lunedì 11 febbraio 2013

I perchè di un gesto umile



Di seguito riporto i commenti di Bruno Forte, Vittorio Messori, Enzo Bianchi e Antonio Spadaro.

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Di seguito l'editoriale pubblicato oggi sul quotidiano Il Sole 24 Ore, in cui monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, riflette sulla notizia della rinuncia al soglio petrino da parte di Benedetto XVI.


È con profonda emozione che ho appreso la notizia della rinuncia di Papa Benedetto XVI al suo servizio di Vescovo di Roma. Avevo avuto la gioia di parlargli giovedì scorso, al termine dell’udienza concessa ai membri del Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti in seduta plenaria. Come sempre era stato squisito, lucidissimo nella memoria e luminoso nell’intelligenza, nel pur breve scambio di parole che avevo avuto con lui. Eppure, non mi aveva sorpreso ascoltare il commento preoccupato di qualcuno dei presenti, Cardinali e Vescovi di varie parti del mondo, colpito dall’impressione di fragilità fisica che il Papa ci aveva dato. Sta proprio in questa paradossale combinazione la chiave di lettura della rinuncia annunciata: da una parte, la coscienza limpida dei propri doveri, delle responsabilità e delle sfide poderose che la Chiesa deve affrontare in questo mondo in così rapida trasformazione; dall’altra, la percezione di una debolezza di forze, che appariva chiaramente impari ai pesi da portare.
Sono toccanti le parole con cui lo stesso Papa ha espresso tutto questo: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”.
Appare in queste espressioni la grandezza dell’uomo spirituale, che tutto considera nella verità davanti a Dio e sceglie infine ciò che è più conforme secondo la sua coscienza al servizio d’amore da rendere. La lucida consapevolezza del compito e la non meno lucida coscienza del degradare delle proprie forze fisiche trovano sintesi in quest’atto di amore a Cristo e alla Chiesa, per cui il Papa rinuncia al servizio pontificale e sceglie la via del silenzio orante e dell’umiltà confessante: “Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio”.
Emerge così in quest’atto, semplice e solenne, storico per la sua portata, anche se non unico nella bimillenaria vicenda della Chiesa Cattolica, quello che è stato il vero motivo ispiratore di questi otto anni di pontificato: la riforma spirituale della Chiesa, alla luce del primato assoluto della fede in Dio. Sorge spontanea l’analogia con Celestino V, il Papa santo, che rinuncia al servizio petrino dopo appena un mese di pontificato perché ritiene di poter meglio servire il popolo di Dio con la preghiera e con l’offerta sacrificale di sé.
È in nome dell’obbedienza a Dio e alla verità che solo gli rende gloria, che Benedetto XVI ha affrontato e governato la dolorosa vicenda degli abusi sessuali, presenti fra alcuni membri del clero specialmente nelle decadi della seconda metà del secolo passato. Convinto della forza della parola di Gesù “la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32), questo Pontefice ha voluto che si facesse piena verità, anzitutto a sostegno delle vittime e poi per intraprendere coraggiosi cammini di purificazione e di rinnovamento. Con la stessa fiducia in Dio Papa Ratzinger ha portato avanti con decisione il suo rapporto di privilegiata amicizia verso il popolo ebraico, la cui fede è santa radice di quella dei cristiani, come pure il dialogo franco e sereno con le grandi religioni universali e in particolare con l’Islam, certo che il Dio unico avrebbe guidato i credenti sinceri sulle vie della pace. In campo ecumenico, la mano tesa alle diverse tradizioni confessionali si è aperta anche a proposte coraggiose verso i seguaci di Mons. Lefebvre, anche qui confidando nell’esigenza di ogni autentico credente di voler piacere a Dio e non ai propri sostenitori mondani.
All’interno della Chiesa cattolica, poi, questo Papa ha promosso la riforma spirituale, insistendo mediante continui e profondi insegnamenti sulla necessità della conversione dei cuori e del rinnovamento dei costumi, premessa indispensabile di ogni possibile rinnovamento strutturale. La riforma, aveva scritto da giovane Professore, “consiste nell’appartenere unicamente e interamente alla fraternità di Gesù Cristo… Rinnovamento è divenire semplici, rivolgersi a quella vera semplicità… che in fondo è un’eco della semplicità del Dio uno. Questo è il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera” (Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303).
L’autentica riforma, voluta da questo Papa, è stata, insomma, quella della conversione evangelica, la sola capace di fare della Chiesa un segno credibile di luce e di speranza per tutti. Sarà dal riconoscimento del primato di Dio confessato e amato che verrà la nuova primavera, di cui il popolo di Dio e gli uomini tutti hanno necessità assoluta. “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia - aveva detto qualche settimana prima di diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo… Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (Subiaco, 1 Aprile 2005).
Con il suo pontificato e, in modo singolare, con quest’atto umile e grande della rinuncia ad esso per amore di Cristo e della Chiesa, Benedetto XVI ha dimostrato - al di là di ogni possibile incomprensione - di essere un uomo così. Ed è grazie a uomini come lui, che - come egli stesso diceva tre giorni fa ai Seminaristi di Roma - “l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo”.  

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I tre perché di un gesto umile
di Vittorio Messori
in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2013
Ci sarà tutto il tempo per analisi, bilanci, previsioni. Oggi, ancora sconcertati, cercheremo solo di
dare una possibile risposta a tre domande che ci sono subito sorte. Innanzitutto: perché, un simile
annuncio, proprio in questo giorno di febbraio? Poi: perché in una riunione di cardinali annunciata
come di routine? Infine: perché il luogo scelto per il ritiro da Papa emerito?
Riflettendoci, dopo la sorpresa quasi brutale tanto è stata imprevista (e per tutti, nella Gerarchia
stessa), mi pare si possano azzardare delle possibili spiegazioni. L'11 febbraio, ricorrenza della
prima apparizione della Vergine a Lourdes, è stata dichiarata dall'«amato e venerato predecessore»,
come sempre lo ha chiamato, Giornata mondiale del malato. Ha detto Ratzinger, nel latino della
breve e sconvolgente dichiarazione: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età
avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Terenzio, e poi
Seneca, Cicerone e tanti altri avevano ricordato mestamente: senectus ipsa est morbus, la vecchiaia
stessa è una malattia. Dunque, è infermo comunque chi, come lui, il prossimo 16 aprile compirà 86
anni. Ha aggiunto, infatti: «Il vigore del corpo e dell'animo negli ultimi mesi in me è diminuito in
modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».
Quale giorno più adeguato, dunque, per prendere atto davanti al mondo della propria infirmitas di
vegliardo di quello dedicato alla Madonna di Lourdes, protettrice dei malati? In fondo, anche in
questo vi è un segno di solidarietà fraterna per tutti coloro che, per morbi o per anni, non possono
più contare sulle proprie forze.
Ma perché (è la seconda domanda) dare l'annuncio, ex abrupto, proprio in un concistoro di cardinali
per decidere la glorificazione dei martiri di Otranto, massacrati dalla furia dei turchi musulmani?
Non crediamo che vi sia qui un qualche richiamo alla violenza di un certo islamismo, attuale ora
come nel XV secolo della strage in Puglia. Crediamo, piuttosto, che in questi mesi Benedetto XVI
abbia meditato sul primo e solo caso di abdicazione formale di un Pontefice nella storia della
Chiesa, quello del 13 dicembre 1294, da parte di Celestino V. Vi erano stati, nei «secoli bui»
dell'Alto Medioevo alcuni casi di rinuncia papale, ma in circostanze oscure e sotto la pressione di
minacce e di violenze. Ma solo Pietro da Morrone, l'eremita strappato a forza alla sua cella ed
elevato al soglio pontificio, abdicò liberamente ed ufficialmente, adducendo anch'egli soprattutto
l'età più che ottuagenaria e la debolezza che ne conseguiva. Prima di compiere l'inedito passo, aveva
consultato discretamente i maggiori canonisti che gli confermarono che la rinuncia era possibile, ma
andava fatta «davanti ad alcuni cardinali». È proprio quanto ha deciso di fare Benedetto XVI, che
non aveva che quel precedente cui rifarsi: precedente del resto, spiritualmente sicuro, in quanto il
buon Pietro fu dichiarato santo dalla Chiesa e non meritava davvero l'accusa di viltade lanciatagli
contro dal ghibellino Dante per sue ragioni politiche. Insomma, in mancanza di altre regole, papa
Ratzinger, sempre rispettoso della tradizione, si è rifatto a quelle stabilite otto secoli fa dal
confratello di cui voleva condividere il destino. Probabilmente, non è casuale anche il fatto che
l'imprevisto annuncio sia stato letto solo in latino, quasi per richiamarsi anche in questo a quel
precedente lontano.
Ma, per venire alla terza domanda, per quale ragione, dopo un breve soggiorno a Castel Gandolfo
(deserto, e dunque disponibile, durante la sede vacante) il già Benedetto XVI si ritirerà in quello che
è stato un monastero di clausura, all'interno delle Mura Vaticane? Questo, almeno, il programma
annunciato dal portavoce, padre Lombardi. Non sappiamo se quella sistemazione sarà definitiva ma,
in ogni caso, neppure questa è una scelta casuale. Dicono le ultime parole dell'annuncio di ieri:
«Anche in futuro vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa
di Dio». Negli anni di pontificato ha ripetuto spesso: «Il cuore della Chiesa non è dove si progetta,
si amministra, si governa, ma è dove si prega». Dunque, il suo servizio alla Catholica non solo
continua ma, nella prospettiva di fede, diventa ancor più rilevante: se non ha scelto un eremo


lontano — magari nella sua Baviera o in quella Montecassino cui aveva pensato papa Wojtyla come
estremo rifugio — è forse per testimoniare, anche con la vicinanza fisica alla tomba di Pietro,
quanto voglia restare accanto a quella Chiesa cui vuole donarsi sino all'ultimo. Né è casuale,
ovviamente, l'aver privilegiato mura impregnate di preghiera come quelle di un monastero di
clausura. Comunque, se la sistemazione in Vaticano sarà stabile, la discrezione proverbiale di
Joseph Ratzinger assicura che non vi sarà alcuna interferenza col governo del successore. Siamo del
tutto certi che rifiuterà pure il ruolo di un «consigliere» carico di anni ma anche di esperienza e di
sapienza, pure se ci dovessero essere richieste esplicite del nuovo Papa regnante. Nella sua
prospettiva di fede, il solo vero «consigliere» del Pontefice è quello Spirito Santo che, sotto le volte
della Sistina, ha puntato su di lui il dito.
Ed è proprio in questa prospettiva religiosa che vi è, forse, risposta a un altro interrogativo: non era
più «cristiano» seguire l'esempio del beato Wojtyla, cioè la resistenza eroica sino alla fine, piuttosto
che quello del pur santo Celestino V? Grazie a Dio, molte sono le storie personali, molti i
temperamenti, i destini, i carismi, i modi per interpretare e vivere il Vangelo. Grande, checché ne
pensi chi non la conosce dall'interno, grande è la libertà cattolica. Molte volte, l'allora cardinale mi
ripeté, nei colloqui che avemmo negli anni, che chi si preoccupa troppo della situazione difficile
della Chiesa (e quando mai non lo è stata?) mostra di non avere capito che essa è di Cristo, è il
corpo stesso di Cristo. A Lui, dunque, tocca dirigerla e, se necessario, salvarla. «Noi — mi diceva
— siamo soltanto, parola di Vangelo, dei servi, per giunta inutili. Non prendiamoci troppo sul serio,
siamo unicamente strumenti e, in più, spesso inefficaci. Non arrovelliamoci, dunque, per le sorti
della Chiesa: facciamo fino in fondo il nostro dovere, al resto deve pensare Lui». C'è anche, forse
soprattutto, questa umiltà, nella decisione di passare la mano: lo strumento sta per esaurirsi, il
Padrone della messe (come ama chiamarlo, con termine evangelico) ha bisogno di nuovi operai, che
vengano dunque, purché consapevoli essi pure di essere solo dei sottoposti. Quanto ai vecchi ormai
estenuati, diano il lavoro più prezioso: l'offerta della sofferenza e l'impegno più efficace. Quello
della preghiera inesausta, attendendo la chiamata alla Casa definitiva.

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Riporto da "La Stampa" di oggi, 12 febbraio 2013
a firma di Enzo Bianchi
Per quasi tutti è stata una sorpresa, per chi lo conosceva anche solo un poco, come me, no. Perché Benedetto XVI è innanzitutto un uomo coerente tra il suo dire e l’operare. Aveva detto più volte, e lasciato pubblicare nella sua intervista con Peter Seewald, che il papa avrebbe potuto dimettersi qualora giungesse “alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico” di successore di Pietro. E così ha fatto, quando davanti a Dio ha esaminato la propria coscienza. Un gesto compiuto anche nella consapevolezza che nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti, occorre il vigore di chi è più giovane, “sia nel corpo sia nell’animo”. Così si è dimesso, ma preparando con cura questo giorno. Aveva celebrato un concistoro in novembre, per dare un volto maggiormente universale al collegio cardinalizio, aveva terminato la sua fatica di fede e di testimonianza nello stendere una lettura di Gesù morto e risorto, vissuto realmente negli anni della nostra storia, approfondendone i vangeli dell’infanzia. E speriamo che prima del 28 febbraio consegni – quasi come suo testamento – l’enciclica sulla fede, dopo le due luminose sull’amore e sulla speranza. Noi attendiamo ancora questo dono da lui.
Non è questo il momento di tracciare un bilancio, ammesso che si possa fare, sui quasi otto anni del suo ministero petrino: un pontificato che ha attraversato la nostra storia non facile, non semplice e a volte anche enigmatica, una storia piena di mutamenti globali nel mondo occidentale (l’aggravarsi di una crisi culturale e una crisi economica mai conosciuta nei tempi recenti) e di rivoluzioni nel mondo arabo che giudichiamo “primavere” ma che vediamo attraversate da gelate repentine; un tempo di incertezze e di mutamenti nell’etica, soprattutto nelle culture un tempo cristiane. Sono stati anni  in cui Benedetto XVI ha continuato ad ammonire la chiesa, accettandone la condizione minoritaria, chiedendole di essere minoranza significativa, capace di esprimere la differenza cristiana in un mondo indifferente e nel contempo segnato dalla presenza simultanea di molte religioni nello stesso luogo.

Lo si è definito più volte un papa conservatore, ma questo gesto lo mostra come  innovatore: rompe, infatti, una tradizione di duemila anni in cui tutti i vescovi di Roma sono morti di morte violenta o di malattia o di vecchiaia (papa Celestino V dimissionò, ma costretto da chi sarebbe diventato il suo successore). Così il cattolico è invitato a guardare più al ministero petrino che non alla persona del papa: questo è certamente un fatto rivoluzionario e, ritengo, anche più evangelico. Chi esercita l’episcopato o un servizio di presidenza nella chiesa, lo fa in comunione con Cristo Signore in misura del grado in cui è stato posto, ma una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira.
La domanda che già sentiamo risuonare – come sarà con due papi viventi? - in realtà non sussiste, perché uno solo sarà il papa. Benedetto XVI tornerà a essere il cardinal Ratzinger e non possederà più quella grazia e quell’autorevolezza dello Spirito santo che saranno possedute da chi sarà eletto nuovo papa dal legittimo collegio cardinalizio. Su questo la dottrina cattolica è chiara e non permette che una persona sia più determinante del ministero che gli è stato affidato. In ogni caso, conoscendo l’umiltà di Benedetto XVI, siamo certi che egli – come promette nel messaggio rivolto ieri ai cardinali – si dedicherà alla preghiera e anche lui pregherà con la chiesa intera per Pietro, per il nuovo papa, ben sapendo di non esserlo più: avverrà per il vescovo di Roma, come per i vescovi emeriti delle altre diocesi.

Papa Benedetto ha compiuto un grande gesto, evangelico innanzitutto, e poi umano. In uno stupendo commento ai salmi, sant’Agostino – un padre della chiesa tra i più amati da Benedetto XVI – leggiamo: “Si dice che quando i cervi migrano in gruppo o si dirigono verso nuove terre, appoggiano il peso delle loro teste scambievolmente gli uni sugli altri, in modo che uno va avanti e quello che segue appoggia su di esso la sua testa... quello che sta in testa sopporta da solo il peso di un altro, quando poi è stanco passa in coda, giacché al suo posto va un altro a portare il peso che prima portava lui e così si riposa dalla sua stanchezza, poggiando la sua testa come la poggiano gli altri” (Commento al Salmo 41).
Così la presenza di Ratzinger nella chiesa non si conclude. Sarà un presenza altra e non meno significativa: una presenza di intercessione. Si metterà cioè tra Dio e gli uomini, non per compaginarli nella comunione cattolica – questo non sarà più il suo compito – ma per chiedere che Dio continui a inviare le energie dello Spirito santo sulla chiesa e i suoi doni sull’umanità. Molti oggi vorrebbero dire a papa Benedetto XVI: “Grazie, santo Padre!” per il suo disinteresse, per la sua sollecitudine affinché anche il papa sia decentrato rispetto a colui che dà il nome di cristiani a molti uomini e donne che hanno fede solo in lui: Gesù Cristo! Si diceva che questo papa ha grandi parole ed è incapace di gesti: il più bel gesto ce lo lascia ora, come Pietro che ormai anziano – dice il Nuovo Testamento - “se ne andò verso un altro luogo” continuando però a seguire il Signore. Benedetto XVI appare successore di Pietro più che mai, anche nel suo esodo.


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L’annunzio delle dimissioni di un Papa è una notizia di portata storica. La rinuncia al ministero petrino è una notizia difficilmente addomesticabile. E’ una novità che coglie di sorpresa e sorprende. Ha ragione il cardinal Sodano a dire che si è trattato di un “fulmine a ciel sereno”.
Alcuni hanno sovrapposto a quelle di Benedetto XVI le immagini di “Habemus Papam“ di Nani Moretti. Sbagliando completamente, a mio avviso. Perché? Cerco di spiegarlo…
Le analisi saranno numerose e così i commenti e le previsioni. Alcune, come è ovvio, si riveleranno corrette, altre errate. Dopo avere riflettuto “a caldo” sento di poter dire una cosa: sbagliano coloro che leggono il gesto del Papa come un gesto di semplice rinuncia a causa della debolezza fisica dovuta all’età.
Non credo affatto che la rinuncia al ministero petrino sia da attribuire alla stanchezza o a motivi simili.
1. Il Papa certamente afferma: “sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare il modo adeguato il ministero petrino”. Dice pure: “il vigore, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. Queste parole sono da ricollegare a quanto il Papa aveva affermato nel libro intervista “La luce del mondo” dove aveva affermato che “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi”.
2. Il Papa, probabilmente avendo anche in mente l’esperienza del suo predecessore, dice di essere ben consapevole che il ministero petrino deve essere compiuto “non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando“. Dunque Benedetto XVI sa bene che il ministero petrino può essere svolto anche in una condizione in cui le opere e le parole non possono essere esteriormente vigorose.
3. Il passaggio DECISIVO, a mio avviso, viene subito dopo, quando nel suo annuncio di dimissioni, il Pontefice scrive: “Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo”.QUI a mio avviso c’è il cuore del messaggio che il Papa vuole comunicare con il suo gesto.
Il Papa, cioè, intende spronare la Chiesa. Immagina una chiesa “vigorosa”, dunque coraggiosa nell’affrontare le sfide dei rapidi mutamenti (in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto) e le sfide delle questioni di grande rilevanza per la vita della fede (quaestionibus magni ponderis pro vita fidei). Il gesto del Papa non è affatto una rinuncia. Semmai è un gesto di umiltà e di libertà. Benedetto XVI sa di aver svolto il suo ministero fino in fondo. Adesso si rende conto che la situazione che il mondo e la Chiesa vivono è completamente cambiata rispetto anche a pochi anni fa. C’è bisogno di vigore.
Lasciando il Pontificato Benedetto XVI sta dicendo qualcosa alla Chiesa di oggi, quella di spendere le forze per aprirsi alle sfide e alle questioni, di non temere la rapidità e il peso dei mutamenti.
Il Papa sa che ci vogliono forze per tutto questo e, davanti a Dio e alla sua coscienza, si rende conto di non averle. Per questo lascia ad altri il testimone ritirandosi in preghiera e in silenzio. Ma, appunto, non senza dirci che la motivazione del suo gesto non è la rinuncia, ma una visione aperta sul mondo e la certezza interiore della vocazione della Chiesa. Benedetto XVI ha affrontato tantissime sfide. Adesso passa il testimone perché la missione sia sempre al centro. E lo fa con grande responsabilità e libertà di spirito. E’ un gesto che non si fa fatica a vedere collocato nel cuore stesso del suo Magistero.
E, infine, non dimentichiamo che appena pochi giorni fa, l’8 febbraio, parlando ai seminaristi in occasione della festa della Madonna della Fiducia, il Papa aveva lanciato un forte messaggio di ottimismo: “La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro”. (A. Spadaro)