venerdì 21 dicembre 2012

Ideologia del gender 1 - "Dossier FIDES" 11/2007-04/2008


Questa mattina nel Discorso alla Curia Romana il Papa ha fatto riferimento alla ideologia dei "Gender". 
Propongo la lettura di questo dossier per capirne un pò di più...

[Nela foto sopra di Steed Gamero, Eva Robin's nel "Berliner portrait III", un simbolo del "gender" durante la persecuzione nazista]

Agenzia FIDES – 24 novembre 2007
DOSSIER FIDES

IDENTITÁ E GENERE

L’ONU e l’ordine naturale del mondo
La teoria del “gender” trasforma in modo definitivo la cultura occidentale
Il pensiero “gender”: come si sviluppa
La posizione della Chiesa Cattolica
Lo sforzo delle Nazioni Unite: cancellare dai documenti ogni parola sessuata, riferita alla distinzione tra maschile e femminile
“Rivoluzione della filiazione”
La situazione europea rispetto al matrimonio e alla genitorialità
La “pressione” esercitata dall’Unione europea tende a modificare la concezione di famiglia come viene tradizionalmente intesa
La Chiesa vista come “il nemico”
Intervista a Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, Vice-Presidente dell’Associazione Scienza e Vita, membro del Comitato Italiano di Bioetica.
L’ONU e l’ordine naturale del mondo
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - “La questione del ‘genere’ è la chiave intorno a cui, da vent'anni, gira tutto il tentativo di buttare all'aria l'ordine naturale del mondo, senza darlo a vedere. Adottare una prospettiva di genere, spiega un documento dell'Instraw, un istituto che fa parte dell'Onu, significa ‘distinguere tra ciò che è naturale e biologico e ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e rinegoziare i confini tra il naturale e la sua inflessibilità, e il sociale’. Questo comporta rifiutare l'idea che l'identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, e affermare che ciascuno si costruisce il proprio ‘genere’ fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie.”. Lo ha affermato Dale O'Leary, medico, membro della “Catholic Medical Association”, sulla rivista “Tempi” dell’8 febbraio 2007.
La vera ragion d’essere della teoria “gender”, spiega la O’Leary, è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. Il concetto di “gender” rappresenta infatti il primo passo per sviluppare in modo più ampio lo sganciamento dell’identità sessuale dalla realtà biologica, tanto che il “gender” incontra il suo logico sviluppo nell’approccio “queer”, cioè nella prospettiva dell’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita dalla stessa persona. Questa metodologia non rivendica un’identità particolare, ma si propone come un movimento che rimette in discussione le identità ritenute normative. “Il travestito – scrive Judith Butler in ‘Gender Trouble’ – è la nostra verità per tutti. Rileva la struttura imitativa del genere stesso. Noi tutti non facciamo che travestirci ed è il gioco del travestimento che ce lo fa capire”. Judith Butler, filosofa, docente a Berkeley, nei suoi studi sostiene che l’identità sessuale è sempre un’invenzione, che qualsiasi richiamo alla natura è truffaldino, antiquato, socialmente e culturalmente costruito: in una parola, oppressivo e discriminatorio per definizione. In questa prospettiva, i termini “madre” e “padre” sono quasi degli insulti, ciarpame da azzerare con definizioni meno biologicamente deterministiche, mentre la via della liberazione passa per la possibilità di costruire ciascuno il proprio “genere”.
La teoria del gender viene così utilizzata per negare la differenza biologica fra i sessi, sperando così di “renderli uguali”: si tratta dunque di una ennesima versione delle utopie egualitarie che da oltre due secoli percorrono il panorama ideologico dell’occidente. Dimenticando che si può essere differenti senza essere per forza diseguali, perché la differenza non è sinonimo di discriminazione. La differenza, infatti, non si oppone all’eguaglianza, ma alla similitudine e all’identità.
La teoria del ‘gender’ trasforma in modo definitivo la cultura occidentale
Anche se si presenta solo come un allargamento delle identità sessuali ai fini di aumentare le possibilità di scelta individuale, la teoria del “gender”, negando la differenza sessuale, trasforma in modo definitivo la cultura occidentale, cambiando completamente l’idea di natura e di identità naturale, il concetto di famiglia e di procreazione, tutti nodi fondamentali di qualsiasi sistema antropologico.
Non è solo questione di esaudire desideri di singoli, o di gestire degli affetti, ma di riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano; a questo fine, l’ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto irriducibile e strutturante da cui non si deve prescindere.
Quello che si rischia di distruggere, introducendo la neutralità del gender, è un complesso sistema simbolico e culturale: “Un sistema di parentela – scrive Lacroix in “In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione” (Milano, Vita e Pensiero, 2006, p.102) - è un’istituzione che attribuisce a ognuno un suo spazio, definendo chi è rispetto a chi. La confusione degli spazi comporta una confusione dell’identità”.
È importante rendersi conto della vera portata di questo cambiamento prima di prendere decisioni legislative su questi problemi, e magari contribuire, anche solo in modo passivo, alla diffusione della cultura del “gender”, ha scritto Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, nell’introduzione ad un quaderno che l’Associazione “Scienza e Vita” “l’associazione che presidia la vita, dal suo sorgere sino al suo termine naturale” – ha dedicato al tema “Identità e genere”.
Del resto, non appare di secondaria importanza considerare il fatto che questa cultura - che, rifiutando l’idea che l’identità sessuale sia iscritta nella natura, nei cromosomi, afferma che ciascuno si costruisce il proprio “genere” fluttuando liberamente tra il maschile e il femminile, transitando per tutte le possibilità intermedie – ha influenzato in maniera pervasiva perfino i documenti delle organizzazioni internazionali.
Il pensiero “gender”: come si sviluppa
A parere di Eugenia Roccella - scrittrice, ricercatrice universitaria, editorialista di “Avvenire”, co-portavoce del “Family Day” - per comprendere come sia accaduto che sui documenti degli organismi internazionali sia comparso il termine “genere”, è necessario richiamarsi al femminismo, in particolare al femminismo sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni ’70.
In una prima fase – attraverso l’apporto di Betty Friedman, Simone de Beauvoir, Shulamith Firestone, teoriche del femminismo e dell’emancipazione della donna – nasce l’idea di un’uguaglianza e di una libertà modellate sul corpo maschile, cioè su un corpo che non genera; si tratta di una svalorizzazione o addirittura di una negazione della differenza sessuale, per assumere come oggetto del desiderio il ruolo pubblico dell’uomo, e come scopo politico l’assoluta parità sessuale e l’emancipazione.
Il pensiero “gender” si sviluppa su questi presupposti: non esiste un’unica differenza sessuale (quella maschio/femmina), ma tante differenze, legate all’orientamento sessuale, alla razza, alla cultura, alla condizione sociale; il pensiero “gender” si allarga fino a destituire totalmente di significato la dualità maschio/femmina, operando una separazione sempre più netta tra la differenza sessuale biologica e la costruzione dell’identità, sociale e psicologica.
Il fatto che a maschi e femmine venga assegnata un’identità sessuale definita in base ad alcuni caratteri anatomici è, per i sostenitori del “genere”, solo una convenzione, una costruzione culturale, a cui contribuiscono potentemente i condizionamenti messi in atto dalla società e dalla famiglia. Le sfumature possibili, tra maschio e femmina, sono molte, e la dualità dei sessi è frutto dell’imposizione di ruoli e gerarchie prefissate. La differenza maschio/femmina non ha alcun fondamento nella realtà: si tratta solo di un “discorso” connesso alle pratiche del potere e fondato sull’esclusione di chi è diverso. L’identità di genere non può essere stabile, visto che non dipende da fatti biologici, ma è fluida, relazionale, legata ai mutamenti storici, geografici, culturali, ambientali, personali e collettivi.
Questa linea di pensiero conduce inesorabilmente verso la decostruzione di ogni possibile identità femminile, derubricata a una delle mille varianti delle differenze identitarie.
Il caso più spavaldo di radicalismo tecnolibertario – a parere di Eugenia Roccella - è quello di Donna Haraway e del suo “Manifesto cyborg”, uscito negli Usa nel 1991. Il cyborg, secondo la definizione dell’autrice, è “un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, (…) una creatura di un mondo post-genere”. Il corpo mutante del cyborg, ottenuto grazie a innesti tecnologici di ogni tipo, è la leva che scardina l’identità sessuale definita, liberandola per sempre dal condizionamento biologico e culturale: non ci sarà più l’oppressione di un sesso su un altro, perché non ci saranno più né donne, né uomini.
In conclusione, il vocabolo “genere” si presta quantomeno a interpretazioni ambigue, e la sua adozione indiscriminata da parte delle Nazioni Unite e dell’Europa contribuisce alla confusione generale. L’impressione è che da alcuni il termine sia adoperato, in campo internazionale, come una leva per scardinare l’idea tradizionale di famiglia e l’identità sessuale definita (il cosiddetto “paradigma eterosessuale”). Il concetto di genere appare come un’arma impropria che gli organismi internazionali si illudono di poter maneggiare, mentre tende spontaneamente a sfuggir loro di mano. Una volta sfondato l’argine della differenza biologica, il corpo diventa un’astrazione, qualcosa di artificiale e manipolabile.
La posizione della Chiesa Cattolica
La Chiesa cattolica, che è entrata direttamente in questo dibattito soprattutto con la Conferenza mondiale di Pechino sulla condizione femminile (4-15 settembre 1995), ha ben chiara la diversità di posizioni esistente nell’ambito del pensiero delle donne. In occasione della Conferenza, Giovanni Paolo II scrisse una “Lettera alle donne”. In quel testo, famoso per il richiamo che il Papa fece al “genio della donna”, si affermava, tra l’altro: “Femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del ‘maschile’ e del ‘femminile’ che l' ‘umano’ si realizza appieno”.
Questo testo - unito a quella indirizzato nel 2004 ai Vescovi “sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”, dall’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Card. Joseph Ratzinger, l’attuale Pontefice Benedetto XVI - delinea una posizione che dialoga con il femminismo della differenza e prende le distanze da quello emancipazionista e dalle teorie del “gender”.
Nel testo firmato dall’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, si legge, tra l’altro: “Per evitare ogni supremazia dell'uno o dell'altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L'oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l'equiparazione dell'omosessualità all'eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa”.
Nel documento, la differenza sessuale è interpretata “come realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna: la sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Essa non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano” .
La Chiesa riconosce come, alla base di ogni esperienza umana, ci sia quella di nascere sessuati: questione che nel pensiero della differenza ha un peso fondamentale.
Lo sforzo delle Nazioni Unite: cancellare dai documenti ogni parola sessuata, riferita alla distinzione tra maschile e femminile
Ad ogni appuntamento delle Nazioni Unite sui temi della donna, della procreazione e della sessualità, si discutono ferocemente questioni che ai profani possono apparire come inessenziali modifiche terminologiche, e che invece, se recepite, aprirebbero squarci profondi nella faticosa costruzione di un quadro etico condiviso.
La battaglia delle parole si articola in alcune riconoscibili modalità d’intervento. Basta accennare al fatto che la trasformazione agisce in più direzioni, di cui la più clamorosa e significativa è quella che tende a cancellare ogni parola sessuata, riferita cioè alla distinzione tra maschile e femminile. Il vocabolario adottato deve essere “gender neutral”, quindi non deve contenere, nemmeno implicitamente, la temuta differenza sessuale. I termini “madre” e “padre” sono stati abbandonati in favore di “progetto parentale” o “genitorialità”. Anche il termine “maternità” è bandito dal nuovo linguaggio delle burocrazie internazionali, sia all’Onu che nell’Unione europea, così come il vocabolo “procreazione”. Meglio la definizione “diritti riproduttivi”, dove – come argomenta Eugenia Roccella - il sostantivo “diritto” dovrebbe riscattare la sgradevole piattezza dell’aggettivo, “riproduttivo”, schiacciato sul biologismo; un aggettivo che richiama la riproduzione dell’identico, quindi della specie, e non dell’individuo, il quale, per fortuna, rimane (ancora) dotato della sua fragile irripetibilità.
“Rivoluzione della filiazione”
Per la cosiddetta “Agenda di genere”, per la “teoria del gender”, che considera vecchie e discriminatorie le definizioni “sesso maschile” e “sesso femminile”, le madri sono in qualche modo imbarazzanti. Del resto, forse non è un caso che il documento preparatorio della Conferenza dell’Onu di Pechino “non contenesse – come ha scritto O’Leary – un solo programma per donne che sono madri o casalinghe a tempo pieno”. “L’unico modo per salvare il mondo è l’eliminazione della maternità”, ha scritto Jane Flax, un’altra sostenitrice del gender. Oppure, ed è quello che sta avvenendo, l’annegamento della maternità in una miriade di nuove forme legalmente riconosciute che frantumano la filiazione e la attribuiscono, con espedienti giuridici, ai più vari soggetti desideranti.
Quel che sta avvenendo nel mondo, viene chiamato, in un rapporto uscito lo scorso anno di un’organizzazione indipendente americana, la “Commission on Parenthood’s Future”, “rivoluzione della filiazione” (il titolo originale del rapporto è “Revolution in parenthood. The emerging global clash between adult rights and children’s needs”, a cura di Elizabeth Marquardt). Lo studio prende in esame le legislazioni familiari nel mondo, i modi in cui negli ultimi anni sono stati ridisegnati i ruoli genitoriali e segnala “il conflitto mondiale emergente tra i diritti degli adulti e i bisogni dei bambini nelle nuove definizioni dello statuto parentale”.
In particolare, nel rapporto si sottolinea come “il modello che prevede due persone, una madre e un padre, è oggetto di cambiamenti finalizzati ad assicurare il diritto degli adulti alla procreazione, anziché a tutelare il bisogno dei bambini di conoscere la propria madre e il proprio padre, e di essere da essi allevati”.
Un giudice spagnolo di Algeciras ha stabilito che in una coppia lesbica unita in matrimonio ha diritto a essere riconosciuta automaticamente come madre non solo la donna che ha partorito un bambino da fecondazione artificiale, ma anche l’altra, che fino a oggi doveva ricorrere all’adozione.
In Canada, si prevede la sostituzione, nella legislazione federale, del termine “genitore naturale”, con la dizione di “genitore legale”.
In Spagna, nei certificati di nascita si legge “progenitore A” e “progenitore B” e non più padre e madre.
In Massachusetts, nei certificati di nozze, non c’è più scritto “moglie” e “marito” , ma “parte A” e “parte B”.
In Nuova Zelanda, si sta considerando la possibilità, per i nati da donazione di gameti, di una trigenitorialità legale per il padre e la madre committenti e per il donatore.
Un’idea simile è al vaglio in Irlanda, allo scopo di garantire alla donna che affitta l’utero un ruolo materno legalmente riconosciuto, sempre in aggiunta alla madre committente e al padre.
La situazione europea rispetto al matrimonio e alla genitorialità
Sono tre i Paesi europei in cui è possibile celebrare le nozze indifferentemente dal sesso delle persone che intendono sposarsi. L’Olanda, che consente tale possibilità dal 2001. Sulla scia olandese, il Belgio nel 2003 e la Spagna nel 2005. Le nozze civili tra due persone indipendentemente dal loro sesso sono dunque una possibilità molto rara in Europa (quanto al matrimonio religioso, dal 1997 i Vescovi della Chiesa Luterana Danese, Chiesa di Stato, celebrano le nozze tra persone dello stesso sesso).
Diverso è il caso della registrazione di coppie di fatto formate - oltre che da donne e da uomini – da donne e donne, o da uomini e uomini. Il primo paese europeo ad aver previsto una “registrazione di partnership” con valore legale per le coppie gay è stata la Danimarca nel 1989. Da questa data infatti vengono loro riconosciuti gli stessi diritti spettanti alle coppie eterosessuali in materia di alloggi, pensioni, immigrazione, eredità, assicurazioni, benefici sociali, riduzioni delle tasse, sussidi di disoccupazione e via dicendo, prevedendo altresì il pagamento degli alimenti in caso di separazione.
Tra il 1993 e il 1994 sono state quindi la Norvegia e poi la Svezia ad aver riconosciuto alle coppie omosessuali la possibilità di registrare la loro relazione, introducendo anche qui una parità di diritti e di doveri con le coppie eterosessuali. Nel 1996 è la volta dell’Ungheria e dell’Islanda. Contestualmente il paese nordico, primo ordinamento al mondo, ha garantito alle coppie dello stesso sesso il diritto di tutela comune per i bambini nati da precedenti unioni di uno dei partner (l’Ungheria aveva invece escluso espressamente l’adozione). La legge del 13 ottobre 1999 ha quindi introdotto in Francia i pacs (patti civili di solidarietà), una normativa che regolamenta le coppie di fatto, omosessuali o eterosessuali che siano. Registrazioni sono similmente in vigore in Finlandia, Germania, Croazia, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovenia e Regno Unito.
A limiti temporali fanno quindi riferimento alcuni ordinamenti; la legge croata richiede che la coppia omosessuale coabiti da almeno 3 anni prima di riconoscerle gli stessi diritti previsti per quelle eterosessuali (compreso il diritto di eredità e l’obbligo di sostegno economico), mentre in Portogallo diritti legali e riduzione delle tasse sono riconosciuti solo agli omosessuali che convivano da più di 2 anni.
Il primo paese europeo ad aver previsto l’adozione per gli omosessuali è stata la Norvegia nel 1993: da quando cioè è stata data alle coppie omosessuali la possibilità di registrare le loro relazioni, si è prevista anche l’adozione. Il modello è stato presto esportato, e oggi possono adottare le coppie omosessuali in Olanda, Inghilterra, Galles, Spagna, Belgio, Scozia, Svezia e Finlandia. C’è però una differenza molto importante tra queste leggi. Mentre le prime cronologicamente emanate prevedono l’adozione solo all’interno dei confini nazionali, il che significa solo dei bambini “autoctoni”, onde evitare conflitti con i paesi degli adottandi (come spiega la legge olandese), recentemente sono state emanate nuove disposizioni che travalicano gli ostacoli geografici. È stata la Svezia il primo paese a permettere alle coppie dello stesso sesso di adottare bambini provenienti da tutto il mondo, possibilità espressamente introdotta nel 2005, modificando la legge che dal 2003 prevedeva per loro solo l’adozione di bambini svedesi.
Altri paesi hanno invece introdotto la cosiddetta “adozione del figliastro”: gli omosessuali possono cioè diventare genitori solo adottando i figli del proprio partner. Così in Islanda, Germania e Danimarca. Anche qui però delle differenze: se in Germania possono essere adottati dal partner i figli nati da precedenti unioni, i figli naturali e quelli nati con inseminazione artificiale, in Danimarca ciò riguarda soltanto i figli nati da precedenti unioni.
“Da tempo – sottolinea Giulia Galeotti, storica e saggista, nel quaderno di “Scienza e Vita” intitolato a “Identità e genere” - gli organi europei hanno una seria preoccupazione: l’esclusione dal matrimonio e dalla facoltà genitoriale per le coppie dello stesso sesso”. I progressi che si auspicano nelle legislazioni nazionali attraverso risoluzioni, raccomandazioni, pronunciamenti, direttive e quant’altro sono così di permettere agli omosessuali di sposarsi e di avere dei figli, o adottandoli o ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita.
Il tipo di riforma legislativa auspicata è ben rappresentato dalle modifiche recentemente introdotte in tre norme del codice civile spagnolo. La vecchia formulazione dell’articolo 44 infatti, quella secondo cui “l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio” è diventata “qualunque persona ha diritto a contrarre matrimonio”; l’articolo 66 è invece passato da “il marito e la moglie sono eguali nei diritti e nei doveri” a “i coniugi sono eguali nei diritti e nei doveri”; l’articolo 67 infine ha sostituito “il marito e la moglie debbono rispettarsi e aiutarsi reciprocamente” con “i coniugi”, ai quali ora questi stessi doveri sono imposti. Chiaramente, il passaggio è quello da una coppia formata da un maschio e da una femmina, ad una coppia di persone, tout court, uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna; indifferentemente, stessi diritti, doveri, facoltà, potenzialità e aspettative.
La “pressione” esercitata dall’Unione Europea tende a modificare la concezione di famiglia come viene tradizionalmente intesa
Un esempio concreto può aiutare a comprendere il tipo di pressione che la Unione Europea (UE) va esercitando, una pressione che mira a modificare – ricorrendo agli strumenti giuridici di cui l’Unione dispone – la concezione di famiglia così come viene tradizionalmente intesa.
In passato, la Corte di Giustizia ha spesso ribadito che il diritto di movimento è un diritto fondamentale dei cittadini europei a prescindere dalle ragioni per cui il singolo decida e scelga di vivere in un altro Stato rispetto al proprio. Di conseguenza, nel 2001 la Commissione ha voluto sostituire la varietà di norme settoriali esistenti in materia (relative a lavoratori, studenti e via dicendo) con una singola direttiva che indicasse le condizioni in presenza delle quali il cittadino UE potesse spostarsi in un altro stato membro, prendendovi la residenza. I negoziati sono durati più di due anni, un ritardo che si deve anche all’emersione del problema di definire cosa si dovesse intendere per famiglia di un cittadino europeo. Fino ad allora infatti, le norme sulla libertà di movimento dei lavoratori (per fare un esempio) intendevano lo sposo o la sposa del soggetto interessato e i loro figli. Nel caso Reed v. Netherlands (59/85) la partner non sposata di un inglese che lavorava in Olanda aveva rivendicato il suo titolo di residenza nel paese nordico, basando la richiesta sul suo diritto di essere legalmente trattata come la sposa legittima del lavoratore. La Corte aveva però respinto tale lettura con la motivazione che la definizione di moglie si applica solo a chi è legata in legittimo matrimonio. Sulla base di queste indicazioni, molte associazioni nazionali e internazionali di gay, lesbiche, bisessuali e transgender (tra cui la potente “ILGA-Europe, International Lesbian and Gay Association”) hanno fatto grandi pressioni presso la UE perché la definizione di famiglia nella direttiva in esame fosse “inclusiva”, una pressione che però – a loro avviso – non sarebbe andata a buon fine giacché, in barba al formale sostegno ricevuto dal Parlamento, il testo finale della direttiva sarebbe stato un tremebondo compromesso.
Di questa direttiva del 2004 sulla libertà di movimento delle persone nel territorio dell’Unione, per evidenziare le pressioni che si intendono operare, interessano in particolare gli articoli che definiscono i membri della famiglia legittimati ad accompagnare un cittadino UE in un altro stato membro.
Quanto alla definizione dei partner sposati, se l’articolo 2(2) spiega che “membri della famiglia significa (…) la sposa o lo sposo”, il preambolo della direttiva afferma con chiarezza che “gli Stati membri dovrebbero applicare la direttiva senza discriminazione quanto ai suoi beneficiari in relazione a (…) l’orientamento sessuale”. Ora è vero che il preambolo non è legalmente vincolante per gli ordinamenti, ma le indicazioni in esso contenute potrebbero venire utilizzate dalla Corte di Giustizia nel guidare l’interpretazione della direttiva. Sarebbe infatti molto facile sostenere che intendere la dizione di sposo o di sposa come riferita solo alle coppie eterosessuali rappresenterebbe una chiara discriminazione in relazione alle scelte sessuali del singolo, specie in relazione ai tre paesi che prevedono il matrimonio omosessuale. Se infatti finora i pronunciamenti della Corte sono stati simili a quello di D and Sweden v. Council (122/99) in cui i giudici hanno affermato che stando alla definizione “generalmente accettata dagli Stati membri” il termine matrimonio include le nozze tra persone di sesso diverso, si tratta però di decisioni che risalgono a quando nessuno Stato membro ammetteva i matrimoni tra omosessuali.
Passando ai partner di fatto, la direttiva riconosce un diritto di movimento anche per queste coppie. L’articolo 2(2)(b) definisce il membro della famiglia come “il partner con cui il cittadino UE ha concluso un accordo in base alla legislazione interna dello Stato membro, se lo Stato ospitante parifica coppie di fatto e matrimonio”. Questo significa che il partner di una coppia di fatto può avvalersi del diritto di movimento se ha concluso un patto di riconoscimento in uno Stato membro e se il paese in cui ci si vuole trasferire parifica nella sua legislazione coppie di fatto e matrimoni. Un problema non marginale risulta così essere quello di capire se vi sia e cosa preveda la registrazione del legame nel singolo paese giacché le legislazioni nazionali differiscono non poco in materia. Se nessun problema si pone laddove ci si muova tra Danimarca, Gran Bretagna e Spagna, più complesse possono essere le cose già solo se si voglia andare in Francia, la cui legislazione non parifica tout court pacs e matrimonio (ad esempio, la coppia del pacs non può adottare).
Al di là di ciò che vige nel singolo ordinamento, alla luce del fatto che la direttiva parli del dovere dello Stato di facilitare l’ingresso del partner riconosciuto ma non sposato, anche negli ordinamenti che non prevedono un riconoscimento per le coppie di fatto sarà più difficile negargli totalmente l’ingresso. Lo Stato che riceve la domanda della coppia dovrà dunque esaminarla con estrema attenzione – anche in virtù del testo della direttiva che parla di una “relazione durevole” e “debitamente attestata” – e dovrà quindi fornire una giustificazione strutturata e argomentata in caso di rifiuto.
Il fatto che in base alla direttiva il diritto di movimento si applichi anche ai discendenti pone un altro problema non marginale: lo Stato ospitante deve riconoscere il diritto del figlio di una coppia di omosessuali laddove la sua legislazione interna non preveda questa forma di genitorialità? Al di là della posizione del minore che va evidentemente difesa, lo scoglio concettuale è ragguardevole.
Immaginiamo il caso di una coppia di sposi omosessuali spagnoli che si trasferisca in Grecia per lavoro. E immaginiamo che qui la legge nazionale – che non riconosce tali unioni – preveda un regime fiscale vantaggioso per le coppie sposate rispetto alle non sposate. Ebbene, giacché l’articolo 24(1) della direttiva stabilisce che i cittadini UE devono ricevere lo stesso trattamento riconosciuto ai cittadini dello Stato ospitante, il nodo da sciogliere è se la legge greca si applichi anche alla coppia omosessuale legalmente maritatasi in Spagna.
A parere di Giulia Galeotti, in queste spinte e sollecitazioni della UE non è difficile ravvisare una forzatura del diritto comunitario. In base ad esso infatti la famiglia e la sua definizione giuridica sono temi e questioni proprie del singolo Stato membro.
La discrasia tra l’atteggiamento della UE e il sentire della maggioranza degli Stati aderenti è emersa con chiarezza in relazione alla sottoscrizione della “Doha Declaration”. Nel febbraio 2005 infatti, l’Olanda, all’epoca presidente di turno, ha schierato l’Unione contro una risoluzione ONU in difesa della famiglia, la “Doha Declaration” appunto, presentata dal governo del Qatar e approvata nel dicembre 2004 dall’Assemblea Generale per consensus. Il testo, emanato in occasione dell’anno internazione della famiglia, ribadiva i principi espressi nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che prevedeva un nucleo domestico con una coppia e, conseguentemente, dei genitori di sesso diverso. Ebbene, questa impostazione sollevò due proteste ufficiali avanzate da olandesi a nome dell’“European Union Group”, che include gli Stati associati. L’una era di Peter-Derrick Hof, il quale sosteneva che, essendo le famiglie e le strutture familiari cambiate nel corso degli anni, si rendeva necessaria la dissociazione della UE da un testo e da una visione ormai superati. L’altra era invece di Dirk Jan Van Den Berg, secondo il quale gli Stati non possono più riconoscere quel vecchio modello che, alla luce dei cambiamenti occorsi, introduce inaccettabili discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Il risultato è stato il ritiro dell’adesione UE alla dichiarazione in esame. Alla luce dell’analisi condotta sulle legislazioni vigenti in quegli Stati membri (che non sono la totalità) che ammettono delle aperture in tema, risulta evidente come la presa di posizione olandese non trovasse effettivo riscontro.
“Quest’ottica paritaria tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali di cui si fa portavoce l’Unione – sostiene la Galeotti - non è infatti così diffusa, o lo è con una serie di distinguo. Ad esempio, nonostante quello che si vuole sostenere, la possibilità di adottare il figlio del proprio partner omosessuale è un caso particolare, e non significa asserire il principio generale per cui la genitorialità può essere costruita a prescindere dal sesso dei genitori”.
La Chiesa vista come “il nemico”
In un testo presentato da Mons. Jacques Arenes, il 4 novembre 2006, in occasione dell’Assemblea della Conferenza Episcopale Francese, tra l’altro si legge: “La gender theory si diffonde sempre più nei mass media e nel dibattito pubblico a causa della visione politica della sessualità e in relazione all’attivismo gay. In questa dimensione militante, la Chiesa, ma anche alcuni approcci antropologici come quelli della psicoanalisi o dello strutturalismo, appaiono come ‘il nemico’, guardiani di tradizioni limitanti”.
Monsignor Arenes spiega che per il mondo cristiano, ma soprattutto per quanti considerino la differenza un vettore di senso e di umanizzazione, appare urgente riflettere su un approccio del maschile e del femminile depurato delle antiche gerarchie e aggiunge che “la ‘norma’ eterosessuale non è solo statistica o generata dall’oppressione. È l’espressione collettiva di singolarità che si realizzano nell’alterità che è loro data”. Invita a considerare l’omosessualità un dramma, un dramma che non è semplicemente il risultato dell’omofobia generale, ma di una difficoltà e di una sofferenza esistenziale e psichica e “a riabilitare una forma di memoria in cui i dati sono prodotti da un mondo in cui la differenza dei sessi aveva, e ha ancora, un senso, separandoli da una finalità gerarchica”. Monsignor Arenes ritiene che la riflessione sulla mascolinità sia fondamentale: “nella nostra cultura – afferma Arenes - il maschile è decostruito, pertanto deve essere ridefinito. Cos’è il soggetto maschile nel suo rapporto con il tempo, le donne, gli altri uomini, l’ereditarietà, la trascendenza? Che ne è di un soggetto maschile in una cultura in cui l’uguaglianza tra uomini e donne non è più da rimettere in discussione? Può nell’esistenza radicarsi qualche cosa di diverso da un patto di sradicamento del femminile o una posizione depressa di fronte all’evidenza del femminile?”.
L’ascolto, l’accoglienza, la valorizzazione delle relazioni per quanto riguarda il femminile non sono necessariamente passività o sottomissione, secondo Monsignor Arenes, che sostiene: “La tensione al di fuori di sé, la fame di spazio, l’amore per il linguaggio sociale per quanto riguarda il maschile non sono soltanto l’espressione di una verticalità schiacciante, e non sono incompatibili con una forma d’accoglienza e d’ascolto dell’altro. Queste polarità, maschili e femminili, non escludono gli avvicinamenti, e nemmeno le incursioni nel territorio dell’altro. Sono flessibili, e generano differenziazioni non riduttive e limitanti. Sono fonte di vita”. Monsignor Arenes si chiede: se oscillassimo in un mondo in cui esistesse solo l’autodefinizione per ciascuno dei percorsi singolari del genere, che ne sarebbe del rapporto con la sessuazione? “Da un lato – sostiene - può svilupparsi sempre di più la ricerca travolgente dei piaceri, in una perdita irrimediabile dell’incontro; dall’altro, di fronte al modello eterosessuale, si può arrivare ad un inasprimento di quella che è stata definita la guerra dei sessi. In quest’ultimo caso, che spesso si verifica nelle separazioni, il mondo dell’altro sesso diventa globalmente oggetto di odio o di scherno”.
Alla fine testo, Monsignor Arenes prende in considerazione un’altra possibilità suggestiva: “reinventare un gioco vivente della differenza, tenendo conto della libertà attuale, differenza che non sarebbe più percepita come imposta da una verticalità istituzionale, ma dovrebbe venire rinnovata come oggetto da ricreare da parte delle donne e degli uomini. Questo gioco dinamico della differenza permetterebbe senza dubbio di ritrovare ciò che oggi, in parte, è andato perduto”.
Intervista a Lucetta Scaraffia, Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, Vice-Presidente dell’Associazione Scienza e Vita, membro del Comitato Italiano di Bioetica
Può spiegare in che modo la teoria del "gender" tende a trasformare radicalmente - come Lei ha affermato - la cultura occidentale?
Perché per la prima volta una tradizione culturale sostiene che l’umanità è un insieme di individui indifferenziati, invece di accettare la realtà, cioè che è costituita da due identità sessuali diverse, e proprio per questo fertili. Non c’è mai stata nessuna civiltà che ha negato questa evidenza, e negarla significa costruire una società sulla menzogna, significa dire che non c’è bisogno di questa differenza per procreare, e quindi per prolungare nel tempo un gruppo umano.
E' d'accordo con chi ritiene che il termine "genere", adottato in maniera indiscriminata nei documenti delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, sia adoperato come una leva per scardinare l'idea tradizionale di famiglia e l'identità sessuale definita?
Sono d’accordo. Anche se spesso chi usa il termine “gender” lo fa senza sapere l’ideologia ad esso sottesa, ma solo perché pensa che è più elegante di differenza sessuale. Adottando “gender” si diffonde l’idea che non ci siano due identità sessuali ma una situazione di indeterminatezza, cosicché ciascuno può decidere a quale sesso appartenere. L’idea è che l’identità sessuale sia completamente svincolata dalla realtà biologica del corpo, ma debba corrispondere solo al desiderio individuale.
Perché la questione di "nascere sessuati" ha grande rilevanza nel "pensiero della differenza"? Che cos'è il "pensiero della differenza"?
Il pensiero della differenza è quello che contraddistingue una corrente femminista che – invece di cercare di uniformare le donne al modello maschile – chiede che venga valorizzata la loro differenza. Il contrario del “gender”, quindi.
Dale O'Leary afferma che la ragion d'essere della teoria del "gender", è essenzialmente sul piano politico, per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. E' d'accordo?
Non del tutto. La teoria del “gender” è nata come funzionale al movimento femminista: se non c’è differenza sessuale, se non ci sono diversità fra gli esseri umani, tutti sono uguali, quindi non ci sono ragioni per negare alle donne l’emancipazione. E’ stato come se, invece di chiedere uguali diritti nella diversità si volesse negare la diversità per fondare l’uguaglianza dei diritti. Dopo le donne, certo, sono venuti gli omosessuali, che avevano il problema di una identità svalorizzata da cui liberarsi. E, attraverso il “gender”, ci sono riusciti.
Se la teoria del "gender" introduce un cambiamento così profondo, perchè, a Suo avviso, se ne parla così poco, almeno rispetto alla sua finalità, nel dibattito politico e culturale?
Perché molti non sanno, non sono consapevoli, del pericolo che comporta. Ma anche perché combattere la teoria del gender significa essere considerati ignoranti, fuori dal mondo, ottusi conservatori, e molti non hanno voglia di pagare questo prezzo per dire la verità.
Esiste, a Suo avviso, la possibilità di arginare gli effetti che appaiono così devastanti della teoria del "gender"?
Dicendo la verità, spiegando sempre cosa significa, e denunciando la menzogna che è nascosta dietro alle richieste degli omosessuali di sposarsi, avere figli, ecc. Non si tratta di matrimonio, perché il matrimonio c’è solo per le coppie di sesso diverso – le uniche potenzialmente fertili - e non ci sono figli di due persone dello stesso sesso: al massimo, di una delle due. L’idea di famiglia che viene imposta a questi bambini è sbagliata, è falsa. E vivere nella falsità li danneggia, inibisce il loro sviluppo psichico dalla prima infanzia.
(Dossier a cura di D.Q. – Agenzia Fides 24/11/2007)
* * *


Agenzia FIDES – 18 aprile 2008
DOSSIER FIDES
IDENTITÀ E GENERE
(seconda parte)
I bambini britannici non potranno più dire mamma e papà
Come benefit, il cambio di sesso
Il potere sulla vita
Le organizzazioni internazionali contro l’ordine naturale del mondo
Si tratta di una rivoluzione culturale
La genetica della determinazione sessuale
Intervista a Mimmo Delle Foglie, portavoce di Scienza e Vita,
co-portavoce del Family day, editorialista dell’Avvenire.
Testimonianza del Prof. Edmund D. Pellegrino,
Presidente Emerito delle Università Cattoliche Americane.
Questo dossier è disponibile anche sul sito dell’Agenzia Fides: www.fides.org
I bambini britannici non potranno più dire mamma e papà
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - A quattro anni, dovranno comprendere l’idea che esistono genitori dello stesso sesso. Per combattere “le tendenze omofobiche e il bullismo radicate già nelle scuole elementari”. Sarà loro vietato di pronunciare le parole “mamma” e “papà”. Dovranno usare il termine “genitore”. “Per non urtare la sensibilità di chi non appartiene a u­na famiglia tradizionale”. Accade. In Inghilterra. L’iniziativa è del Ministro della Scuola, Ed Balls. Nella sua direttiva, si prevede che alle scuole medie e a quelle superiori, quando si parlerà di matrimonio, ci sarà l’obbligo di sottolineare l’esistenza delle unioni civili e dei matrimoni fra omosessuali, per invitare gli alunni “alla tolleranza”. Questa volontà del Governo britannico a misurarsi, in questo campo, con gli insegnamenti di Voltaire e di porre fortissima attenzione alle pressioni delle lobby omosessuali – presenti in tutto il mondo ed anche nel Regno Unito – ha portato anche a vietare espressioni fortemente intolleranti, tipo “comportati da uomo” o “non piangere come una donnicciola”.
Il Regno Unito non è nuovo a queste apparenti stranezze. Come non ricordare, ad esempio, che nel 2006, i giornali inglesi diedero grande rilievo alla storia di una coppia omosessuale in cui uno dei due, che di lì a poco si sarebbe sottoposta ad operazione chirurgica per diventare definitivamente donna, congelò il seme per conservare la possibilità di essere biologicamente padre grazie ad una donna che prestasse il suo utero. Per il nascituro un bel problema: papà e mamma sarebbero state la stessa persona. Come non ricordare, soprattutto, che “il faro cultura occidentale” - come definisce l’Università di Oxford, Marina Corradi, su “Avvenire” del primo febbraio 2008 - ha reinventato la trascrizione del Nuovo Testamento. Come si dirà la prima preghiera che si insegna ai bambini per quei biblisti? “Padre/Madre nostro che sei nei cieli”. Come si rivolgerà Gesù, ai genitori, nel tempio? “Perché mi cercate? Non sapevate che io ero nella casa del Padre/Madre?”. La cultura del “gender”, la cultura dell’identità sessuale definita come pura scelta culturale, non come dato originario, naturale, interviene su tutto, disfa tutto, crea il nuovo.
Nel settembre 1995, si svolse a Pechino la IV Conferenza mondiale delle donne. Le parole chiave, furono "punto di vista di genere", "empowerment", "mainstreaming". All’art. 124 comma K della Piattaforma di Pechino, si legge: “Adottare tutte le misure appropriate, soprattutto nel campo dell’istruzione, per modificare i modelli di comportamento di uomini e donne e per eliminare i pregiudizi e le pratiche tradizionali basate su ruoli stereotipati maschili e femminili”. Il Governo del Regno Unito, come molti altri Governi, svolge quindi il suo compito: eliminare gli stereotipi, i ruoli imposti dalla tradizione. Il mondo nuovo è lontano, è un’altra cosa rispetto alla tradizione. Le madri possono non essere donne. I padri possono non appartenere al sesso maschile. I padri possono essere due, la madre può mancare. E’ lecito anche l’opposto, naturalmente. Quel che conta, è il piacere, che si rivolge all’oggetto, al bambino, venuto al mondo in modo più o meno naturale. Poco importa. Quel bambino, mamma e papà non lo può dire. Perché deve essere tollerante.
L’ostilità al dato, scriveva Hannah Arendt, è un “segno distintivo della modernità”. Una modernità che, attraverso l’affermazione disinvolta dell’identità di genere, propone casi rispetto ai quali è difficili trovare aggettivi. Splinder, del gennaio 2007, racconta la vicenda di un quattordicenne tedesco, il più giovane paziente del mondo che si sottoporrà, per curarsi, al cambiamento di sesso. "Non c'è dubbio del forte desiderio del ragazzo, che aveva già in tenera età", scrive il dottor Bern Meyenburg nella diagnosi, riporta il Sunday Telegraph. Il medico del ragazzo, a capo di una clinica per bambini e adolescenti che hanno disturbi di identità all’Università di Francoforte, giudica il ragazzo “felice ed equilibrato”: “Sarebbe stato sbagliato lasciarlo crescere come un uomo. E’ raro avere un caso così chiaro”. Uno dei maggiori esponenti dell’identità di genere, recentemente scomparso, John Money – tra i più illustri psicosessuologi del mondo, che prima di morire si adoperò a spiegare che la pedofilia non è sinonimo di violenza sui bambini - fu il primo a procedere ad una operazione chirurgica di cambiamento di sesso addirittura su un bambino, che per una errata circoncisione si era visto bruciare il pene. Il suo intendimento era dimostrare che l’identità di genere è socialmente costruita ed indipendente dal sesso genetico. Poi il bambino morì, poco più che ventenne, dopo una breve vita di sofferenze atroci.
Come benefit, il cambio di sesso
Nel gennaio 2007, la rivista Fortune – riporta il quotidiano “La Stampa” del 10 febbraio 2008 – ha stilato la classifica dei cento migliori ambienti di lavoro del 2008. Tra questi, la Goldman Sachs, una Banca d’affari americana, che ha pensato di offrire ai suoi dipendenti la copertura delle spese sanitarie per cambiare sesso. Un investimento che può arrivare a 150 mila dollari a persona, tanto costano l'intervento chirurgico, le iniezioni di testosterone e le cure farmacologiche da fare prima e dopo l'operazione. In America, altre Banche e aziende (Microsoft, General Motors), sostengono e aiutano chi intraprende questo percorso, ma mai nessuno si era sognato di tramutare quest’aiuto in benefit aziendale.
Trionfalmente, dopo le leggi che consentono matrimoni fra omosessuali o la possibilità di adozione per questo tipo di coppie, oltre a norme che velocizzano i divorzi, il primo marzo 2007, il Parlamento spagnolo ha approvato la legge sull’identità di genere, definita la più progressiva del mondo. Per il cambio d’identità sono sufficienti due anni di trattamento medico, con annessa una relazione psicologica o medica ad indicare la diagnosi della cosiddetta Disforia di Genere. Coloro che già hanno fatto la RCS (l’intervento di rassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali) sono dispensati dall’esibire questi due certificati. E tutta la procedura burocratica, del resto, viene innovata e snellita, senza il vincolo precedente dell’effettivo cambio di sesso per via chirurgica e dopo un’approvazione di tipo giuridico, come stabilito invece negli altri Stati europei.
Nel 2007, nel Parlamento italiano sono state presentate proposte di legge per rendere più accessibili, sul piano della rimborsabilità, gli interventi per transitare da un sesso all'altro e il Ministro della Salute ha dichiarato: “Non mi sento di affermare che tutto ciò che riguarda il sesso vada considerato un diritto - aggiunge - Credo però che il servizio ospedaliero debba prendersi carico di chi ha bisogno di armonizzare il corpo con la sua identità. Mi chiedo inoltre se sia giusto che a rilasciare le autorizzazioni per il cambiamento di genere debba essere un tribunale anziché un'equipe medica”.
Tra le equipes mediche – ne dà notizia il Corriere della Sera del 24 aprile 2007 – c’è quella del Policlicinico Umberto I di Roma, in attesa del via libera per un protocollo che prevede il doppio passaggio maschio-femmina e femmina maschio: l’aspirante femmina dona l’organo sessuale che viene trapiantato all’aspirante uomo. L’ideologia del genere, come si vede, lo si ritrova dappertutto. Anche nei programmi elettorali di chi si candida, ora, in Italia, al Governo.
Il potere sulla vita
Nel suo intervento tenuto a Pisa, durante le Settimane Sociali, nell’ottobre 2007, Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del Diritto alla LUMSA di Roma, individua nell’ideologia del genere uno dei percorsi nei quali è riconoscibile la biopolitica come “potere sulla vita”: sulla nascita, sulla morte, sulla salute, sulla malattia, sulla sessualità. E’ un’ideologia che, usufruendo dell’ambiguità del linguaggio (non immediatamente comprensibile, almeno per i non esperti) per ottenere modifiche legislative o creare nuove leggi (il termine ‘gender’ è già stato inserito in documenti ufficiali, a livello internazionale e nazionale); un’ideologia che sostiene il biopotere contro la legge naturale e il diritto naturale, contro ogni teoria che intenda difendere la natura ontologica umana. “L’orizzonte relativistico postmoderno – ha sostenuto tra l’altro Laura Palazzani - porta la biopolitica ad allontanarsi, a ‘s-naturare’ o ‘de-naturalizzare’ l’uomo e i rapporti intersoggettivi nella società, a negare la natura umana come presupposto di riferimento della politica: è il percorso che porta la biopolitica a rinunciare al ‘bene comune’ (negandone l’esistenza e la conoscibilità) e a divenire mera registrazione a posteriori della prassi collettiva, una mera ‘gestione’ neutrale, procedurale e pragmatica, dei comportamenti sociali e delle volontà individuali. Nell’orizzonte della separazione radicale della politica dall’etica (ritenuta irriducibilmente pluralista, negando la possibilità di identificare valori comuni condivisi e condivisibili), la biopolitica diviene ‘politica della vita/sulla vita biologica’ che esalta la volontà individuale sulla natura, legittimando ogni scelta individuale sul corpo (ritenuta equivalente rispetto a qualsiasi altra)”.
A parere della filosofa la discussione suscitata dalle gender theories mette in gioco seriamente il modo di concepire il senso dell’uomo e della società, il significato del matrimonio, della famiglia, della maternità e della genitorialità. “Se la biopolitica si limita a gestire in modo neutrale il potere individuale sui corpi biologici evitando di pronunciarsi sui valori (o legittimandoli tutti in modo equivalente) – dice Laura Palazzani - ne consegue inevitabilmente il primato dell’individualismo e dell’autonomia rispetto alla relazione e all’istituzionalità. E’ importante, oggi, costruire filosoficamente un nuovo modello biopolitico che sappia cercare una paziente e continua traduzione positiva, normativa ed istituzionale delle esigenze strutturali coesistenziali radicate nell’essere dell’uomo, nella natura umana. La biopolitica non può ridursi a prodotto della prassi collettiva, ma deve sforzarsi di elaborare, ricercare e ritematizzare “l’anello perduto” che J. Haaland individua nell’elaborazione di una antropologia complementare, capace di spiegare che la distinzione uomo/donna non è una etichetta fittizia, ritrovando nella natura umana il fondamento dell’uguaglianza tra uomini e donne contro il preteso ‘neutrismo sessuale’ che non libera l’uomo ma lo imprigiona in una volontà cieca di un biopotere arbitrario”.
Le organizzazioni internazionali contro l’ordine naturale del mondo
Grande è stata, negli ultimi decenni la responsabilità dell’intero sistema delle Nazioni Unite e dell’Unione europea nella diffusione dell’ideologia del gender, che ha pervaso tutti i documenti istituzionali prodotti. E’ stato un movimento, per così dire, a cascata, che ha contaminato, in maniera consapevole, a volte anche inconsapevole, sotto la forma del linguaggio e nella sostanza, tutto e tutti. Anche i bilanci dei piccoli Comuni d’Europa, se non contengono il richiamo all’ideologia di genere (per questo sono chiamati dappertutto “bilanci di genere”), sono considerati demodè. L’ONU sta “promuovendo la prospettiva di genere”, sostenendo finanziariamente i piani esplicitati nelle Conferenze del Cairo (1994) e di Pechino (1995), dunque la “diffusione dell’Agenda di Genere” a livello politico, in ambito istituzionale pubblico e privato.
Nell’ambito della Conferenza sulla Popolazione al Cairo (1994) si è parlato di diritti sessuali e riproduttivi come diritti fondamentali delle donne, della libertà sessuale, della contraccezione e sterilizzazione (anche senza consenso) come mezzi per il controllo demografico. L’Istituto internazionale di ricerca e training per l’avanzamento delle donne (INSTRAW), ritiene “opportuno rinegoziare i confini tra il naturale – e la sua relativa inflessibilità – e il sociale – e la sua relativa modificabilità”. Il Comitato Latinoamericano e dei Carabi per la difesa dei diritti delle donne (CLADSEM) ha fatto circolare una “Proposta per la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo secondo la prospettiva di genere” chiedendo di riconoscere i diritti di omosessuali, bisessuali, transessuali ed ermafroditi; il diritto ad una educazione sessuale libera; il diritto alla sessualità e all’orientamento sessuale, il diritto alla contraccezione, all’aborto e alla sterilizzazione, il diritto all’unione con individui di sesso simile o opposto.
La IV Conferenza ONU sulle Donne, che si svolse a Pechino nel 1995 – che seguiva il solco tracciato dalla Prima Conferenza ONU sulle donne di Città del Messico del 1975 - costituisce la chiave di volta della cosiddetta prospettiva di genere. L’idea che l’identità sessuale fosse frutto solo della costruzione culturale era stata fatta propria, negli anni precedenti, dal femminismo radicale americano, che vedeva in essa la possibilità di trovare “il riscatto di un destino femminile da sempre, fino a quel momento, vincolato all’anatonomia”, come scrive una storica femminista critica del gender, Barbara Duden. Questa nuova teoria non si limita a proporre un nuovo tipo di classificazione teorica degli esseri umani ma – annuncia la più importante teorica del gender, Judith Butler – darà vita “a una agenda politica per il futuro” correlata “ai mutamenti nella struttura della parentela, ai dibattiti sul matrimonio gay, alle condizioni per l’adozione e all’accesso alla tecnologia riproduttiva”. E’ Dale O’Leary a riportare in uno dei suoi testi le parole virgolettate dell’Istituto di ricerca per l’avanzamento delle donne (INSTRAW): “adottare una prospettiva di genere significa distinguere tra quello che è naturale e biologico da quello che è costruito socialmente e culturalmente, e nel processo rinegoziare tra il naturale – e la sua relativa inflessibilità – e il sociale – e la sua relativa modificabilità”.
In sostanza, negare che le diversità fra donne e uomini siano naturali, e sostenere invece che, se sono costruite culturalmente, possono essere modificate a seconda del desiderio individuale. L’adozione di una “prospettiva di genere” è stata la linea ideologica adottata con forza da alcune delle principali agenzie delle Nazioni Unite e dalle organizzazioni non governative che si occupano di controllo demografico, con il sostegno della maggior parte delle femministe dei paesi occidentali, ma con l’opposizione dei molti gruppi nati a difesa della maternità e della famiglia, oltre che della Chiesa cattolica.
La strategia globale volta alla promozione dell’uguaglianza di genere (gender equality) è identificata con il concetto di gender mainstreaming. Il concetto di gender mainstreaming fu introdotto nella Piattaforma d’Azione di Pechino nel 1995 e fu poi definito dalle Nazioni Unite come “il processo attraverso cui sono valutate tutte le implicazioni per le donne e per gli uomini di ogni azione progettata, in tutti i campi e a tutti i livelli, compresa l’attività legislativa, politica e di programmazione. E’ una strategia volta a rendere le preoccupazioni e le esperienze sia delle donne che degli uomini una dimensione integrale della progettazione, dell’attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e dei programmi in tutte le sfere politiche, economiche e sociali, cosicché donne e uomini ne possano trarre gli stessi vantaggi e non si perpetui la disuguaglianza. L’obiettivo è il raggiungimento della parità di genere”[1]. A livello ONU la strategia del gender mainstreaming fu introdotta ufficialmente negli organismi delle Nazioni Unite attraverso le “Agreed Conclusions” adottate dal Consiglio economico e sociale nel 1997. Successivamente (nel dicembre 1997) l’Assemblea Generale, ratificò la decisione dell’ECOSOC in materia e, infine, anche nella sessione speciale, dedicata alle donne, nel 2000 chiamata “Pechino+5”, richiese di assicurare la realizzazione di una prospettiva di genere in tutte le politiche e i programmi promossi dalle Nazioni unite e dai paesi membri delle stesse. Sulla base di quanto detto, la politica di genere è parte integrante del lavoro di tutte le principali agenzie e fondi delle Nazioni Unite. Si tratta di un vero “sistema” i cui attori principali all’interno delle Nazioni Unite sono gli organismi specializzati in “gender issues”. Questi sono: OSAGI, DAW, UNIFEM, INSTRAW, IANWGE.
L’OSAGI (Officialo f the Special Advisor on Gender Issues), attivo dal 1997, è parte del Segretariato delle Nazioni unite ed ha come compito principale la promozione e il rafforzamento dell’applicazione del gender mainstreaming in ogni settore delle Nazioni Unite. Per far ciò l’Ufficio sviluppa strategie, strumenti e materiali informativi e lavora per far sì che una prospettiva di genere sia pienamente integrata in ogni politica delle Nazioni Unite. Lo scopo del lavoro dell’Ufficio, quindi, non è quello di creare o fornire una prospettiva di genere per gli altri attori delle Nazioni Unite, bensì quello di stimolare tutti gli enti interni alle Nazioni Unite a considerare la prospettiva di genere nei loro programmi di lavoro. La DAW (Division for the Advancement of Women), fa parte anch’essa del Segretariato delle Nazioni unite, all’interno del Dipartimento per gli Affari Sociali. Fu istituita nel 1946 come Sezione sulla Condizione delle Donne (commissione funzionale dell’ECOSOC che annualmente riunisce le), incorporata nella Divisione dei Diritti Umani del Dipartimento degli Affari Sociali.
Dal 1996, in seguito alla Conferenza di Pechino, la Divisione è parte del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali e sostiene il miglioramento della condizione delle donne del mondo e il raggiungimento di pari opportunità, promuovendone la partecipazione in ogni campo e ad ogni livello. L’UNIFEM (United Nation Development Fund for Women) fu istituito nel 1976 per promuovere l’empowerment delle donne e l’equità di genere. L’UNIFEM lavora, inoltre, per favorire la partecipazione delle donne a tutti i livelli del processo di pianificazione e gestione dello sviluppo. L’ISTRAW (Istituto Internazionale di Ricerca e Formazione sull’Avanzamento delle Donne) fu fondato nel 1976 dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite in seguito ad una raccomandazione della Conferenza Mondiale sulle Donne tenutasi a Città del Messico l’anno precedente.
L’IANWGE (Rete Interistituzionale sulle Donne e l’Uguaglianza di Genere), la cui forma embrionale risale al 1975, in realtà fu formalmente istituita nel 2001 in seguito ad una revisione dell’ACC (Comitato Amministrativo sul Coordinamento) sui ruoli e le funzioni del Comitato e sulla sua organizzazione supplementare. La IANWGE è una rete di centri di riferimento sulla prospettiva di genere presenti negli uffici delle Nazioni Unite, nelle agenzie specializzate, presso gli uffici dei fondi e dei programmi internazionali. Il compito fondamentale di questo network è quello di assicurare il coordinamento la cooperazione sulla promozione dell’equità di genere all’interno di tutto il sistema delle Nazioni Unite.
Si tratta di una rivoluzione culturale
Dal 7 al 9 febbraio 2007, il Pontificio Consiglio per i Laici ha promosso un Congresso a Roma sul tema “Donna e Uomo, l’humanum nella sua interezza”, organizzato in ricorrenza del ventesimo anniversario della Lettera Apostolica “Mulieris dignitatem, il primo documento pontificio dedicato interamente alla donna. Nel corso del suo intervento, il Cardinale Antonio Canizares, Arcivescovo di Toledo (Spagna), ha definito l’ideologia di genere una “rivoluzione culturale in ogni aspetto”, definendo la “Mulieris dignitatem” più attuale che mai perché in quella lettera Giovanni Paolo II esprime “la verità dell'uomo, che è uomo e donna, e getta le sue basi antropologiche. In questo momento una rivoluzione di genere sta mettendo in discussione questa verità dell'uomo”.
Nell'ideologia di genere la sessualità non si accetta “propriamente come costitutiva dell'uomo”, ha ricordato, ma “l'essere umano sarebbe il risultato del desiderio della scelta”, di modo che, “qualunque sia il suo sesso fisico”, la persona “potrebbe scegliere il proprio genere” e modificare la sua opzione quando vuole: omosessualità, eterosessualità, transessualità, eccetera. In questa rivoluzione culturale, “il nesso individuo-famiglia-società si perde e la persona si riduce a individuo”, e si constata quindi “il fatto di mettere in discussione la famiglia e la sua verità – il matrimonio tra un uomo e una donna aperto alla vita – e tutta la società”. “Essere uomo e essere donna – ha sottolineato il Cardinale – sono realtà volute da Dio, nella loro eguaglianza e nella loro differenza, l’uno e l’altra hanno una dignità comune. Non è che Dio abbia fatto incompleti l'uomo e la donna ma li ha creati per una comunione di persone, in cui ciascuno può essere 'aiuto' per l'altro perché sono allo stesso tempo uguali in quanto persone e complementari in quanto maschile e femminile”.
Il Cardinale ha concluso il Suo intervento affermando che “uomo e donna sono creati come persone a immagine di Dio Amore per vivere in comunione”. Da questo deriva la loro reciprocità e il fatto che la persona sia anche chiamata a esistere per gli altri, diventando un dono. L'amore, dunque, è ciò che definisce la verità della persona – uomo e donna –, l'essenza e il dovere della famiglia; “per questo la famiglia riceve la missione di vivere, custodire, rivelare e comunicare l'amore come riflesso vivo di Dio, che è amore”, ha ricordato il Cardinale Cañizares.
Nel suo intervento a Rimini, il 16 febbraio 2008, nell’ambito del Convegno “Famiglia e Bene Comune”, Sua Ecc. Mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha tra l’altro affermato: “E’ oggi in atto una battaglia culturale attorno alla parola genere (gender) che spesso viene adoperata al posto della parola sesso (sessuale) per indicare non una vocazione naturale della persona ma una scelta culturale o, come anche si dice, un ‘orientamento sessuale’. L’identità sessuale è la modalità maschile o femminile di essere pienamente persona, in una reciprocità complementare. L’identità di genere è invece la trasformazione della natura in cultura, del compito in opzione, della vocazione in scelta arbitraria. Mentre le identità sessuali sono due, maschile e femminile, le identità di genere possono essere molte”.
Monsignor Crepaldi ha richiamato una Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, emanata nel 2004 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ha emanato nel 2004 una Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, ove si afferma tra l’altro: “Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli”.
La genetica della determinazione sessuale
Sull’Agenzia Fides del 29 novembre 2007, Don Nicola Bux e Don Salvatore Vitiello, scrivevano: “(…) Il proprio genere non si inventa né si sceglie: è dato, irreversibilmente dato. Il genere è solo duplice: maschile o femminile. Esso si scopre, in quel delicatissimo processo che è l’identificazione sessuale, il quale ha enormemente bisogno di modelli di riferimento definiti che non abbiano, a loro volta, problemi di determinazione del genere. Inoltre, proprio perché dato, il genere si accoglie, magari come una croce, in tutti quei casi in cui l’identità biologica e quella psicologica non sono in accordo, aprendo il cammino a percorsi di accompagnamento psicologico e spirituale che garantiscano quella fraternità e quel rispetto, indispensabili ad ogni crescita umana autentica. Ed anche in questo ambito, l’emergenza è sempre educativa: dobbiamo tornare ad educare. Di fronte ad argomenti tanto delicati, stride fortemente l’atteggiamento degli ‘sbandieratori d’identità irreali’. Le persone sono reali, i loro cammini, le loro fatiche, le loro storie. Non certamente le posizioni ideologicamente contrapposte, dietro le quali, senza troppe dietrologie, ci sono fortissimi interessi economici che, della persona, non si fanno alcun carico. Stupisce altresì come, proprio negli ambienti in cui, spesso, più forti sono il richiamo al rispetto della natura e la sensibilità ecologica, si pretenda, in ordine alla questione del “genere”, il totale superamento del dato naturale, in nome del cedimento ad inconsapevoli derive filosofiche ed a derive libertarie, esistenzialmente praticate, che schiavizzano. L’uomo non è solo il frutto dei suoi antecedenti biologici, ma è anche costituito da essi e, straordinariamente, in “un po’ di materia” è presente un desiderio d’Infinito, una totale apertura al Mistero, che fa dell’uomo, maschio o femmina, il punto di autocoscienza del cosmo. Perciò il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che “Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarità fisiche, morali e spirituali sono orientate ai beni del matrimonio e allo sviluppo della vita familiare. L’armonia della coppia e della società dipende in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarità, il bisogno vicendevole e il reciproco aiuto”.
Vediamo come la natura determina geneticamente l’identità sessuale. Nel quaderno di Scienza e Vita – l’Associazione che è a presidio della Vita, dal suo sorgere alla sua fine naturale – dedicato al tema Identità e Genere, Bruno Dalla Piccola (Ordinario di Genetica Medica, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Genetica Medica, Università La Sapienza, Istituto CSS-Mendel, Roma; Co-presidente Associazione Scienza & Vita; componente del Comitato Nazionale per la Bioetica), afferma che lo sviluppo sessuale dei mammiferi dipende da tre fattori fondamentali: il corredo cromosomico dello zigote; la differenziazione delle gonadi in ovaio e testicolo; la differenziazione degli organi deputati alla riproduzione e lo sviluppo dei genitali esterni.
La presenza del cromosoma sessuale maschile, l’Y, fornisce il segnale per lo sviluppo della gonade maschile, indipendentemente dal numero dei cromosomi sessuali femminili (cromosoma X) presenti. L’assenza dell’Y orienta lo sviluppo dell’individuo in senso femminile. Pertanto, il sesso genetico, che si determina al momento del concepimento nell’assetto cromosomico 46,XX o 46,XY, può essere considerato il primo evento della formazione sessuale di una persona. Da esso conseguono una serie di modificazioni che, a cascata, porteranno alla formazione della gonade femminile (ovaio) o maschile (testicolo) e perciò alla definizione del sesso gonadico della persona. Le gonadi, a loro volta, secernono ormoni che controllano lo sviluppo dei genitali esterni (sesso fenotipico). Da tutti questi eventi dipende il sesso di allevamento e il sesso psichico (genere, ruolo). Anche se la formula dei cromosomi sessuali viene già definita nello zigote, la differenziazione sessuale inizia nell’embrione umano solo dopo la 6° settimana. Fino a quel momento, le gonadi sono identiche nei due sessi e sono presenti sia i dotti di Müller (precursori delle tube e dell’utero), sia i dotti di Wolff (precursori dei dotti efferenti maschili). Le gonadi indifferenziate si presentano come rigonfiamenti nella porzione centrale della cresta genitale. In presenza del fattore di determinazione testicolare (TDF), 42 giorni dopo il concepimento, compaiono i primi segni di organizzazione del testicolo. In assenza di TDF, la gonade si sviluppa in senso femminile.
La comprensione delle fasi iniziali di questo complesso processo sono state definite negli anni ’40 dagli esperimenti di castrazione animale, eseguiti da Jost. A seguito della rimozione delle creste genitali negli embrioni di coniglio, nella fase precedente la differenziazione della gonade, si osservò che i genitali interni ed esterni si sviluppavano in senso femminile, indipendentemente dal sesso genetico. Quando veniva inserito nella sede delle creste genitali asportate un cristallo di testosterone (l’ormone maschile prodotto dal testicolo), i genitali mascolinizzavano anche se persistevano i dotti di Müller e perciò l’utero e le tube. Questo risultato consentì di stabilire che il sesso di base è quello femminile; la virilizzazione è correlata alla secrezione del testosterone dai testicoli; il testosterone non è tuttavia sufficiente alla virilizzazione completa, ma è necessario anche l’ormone che inibisce le strutture mülleriane (AMH). L’intuizione di Jost ha trovato larga conferma negli ultimi 25 anni, attraverso l’identificazione del gene SRY come equivalente del TDF; la scoperta dell’ormone AMH, prodotto dalla cellule di Sertoli del testicolo, che inibisce le strutture mülleriane; l’evidenza della produzione del testosterone da parte delle cellule di Leydig del testicolo e la sua riduzione a diidrotestosterone (DHT).
L’efficacia di questi ormoni dipende dalla integrità funzionale del recettore per gli androgeni (gene AR) nelle cellule bersaglio. Questa cascata di eventi è completata dall’azione di alcuni altri geni presenti sui cromosomi non sessuali (autosomi) e sul cromosoma X. Nella specie umana, il cromosoma Y è il determinante del sesso maschile. In effetti, in presenza di un solo cromosoma X (corredo 45,X o monosomia X), il fenotipo è femminile e corrisponde alla sindrome di Turner o alla disgenesia gonadica con bassa statura (femmina sterile). Viceversa, il complemento sessuale XXY (47,XXY o sindrome di Klinefelter) e le sue varianti più complesse (48, XXXY; 49,XXXXY) danno origine ad un fenotipo maschile sterile. In presenza di un mosaicismo cellulare (coesistenza di linee cellulari geneticamente diverse) 45,X/46,XY, il fenotipo varia tra il maschio sterile (quando prevale la linea XY) alla sindrome di Turner (quando prevale la linea X), con quadri intermedi di disgenesia gonadica e ambiguità dei genitali. L’elemento determinante il processo di determinazione maschile è il gene SRY(Sex determinig Region Y), isolato nel 1990 dal braccio corto del cromosoma Y.
Di fatto, l’introduzione dell’omologo di questo gene (Sry) in un embrione di topo femmina, ne determina lo sviluppo in senso maschile. Questo gene codifica per una proteina di 204 aminoacidi, contenente una sequenza conservata evolutivamente (HGM-box di 79 aminoacidi), presente nelle proteine ad elevata affinità per il DNA. SRY è espresso nelle creste genitali durante la differenziazione e in molti tessuti fetali, ma non nei tessuti dell’adulto. Questo gene si lega al promotore del gene che codifica per l’ormone antimülleriano (AMH) e ne induce l’espressione, impedendo la formazione dei derivati dei dotti di Müller; inoltre, controlla alcuni enzimi coinvolti nella steroidogenesi e perciò nella virilizzazione. Infine, alcuni esperimenti sui topi XX transgenici contenenti Sry hanno dimostrato che Sry inibisce DAX1, un gene localizzato sul cromosoma X, che a sua volta agisce da repressore della differenziazione sessuale. Il ruolo critico di SRY nella determinazione del sesso maschile è confermato dalla osservazione che le sue mutazioni causano la reversione del sesso. Queste persone, a corredo cromosomico 46,XY, sono femmine sterili (sindrome di Swyers). Tuttavia, questa condizione origina non solo dalle mutazioni nella regione codificante o regolatrice del gene SRY, ma anche, e più comunemente, dalla perdita della regione del braccio corto dell’Y che contiene il gene, per un errore durante l’appaiamento dei cromosomi sessuali X e Y nella spermatogenesi. I prodotti reciproci di questo errore sono femmine XY, prive del gene SRY (sindrome di Swyers) e maschi XX, portatori della regione SRY traslocata sul braccio corto dell’X (cosiddetti maschi XX). Altri quadri di sindrome di Swyers possono originare dalla mutazione di geni autosomici (presenti sui cromosomi non sessuali). Di fatto, il processo di determinazione sessuale richiede non solo l’azione del gene SRY, ma anche di geni presenti sull’X e di geni autosomici, che interagiscono con SRY durante lo sviluppo. Alcuni di essi codificano proteine simili al prodotto di SRY, come la famiglia dei geni SOX, che contengono regioni HGM-box.
Nel genoma umano sono presenti almeno una ventina di questi geni. In particolare, le mutazioni del gene SOX9, localizzato sul braccio lungo del cromosoma 17, che agisce come fattore di trascrizione, causano una rara e grave forma di nanismo (campomelico). Nel 75% dei maschi XY portatori di una mutazione in SOX9, le gonadi sono disgenetiche e i genitali ambigui, fino alla reversione sessuale. Le femmine XX mutate presentano solo alterazioni scheletriche. Pertanto SOX9 sembra cooperare con SRY nella determinazione sessuale maschile, mentre non sarebbe coinvolto in quella femminile. Le mutazioni del gene WT1, localizzato sul braccio corto del cromosoma, che è un regolatore della trascrizione, causano anomalie dello sviluppo gonadico, in associazione a nefropatia (sclerosi mesangiale) e nefroblastoma o tumore di Wilms (sindrome di Danis-Drash). Si tratta, di fatto, di una forma di pseudoermafroditismo maschile, cioè, della associazione tra cariotipo maschile, testicolo e genitali esterni ambigui. Altre mutazioni dello stesso gene WT1 causano la sindrome di Frasier, una reversione sessuale completa verso il fenotipo femminile in soggetti XY, con nefropatia ad insorgenza precoce (glomerulosclerosi segmentaria focale), comunque più tardiva rispetto a quella della sindrome di Danis-Drash, in assenza, di regola, del tumore di Wilms, ma in presenza di un tumore gonadico (gonadoblastoma). Le femmine XX mutate nel gene WT1 sviluppano, di solito, solo la patologia renale.
Il gene SF1 (Steroidogenic Factor 1), localizzato sul braccio corto del cromosoma 9, interviene nella regolazione della trascrizione di alcuni geni bersaglio coinvolti nella riproduzione, nella steroidogenesi e nella differenziazione sessuale maschile. In particolare, SF1 è un regolatore del gene che codifica per l’ormone AMH. Le mutazioni, che ne determinano la perdita di funzione, esitano, nei soggetti a complemento cromosomico XY, in un fenotipo femminile con disgenesia gonadica, presenza di utero e strutture mülleriane normali, con ipoplasia del surrene. Si tratta pertanto di un gene importante nella formazione delle gonadi e del surrene. Il gene DAX1 (Dosage sensitive sex reversal – Adrenal hypoplasia congenita,critical region of the X, gene 1), localizzato sul braccio corto del cromosoma X, in una regione definita DSS (Dosage Sensitive Sex reversal) è mutato nell’ipogonadismo ipogonadotropo (anomalo sviluppo sessuale puberale da ridotta secrezione degli ormoni ipofisari) e nell’ipoplasia congenita delle ghiandole surrenali. La duplicazione della regione che contiene questo gene causa, nei soggetti XY, la reversione sessuale completa verso il sesso femminile, con gonadi che variano tra la differenziazione testicolare incompleta e le gonadi ridotte ad una struttura nastriforme fibrosa. Di fatto, il prodotto del gene DAX1 è un recettore nucleare, che esercita una azione di repressione sui geni coinvolti nella cascata dei segnali che inducono la differenziazione maschile, agendo da antagonista del regolatore trascrizionale SF1.
È probabile che questo gene non sia necessario per lo sviluppo del testicolo, ma agisca come induttore dell’ovaio.I geni WT1 e SF1 agiscono in sinergia sulla gonade indifferenziata, a monte di SRY, SOX9 e DAX1, potenziando l’azione di AMH. Appaiono perciò essenziali nella regolazione dei primi stadi dello sviluppo, prima che SRY indirizzi la gonade in senso maschile. Anche i geni DMRT1 e DMRT2, evolutivamente conservati, localizzati sul braccio corto del cromosoma 9, sono critici nella differenziazione della gonade maschile. La loro delezione in soggetti 46,XY produce infatti disgenesia gonadica e fenotipo femminile. Il gene WNT4, localizzato sul braccio corto del cromosoma 1, appartiene ad una famiglia genica attiva nella trasduzione del segnale (un complesso processo reattivo che parte dalla membrana della cellula e attraverso il citoplasma, fino al nucleo, interviene nella proliferazione e nella differenziazione cellulare). Nel topo, l’inattivazione di entrambe le copie del gene produce un fenotipo maschile in soggetti a complemento sessuale XX. Nell’uomo, la sua mutazione è stata associata ad una patologia rara caratterizzata da amenorrea primaria, assenza delle strutture mülleriane (utero e vagina) e agenesia monolaterale del rene (sindrome di Rokitansky-Kuster-Hauser). Il gene RSPO1, che codifica per la respondina, quando mutato in omozigosi determina la reversione sessuale nei soggetti XX, che non presentano strutture mülleriane, ma la mascolinizzazione dei genitali interni ed esterni, testicoli e sterilità. La stessa mutazione, in omozigosi, non produce infertilità nei maschi XY.
È possibile che questo gene agisca sinergicamente con WNT4. I meccanismi della differenziazione sessuale successivi alla determinazione del sesso sono quasi esclusivamente controllati da ormoni. I difetti in questi processi producono disgenesia gonadica di vario grado nei soggetti 46,XY, con insufficienza testicolare e anomalie variabili dei genitali interni ed esterni. I due ormoni più importanti in questo processo sono l’AMH e il testosterone. In condizioni normali, dopo la determinazione del testicolo, le cellule di Sertoli producono l’ormone antimülleriano (AMH o MIS). Si tratta di una proteina che inibisce lo sviluppo dei dotti di Müller, tra l’8° e la 10° settimana di sviluppo embrionale. Le mutazioni di questo gene causano pseudoermafroditismo da persistenza delle strutture mülleriane, in soggetti a cariotipo XY, testicoli e genitali esterni maschili. Per una corretta differenziazione sessuale in senso maschile, è necessaria l’azione degli ormoni steroidei androgeni, in quantità elevate. La produzione del testosterone da parte del testicolo è controllata inizialmente dall’ormone hCG (gonadotropina corionica) e, successivamente, da LH (ormone luteinizzante) fetale, che agiscono attraverso il recettore (LHR). Le mutazioni che inattivano il gene LHR nel maschio producono fenotipi che variano tra la reversione sessuale completa, l’ambiguità dei genitali e il micropene. Queste mutazioni determinano la mancanza delle cellule di Leydig e l’inadeguata produzione di androgeni. Viceversa, le mutazioni attivanti il gene LHR producono un fenotipo maschile normale, con pseudopubertà precoce da eccessiva produzione di testosterone, per iperplasia delle cellule di Leydig. La biosintesi degli ormoni glucocorticoidi e mineralcorticoidi nel surrene e degli androgeni nel surrene e nelle gonadi maschile e femminile, a partire dal colesterolo, è controllata geneticamente. Le mutazioni geniche che intervengono in questo complesso processo biochimico determinano vari difetti della virilizzazione. In particolare, la mancata trasformazione del testosterone in diidrotestosterone, produce quadri di ambiguità genitale (ipospadia pseudo vaginale perineoscrotale). Le alterazioni nella steroidogenesi da difetti enzimatici nella via degli androgeni inducono pseudoermafroditismo femminile, con virilizzazione variabile, nei soggetti 46,XX. L’esempio più noto e comune è il deficit di 21-idrossilasi, enzima codificato dal gene CYP21. Questo enzima converte nel surrene il 17-idrossiprogesterone in 11-desossicortisolo. Le sue mutazioni omozigoti causano una forma relativamente comune di iperplasia congenita del surrene, con virilizzazione nei soggetti di sesso femminile.
La corretta azione degli androgeni sui tessuti bersaglio dipende dalla integrità del recettore degli androgeni, codificato dal gene AR, localizzato sul braccio lungo dell’X. Le mutazioni di AR causano femminilizzazione testicolare, o sindrome da insensibilità agli androgeni (cosiddetta sindrome di Morris). Nel soggetti XY, portatori della mutazione, il fenotipo è femminile. I genitali esterni sono caratterizzati da una vagina che termina a fondo cieco, in assenza di utero; lo sviluppo mammario è normale; le gonadi (endoaddominali) sono testicoli. In questi soggetti, il complemento sessuale XY determina la differenziazione maschile e lo sviluppo del testicolo, che, a sua volta, produce testosterone. Tuttavia l’insensibilità all’ormone, dovuta alla mutazione del gene AR, impedisce la differenziazione maschile. Nei casi di insensibilità parziale (cosiddetta sindrome di Reifenstein), è presente micropene con ipospadia e sviluppo mammario.
In conclusione, il sesso fenotipico dell’embrione dipende dalla determinazione del sesso gonadico, che è primitivamente correlata al complemento dei cromosomi sessuali e alla presenza/assenza del cromosoma Y. Tuttavia, quando i testicoli non si sviluppano in forma completa, in particolare in presenza di disgenesia gonadica, e quando gli ormoni prodotti dal testicolo non raggiungono il livello ottimale, ne consegue una differenziazione femminile deficitaria. La reversione sessuale XY (da maschio a femmina) è relativamente comune ed ha un’origine eterogenea, mentre la reversione XX (da femmina a maschio) è rara. Può essere dovuta alla presenza della regione che contiene il gene SRY, traslocata sull’X o su un autonoma. La reversione sessuale indipendente da SRY (soggetti SRY- negativi) è estremamente rara ed è dovuta alla mutazione di alcuni geni autosomici. Il sesso genetico, quello gonadico e quello fenotipico sono perciò strettamente correlati e sono definiti dalle caratteristiche genomiche dell’individuo.
Intervista a Mimmo Delle Foglie, portavoce di Scienza e Vita,
co-portavoce del Family day, editorialista dell’Avvenire.
Trattando questioni come l’identità di genere, la sterilizzazione delle donne, la cosiddetta salute riproduttiva, le pratiche antinataliste, e si potrebbe continuare, ci si accorge del formidabile ruolo che riveste l’intero sistema delle Nazioni Unite nell’indirizzare le politiche degli Stati. Lei non crede che una delle priorità della politica dovrebbe essere quella di una riforma profonda delle organizzazioni internazionali?
Il mondo sembra dominato da una sorta di burocrazia irresponsabile, nel senso che sembra non avere un referente al quale rispondere. E’ il male che si annida in tante organizzazioni internazionali, dove le lobby più agguerrite trovano terreno fertile, in assenza di un’opinione pubblica internazionale avvertita. Basti pensare alle politiche della natalità che nel mondo sempre più hanno abbracciato, spesso colpevolmente, ma talvolta anche inconsapevolmente, scelte marcatamente abortiste ed eugenetiche. Passando sopra alle culture dei popoli e mortificando l’intera umanità. Faccio fatica a dare torto a quanti, Giuliano Ferrara in testa, inorridiscono dinanzi alle politiche eugenetiche in atto in tante parti del mondo, mentre si festeggia per la moratoria universale sulla pena di morte conquistata all’Onu. Ma per quanto tempo ancora le organizzazioni internazionali potranno perseguire le loro battaglie, dal profilo disumano, incuranti del giudizio dei popoli? E del sentire profondo dei popoli?
Nel 1975, uno degli ultimi intellettuali italiani, Pasolini, parlando di aborto, parlò di sesso, potere, consumo. Non crede siano proprio queste le categorie attraverso le quali si può spiegare questo fenomeno di massa che pervade la società occidentale?
Chissà cosa avrebbe detto oggi Pasolini dinanzi all’irrompere delle questioni eticamente sensibili nella vita pubblica del Paese… Si sarebbe accodato a quanti vogliono esorcizzarle per non dare fastidio ai manovratori di turno, oppure avrebbe preso il toro per le corna, come solo lui sapeva fare, parlando un linguaggio di verità? Forse ci avrebbe ricordato che la sua profezia si è, purtroppo, avverata: quella cioè dell’omologazione delle classi sociali, in termini di aspirazioni, ma anche di comportamenti. Che differenza c’è fra una ragazza di borgata e una dei Parioli, nella percezione oggi dell’aborto? Forse entrambe, grazie alla vulgata generale di tanta stampa e tv, pensano che l’aborto sia un diritto. Peccato che l’una forse rinuncia al figlio anche - se non soprattutto - per ragioni economiche e l’altra magari perché deve terminare il master ed è già in carriera. Mi consenta di dire che se ad entrambe va ricordato che l’aborto è solo una possibilità concessa da una legge dello Stato, alla ragazza di borgata vanno forniti i mezzi economici e il sostegno per accettare quel figlio in arrivo e l’altra, invece, va aiutata a ripensare se stessa e il proprio futuro, fuori dagli schemi neoborghesi nei quali è stata cresciuta e si è adagiata.
Viviamo in una strana modernità. Sembra che sia messa in crisi la stessa concezione di essere umano. E’ così?
Di sicuro sta cambiando la percezione dell’umano, proprio in virtù di alcune dicotomie o separazioni. Faccio un caso per tutti: la separazione fra affettività, sessualità e procreazione. Sempre più la nostra cultura, dominata da una forma di scientismo immanente, porta a parcellizzare l’uomo, a dividerlo, a sezionarlo, a minarne l’unità ontologica. Così viene propagandata la separazione e la scissione definitiva tra le varie dimensioni dell’umano che sino a ieri erano, sia nella coscienza personale sia nell’immaginario collettivo, assolutamente uniti. La ricaduta è sin troppo evidente: la perdita di coscienza dell’unità dell’essere umano porta diritto ad uno spaesamento e alla parcellizzazione del giudizio su se stessi che precede quello sugli altri e sulla società, per come essa progredisce e si va configurando. E’ qui, dentro il nucleo essenziale di questa umanità disintegrata che va cercata la radice dell’irresponsabilità, questo male oscuro che va minando dall’interno le fondamenta di tutte le compagini sociali, a partire dalla famiglia per arrivare alla comunità più grande che è il Paese.
Ogni argomento della bioetica, propone un risvolto certo: l’uso del denaro destinato alla ricerca scientifica e gli interessi economici. E’ d’accordo?
Solo chi non ha voglia di capire non si rende conto di quanto pesino effettivamente gli interessi economici nelle scelte della ricerca scientifica che configgono con i principi elementari del rispetto dell’uomo dal concepimento alla morte naturale. Prendiamo il caso del Programma europeo che finanzia la ricerca sugli embrioni. Cosa muove i ricercatori a dirottare risorse immense verso la ricerca sulle cellule embrionali mentre i risultati delle ricerche stanno a dimostrare che buoni esiti si hanno, in termini di cure effettive, solo dalle cellule staminali adulte? Eppure l’Europa preferisce girare lo sguardo altrove e continua, in barba ad ogni principio di precauzione, a distruggere embrioni per la ricerca. Si fermeranno? Difficile ipotizzarlo, in presenza di così grandi interessi economici.
C’è chi ha sostenuto, autorevolmente, che il futuro dell’umanità è bisessuale. C’è chi afferma che questo tipo di prese di posizione, così ampiamente divulgate – che non hanno peraltro nessuna base scientifica – siano un pericolo per le nuove generazioni. Si può ritenere che sia così?
Anche il tema della bisessualità rientra nell’orizzonte della separazione tra sessualità e procreazione. I due momenti vanno separati e dunque – dicono i profeti di questa “umanità nuova” - ci penserà la tecnoscienza a risolvere il problema della procreazione, magari facendo ricorso alla clonazione. Vedete il caso recente dello sperma ricavato dal midollo spinale di una donna che virtualmente potrebbe fare a meno di un uomo al fine di ottenere una inseminazione. Un orrore per chi crede nella necessità di assecondare lo scorrere naturale della natura che prevede la procreazione come l’incontro tra un uomo e una donna; una conquista di libertà e di autodeterminazione per certi scienziati. Ma non si comprende l’espandersi della cultura bisessuale al di fuori di un contesto che vuole rimodellare l’essere umano. C’è un peccato originale nelle posizioni di scienziati che vogliono sostituirsi alla natura. Qualcuno potrebbe dire che stiamo assistendo ad un delirio di onnipotenza, ad un tentativo di dimostrare su base scientifica che l’uomo può fare a meno del suo creatore. A noi credo che tocchi riappropriarci dell’educazione delle nuove generazioni. Non lasciamo che tanti cattivi maestri del nuovo secolo (vi ricordate le Brigate Rosse?) avvelenino tutti i pozzi. Anche quelli del buon senso comune.
Evangelizzare l’Europa. E’ questa l’emergenza dell’inizio di questo millennio?
Se ci guardiamo attorno non possiamo indugiare neppure per un solo istante: il cammino dell’evangelizzazione in Europa soffre e va ripreso con slancio e generosità. Penso alle Giornate della gioventù, ma penso anche al ruolo dei cattolici nel dibattito pubblico su tutti i teatri della scena europea. Dalle aule di Strasburgo alle stanze di Bruxelles è necessaria una ripresa di iniziativa così come nelle università e in tutti i luoghi in cui si formano le coscienze. Ma soprattutto va ricentrata l’azione del laicato cattolico che ad ogni livello deve riappropriarsi del ruolo di evangelizzatore, annunciando al mondo l’essenzialità della fede cristiana. Come ci chiede, incessantemente, Benedetto XVI. Non dobbiamo far altro che tornare a parlare di Gesù e testimoniare con il nostro amore il suo amore incondizionato per l’uomo e la donna del nostro tempo. Senza sentimentalismi, ma armati del realismo della nostra fede. Con la forza della libertà che ci viene donata direttamente dal Vangelo e che abbiamo sperimentato anche in altre stagioni tormentate della vita del nostro Continente. Basti pensare all’onda nera del nazismo e del fascismo che ha rischiato di sfigurare il volto dell’Europa e alla capacità dei cristiani di coltivare la propria fede trovando nel profondo della propria coscienza le ragioni della rinascita e della ricostruzione. Anche sapendo depurare la memoria dei troppi errori del passato, ivi compresa la terribile e disumana esperienza della Shoah.
Nella sua ultima enciclica, in modo singolare, Papa Benedetto XVI cita Immanuel Kant e una sua frase, dove si parla dell’Anticristo. Che senso dare a questo richiamo del Papa?
Mi pare che ci siano due livelli di lettura. Sicuramente per noi cristiani c’è un richiamo alla consapevolezza che il male è sempre in agguato e che soprattutto esso è ferocemente all’opera anche nel nostro tempo e che si serve anche di noi, uomini e donne di questo secolo. In secondo luogo, è un richiamo ad essere guardinghi, a non consentire che il pensiero dominante possa oscurare la nostra fede. In fondo il relativismo è il chiavistello adoperato per scardinare la fortezza della nostra fede. E in ciascuno di noi, nelle nostre debolezze, anche intellettuali, può celarsi un insospettabile alleato per quel relativismo morale che inquina la vita privata e quella pubblica. E paradossalmente condurci non alla salvezza alla quale siamo destinati in quanto figli di Dio, ma alla perdizione, ovvero “alla fine (perversa) di tutte le cose”, come scrisse Kant.
Testimonianza del Prof. Edmund D. Pellegrino,
Presidente Emerito delle Università Cattoliche Americane.
L'omicidio non è un delitto... per qualunque società e per qualunque civiltà? L'atto dell'amore non genera vita? Ed allora perché isolare i Cattolici che affermano la vita? Perché ostinarsi a dire che l'aborto non è omicidio? Non si uccide così la vita? Non è forse cosi che i popoli ricchi promuovendo la morte difendono i loro privilegi? Non è che togliendo e non delineando i confini etici della ricerca scientifica i ricchi tentino di annullare i poveri semplicemente tenendo per sé gli strumenti della conoscenza più profonda ? Con queste parole Luca De Mata – attuale direttore dell'Agenzia Fides – introduceva in una delle sue inchieste, la testimonianza di uno dei grandi personaggi della comunità scientifica Statunitense, il prof. Pellegrino, di cui riportiamo di seguito la testimonianza.

“Come medico e come etico la mia grande preoccupazione è l'abuso che la biologia fa della conoscenza, ogni aspetto dall'inizio alla fine della vita può essere controllato dall'uomo. Questo significa che dipendiamo da chi ha questo potere, e dagli interessi commerciali che sono dietro questo tipo di ricerca scientifica. Il futuro dell'umanità dipende da questo.
C'è l'illusione dell'immortalità… l'idea che possiamo controllare a tal punto la vita che potremo cancellare la morte. Ed allora pensiamo a chi è ai margini della società, ai poveri, ai bambini, ai malati, a tutti coloro che sono emarginati, agli stranieri, alle persone che dipendono da altre persone e che potranno essere considerate persone senza valore, in quanto incapaci di gestire la qualità della loro vita. E quindi qualcuno potrebbe pensare che questo tipo di individuo non merita la vita.
Alcuni ricercatori pensano che possiamo modificare le cellule dello sperma e le cellule dell'uovo, le cellule della riproduzione, così da poter cambiare le generazioni future. Si parla di cambiare il tipo di essere umano da riprodurre; di creare la futura razza…
Modificare la razza umana!
Questo porta con sé la domanda: chi ha questo potere? Chi può decidere per tutti noi, come deve essere, la razza umana?
Oggi primeggia la filosofia dell'utile e del non utile. Ed allora come utilizzare questo tipo di persone non utili a nessuno ed a nessuno scopo?
Si potrebbe pensare di creare esseri umani solo utili a servire gli altri. In questa situazione le persone ritardate sono in pericolo, i vecchi sono in pericolo. La ricerca biologica senza confini etici potrà creare grandi pericoli. Già oggi un neonato ha l'utero di una madre, e l'uovo è di un'altra, con un padre che ha dato lo sperma ed un altro padre che lo fa crescere.
Non c'è più un'unità biologica e spirituale della famiglia.
Come puoi sapere a chi dare la tua lealtà e il tuo amore? Al padre biologico? Al padre che ha donato lo sperma? Al padre che ti ha cresciuto? Alla madre ? E quale?
Vi sono anche ricerche per incrociare la specie umana con specie animali. Cosa ne verrà fuori? Questa è una delle domande che ci si pone.
Può un piccolo gruppo di persone, o persone molto ricche, imporci i propri desideri, la loro visione d'immortalità ?
Questa è una nuova utopia pericolosissima. Tutto questo non deve essere preso come una posizione contro la ricerca scientifica. La domanda fondamentale per tutta l'umanità è come controllare e usare la conoscenza per i motivi umanitari e all'interno di confini etici. La conoscenza è veramente una conoscenza dell'universo creato da Dio. Dobbiamo aiutare le gente a rendersi conto di questa possibilità e assicurarsi che l'interesse commerciale non prevalga.
I nostri colleghi usino questa conoscenza per l'umanità e per sviluppare la vita e non la morte.”
___________________________________________________________________________________
Dossier a cura di D.Q. - Agenzia Fides 18/4/2008; Direttore Luca de Mata