giovedì 14 febbraio 2013

Chi raccoglierà le chiavi di Pietro


I due articoli che seguono, di Sandro Magister, usciranno  su "L'espresso" n. 6 del 2013, in edicola da domani 15 febbraio.

La rinuncia di Benedetto XVI. Gli ultimi suoi atti. L'imminente conclave e i candidati alla successione. Le novità e le incognite di una decisione senza precedenti nella storia


 La sera di un qualunque giovedì di Quaresima, alle ore 20 del 28 febbraio, Joseph Ratzinger farà dunque quel passo che nessuno dei suoi predecessori aveva osato. Deporrà sulla cattedra di Pietro le chiavi del regno dei cieli. Che un altro sarà chiamato a raccogliere.

C'è la forza di una rivoluzione in questo gesto che non ha eguali neppure in secoli lontani. Da lì in avanti la Chiesa entra in una terra incognita. Dovrà eleggere un nuovo papa mentre il predecessore è ancora in vita, e le sue parole ancora risuonano, e i suoi dettami ancora valgono, e la sua agenda ancora aspetta di essere compiuta.

Quei cardinali che la mattina di lunedì 11 febbraio sono stati convocati nella sala del concistoro per la canonizzazione degli ottocento cristiani di Otranto martirizzati dai turchi sei secoli fa sono rimasti attoniti nell'ascoltare Benedetto XVI, al termine della cerimonia, annunciare in latino la sua rinuncia al pontificato.

Toccherà a loro, a metà Quaresima, scegliere il successore. La domenica delle Palme, il 24 marzo, il nuovo eletto celebrerà la sua prima messa in piazza San Pietro, nel giorno dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme sul dorso di un'asina, acclamato come il "benedetto che viene nel nome del Signore".

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Sono 117 i cardinali che a metà marzo si chiuderanno in conclave, lo stesso numero di quelli che otto anni fa elessero papa Joseph Ratzinger al quarto scrutinio con più dei due terzi dei voti, in una delle elezioni più fulminee e meno contrastate della storia.

Ma questa volta sarà tutto diverso. L'annuncio delle dimissioni li ha colti di sorpresa come il ladro nella notte, senza che un lungo tramonto del pontificato, come era avvenuto con Giovanni Paolo II, abbia loro consentito di arrivare al conclave con delle opzioni già sufficientemente vagliate.

Nel 2005, la candidatura di Ratzinger non sbocciò all'improvviso, era già matura da almeno un paio d'anni, e tutte le candidature alternative erano l'una dopo l'altra cadute. Mentre oggi non è sicuramente così. E alla difficoltà di individuare i candidati si somma l'inedito incombere del papa dimesso.

Il conclave è una macchina elettorale unica al mondo che, affinata nel tempo, è arrivata nell'ultimo secolo a produrre risultati stupefacenti, elevando a papa uomini di qualità decisamente più alta del livello medio del collegio cardinalizio che li ha di volta in volta votati.

Per citare il caso più clamoroso, l'elezione nel 1978 di Karol Wojtyla fu un colpo di genio che rimarrà per sempre nei libri di storia.

E la nomina di Ratzinger nel 2005 non fu da meno, come hanno confermato i quasi otto anni del suo pontificato, segnati da una distanza invincibile tra la grandezza dell'eletto e la mediocrità di tanti suoi elettori.

In più, i conclavi si sono spesso caratterizzati per la capacità del collegio cardinalizio di imprimere al papato delle svolte. La sequenza degli ultimi papi è anche su questo istruttiva.

Non è una lunga fila grigia, ripetitiva e noiosa. È un seguito di uomini e di eventi segnati ciascuno da forte originalità. L'inaspettato annuncio del concilio dato da papa Giovanni XXIII a un gruppo di cardinali riuniti a San Paolo fuori le Mura non fu certo meno sorprendente e rivoluzionario dell'annuncio delle dimissioni dato da Benedetto XVI a un altro gruppo di cardinali stupefatti, pochi giorni fa.

Ma nelle prossime settimane accadrà qualcosa che non si è mai verificato prima. I cardinali dovranno valutare che cosa confermare o innovare rispetto al precedente pontefice con lui vivo. Di Ratzinger tutti ricordano e ammirano il rispetto con cui trattava anche chi gli era avversario: per il cardinale Carlo Maria Martini, il più autorevole dei suoi oppositori, ha sempre manifestato un'ammirazione profonda e sincera. Ma nonostante il suo promesso ritrarsi nella preghiera e nello studio, quasi in clausura, è difficile che la sua pur silenziosa presenza non pesi sui cardinali chiamati a conclave, e poi sul nuovo eletto. È inesorabilmente più facile dibattere con libertà e franchezza di un papa in cielo che di un ex papa in terra.

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Fino al 28 febbraio l'agenda di Benedetto XVI non subirà modifiche. Dopo il rito delle ceneri e una "lectio" ai preti di Roma sul Concilio Vaticano II, si affaccerà la domenica all'Angelus, terrà il mercoledì l'udienza generale, farà gli esercizi spirituali ascoltando le prediche del cardinale Gianfranco Ravasi, riceverà in visita "ad limina" i vescovi della Liguria capeggiati dal cardinale Angelo Bagnasco e poi quelli della Lombardia con alla testa il cardinale Angelo Scola.

Il caso vuole che proprio in uno di questi due cardinali egli potrebbe salutare il papa venturo.

In Italia, in Europa e nel Nordamerica la Chiesa attraversa anni difficili, di generale declino. Ma qua e là con risvegli di vitalità e di incidenza pubblica, anche inaspettati come di recente è avvenuto in Francia. Ancora una volta, quindi, i cardinali elettori potrebbero orientarsi su candidati di quest'area, che in ogni caso continua a detenere la leadership teologica e culturale sull'intera Chiesa. E proprio l'Italia potrebbe tornare in corsa, dopo due pontificati andati a un polacco e a un tedesco.

Tra i candidati italiani, Scola, 71 anni, appare il più solido. Si è formato come teologo nel cenacolo di "Communio", la rivista internazionale che ebbe Ratzinger tra i suoi fondatori. È stato discepolo di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. È stato rettore della Lateranense, l'università della Chiesa di Roma. È stato patriarca di Venezia, dove ha dimostrato fattive capacità di governo e ha creato un centro teologico e culturale, il Marcianum, proiettato con la rivista "Oasis" verso il confronto tra l'Occidente e l'Oriente cristiano ed islamico. È da quasi due anni arcivescovo di Milano. E qui ha introdotto uno stile pastorale molto attento ai "lontani", con inviti alle messe in cattedrale distribuiti agli incroci delle strade e alle stazioni delle metropolitana, e con una cura particolare per i divorziati risposati, incoraggiati ad accostarsi all'altare per ricevere non la comunione ma una speciale benedizione.

Oltre a Scola, potrebbe entrare nella rosa nei candidati anche il cardinale Bagnasco, 70 anni, arcivescovo di Genova e presidente della conferenza episcopale italiana.

Per non dire dell'attuale patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, 60 anni, astro nascente dell'episcopato italiano, pastore di forte vita spirituale, molto amato dai fedeli. Il suo limite è che non è cardinale. Nulla vieta che possa essere eletto anche chi non fa parte del sacro collegio, ma persino il titolatissimo Giovanni Battista Montini, pur invocato come papa già nel 1958 dopo la morte di Pio XII, dovette aspettare di ricevere la porpora prima di essere eletto nel 1963 con il nome di Paolo VI.

Al di fuori dell'Italia, il collegio cardinalizio sembra orientato a guardare al Nordamerica.

Qui un candidato che può corrispondere alle attese è il canadese Marc Ouellet, 69 anni, plurilingue, anche lui formato teologicamente nel cenacolo di "Communio", per molti anni missionario in America latina, poi arcivescovo del Québec, cioè di una delle regioni più secolarizzate del pianeta, e oggi prefetto della congregazione vaticana che seleziona i nuovi vescovi in tutto il mondo.

Oltre a Ouellet, due nordamericani che riscuotono apprezzamento nel collegio cardinalizio sono Timothy Dolan, 63 anni, dinamico arcivescovo di New York e presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Sean O'Malley, 69 anni, arcivescovo di Boston.

Nulla però esclude che il prossimo conclave decida di abbandonare il vecchio mondo e aprire agli altri continenti.

Se dall'America latina e dall'Africa, dove pure risiede la maggior parte dei cattolici, non sembrano emergere personalità di spicco capaci di attrarre voti, non così avviene per l'Asia.

In questo continente, che si appresta a diventare il nuovo asse del mondo, anche la Chiesa cattolica gioca il suo futuro. Nelle Filippine, che sono l'unica nazione dell'Asia dove i cattolici sono maggioranza, brilla un giovane e colto cardinale, l'arcivescovo di Manila Luis Antonio Tagle, sul quale si appuntano crescenti attenzioni.

Come teologo e storico della Chiesa, Tagle è stato uno degli autori della monumentale storia del Concilio Vaticano II pubblicata dalla progressista "scuola di Bologna". Ma come pastore ha mostrato un equilibrio di visione e una rettitudine dottrinale che lo stesso Benedetto XVI ha molto apprezzato. Soprattutto colpisce lo stile con cui fa il vescovo, vivendo sobriamente e mescolandosi alla gente più umile, con grande passione missionaria e di carità.

Un suo limite potrebbe essere che ha 56 anni, un anno meno dell'età nella quale fu eletto papa Wojtyla. Ma qui torna in campo la novità delle dimissioni di Benedetto XVI. Dopo questo suo gesto, la giovane età non sarà più un ostacolo ad essere eletti papa.

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UNA SCOMMESSA SOPRANNATURALE



La rinuncia di Benedetto XVI al papato non è per lui né una sconfitta né una resa. "Il futuro è nostro, il futuro è di Dio", ha detto contro i profeti di sventura nella sua ultima uscita pubblica prima dell'annuncio delle dimissioni, la sera di venerdì 8 febbraio nel seminario romano.

E due inverni fa, parlando proprio delle sue possibili future dimissioni, aveva avvertito: "Non si può scappare nel momento del pericolo e dire: Se ne occupi un altro. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più".

Se ora dunque papa Joseph Ratzinger ha deciso in coscienza che la sua giornata di "umile lavoratore nella vigna del Signore" è arrivata al termine, è semplicemente perché ha visto avverarsi le due condizioni: il momento è sereno e il vigore per "bene amministrare" gli è venuto meno, sotto il peso degli anni.

In effetti, una tregua sembra essere intervenuta dopo le tante tempeste che si sono succedute nei quasi otto anni del suo pontificato. Una tregua che ha lasciato però intatte le posizioni di potere che in curia alimentano da molti anni il dissesto.

Saranno i due ultimi segretari di Stato, i cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, nessuno dei quali è innocente, a governare l'interregno tra un papa e l'altro, il primo come decano del collegio cardinalizio, il secondo come camerlengo. Ma entrambi usciranno poi definitivamente di scena. Per gli altri capi di curia lo "spoils system" che scatta per legge canonica ad ogni cambio di pontificato libererà il nuovo papa, se lo vorrà, dai cattivi amministratori della precedente gestione.

Nei suoi quasi otto anni di pontificato, Benedetto XVI è stato risoluto e lungimirante nell'indicare le mete e tenere dritta la barra del timone. Ma sulla barca di Pietro l'equipaggio non sempre gli è stato fedele.

È avvenuto così quando ha dettato una rigorosa linea di condotta per contrastare lo scandalo della pedofilia tra il clero, scontrandosi con applicazioni ipocrite e tardive.

È accaduto lo stesso quando ha ordinato pulizia e trasparenza negli uffici finanziari ecclesiastici, venendone disatteso.

È stato così quando si è visto tradito dal maggiordomo di sua fiducia, che gli ha violato i segreti e rubato le carte più personali.

Ma c'è di più. Papa Ratzinger si è battuto prima di tutto e sopra tutto per ravvivare la fede della Chiesa, per correggere i suoi sbandamenti nella dottrina, nella morale, nei sacramenti e nei comandamenti. E anche qui spesso si è trovato solo, osteggiato, incompreso.

È stata insomma una riforma incompiuta, quella perseguita da Benedetto XVI. Dimettendosi, ha riconosciuto di non poterla più condurre avanti con le sue deboli forze. E si è affidato al conclave perché elegga un nuovo papa con l'energia necessaria per fare l'impresa.

La sua è una scommessa soprannaturale che ricorda quella del suo predecessore Giovanni Paolo negli ultimi dolorosi anni della sua vita.

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Tra gli analisti della Chiesa, è il professor Pietro De Marco dell'università di Firenze che ha colto con più acutezza il significato dell'audace rinuncia di Benedetto XVI.

La differenza sembra abissale tra l'attuale papa e il suo predecessore Giovanni Paolo II, che invece di dimettersi volle fino all'ultimo "restare sulla croce". Ma non è così.

Papa Karol Wojtyla affidò al carisma del suo corpo malato un guadagno spirituale per la Chiesa che sovrastasse la crescente inefficienza del suo governo.

Mentre Benedetto XVI affronta un rischio simmetrico: affida il governo della Chiesa, cioè il suo "bene", alle forze integre di un suo successore, invece che ai benefici spirituali offerti da un prolungato consegnarsi alla propria debolezza, restando in carica.

Il carisma di Giovanni Paolo II e la razionalità di Benedetto XVI sono le due facce inscindibili dei due ultimi pontificati, la cui cifra sono i rispettivi atti finali.

È dunque insensato vedere nelle dimissioni dell'attuale papa l'alba di una nuova prassi che obbligherà i futuri pontefici a dimettersi per infermità o per carico d'anni, magari sotto l'arbitrato di una giuria visibile o invisibile fatta di medici, di vescovi, di canonisti, di psicologi.

La decisione di un papa di dimettersi o di restare in carica a vita è sempre e soltanto sua, nell'ordinamento della Chiesa. La sua rinuncia, Benedetto XVI l'ha decisa "in coscienza davanti a Dio" e non l'ha sottoposta a nessuno. L'ha semplicemente annunciata.

E con ciò ha rimesso tutto nelle mani imponderabili del prossimo conclave e del futuro pontefice. Commenta De Marco:

"La posta in gioco, per quanto attiene al giudizio umano, è enorme. Ma in questo confido: come il sovrano rischio di Giovanni Paolo II di governare la Chiesa col suo essere sofferente ha ottenuto il miracolo dell'elezione di papa Benedetto, così il rischio, altrettanto radicale, di Benedetto di riconsegnare la guida della Chiesa a Cristo perché ne dia il peso a un nuovo papa in forze, otterrà un altro pontefice all'altezza della storia".