martedì 27 novembre 2012

Pietra su pietra (3)

Di seguito il Vangelo di oggi, 27 novembre, martedi della XXXIV settimana del T.O., con un commento e qualche testo di approfondimento.

 Vedi anche i post seguenti:


22 Nov 2011
Singolare concomitanza, il Vangelo di oggi ricorda che "Verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Domandarono a Gesù: "Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale ...
23 Nov 2010
Singolare concomitanza, il Vangelo di oggi ricorda che "Verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. Domandarono a Gesù: "Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale ...



Si abbeveravano le greggi,
cioè da lì si attingeva lo Spirito Santo.
E la pietra era grande, era la gioia della Presa d'acqua.
E chi non conosce la gioia della Presa d'acqua 
non conosce la gioia dello Spirito Santo.
Si rimetteva la pietra fino alla festa successiva.
E quando non la si rimetterà più
sarà la festa di Sukkot dei tempi messianici.
Midrash Tanaim 94


Lc 21,5-11
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, Gesù disse: “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta”. Gli domandarono: “Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?”. Rispose: “Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: ‘‘Sono io’’ e: ‘‘Il tempo è prossimo’’; non seguiteli. Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine”. Poi disse loro: “Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo”.
Il commento
Ciò che distingue i cristiani è il discernimento, lo sguardo celeste sul mondo e la storia, quella registrata sui libri come quella scritta sulle pagine della propria vita. Discernere è saper leggere i segni dei tempi con “attenzione” per “non lasciarsi ingannare” dal pensiero del mondo che, infiltrandosi spesso anche nella Chiesa, pretende di parlare “nel nome” del Signore; esso legge il “tempo” che viviamo come “prossimo” a chissà quali “rivoluzioni” morali e “guerre” culturali, destinate ad inaugurare un mondo nuovo di pace e tolleranza. “Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo”, ammoniva l’allora Card. Ratzinger. Chi è stato riscattato dal Signore e vive ormai “crocifisso con Lui” è entrato nella “libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo” (Benedetto XVI). Per questo non siamo “terrorizzati” davanti alla storia, e non ci lasciamo “prendere dal panico” per “seguire” la menzogna dei falsi profeti. Sappiamo, per esperienza, di vivere nel “prima” dove Dio parla e agisce con i “segni” della Croce che, come un aratro, dissoda il terreno della storia perché vi sia seminata la salvezza. In essa il Signore ci abbraccia e ci “inchioda” alla “sua amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discerneretra vero e falso, tra inganno e verità” (Benedetto XVI), nella certezza che in ogni secondo è racchiuso il destino dell'umanità. 
Nella vita dell’unico “Io sono” - il nome con cui Gesù si rivela come Dio - vi è una linea rossa che, con “segni” concreti gli rivela la “necessità” di “visitare” ogni Zaccheo “perduto”, perché la “salvezza entri nella casa” di tutti. Per questo “è necessario che accadano” gli sconvolgimenti nella vita degli uomini: i “terremoti, le carestie e le pestilenze” sono certo i frutti del peccato, ma Dio non vi si oppone proprio perché ci ama e vuole svegliarci. Il male “deve” emergere “di luogo in luogo”, come il pus da una ferita, perché possa incontrare ancora e sempre il Medico che lo assuma trasformandolo in misericordia. Nelle “sollevazioni di popoli e regni” gli uni contro gli altri, appare la divisione seminata dal demonio, il peccato che ha reso nemici Adamo ed Eva, e poi, come un fiume in piena, tutti i loro figli da Caino e Abele per ogni generazione, sino a “distruggere” il vero Tempio, il corpo benedetto del Signore. Il rumore sordo delle “pietre” che cadono le une sopra le altre, annuncia infatti il mistero Pasquale di Gesù che “distrugge” ogni “spelonca di ladri”, esteriormente “bella” e degna di “ammirazione”, ma “piena di rapina e iniquità” al suo interno. Quelle pietre ci ricordano la pietra grande deposta sul pozzo di Sichem, che impediva a Rachele di far abbeverare il suo gregge, pesante come quella che serrava il sepolcro del Signore. Un midrash ci racconta che "una rugiada di risurrezione discese dai cieli su Giacobbe rendendolo coraggioso e forte. Grazie a questa potenzarotolò la pietra dalla bocca del pozzo, e le acque salirono dalle profondità, traboccarono e inondarono. I pastori stavano in piedi, stupefatti, perché non era più necessario il secchio per attingere". Con la stessa potenza il Signore è risorto dal sepolcro facendone rotolare via la pietra. Per questo, i cumuli di pietre in cui si riducono le opere delle mani dell’uomo sono i “segni” che decretano la “fine” di ogni sapienza della carne perché "non sia più necessaria per attingere scampoli di felicità"; ma annunciano contemporaneamente il fine della vita di ogni uomo, la vita eterna conquistataci da Cristo. Dietro ad ogni “fatto terrificante” e ai “segni grandi dal cielo” che sconvolgono la storia e la nostra vita, vi è il Signore "forte e coraggioso" che sta rovesciando di nuovo la pietra che ci tiene prigionieri nella tomba, per aprire un varco affinché la sua vittoria sulla morte giunga sino a noi come acqua che "trabocca" di vita. E’ Lui che, a tutti noi assetati d’amore e verità, attraverso la forza dei fatti che per il mondo significano solo distruzione, rivela il potere del suo amore che dischiude, come fece Giacobbe innamorato di Rachele, il pozzo dove “dissetarci con gioia dell’acqua viva dello Spirito Santo che zampilla sino alla vita eterna”.
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APPROFONDIMENTI

Giuseppe Flavio. Descrizione del Tempio e delle sue pietre

Il tempio inferiore, nella parte piu' bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 150 metri) e in certi posti anche piu': tuttavia l'intera profondità delle fondamenta non appariva, perchè (i costruttori) colmarono buona parte dei bur­roni volendo livellare le stradicciuole della città. Nella costruzione (delle fondamenta) furono (impiegate) pietre di 40 cubiti di gran­dezza (20 metri)... Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti tutti i portici, e sostenuti da colon­ne di 25 cubiti d'altezza (metri 12,50), ch'erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza aturale, la levigatura e l'aggiustamento offrivano uno spettacolo ammirevole... (Guerra giud., v, 188-191).

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Card. Joseph Ratzinger. Cristo è la "misura" del discernimento


Il primo è il cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale!

Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.

Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).

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Benedetto XVI. La fede adulta non è emancipazione dal Magistero ma la libertà dei figli che credono insieme nel Corpo di Cristo


" Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto anche un altro uso della parola «fede adulta». Si parla di «fede adulta», cioè emancipata dal Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il risultato non è una fede adulta, il risultato è la dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione, dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera emancipazione è proprio liberarsi da questa dittatura, nella libertà dei figli di Dio che credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.

Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore, perché ci aiuti ad essere emancipati in questo senso, liberi in questo senso, con una fede realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione, alla vera età adulta, in comunione con Cristo.

In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein en te agape, essere veri nella carità, vivere la verità, essere verità nella carità: i due concetti vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’ sotto sospetto perché si combina verità con violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche episodi dove si cercava di difendere la verità con la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La verità può arrivare solo tramite se stessa, la propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza verità non conosciamo i veri valori e come potremo ordinare il kosmos dei valori? Senza verità siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo questa verità, cresciamo anche nella carità che è la legittimazione della verità e ci mostra che è verità. Direi proprio che la carità è il frutto della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se non c’è carità, anche la verità non è propriamente appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli: nonostante i fatti negativi, il frutto della carità è sempre stato presente nella cristianità e lo è oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i poveri, i malati, che sono presenza della carità di Cristo. E così sono il grande segno che qui è la verità.



(Lectio Divina di Benedetto XVI con i Parroci di Roma per l'inizio della Quaresima. 23 febbraio 2012)

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Benedetto XVI. Non si può vivere in una fanciullezza spirituale e in una fanciullezza di fede

San Paolo parla della crescita dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario, agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef 4,15). Non si può vivere in una fanciullezza spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo, in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza. Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde del mondo e nient’altro; non possono, come adulti, con competenza e con convinzione profonda, esporre e rendere presente la filosofia della fede - per così dire - la grande saggezza, la razionalità della fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel mondo. Manca questo essere adulti nella fede e rimane la fanciullezza nella fede.

(Lectio Divina di Benedetto XVI con i Parroci di Roma per l'inizio della Quaresima. 23 febbraio 2012)

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Benedetto XVI. Alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio e non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla fine rimane solo la luce!

Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si identifica con la nostra speranza. Perché? In che modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio, non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel mondo; e così essi vogliono creare una nuova apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non rimane altro potere; questa è la speranza: che la luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel cammino della speranza, camminando verso l’unità dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo, nell’Unico Signore, Cristo.

(Lectio Divina di Benedetto XVI con i Parroci di Roma per l'inizio della Quaresima. 23 febbraio 2012)

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Benedetto XVI. Paolo "incatenato per amore" a Cristo è libero per annunciare la Parola


Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi testi ecclesiali del Nuovo Testamento. Comincia con l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo, prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e così inizia nella comunione con la passione di Cristo. Questo è il primo elemento dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla nella comunione della passione di Cristo e così sta in comunione anche con la risurrezione di Cristo, con la sua nuova vita. Sempre noi, quando parliamo, dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e anche accettare le nostre passioni, le nostre sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e che andiamo, in comunione alla sua passione, verso la novità della vita, verso la risurrezione. «Incatenato», quindi, è prima una parola della teologia della croce, della comunione necessaria di ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma così, nell’elemento esteriore delle catene, della libertà non più presente, appare e traspare anche un altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.

(Lectio Divina di Benedetto XVI con i Parroci di Roma per l'inizio della Quaresima. 23 febbraio 2012)

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Card. Joseph Ratzinger. Tutto passa, rimane solo il frutto dell'amore

“Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16). Appare qui il dinamismo dell’esistenza del cristiano, dell’apostolo: vi ho costituito perché andiate… Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio.

(Missa pro eligendo Romano Pontefice, Lunedì 18 aprile 2005)

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Gianfranco Ravasi. "Quando accadranno queste cose?"


Partiamo da una domanda iniziale che i discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando davanti al monumentale tempio gerosolimitano eretto da Erode, aveva annunziato la futura rovina di quell’edificio.

I discepoli, allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo » (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito, essi intrecciano eventi diversi tra loro: la distruzione del tempio da parte dei Romani nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della storia e la fine del mondo. Si concentrano qui alcuni interrogativi che hanno tormentato la Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio, le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro nella finale del cap. 3 e così via).

Queste domande sono usate da Matteo come cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”, il quinto e ultimo intervento ampio di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo. Il termine “escatologico” è di matrice greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine della storia, ma anche il fine di tutto l’essere. Non si tratta, infatti, di una dissoluzione nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza, di una nuova creazione («cielo nuovo e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente il giudizio divino discriminante tra bene e male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina memorabile che vede Cristo protagonista di questo atto ultimo della storia umana).

Il discorso escatologico di Cristo non vuole descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali che sigleranno la fine del mondo, anche se in apparenza le immagini usate sembrano inclinare in questa linea.

In realtà, si tratta di simboli desunti da una letteratura popolare nel giudaismo di quei secoli, presente anche nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata “apocalittica”. Il termine di genesi greca designa una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica del sipario sul destino ultimo dell’essere e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni, visioni, scene che recano impresse sensazioni di terrore o di indecifrabilità.

Cristo ricorre a questo apparato non per elaborare previsioni su quell’evento estremo, bensì per creare tensione e impegno nei confronti del regno di Dio, già inaugurato con la sua venuta ma destinato a raggiungere una meta di pienezza futura, un po’ come aveva fatto balenare nella parabola del granello di senape che cresce fino a diventare un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce si comprende la frase sorprendente che abbiamo ritagliato da quel discorso. A Gesù poco interessa fare oroscopi sulla fine del mondo oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente inseriti nel piano salvifico divino.

Egli, invece, nella sua esistenza storica e umana si interessa solo di ciò che riguarda la sua missione, ossia instaurare le basi del regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione, di amore che fiorirà pienamente in quell’eternità, destinata a subentrare «a quel giorno e a quell’ora» della fine che il Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale di creazione e di redenzione. In questa frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità reale e non fittizia.
La divinità, alla quale egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno al Padre.