sabato 29 dicembre 2012

Jean Vanier: “Gesù si rivela nelle nostre debolezze”



Intervista a Jean Vanier, a cura di Jean Mercier, Marie-Lucile Kubacki e Aymeric Christensen
in “www.lavie.fr” del 21 dicembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
La Vie ha incontrato il fondatore dell'Arche, associazione che accoglie persone con handicap
mentale. A 84 anni, dopo una vita a servizio dei più deboli, Jean Vanier si apre con dolcezza e
profondità.
Appena accenniamo al Natale, lascia di colpo la poltrona e va a prendere, su una mensola, una palla
lanosa. Il suo volto si illumina. All'interno, un minuscolo presepe... le pareti e i personaggi sono
fabbricati a partire dalla tosatura di pecore di Betlemme. Umiltà, calore e dolcezza: Jean Vanier è
tutto in quell'oggetto... L'abbiamo incontrato alla comunità dell'Arche  di Trosly-Breuil, nell'Oise, là
dove ha accolto, per più di 40 anni, decine di persone handicappate, condividendo il loro
quotidiano, a servizio della loro dignità e della loro felicità. Nel suo ultimo libro, Les Signes des
Temps (Albin Michel), questo maestro spirituale torna sulla necessità dell'umiltà e dell'accettazione,
da parte di ciascuno, della propria povertà.
A 84 anni, come accoglie la debolezza legata all'età?
La mia grande fortuna è la vita comunitaria. Non ho più responsabilità diretta nell'Arche dai 75
anni. La mia identità non è nel “fare”. Quello che vivo è dell'ordine della comunione. Non c'è
maggior felicità che non aver più bisogno di provare niente a nessuno, ma di essere amati così come
si è. Tutto è diventato semplice. Non potrei essere più felice...
Quando era più giovane, ha fatto l'esperienza di sentirsi povero e debole?
Sì. Nella vita quotidiana, ho capito che per accogliere e amare una persona ferita, la mia
motivazione non era sufficiente. Ho dovuto prendere coscienza della mia debolezza. Innanzitutto,
ho capito che non potevo agire da solo, che avevo bisogno degli altri. Quando Pauline è arrivata
all'Arche nel 1973, aveva 40 anni, ed era stata umiliata, rifiutata per anni. Per accogliere Pauline,
bisognava che io fossi circondato da una comunità e da collaboratori che mi sostenessero. E,
soprattutto, bisognava che io diventassi piccolo e umile, che rinunciassi ad essere dominatore, cioè
ad essere quello che sa tutto e che dice a tutti quello che bisogna fare. Perché a Pauline non serviva
un professionista che le “facesse” del bene. Aveva bisogno di una persona che le dicesse: “Sono
contento di vivere con te.” Le persone con un handicap mi hanno quindi insegnato che, se mi credo
forte, devo diventare debole.
Come si impara a diventare deboli?
Se mi trovo di fronte a una persona colpita dal morbo di Alzheimer, ad esempio, sono povero, non
ho nient'altro da fare che prenderle la mano, sorridere, canticchiare o “abbozzare” un passo di
danza. Si fa l'esperienza di ciò che Gesù dice a San Paolo, quando quest'ultimo supplica il Signore
di togliergli la sua debolezza. Paolo ne parla in maniera “immaginifica”, come di una spina piantata
nel fianco. Ma Gesù gli dice: “La mia grazia ti basta. Perché la mia potenza si dispiega nella
debolezza.”
Nel suo libro, lei parla della “felice debolezza del bambino”. Si può usare la stessa espressione
per una persona anziana non più autosufficiente?
Che si sia bambini o vecchi, la debolezza non è felicità se non si è amati. È l'inferno. Bisogna che il
vecchio sia amato per ciò che è, non per quello che fa, da qualcuno che gli dica: “Ti amo come sei”.
Il problema di sapere se sono amabile, è molto profondo. In fondo, uno si domanda sempre
segretamente: “Ci sono persone che si interessano non a ciò che faccio, ma a ciò che sono
veramente?”
E si ha bisogno di un vero incontro, in una povertà che non cerca alcun potere.
Nel mio libro, parlo di un'esperienza che ho vissuto con un'assistente di una nostra comunità, in
Australia, con un giovane prostituto. Lei era accorsa al capezzale di questo giovane che stava
morendo per overdose. Che le ha buttato lì: “Tu hai sempre voluto cambiarmi, non mi hai mai
accettato come sono.” Lui cercava una persona capace di ascoltarlo senza volerlo cambiare. Quella
donna non lo aveva incontrato davvero.
Perché è così difficile accettare la propria debolezza?
Etty Hillesum si paragona ad un pozzo, in fondo al quale Dio esiste, ma che è ostruito da detriti.
Quei detriti rappresentano la mia tendenza compulsiva a provarmi che sono migliore degli altri.
Voglio essere riconosciuto, con dei titoli, delle etichette. È un modo di pormi in una gerarchia,
spesso culturale, che mi rassicura. Ma Gesù mi dice: “Quando offri un pranzo o una cena, non
invitare i tuoi amici, né i tuoi ricchi vicini, ma invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Allora sarai
benedetto.” E aggiunge: sarò veramente felice quando le mie barriere, quelle del potere e del
conformismo, cominceranno a cadere. È una lotta, perché la promozione e il successo sono al centro
di tutto. Anche nelle scuole cattoliche, si mette al primo posto il 100% di successo all'esame di
maturità... Il mio scopo è aiutare le persone a scoprire di essere un pozzo e che possono donare la
vita nel loro incontro con l'altro. È una vera lotta in una cultura della normalità, in cui l'ossessione è
mendicare l'approvazione dei capi, invece di aiutare le persone ad essere vere.
C'è chi fantastica di un mondo senza persone handicappate. Come sarebbe quel mondo?
Eliminare l'handicap? Allora, bisognerebbe impedire tutte le malattie mentali! Una simile
idealizzazione sogna un mondo senza morte. La tirannia della normalità e della competitività porta
ad umiliare sempre di più le persone che non sono nella norma. Si vuole un mondo perfetto, come si
vuole un figlio perfetto. Se voglio creare un bambino per soddisfare i miei desideri, creo un
conflitto, perché un bambino deve chiaramente essere liberato dal desiderio dei suoi genitori.
Essere “deboli” e veri, è un cosa che implica dei rischi?
Certo, è pericoloso essere se stessi, anche perché posso sbagliarmi. Una parola di Etty Hillesum mi
ha aiutato: “La possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita”. In altre parole: ho
accettato che della mia vita facciano parte la perdita e il fallimento, cioè il rischio. Quando ho
cominciato l'Arche, ho preso con me due uomini che venivano dal manicomio e ho vissuto con loro.
Non sapevo quello che facevo, non ci ho riflettuto troppo. Mi sono affidato a ciò che sentivo essere
il mio dovere. E ho creduto nella Provvidenza. Per vivere, bisogna accettare l'insicurezza, osare
essere diversi, far cambiare le cose. Si corrono rischi quando si fa sentire una voce differente.
Certe persone si sono mostrate vulnerabili e la loro fiducia è stata tradita. Dicono: “Non ci
casco più!” Che cosa risponde loro?
Quando la fiducia è distrutta, è molto duro. Bisogna che la persona tradita si senta dire da qualcuno:
“Sì, hai sofferto terribilmente, quello che hai vissuto è spaventoso.”
Stéphane Hessel ha detto ai giovani: “Indignatevi!” E lei, che cosa dice loro?
Sarebbe troppo semplice, uno slogan... Ecco ciò che dico loro: “Sapete che siete belli? Siete
preziosi, portate in voi delle capacità straordinarie di bontà, potete dare vita tramite la vostra compassione. Ma, per far questo, bisogna alzarsi, agire!”
Nella Chiesa, si entra in un periodo di fragilità e di povertà, le persone sono preoccupate.
Qual è il suo messaggio di speranza?
Molte persone sono come Pietro prima della Pentecoste: non sopportava che Gesù parlasse di
debolezza, di sofferenza, che gli lavasse i piedi. Al punto che ha finito per dire, quando Gesù è stato
arrestato: “Non conosco quell'uomo!” Sì, Gesù è forte. Ma c'è anche un Gesù debole, che vuol
entrare in una comunicazione cuore a cuore con noi. C'è anche una Chiesa umiliata, soprattutto per
le proprie colpe. Una Chiesa che mi offre il corpo e il sangue di Gesù. Il Verbo si fa carne. Bisogna
che il mio cuore di pietra diventi cuore di carne. “Bisogna che tu mangi la mia carne per diventare
come me”, dice Gesù. È sorprendente, no? Aggiunge: “Vi dico questo perché la mia gioia sia in voi,
e che la vostra gioia sia perfetta.” Sogno che siamo persone felici in piccole comunità in cui i deboli
e i forti sono gioiosi insieme, in luoghi di comunione in cui non dovremo provare che siamo
migliori degli altri. Che doniamo vita rivelandoci reciprocamente che siamo sempre più belli di
quanto pensiamo.
È il centro del messaggio evangelico?
Dio si rivela nella debolezza e nella vulnerabilità. Scopro chi è davvero Gesù quando scopro che
sono debole e che ho bisogno di un Salvatore che mi salvi dalle mie paure e dai miei atteggiamenti
compulsivi. Che mi aiuti innanzitutto ad accettarli, cioè che le cose non cambieranno in fretta, come
possiamo desiderare. Devo accettare la mia realtà, cioè che non sono perfetto. Bisogna accettare la
propria debolezza. In quello sta la vera bellezza dell'essere umano.
percorso di Jean Vanier
1928: nasce a Ginevra (Svizzera)
1942: entra, su sua richiesta, al collège della Royal Navy (Inghilterra) a 13 anni.
1950: dà le dimissioni dalla marina e studia teologia.
1964: si stabilisce a Trosly-Breuil (Oise) con due handicappati mentali. Così comincia l'avventura
delle comunità dell' Arche che si diffondono a partire dagli anni '70 in tutti i continenti.