lunedì 24 dicembre 2012

Tu scendi dalle stelle



Buon Natale a tutti
Merry Christmas
Heureuse fête de Noël ! 
¡Feliz Navidad! 
Feliz Natal para todos

Pb. Vito Valente


Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”: inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l’autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l’Università di Napoli, per divenire avvocato.
L’età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l’aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L’ ingresso “nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l’uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: ‘Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me’” (T.R.Mermet).
Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell’Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E’ nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: “Lascia il mondo e datti a me”. Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l’ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere…
Qui, tra questa umanità dolorante, l’uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di “celeste patrono dei moralisti e dei confessori”. Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle “menti di legno”), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall’algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il “timor di Dio”, ma evitando gli eccessi, le “maledizioni”, perché le conversioni vere nascono solo quando “entra nel cuore il santo amore di Dio”.
Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi… Un impasto in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell’Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e ‘ricreativi’; è la città in cui gli orfani “scugnizzi” sono internati nei “Conservatori”, luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. “A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero ‘gabbie di usignoli’ e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali”.
Da sant’Alfonso, “il più napoletano dei santi”, avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all’inizio; come pure quell’altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell’altro, così dolce, in dialetto napoletano: “Quanno nascette Ninno…”. Da "Il Foglio" a firma di Francesco Agnoli.

Il testo completo della canzone:
   RE                              LA
Tu scendi dalle stelle, o re del cielo,
                   SOL    LA          RE
e vieni in una grotta al freddo, al gelo,
                   SOL    LA          RE
e vieni in una grotta al freddo, al gelo.
 
 
     LA7        RE         LA7           RE
O bambino mio divino io ti vedo qui a tremar.
         LA                      SOL  LA       RE
O Dio beato ah, quanto ti costò l'a - vermi amato,
     LA              SOL  LA       RE
ah, quanto ti costò l'a - vermi amato!
 
    RE                              LA
A Te che sei del mondo il Creatore
                   SOL    LA          RE
mancano panni e fuoco, o mio Signore,
                   SOL    LA          RE
mancano panni e fuoco, o mio Signore.
 
     LA7        RE         LA7           RE
Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà
         LA                      SOL  LA       RE
più m'innamora poichè ti fece, amor, povero ancora,
     LA              SOL  LA       RE
poichè ti fece, amor, povero ancora.

* * *

Tu scendi dalle stelle


Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo,
e vieni in una grotta al freddo e al gelo.
O Bambino mio divino,
io ti vedo qui a tremar;
o Dio beato !
Ah, quanto ti costò l'avermi amato!
Ah, quanto ti costò l'avermi amato!

A te, che sei del mondo il Creatore,mancano panni e fuoco, o mio Signore,mancano panni e fuoco, o mio Signore.Caro eletto pargoletto,quanto questa povertàpiù m'innamora,giacché ti fece amor povero ancora,giacché ti fece amor povero ancora.

Tu lasci il bel gioir del divin seno,per giunger a penar su questo fieno,per giunger a penar su questo fieno.Dolce amore del mio core,dove amore ti trasportò,o Gesù mio!Perché tanto patir? Per amor mio!Perché tanto patir? Per amor mio!

Ma se fu tuo voler il tuo patire,perché vuoi pianger poi, perché vagire?Perché vuoi pianger poi, perché vagire?Sposo mio amato Dio, mio Gesù, t'intendo sì,ah mio Signore!Tu piangi non per duol, ma per amore!Tu piangi non per duol, ma per amore!

Tu piangi per vederti da me ingratodopo sì grande amor, sì poco amato!Dopo sì grande amor, sì poco amato!O diletto del mio petto,se già un tempo fu così, or te sol bramo!Caro non pianger più, ch'io t'amo e t'amocaro non pianger più, ch'io t'amo e t'amo.

Tu dormi o Gesù mio, ma intanto il cuorenon dorme, no, ma veglia a tutte l'ore,non dorme, no, ma veglia a tutte l'ore.Deh, mio bello e puro agnello, a che pensi dimmi tu?O amore immenso!A morire per te rispondi io penso,a morire per te rispondi io penso.

Dunque a morire per me, tu pensi o Dioe chi altro, fuor di te, amar poss'io?e chi altro, fuor di te, amar poss'io?O Maria speranza mia, se poc'amo il tuo Gesù,non ti sdegnare!Amalo tu per me, s'io nol so amare!Amalo tu per me, s'io nol so amare!

La strofe in grassetto sono quelle più conosciute.