sabato 26 gennaio 2013

Unità dei credenti e sacerdozio ministeriale


(Celso Morga Iruzubieta) Abbiamo appena celebrato la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. La Chiesa è una per la sua origine che è l’unità nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo. La Chiesa è una per il suo Fondatore, il Figlio di Dio fatto uomo che «per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio… ristabilendo l’unità di tutti i popoli in un solo Popolo e in un solo Corpo». La Chiesa è una per la sua anima poiché «lo Spirito Santo, che abita nei credenti e tutta riempie e regge la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei fedeli e tanto intimamente tutti unisce in Cristo, da essere il principio del-l’unità della Chiesa» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 813). «Che stupendo mistero!». Esclama Clemente d’Alessandria, e aggiunge: «Vi è un solo Padre dell’universo, un solo Logos dell’universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è anche una sola Vergine divenuta Madre, e io amo chiamarla Chiesa» (Pedagogo, 1, 6).
Vi sono state però inflitte, lungo i secoli, gravi e dolorose ferite all’unità. Di fatto, «in questa Chiesa di Dio, una e unica, sono sorte fin dai primissimi tempi alcune scissioni, che l’apostolo riprova con gravi parole come degne di condanna; ma nei secoli posteriori sono nati dissensi più ampi e comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti» (concilio Vaticano II, Unitatis redintegratio, 3). Il Papa all’Angelus di domenica 20 gennaio ha detto che queste divisioni «deturpano il volto della Chiesa».
Camminare verso l’unità, tanto desiderata da Cristo e da tutti i credenti, comporta rafforzare i vincoli dell’unità visibile della Chiesa di Cristo. Al di sopra di tutti, la carità «vincolo di perfezione» (Colossesi, 3, 14), ma anche i vincoli visibili di comunione come la professione di una sola fede ricevuta dagli apostoli, la celebrazione comune del culto divino, soprattutto dei sacramenti e la successione apostolica mediante il sacramento dell’Ordine, che custodisce l’unità e la concordia fraterna della famiglia di Dio.
Il dono del sacerdozio ministeriale nella Chiesa, mediante il sacramento dell’Ordine, in un contesto di preghiera e dialogo di comunione con le comunità cristiane non cattoliche, è una questione assai importante, poiché la potestà d’ordine, nei tre gradi, è essenziale alla natura della Chiesa come comunità sacerdotale, unita essenzialmente al sacerdozio di Cristo. In questo dialogo ecumenico, franco e fraterno, a tutti i livelli, non si tratterà di offrire punti di vista su questa realtà teologica del sacramento dell’Ordine, così centrale nel mistero di Cristo e della Chiesa, ma di presentare la fede genuina della stessa Chiesa con chiarezza e carità.
La Chiesa ha cercato e cerca sempre d’indagare più e meglio sulla natura di questo sacerdozio, che fin dall’età apostolica è costantemente conferito da un rito sacro (cfr. 1 Timoteo, 4, 14; 2 Timoteo, 1, 6). Come molto bene è indicato nella Dichiarazione Mysterium Ecclesiae della Congregazione per la Dottrina della Fede «con l’assistenza dello Spirito Santo, essa è così gradatamente arrivata alla chiara persuasione che Dio ha voluto manifestarle che questo rito conferisce ai sacerdoti non soltanto un aumento di grazia per compiere santamente le funzioni ecclesiali, ma imprime anche un sigillo permanente di Cristo, cioè, il carattere, in forza del quale, dotati di appropriata potestà derivata dalla suprema potestà di Cristo, sono abilitati a compiere quelle funzioni».
Il Magistero parla di una rappresentazione ontologica, sostanziale. Il sacerdote ministeriale è segno e strumento di Cristo che in persona Christi capitis attualizza l’opera della salvezza. Il sacerdote partecipa ontologicamente della vocazione, unzione e missione di Cristo; per il sacramento dell’Ordine il sacerdote è vera icona di Cristo. Si opera una simbiosi misteriosa ma reale, ontologica, fra Cristo e il sacerdote.
Alla fine, forse il problema più profondo — in quest’ambito del dialogo ecumenico, come in altri ambiti — non è la soggettivazione della fede, ma l’assenza di fede che porta a prescindere di essa come qualcosa d’irrilevante. Quest’atteggiamento, così diffuso oggi nei paesi d’antica tradizione cristiana, è conseguenza del vivere la fede a un livello superficiale, che niente dice al fedele perché niente cambia nella sua vita. Se vogliamo voltare pagina, dobbiamo puntare ad un sacerdozio che rende presente sacramentalmente Cristo. Non sarà che la difficoltà per modellare e dirigere con autorità il Popolo di Dio, secondo il Vangelo, proviene da una concezione del sacerdozio non come dono apostolico ma come mera funzione, più o meno utile alla comunità?
L'Osservatore Romano, 26 gennaio 2013.