "Quando tu mi fai aspettare mezz'ora rispetto all'ora convenuta mi fai arrabbiare e io esigo che tu sia puntuale la prossima volta, altrimenti non sei più mio amico" (33).
Esercitarsi alla dolcezza e all'umiltà. De-idealizzare gli altri: le visioni idealizzate degli altri nutrono aspettative che possono poi, una volta deluse, suscitare collera.
Non abusare di eccitanti (caffè, alcol) e fuggire anche il rumore, che può eccitare l'aggressività.
Pregare, praticare la preghiera di Gesù (ripetizione dell'espressione: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore"), e in particolare la salmodia ("Quando sei turbato dalla collera, la tua lingua si muova per la salmodia" (34).
Aiutarsi con esercizi corporali di respirazione (con particolare attenzione al movimento di espirazione) e distendendo il corpo, facendolo rilassare.
Immettersi in un cammino di perdono.



[1] Più dettagliatamente sulla parabola del buon samaritano: L. Manicardi, Il volto del sofferente, Qiqajon, Bose 2004 (Testi di meditazione 119), pp. 14-20; cf. anche J. Delorme, Au risque de la parole. Lire les évangiles, Seuil, Paris 1991, pp. 93-124.
[2] E. Lévinas, "Une étique de la souffrance", in Souffrances. Corps et lime, épreuves partagées, a cura di J.-M. von Kaenel, Autrement, Paris 1994, pp. 133-135.
[3] X. Emmanuelli, J. P. Dautun, Prélude à la symphonie du nouveau monde, Odile Jakob, Paris 1998, pp. 99-123.
[4] Cf. F. Boespflug, "La compassion de Dieu le Père dans l'art occidental (XIII-XVII siècles)", in Le Supplément 172 (1990), pp. 123-159.
[5] E. Lévinas, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 115.
[6] Agostino di Ippona, Lettere 99,2.
[7] Cf. J. Derrida, Perdonare, Cortina, Milano 2004.
[8] Cf. L. Basset, Le pardon originel. De l'abime du mal au pouvoir de pardonner, Labor et Fides, Genève 1994; Ead., Le pouvoir de pardonner, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999; Ead., Guérir du malheur, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999.
[9] Cf. P. Ricoeur, "Il perdono può guarire?", in Hermeneutica (1998), pp. 158-159.
[10] Cf. Le pardon. Briser la dette et l'oubli, a cura di O. Abel, Autrement, Paris 1992.
[11] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 200310, pp.177-178.
[12] Cf. J. Monbourquette, Comment pardonner. Pardonner pour guérir, guérir 
pour pardonner, Novalis-Bayard, Montréal-Paris 2001.
[13] A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1949, p. 38.
[14] Cf. T. Lutz, Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002.
[15] Seneca, citato ibid., p. 95.
[16] Ibid., p. 52.
[17] J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, Medusa, Milano 2001, p. 56.
[18] August Willielm von Schlegel, citato in T. Lutz, Storia delle lacrime, p. 39. 19 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, pp. 160-161.
[20] Cf. J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, pp. 47-52.
[21] Cf. I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la compontion dans l'orient chrétien, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1944, da cui sono tratte le citazioni patristiche che seguono.
[22] Regola di Benedetto 20,3.
[23] Cf. Ch. Derouesné, "La nature d'une émotion", in La colère. Instrument des 
puissants, arme des faibles, a cura di P. Pachet, Autrement, Paris 1997, pp. 75-90.
[24] Cf. P. Pachet, "Un sursaut de l'ètre", ibid., pp. II-65; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000.
[25] Agostino di Ippona, La città di Dio 9,5.
[26] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,79.
[27] Cf. L. Manicardi, "L'omicidio è un fratricidio (Gen 4,1-16)", in Parola, Spirito e Vita 32 (r995), pp. 11-26.
[28] Giovanni Crisostomo, Sull'ira e il furore, PG 63,692.
[29] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,82.
[30] Cf. L. Basset, Sainte colère. Jacob, Job, Jésus, Labor et Fides, Genève 2002.
[31] Evagrio Pontico, Trattato pratico 42.
[32] Seneca, Sull'ira III,12,2-3.
[33] Cf. S. e C. Vidal-Graf, La colère, cette émotion mal-aimée. Exprimer sa colère sans violence, Jouvence, Genève 2002.
[34] Giovanni Damasceno, citato in A. e R. Goettmann, Ces passions qui nous tuent. Diagnostic remèdes, Presses de la renaissance, Paris 1998, p. 154.