mercoledì 30 gennaio 2013

Il senso della preghiera




Una della conseguenze della concezione luterana della giustificazione è lo svuotamento del senso e della stima per la preghiera. Lutero certo pregava, e anche fervorosamente, ma più che altro per quel poco di infanzia evangelica che, nonostante tutto, è rimasta in lui e sotto la spinta della sua precedente abitudine di cattolico o, si potrebbe dire, più per forza di inerzia, che per un’intima convinzione fondata sulla sua nuova concezione della salvezza.
Infatti, in questa visuale, come è noto, la fede di essere perdonati garantisce il fatto di essere effettivamente perdonati, al di là e nonostante qualunque rimorso o rimprovero possa venire dalla coscienza. Infatti, prendere in considerazione questi stati della coscienza sarebbe, per Lutero, mancanza di fede.
Il che vuol dire che Lutero confonde la coscienza della colpa, che è un principio di salvezza in quanto dispone a ricevere il perdono di Dio, con quello che i maestri classici chiamano “scrupolo”e nel linguaggio psicanalitico freudiano si chiama “senso di colpa”. Ora, siccome già nell’ascetica classica lo scrupolo dev’essere semplicemente eliminato, così Lutero non dà alcuna importanza salvifica al rimprovero della coscienza per aver commesso un peccato.
Questo dunque vuol dire che il peccatore, per Lutero, non deve chiedere a Dio di giustificarlo, perché è già giustificato e salvo nel momento in cui crede di essere già stato giustificato. Ma allora, se è già giustificato, che bisogno c’è di pregare Dio per chiedere di essere giustificato? Ecco dunque annullata la preghiera come richiesta di aiuto in una situazione di bisogno o di sofferenza.
Nella visione di Lutero restano indubbiamente alcuni valori fondamentali della vita cristiana: la fede in Dio e nella sua Parola, che è Cristo stesso; la redenzione ad opera del Crocifisso; il desiderio della salvezza, la coscienza del peccato, la grazia che giustifica. Manca invece la fiducia nelle opere e nel libero arbitrio.
In tal modo nella giustificazione il solo agente motore, l’unico attore è Dio, senza che vi sia collaborazione da parte dell’uomo. Non si dà quindi un moto dell’uomo verso Dio mediante le opere, qui, nella fattispecie, la preghiera. Ma si dà solo la precedente elezione o predestinazione divina alla salvezza dell’uomo, oggetto della fede. L’uomo resta peccatore, per cui la grazia resta al di fuori del peccatore come grazia di Cristo (“extra nos”). Eppure il peccatore è giustificato con la stessa grazia di Cristo (“simul iustus et peccator”).
Si ha così il paradosso di un Dio che è da una parte salvatore trascendente, perché la grazia non è nel peccatore, ma è la grazia di Cristo e il peccatore non è evidentemente Cristo. Ma d’altra parte il peccatore è giustificato per la grazia stessa di Cristo (“giustificazione forense”: essere “contato come giusto”), per cui Dio vede nel peccatore Cristo stesso. Ora lo sguardo divino vale ben più dello sguardo umano, del peccatore che vede sé come peccatore.
Ma per Lutero non importa: basta credere di essere sqlvo per esser salvo, per cui se il peccatore, secondo la testimonianza della sua coscienza, e quindi allo “sguardo umano” resta peccatore, in base invece alla sua coscienza di fede, cioè nello “sguardo di Dio”, si sente identificato a Cristo agli occhi di Dio, e quindi si sente salvo. Cioè per Lutero la fede dice il contrario di ciò che dice la ragione. E questa, secondo lui, è la vera fede.
Questo sentirsi intimamente uguale a Cristo era già comparso due secoli prima con Meister Eckhart, il quale, tuttavia, intendeva solo enfatizzare in modo mistico ed entusiasta la soprannaturalità della vita di grazia (la “divinizzazione”), mentre si guardava bene, formato com’era alla scuola di S.Tommaso, dal concepire la grazia come semplice imputazione dall’esterno e non, come risulta dal dogma cattolico, come accidente o qualità dell’anima intrinseca o inerente all’anima stessa. Per il cattolicesimo la grazia è trascendente nella sua essenza divina, ma intimamente aderente all’anima nel suo modo di essere nell’anima stessa.
Gli sviluppi seguenti del luteranesimo porteranno per logica conseguenza ad un ulteriore dissesto dell’organismo spirituale cristiano, secondo due aspetti diversi. Innanzitutto si accentuerà l’opposizione, nell’opera della salvezza, tra l’opera dell’uomo, d’ora innanzi chiamata “religione”, dove rientra la preghiera, e la “fede”, che sarebbe invece la visione di ciò che Dio opera nell’uomo.
Il primo aspetto apparirà più evidente nel protestantesimo ecclesiale dei secoli seguenti fino ai nostri giorni. Un esponente di questa impostazione nel sec.XX è Dietrich Bonhöffer, il quale, nello sforzo di integrare nella vita cristiana la moderna secolarità dell’uomo che ha coscienza della propria autonomia, rifiuta di vedere in Dio colui che colma le lacune dell’uomo e lo soccorre nei propri bisogni e nelle proprie sofferenze. “Con e al cospetto di Dio, dice stranamente il Bonhöffer, noi viviamo senza Dio”: noi crediamo in Dio, sembra dire l’autore, ma ci arrangiamo da soli. Sarebbe questo il vero rapporto con Dio? Come il ritratto del nonno nella stanza da pranzo?
Come si esprime un teologo cattolico filoprotestante a suo riguardo: “Per Bonhöffer un Dio che rappresenta semplicemente il limite della nostre capacità o l’Oltre che invochiamo quando le nostre forze vengono meno, non è Dio. E’ un puro ‘tappabuchi’; è il deus ex machina della religione. … Occorre riscoprire la dimensione non-religiosa di Cristo. Nel Cristo crocifisso, Dio si manifesta come colui che ha abbandonato l’uomo a se stesso e al suo mondo. … La fede cristiana è il superamento della religione e della religiosità”, e quindi della preghiera come richiesta di aiuto e di soccorso.
L’uomo, sembra dire Bonhöffer, deve vivere la sua croce, ossia la sua tragedia senza chiedere nulla a Dio, perché la stessa tragedia dell’uomo vissuta nella fede è già salvezza, è già “vivere davanti a Dio”. Ma non bisogna far niente contro il peccato? Dio non toglie i peccati? Se tutto si riduce ad accettare la vita com’è con tutte le sue miserie, che differenza passa tra la vita mondana e quella cristiana?
L’uomo dunque, per Bonhöffer, è salvo anche senza le opere, nel caso senza la preghiera, il culto, la religione, opere nelle quali sotto un’apparente umiltà l’uomo pretende ancora di elevarsi a Dio. Occorre invece ricordare che è Dio che salva per mezzo della croce. L’uomo non può far nulla per la propria salvezza, se non credere di essere salvo. E’ ancora Lutero che funziona.
In Lutero resta l’istanza cristiana della salvezza, anzi questa istanza occupa tutto il campo della teologia, lasciando in ombra l’orientamento contemplativo ed adorante del cristianesimo. Nel luteranesimo non esiste alcuna adorazione eucaristica, perchè la “Cena del Signore”, il rito protestante, è soltanto la memoria di un pasto conviviale di addio a Cristo che sta per salire sulla croce ed un ricordo del suo sacrificio.
Senonchè siamo daccapo: per Lutero non si tratta di chiedere a Dio di salvarci, ma semplicemente di prender atto nella fede che siamo già salvi: Dio è con noi, Gott mit uns, come diranno poi quattro secoli dopo i nazisti. Il panteismo idealista è la conseguenza estrema dello interiorismo luterano che è a sua volta un’adulterazione immanentistica dell’interiorismo agostiniano.
Si capisce allora come il protestantesimo, a partire dal sec.XVII, dopo aver già abbandonato con Lutero la scolastica tomista, assumerà come referente filosofico il falso interiorismo cartesiano, che, per il suo idealismo, si rivelava più consono al soggettivismo ed immanentismo protestante.
Il secondo aspetto è caratterizzato dall’aumento del contrasto fra l’io peccatore e l’io divinizzato dalla grazia. Il primo nell’idealismo tedesco diventerà l’“io empirico”, il secondo, l’“Io trascendentale o assoluto”. Tale aspetto apparirà nello sviluppo immanentistico ed idealistico del protestantesimo a partire dal sec.XIX con Fichte sino ad Hegel, per sfociare in un sistema panteista preannunciato da Kant, che quasi nulla conserva dell’originale dogmatica luterana, improntata al realismo biblico ed alla trascendenza divina, residui in Lutero del suo precedente cattolicesimo.
Elementi invece del luteranesimo originario si ritroveranno in Kierkegaard, vivacemente sensibile alla dialettica tra l’io peccatore e il Tu divino contro il panlogismo hegeliano per una rivalutazione dell’esistenza della persona singola, come hanno illustrato efficacemente gli studi di Cornelio Fabro che tra l’altro ha mostrato anche una certa affinità del luterano danese con Tommaso d’Aquino. Kierkegaard, col suo “stadio religioso” del “cavaliere della fede” sembra recuperare  in qualche modo il concetto cattolico della vita religiosa e quindi della preghiera.
Bisogna dire, in conclusione, che la preghiera, come risulta dalla stessa religione naturale e come è costantemente inculcato dalla Bibbia, è radicalmente ed innanzitutto richiesta di aiuto e di salvezza fatta a Dio, da parte dell’uomo sofferente o in pericolo di morte.
Il rifiuto della preghiera così da parte protestante per sostituirla con un atto di “fede” nella propria salvezza, può sembrare un atteggiamento disinteressato e sublime, ma in realtà, così come si mostra nell’esito panteistico dell’idealismo trascendentale tedesco, ricorda curiosamente la meditazione trascendentale del buddismo e dell’induismo, per la quale tutto il problema della vita e della salvezza non stanno nella richiesta di soccorso fatta a un Dio onnipotente e misericordioso da parte di una creatura fragile e peccatrice, quanto piuttosto nella presa di coscienza che il proprio io empirico non è che una parvenza di essere ex parte hominis, la quale si mostra come divina se vista come trasparenza dell’Assoluto ex parte Dei. Quindi la soluzione del problema del male si configura come sua serena accettazione per la quale il male viene assorbito spinozisticamente nell’infinita positività del Tutto e dell’Essere.
Ma una visione del genere rivela ad un esame oggettivo tutta la sua inconsistenza ed illusorietà. La salvezza è possibile, ci dice il vero Vangelo, ma solo a patto che l’uomo peccatore si riconosca bisognoso di questa salvezza, si converta e non creda di esserne già in possesso, ma al contrario si adoperi per ottenerla con la preghiera e l’esercizio delle buone opere, che non costituiscono affatto la pretesa dell’uomo di salire a Dio e di gloriarsi davanti a lui con i propri meriti, ma al contrario sono e devono essere la risposta d’amore a un Dio che ci ha amati per primo e giustamente vuole che noi facciamo la nostra parte, senza la quale non possiamo salvarci, come avverte il sommo Agostino: “chi ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”, un Dio che al termine de nostro faticoso e accidentato  cammino troviamo già presente in noi all’alba della nostra coscienza ad aspettarci e che ci dice amichevolmente: “finalmente sei  giunto; era da tempo che ti attendevo!” (P. Giovanni Cavalcoli O.P.)