giovedì 31 gennaio 2013

Apprendisti alla scuola dello Spirito




Anticipo di seguito stralci del testo che il cardinale prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica pronuncia il 31 gennaio a Bangalore, in India, in apertura del convegno internazionale «Rivisitare il concilio Vaticano II: cinquant’anni di rinnovamento» che si svolge fino al 3 febbraio nel Pontificio Ateneo Dharmaram Vidya Kshetram.
(Zenon Grocholewski) Il concilio Vaticano II ha suscitato l’interesse sia dei credenti, sia dei non credenti; di coloro le cui preoccupazioni erano legate alla vita e alla missione della Chiesa, come anche di coloro i cui interessi riguardavano la sfera secolare. Ognuno aveva le proprie speranze e i propri timori, nonché le proprie attese. Dopo venticinque anni, molte cose erano cambiate, e questo valeva anche per le speranze, i timori e le attese di tutta l’umanità. 
Dopo cinquant’anni sono mutate pure le preoccupazioni e le situazioni della società. Anche il presente ha le proprie speranze, i propri timori e le proprie attese.
È facile comprendere che queste aspettative, queste speranze e questi timori mutevoli e soggettivi, basati su fenomeni sociali a breve termine, non possono essere la chiave per interpretare gli insegnamenti del Vaticano II. Discernere i “segni dei tempi” e agire in base ai desideri, alle speranze e ai timori soggettivi non può servire da bussola per comprendere gli insegnamenti del concilio.
Ogni volta che la Chiesa si deve confrontare con nuove situazioni che hanno un forte impatto sulla società umana e comportano nuovi interrogativi, essa riunisce i suoi pastori per trovare strumenti efficaci per dare testimonianza di Cristo, Salvatore dell’umanità. Di fatto, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini» (Gaudium et spes, 1).
Dunque, per quanto possano essere grandi le sfide che i “segni dei tempi” pongono ai credenti, essi non devono sentirsi sopraffatti e non devono abbandonare la barca di Cristo. Come testimoni della provvidenza divina e della speranza, i credenti devono, innanzitutto, discernere i segni della presenza di Cristo nel mondo e negli eventi mondiali. E, come gregge, devono ascoltare le parole del vero Pastore.
Papa Giovanni XXIII sottolineò che l’umanità deve sempre confrontarsi con situazioni difficili e problemi. E in questa realtà costante, che offusca le speranze e i sogni dell’uomo, la Chiesa non ha mai smesso di offrire la luce di Cristo. 
Questo ci ricorda le parole che il Signore ha rivolto ai Dodici durante la tempesta sul lago di Genezaret: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» (Matteo, 14, 27). Sì, non dobbiamo avere paura, non dobbiamo avere paura di aggrapparci a Cristo e di essere testimoni di speranza per la società umana.
Per questa ragione il beato Giovanni XXIII disse che, ogni volta che viene convocato un concilio ecumenico, i Padri proclamano in forma solenne questa corrispondenza con Cristo e con la sua Chiesa, e indicano a tutti dove trovare la luce di Cristo, al fine di sostenere e rafforzare le energie spirituali di ognuno e d’innalzare stabilmente gli animi ai beni veri e autentici.
Per meglio comprendere lo spirito e gli insegnamenti del concilio Vaticano II è importante riconsiderare lo scopo principale per il quale fu convocato. Riunendo i vescovi provenienti da ogni parte del mondo, Giovanni XXIII disse chiaramente che era interesse del concilio che «il sacro deposito della dottrina cristiana fosse custodito e insegnato in forma più efficace» (cfr. Messaggio per la solenne apertura del concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962, n. 2. 6). Paolo VI lo ribadì nel suo discorso durante l’ultima sessione generale di quello stesso concilio.
Questa dottrina abbraccia l’intero uomo, fatto di corpo e di anima. E a noi, che viviamo qui in terra, impone di puntare, come pellegrini, verso la nostra patria celeste. Indica il modo in cui dobbiamo ordinare questa vita mortale affinché, adempiendo ai nostri doveri, ai quali siamo tenuti verso la città terrena e quella celeste, possiamo raggiungere il fine che Dio ha prestabilito per noi. Indicando tali orientamenti, Giovanni XXIII sottolineò le parole del Signore: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Matteo, 6, 33). Questo “prima”, disse il Papa, esprime dove devono essere dirette anzitutto le nostre forze e le nostre preoccupazioni. Tuttavia, non bisogna trascurare le altre parole che seguono in tale comando del Signore: «e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
Nel sottolineare questi importanti principi sui quali i padri conciliari dovevano riflettere, il Papa disse anche che, poiché tale dottrina tocca i vari campi dell’attività umana che riguardano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario, prima di tutto, che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi. Allo stesso tempo, la Chiesa deve guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, e ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico.
In altri termini, il fine del concilio Vaticano II, e di qualsiasi altro concilio generale della Chiesa, è d’introdurre in contesti e situazioni storiche concrete il seguente mandato di Cristo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo, 28, 19-20). Possiamo ricordare che nei precedenti concili generali della Chiesa il compito di custodire e insegnare il sacro deposito della dottrina cristiana è sempre stato svolto con solenne gravità dai padri dei diversi concili, che si sono dovuti confrontare con nuove situazioni e nuovi modi di vivere. Certamente tutti conoscono il monito di san Paolo nella sua Lettera ai Galati, indirizzato a quanti potrebbero desiderare di modificare gli insegnamenti di Cristo: «Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (1, 6-9).
Papa Benedetto XVI, che da giovane sacerdote fu tra gli esperti dell’ultimo concilio generale, ha osservato nella premessa alla raccolta dei suoi scritti conciliari: «I singoli episcopati indubbiamente si avvicinarono al grande avvenimento con idee diverse. Alcuni vi giunsero più con un atteggiamento d’attesa verso il programma che doveva essere sviluppato (...) durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più. I vescovi si riconoscevano apprendisti alla scuola dello Spirito Santo e alla scuola della collaborazione reciproca, ma proprio in questo modo si riconoscevano come servitori della Parola di Dio che vivono e operano nella fede. I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo. Erano Padri del concilio con una voce e un diritto di decisione solo in quanto vescovi, vale a dire in virtù del sacramento e nella Chiesa sacramentale. Per questo non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”».
Per tale ragione, il Papa ha sempre affermato chiaramente che «un’ermeneutica di rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari»; e tutti sappiamo che ciò vale anche per quella di tutti i concili generali.
La fede è il fondamento degli insegnamenti del concilio. Senza fede, la Chiesa sarebbe come il sale che ha perso sapore, come la luce nascosta sotto un grande moggio. «Ma se anche il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si salerà?», dice il Vangelo, «non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via». Allo stesso modo, se l’ermeneutica di rottura viene utilizzata per interpretare il concilio Vaticano II, l’interpretazione non riuscirà a dare testimonianza della vera fede, che la Chiesa ha ricevuto da Cristo, e che è stata trasmessa fedelmente alla generazione presente attraverso il magistero della Chiesa, mediante secoli di ricchi depositi di sapienza contenuti nella tradizione cristiana. 
Il beato Giovanni XXIII ci aveva messo in guardia contro l’imprudenza nell’interpretare lo spirito del concilio. In particolare, ci aveva messo in guardia dall’essere sopraffatti da nuove situazioni e dal trascurare ciò che si può imparare dalla storia. Il non vedere altro che il proprio imprudente entusiasmo per ogni novità, tende a portare a riformulare molte cose, spesso in modo eclettico, come se quelle insegnate dai concili precedenti potessero essere allegramente eliminate, che si tratti di dottrina cristiana, di morale o della giusta libertà della Chiesa.
Dopo duemila anni di cammino percorso insieme con l’umanità, l’esperienza della Chiesa — come ha osservato Papa Roncalli — ci dice che quanti aderiscono a Cristo e alla sua Chiesa godono della luce, della bontà, del giusto ordine e della benedizione della pace. Al contrario, tra quanti vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa c’è confusione.
L'Osservatore Romano, 1° febbraio 2013.