sabato 22 dicembre 2012

La Chiesa e le carceri




Il problema delle carceri, di cui si parla da un po’, è, stando così le cose, insolubile. Come, per esempio, quello delle pensioni. Riguardo a quest’ultimo i governi si limitano da tempo ad innalzare l’età pensionabile, convinti, tecnicamente, che per cambiare la realtà basti il cacciavite della legge: stringi, allenta, stringi… Non si arriva a comprendere che è un vicolo cieco: l’età pensionabile non è aumentabile in eterno. La demografia non è un’opinione. Quello che manca sono i giovani: aiutare le famiglie, quella sarebbe la vera riforma strutturale. Ma oggi la famiglia non è più un valore; anzi, è un nemico; così i figli… E senza giovani, non è difficile capirlo, non c’è futuro, per nessuno.
Quanto alle carceri, il discorso è analogo. Non basta agire su di esse, per cambiare la realtà. E’ la realtà di oggi nel suo insieme che genera anomalie e abnormità. Le carceri sono strapiene, perché aumentano crimini e disagio; molti carcerati sono poi costretti a vivere in condizioni indegne e disumane. Liberarli in massa, però, non è la soluzione. Sia perché la logica del condono continuo uccide il diritto, sia perché, in poco tempo, tornerebbero a riempirsi. Giustizia e misericordia devono stare insieme, pena la perdita di ogni senso.
Bisognerebbe prima di tutto capire alcune cose, non solo a livello di governi, ma di popolo: 1) che in una società senza principi le leggi non bastano. Siamo ormai, noi europei, popoli senza fede, senza ideali religiosi e morali. “Non rubare” rimane una legge, ma solo dello Stato. Non è più un comandamento di Dio, non è più nella cultura e nei cuori. Perciò non può funzionare; 2)che una società secolarizzata non è in grado di concepire la redenzione del carcerato, perché ignora che vi è in lui un’anima immortale destinata al Cielo. Le società atee si limitano a difendersi dal male, di cui non comprendono la natura metafisica, e finiscono al più per classificare i delinquenti, alla maniera di Lombroso, come errori genetici; 3) che dove non c’è la società cristiana che ha portato tra i comandamenti quello dell’amore, anche verso i carcerati, accanto ad essi vi possono essere secondini, bravi quanto vogliamo, ma pur sempre impiegati, e non persone che sono lì per dei “fratelli”.
Se ad educare i figli non bastano diligenti professori degni di salario, a rieducare i criminali non bastano i codici, le leggi o le divise. Insomma, una società atea, radicale, che uccide i suoi figli con l’aborto e i suoi malati con l’eutanasia, non può avere a cuore davvero i suoi carcerati.
Vorrei provarlo da un punto di vista storico, benché lo spazio non lo consenta. Mi limito perciò a rimandare ad un rigoroso testo di Antonio Parente, pubblicato a cura del Ministero della Giustizia nel 2007: “La Chiesa in carcere”. Vi si dimostra che sin dall’origine del cristianesimo, per la prima volta, i criminali furono guardati in modo nuovo: non solo come cittadini non più degni della polis, ma anche, lo ripeto, come figli di Dio anch’essi. E’ per questo, è la storia ad insegnarlo, che il carcere moderno, come del resto l’ospedale, nasce non solo dalla cristianità, ma di più, nel suo cuore, a Roma: le Carceri Nuove di via Giulia. Moderno nel senso che al prigioniero vengono concessi più spazio, più igiene, più dignità. Si cerca di farlo lavorare, di riconciliarlo anzitutto con Dio e con sé stesso, di far nascere dall’uomo vecchio un uomo nuovo. E’ qui che si iscrive l’epopea delle Confraternite dei carcerati che si prendono cura del loro vestiario e dei loro alimenti, della loro anima e della loro cultura, persino dei loro familiari. I membri delle confraternite non sono impiegati statali: sono volontari che giungono dove lo Stato non può arrivare; che danno il loro tempo e la loro vita per altri. Oggi, certo, i volontari delle carceri ci sono ancora e fanno un gran lavoro: ma la scristianizzazione , dentro e fuori la Chiesa, ha reso il fenomeno molto meno grandioso e potente di un tempo.
Racconterò un solo episodio, ricostruito da Rocco Pezzimenti nel suo “Persona, società, Stato”. Pezzimenti rievoca l’opera dei Fratelli di Nostra Signora della Misericordia, a Roma, all’epoca di Pio IX. A costoro il papa affida scuole, orfanatrofi, ospedali per malati di mente e un carcere, il Riformatorio di santa Balbina. Sa, il pontefice, che per redimere non bastano salariati, ma occorre la virtù soprannaturale della carità. Per questo si rivolge alle persone giuste: “prima dell’avvento dei Fratelli nelle carceri del Belgio, la quasi totalità dei carcerati che venivano dimessi dagli istituti di pena ritornava in carcere. In quelle dove fu chiamata ad operare la Congregazione l’andamento fu completamente diverso: su una media annua di 225 rimessi in libertà, solo la media di 4 tornava in carcere”. Come si opera a santa Balbina, così da attirare lodi e visitatori anche dall’estero? Per i giovani detenuti sono previsti igiene, condizioni umane, lavori agricoli ed artigianali, meditazioni, vita interiore… In breve finiscono le evasioni e non vi è più bisogno di stretta sorveglianza. Giustizia e misericordia. Ben più che leggi, giacobine o garantiste, e, quando tutto scoppia, amnistie… (Francesco Agnoli)
Il Foglio, 20 dicembre