mercoledì 28 novembre 2012

Non con discorsi persuasivi di sapienza...





Nella catechesi di questa mattina, il Papa è partito da un testo fondamentale della Prima Lettera ai Corinti:


"Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza.  Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso.
 Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione;
 e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza,
 perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio". 
(1Cor. 2, 1-5)

Impossibile non pensare a tutte le parole e i messaggi (che quotidianamente ascoltiamo) i quali all'opposto si basano esattamente su discorsi persuasivi di sapienza e non invece sulla manifestazione dello Spirito e della Sua potenza. Anche qualche volta all'interno della Chiesa... Sono parole, quelle di Paolo, da meditare ogni giorno, soprattutto da parte di chi (Diaconi, Presbiteri, Vescovi e catechisti laici) esercita l'Ufficio della Predicazione e dunque è più soggetto alla tentazione di cercare se stesso e la propria gloria nelle cose di Dio. Di seguito riporto un testo del padre Raniero Cantalamessa ofmcapp. sulla "comunicazione" del Vangelo. (*)

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(*): Sul tema vedi anche in questo blog:

21 Set 2012
Enzo Bianchi - Come evangelizzare oggi. http://www.foryou.it/is-bin/intershop. I cristiani paiono aver smarrito le loro parole più proprie, eppure il Vangelo può ancora ridare senso alla ricerca dell'uomo di oggi, frastornato ...
http://kairosterzomillennio.blogspot.com/

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Di seguito la Lectio Magistralis tenuta dal padre Raniero Cantalamessa in occasione della Laurea honoris causa in Comunicazione multimediale dell’Università di Macerata, 26 Aprile 2010.

"In Principio era la comunicazione... "

Ringrazio di cuore il Magnifico Rettore, Prof. Roberto Sani, e in lui l’intera Università di Macerata per il riconoscimento oggi conferitomi. Ringrazio il Preside della Facoltà di scienze della comunicazione, Prof. Maurizio Ciaschini e, attraverso di lui, tutto il suo corpo docente, per aver deciso e sostenuto l’iniziativa, nonostante le note difficoltà dell’ultimo momento.
Saluto poi tutti gli ospiti che mi onorano della loro presenza: Sua Eccellenza il Vescovo Claudio Giuliodori che prima di diventare vescovo di Macerata fu mio diretto superiore, come responsabile nella CEI per i mezzi di comunicazione; le numerose autorità civili; la troupe della Rai con Laura Misiti, responsabile delle Rubriche religiose, i registi Barbara Borgiotti e Andrea Schneider con i quali ho lavorato più a lungo e il mio cameram preferito Luca.
Saluto anche i miei parenti, la sorella Giovanna, il nipote Dr. Giuseppe D’Angelo e la moglie Prof. Lucia Finotto, i confratelli cappuccini della Curia generale e della Provincia Picena, gli amici tutti intervenuti e in particolari i rappresentanti della stampa.
L’inatteso, anche se da tempo annunciato, riconoscimento mi è tanto più gradito in quanto attiene un campo che da anni costituisce lo scopo e il centro della mia attività, la comunicazione multimediale: stampa, radio, televisione, internet e soprattutto la comunicazione diretta e orale della predicazione.
Rende ancora più gradito il riconoscimento il fatto che mi viene dalla mia regione di origine alla quale sono rimasto sempre intimamente legato. Quando qualcuno mi chiede di che regione d’Italia sono, rispondo spesso: “Non per merito mio, ma sono marchigiano!”. Si sa che i romani la pensano diversamente e dicono: “Meglio un morto in casa che un marchigiano alla porta”. Non sanno che questo, all’origine, sembra fosse più un complimento che una offesa per i marchigiani. Molti marchigiani godevano della fiducia dei pontefici che affidavano volentieri ad essi la riscossione della tasse, e si sa che avere un esattore delle tasse alla porta non fa piacere.
Uno dei dati positivi di questo evento è che mi ha dato l’occasione per svolgere una riflessione approfondita sulla comunicazione in sé e nel mondo d’oggi che non avevo mai fatto, almeno in questa forma riflessa. Vengo dunque alla mia lectio: non so se sarà proprio “magistralis”, ma so che corrisponde al mio sentire.
1. Il monologo di Faust
In questa mia lectio vorrei cercare di mettere in evidenza qual è, nella prospettiva biblica e cristiana, il fondamento ultimo, o – ciò che è lo stesso – il paradigma originario di ogni comunicazione e la luce che questo paradigma può gettare su alcuni problemi cruciali della comunicazione umana, sia laica che religiosa.
È noto il monologo del Faust di Goethe a proposito dell’inizio del Quarto Vangelo: “In principio era la Parola”. Non posso, dice Faust, dare a “la parola” (das Wort) un valore così alto; forse devo intendere “il senso” (der Sinn); ma può il senso essere ciò che tutto opera e crea? Si dovrà allora dire: “In principio era la forza” (die Kraft)? Ma no, un’improvvisa illuminazione mi suggerisce la risposta: “In principio era l’azione”(die Tat)1.
Manca, in tutte queste interpretazioni goethiane, l’elemento essenziale del Logos giovanneo. Né il senso, né la forza, né l’azione, dicono, per se, relazione ad altro; non implicano nessun elemento dialogico, mentre questo è proprio il significato del termine Logos: parola rivolta a qualcuno, ragione e senso delle cose, ma in quanto manifestato, comunicato. I primi traduttori latini , per esempio Tertulliano, traducevano il termine Logos del Prologo con una endiadi: ratio et sermo, ragione e parola. Se dunque si vuole fare una parafrasi della frase giovannea, essa non è “In principio era l’azione”, ma “In principio era la comunicazione”.
Questo si realizza nell’ambito trinitario, dunque alla radice ultima dell’essere e del reale. La seconda persona della Trinità è chiamato Logos, Verbo, Parola perché è la comunicazione che il Padre fa di tutto se stesso al Figlio, nell’Amore che è lo Spirito Santo e, di rimando, la comunicazione che il Figlio fa di tutto se stesso al Padre nell’Amore che è lo Spirito Santo.
Da sant’Agostino in poi le tre persone divine sono definite come “relazioni sussistenti”. Noi creature umane abbiamo delle relazioni, Dio non ha relazioni: è relazione. Un padre non si esaurisce nella relazione che ha al figlio, un maestro nella relazione allo scolaro; l’uno e l’altro esistono anche fuori e prima di questi rapporti. Non così Dio: il Padre non è nient’altro che Padre, il Figlio nient’altro che Figlio. Questo significa relazione sussistente.
Non si finisce mai di esplorare la profondità di questa definizione e la sua rilevanza nel contesto attuale delle scienze della comunicazione. Essa significa che la comunicazione non è una prerogativa o un’attività accidentale e secondaria, ma è intrinseca all’essere umano. L’uomo è creato a immagine di un Dio che è comunicazione! In ogni autentica comunicazione si può scorgere un riflesso della Trinità perché in essa c’è uno che comunica, uno a cui si comunica e la comunicazione stessa, come in Dio c’è il Padre che ama, il Figlio che è amato e lo Spirito Santo che è l’amore.
La definizione moderna di persona, a partire da Hegel, si è riavvicinata a questo significato biblico, insistendo sul carattere relazionale, il rapportarsi all’altro, della persona, il suo essere un io di fronte a un tu, con tutta l’importanza che ne deriva per il tema del dialogo, sviluppato da Martin Buber nel suo “Il principio dialogico”. “Essere se stesso, ma attraverso il dono all’altro in cui ci si ritrova, è oggi il concetto corrente di persona”2.
La lingua tedesca permette di cogliere nel titolo di Logos una componente essenziale, dal punto di vista della comunicazione. Si tratta della vicinanza di suono e di senso tra Wort, parola, e Ant-wort, risposta. La vera comunicazione non è mai a senso unico, è sempre un dare e ricevere, un parlare e ascoltare. Così è la comunicazione nella Trinità. Il Figlio è parola d’amore del Padre e risposta d’amore al Padre. Potremmo parafrasare ugualmente bene la frase di Giovanni dicendo che “In principio era il dialogo”.
Questa visione così alta della comunicazione è possibile solo là dove Dio non è concepito come potenza assoluta, o legge cosmica assoluta, come in altre religioni antiche e moderne, ma è visto come amore assoluto. La potenza e la legge possono essere esercitate da uno solo, non così l’amore. L’amore ha bisogno di un io che ama e di un tu che è amato. Il Dio cristiano è comunicazione perché è amore.
Quello che avviene nella vita intima di Dio trova un primo riflesso nella storia della salvezza . La rivelazione biblica è anch’essa una comunicazione e un dialogo. Dio parla all’uomo, ma anche l’uomo parla a Dio nella Bibbia. Il senso dell’alleanza è tutto qui. Basta rileggere il libro di Giobbe o dei Salmi per rendersi conto di quanto questo dialogo sia serrato e a volte tempestoso.
Notiamo, per inciso, come questa esigenza è avvertita in modo acuto, dopo che alla comunicazione orale e di persona si è sostituita sempre più massicciamente quella visiva e impersonale della stampa e della televisione, dopo l’apparizione della “Galassia Gutenberg”, per parlare nei termini di Marshall McLuhan. La comunicazione dei media –stampa, televisione – è per sua natura a un senso solo, è parola che non attende e non consente risposta. È Wort, ma senza Antwort.
Si cerca di rimediare oggi, in qualche modo, a questo difetto radicale con le lettere dei lettori a cui molti giornali riservano uno spazio, le telefonate durante i programmi televisivi, il televoto. Ma sono rimedi insufficienti. Credo che ciò costituisca un vizio di fondo e un potenziale fattore di spersonalizzazione dei media moderni. Il rischio dei media di trasformarsi in strumento di potere (“Il Quarto potere” secondo il film celebre di Orson Welles) si annida in parte qui.
2. La comunicazione, strada per l’inferno o per il paradiso?
Quali considerazioni ci suggerisce il modello divino a riguardo della comunicazione umana? La prima riguarda il movente: “perché” comunicare e non piuttosto tacere? In Dio, il movente unico della comunicazione, sia ad intra che ad extra, cioè sia nella Trinità che nella storia, è l’amore. Dio si comunica perché è il bene e il bene dicevano gli scolastici è, per sua natura, “diffusivum sui”, cioè comunicativo, tendente a diffondersi. Diversamente, non sarebbe più “bene”, cioè amore, ma egoismo.
La Bibbia, dall’inizio alla fine, non è che un messaggio d’amore di Dio alle sue creature. I toni possono cambiare, dall’adirato al tenerissimo, ma la sostanza è sempre e solo amore. Dio si è servito della parola per comunicare vita e verità, per istruire e consolare. «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi – scrive l’apostolo Paolo – è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza» (Rom 15, 4).
Nell’era della comunicazione di massa che ha dilatato quasi all’infinito, in bene e in male, l’uso della parola, dobbiamo porci la domanda: noi esseri umani ci serviamo della parola, scritta o pronunciata, per comunicare vita e verità, o, al contrario, per diffondere la morte e falsificare la verità?
Nell’introduzione al suo famoso Dizionario delle opere e dei personaggi, Valentino Bompiani racconta questo episodio. Nel luglio 1938 si tenne a Berlino il congresso internazionale degli editori a cui partecipò anche lui. La guerra era già nell’aria e il governo nazista si mostrava maestro nel manipolare le parole a fini di propaganda. Il penultimo giorno, Goebbels, ministro della propaganda nazista, invitò i congressisti nell’aula del parlamento. Ai delegati dei vari Paesi fu chiesta una parola di saluto. Quando venne il turno di un editore svedese, questi salì sul podio e con voce grave pronunciò queste parole: “Signore Iddio, devo fare un discorso in tedesco. Non ho un vocabolario né una grammatica e sono un pover’uomo sperduto nel genere dei nomi. Non so se l’amicizia è femminile e l’odio maschile, o se l’onore, la lealtà, la pace sono neutri. Allora, Signore Iddio, riprenditi le parole e lasciaci la nostra umanità. Forse riusciremo a comprenderci e a salvarci”. Ci fu un applauso scrosciante, mentre Goebbels, che aveva capito l’allusione, usciva dalla sala. È terribile arrivare a dover chiedere a Dio di riprendersi la parola, perché con essa ci facciamo ormai solo del male.
Nel suo dramma Porte chiuse, Sartre ci ha dato una immagine crudele di quello che può diventare la comunicazione umana, quando manca l’amore. Tre persone – un uomo e due donne – vengono introdotte, a brevi intervalli, in una stanza. Non ci sono finestre, la luce è al massimo e non c’è possibilità di spegnerla, fa un caldo soffocante, e non c’è nulla all’infuori di un canapè per ciascuno. La porta naturalmente è chiusa, il campanello c’è, ma non dà suono. Chi sono? Sono tre morti e il luogo dove si trovano è l’inferno.
Non vi sono specchi e ognuno di loro non può vedersi che attraverso le parole e l’anima dell’altro che gli rimanda l’immagine più brutta di sé, senza nessuna misericordia, accrescendone anzi volutamente l’orrore con il proprio sarcasmo. Quando, dopo un po’, le loro anime sono diventate nude l’una all’altra e le colpe di cui ci si vergogna di più sono venute a galla una ad una e sfruttate dagli altri senza pietà, uno dei personaggi dice agli altri due: “Ricordate: lo zolfo, le fiamme, la graticola. Tutte sciocchezze. Non c’è nessun bisogno di graticole: l’inferno sono gli Altri”3.
Quando la parola proviene da odio anziché da amore, può trasformare la vita in un inferno. Vi sono mura domestiche che somigliano alla stanza da descritta da Sartre; il teatro rispecchia qui da vicino quello che avviene nella vita.
Diciamo meglio: rispecchia una parte della vita, quella che il pessimismo esistenzialista permetteva all’autore di vedere. “I dialoghi delle Carmelitane” di Bernanos, “L’annuncio fatto a Maria” di Claudel, per rimanere nell’ambito della letteratura francese a lui più o meno contemporanea, ci mostrano un uso e un esito ben diverso della parola. La comunicazione può diventare una strada che conduce all’inferno, ma per se stessa è una strada che permette di rientrare nel paradiso perduto. Cerco di spiegare in che senso.
Tutti vogliamo l’unità. Dopo la parola felicità, non ce n’è, forse, alcun’altra che risponda a un bisogno altrettanto impellente del cuore umano come la parola unità. Noi siamo “esseri finiti, capaci di infinito” e questo vuol dire che siamo creature limitate che aspiriamo a superare il nostro limite, per essere “in qualche modo tutto”. Non ci rassegniamo a essere solo quello che siamo. È qualcosa che fa parte della struttura stessa del nostro essere.
Chi non ricorda qualche momento degli anni giovanili quando queste cose si sperimentano dal vivo e si capiscono meglio che più tardi dai libri, chi non ricorda, dico, qualche momento di struggente bisogno di unità, quando avrebbe voluto che tutto l’universo fosse racchiuso in un punto solo e lui essere, con tutti gli altri, in quell’unico punto? Tanto il senso di separazione e di solitudine nel mondo si faceva sentire con sofferenza. San Tommaso d’Aquino spiega tutto ciò dicendo: “Poiché l’unità (unum) è un principio dell’essere come la bontà (bonum), ne deriva che ognuno desidera naturalmente l’unità, come desidera il bene”4.
In questa luce, che non è solo morale ma metafisica, si può rileggere l’affermazione di Sartre “l’inferno sono gli altri”. Gli altri, i diversi da me, sono quello che io non sono. E non tanto perché hanno qualcosa che io non ho, quanto perché sono qualcosa che io non sono. Semplicemente perché sono. Con il loro semplice esistere mi ricordano il mio limite, che io non sono il tutto. Essere un individuo particolare, distinto e diverso da tutti, significa, infatti, essere quello che si è e non essere tutto il resto che mi circonda.
Essere se stessi comporta la terribile conseguenza di non essere altro che se stessi, cioè un piccolissimo istmo di terraferma, o addirittura una minuscola isoletta, circondata da tutte le parti dal grande mare del mio non-essere. Gli altri allora sono voragini di non-essere che mi si aprono minacciosamente tutt’intorno. Da qui a dire che gli altri sono il mio inferno, in una visione puramente filosofica e per giunta atea, non c’è che un passo.
Di qui l’importanza della comunicazione. Quando nasce da amore e da ricerca della verità, essa è l’unico modo possibile per colmare quelle “voragini” che ci si aprono intorno, è un gettare ponti verso le altre isole e raggiungere alla fine, di isola in isola, la “terra ferma” che è Dio.
Il modello trinitario non giudica però solo la comunicazione profana, ma anche, e in primo luogo, quella sacra. Non basta annunciare Cristo; bisogna vedere “perché” lo si annuncia. “Alcuni, scrive san Paolo ai Filippesi, predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo; ma quelli annunciano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene” (Fil 1, 15-18).
San Paolo dice: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o come un cembalo che tintinna” (l Cor 13,1). L’esperienza mi ha fatto scoprire che si può annunciare Gesù Cristo per motivi che hanno poco o nulla a vedere con l’amore. Si può annunciare per dovere o per mestiere, per trovare nell’aumento del numero degli adepti una legittimazione alla propria piccola chiesa o setta, specie se di propria, o di recente, fondazione; si può annunciare il vangelo perché convinti che quando esso avrà raggiunto i confini della terra e il numero degli eletti sarà completato, il Signore, secondo la sua promessa (cf. Mc 13,10), tornerà per chiudere la storia.
Alcuni di questi motivi non sono da riprovare, ma da soli non bastano. Manca quel genuino amore e compassione per gli uomini che è l’anima del Vangelo. Il Vangelo non si trasmette che sull’onda dell’amore. Se non amiamo le persone che abbiamo davanti, le parole ci si trasformano facilmente in pietre che feriscono. Giona era andato a predicare a Ninive, ma non amava i niniviti. Egli è visibilmente più contento quando può gridare: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!”, che non quando deve annunciare il perdono di Dio e la salvezza di Ninive. “Tu ti dai pena – dice Dio a Giona- per quella pianta di ricino…e io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra?” (Giona 4,10). Dio dovette faticare di più per convertire il predicatore che non tutti gli ascoltatori.
L’ascolto dei racconti della Passione nella settimana santa all’inizio di questo mese mi ha suggerito una riflessione che ritengo importante e quanto mai attuale. Nel corso dei suoi processi, Gesù sembra cambiare atteggiamento nei confronti della comunicazione: egli che è la Parola diventa silenzio, non risponde alle domande, tace. Se, come ho scritto nel titolo di questa lectio, “in principio era la comunicazione”, ora, alla fine, è il silenzio!
Attraverso i ripetuti silenzi di Cristo – davanti al Sinedrio, a Pilato, a Erode – si profila un mistero. Il silenzio appartiene al sacrificio di redenzione. Astenendosi dal rispondere alle grida e ai rimproveri degli accusatori, Gesù offre al Padre una riparazione a tutte le parole di odio, alle ingiurie e alle calunnie, a tutte le cattiverie proferite da voce umana. La parola dell’ uomo serve spesso ad esprimere mancanza di carità, contese, invidia, gelosia, disprezzo, avversione, sete di potere o di denaro; essa manifesta ogni sorta di cattivi sentimenti. Nel suo silenzio, Gesù porta il peso di tutti i peccati commessi con la parola.
Questo silenzio è una rinuncia tanto più difficile in quanto chi la compie è il Verbo. Lui che è la Parola, diventa silenzio. È questo uno degli aspetti più profondi della kenosi del Verbo, è un vero “spogliarsi di se stesso”. Ecco perché, in un discorso cristiano sulla comunicazione, al modello trinitario non si può non affiancare il modello cristologico. Gesù ha redento anche la parola, anche la comunicazione umana. Lo ha fatto, direbbe Lutero, manifestandosi “sub contraria specie”, sotto il suo contrario, nascondendo, cioè, la parola nel silenzio, la gloria nell’ignominia, la potenza nella debolezza e la sapienza nella “stoltezza della croce”.
3. Comunicazione di notizie e comunicazione di esistenza
Ho parlato fin qui del movente della comunicazione. Non meno importante è ciò che il modello trinitario e cristologico ci dice a proposito del contenuto e dello stile della comunicazione. Vi sono due tipi fondamentali di comunicazione: una comunicazione di idee e una comunicazione di vita. In Dio, il concetto di relazione è inseparabile da quello di generazione, e il titolo di Logos da quello di Figlio. Il Padre non comunica al Figlio soltanto il suo pensiero, ma tutto il suo essere e la sua natura divina.
Anche nell’ambito umano c’è una comunicazione di idee e di pensiero che avviene nella comunicazione verbale e una comunicazione di esistenza che si realizza, fisicamente, nella generazione carnale e, spiritualmente, nella creazione artistica e nell’annuncio del vangelo. Nella sfera umana i due tipi di comunicazione sono distinti, o almeno non contemporanei, in Dio sono uniti e simultanei. La comunicazione di idee si rivolge principalmente alla mente, quella di esistenza al cuore. La mente rappresenta per noi l’oggettività, il cuore la soggettività.
Vi sono ambiti della comunicazione, come la cronaca, i notiziari, quella che chiamiamo genericamente “l’informazione”, in cui deve prevalere l’obbiettività. Non è il caso qui di lanciarsi in una critica sull’ assenza frequente di questa preoccupazione nei media moderni, ma qualcosa è pur necessario dire. Nella situazione attuale, condizionata dalla corsa a chi arriva primo e batte la concorrenza, quello che i mezzi di informazione cercano spasmodicamente, eccetto lodevoli eccezioni facilmente riconoscibili, è lo scoop. In genere, ai media non interessa tanto la verità, quanto la novità.
Io ho fatto una piccola esperienza personale di questo stato di cose, in seguito al mio discorso in San Pietro, il Venerdì Santo scorso, e credo di essere debitore di una spiegazione all’università che mi ha conferito questo riconoscimento e all’opinione pubblica in genere. Non per giustificare me stesso, ma perché l’incidente mostra in modo esemplare come funzionano i mezzi di comunicazione di massa e il prezzo che stiamo pagando per beneficiare di una informazione globale e in tempo reale, alla quale, peraltro, nessuno intende rinunciare.
Dico subito che comprendo la vivace reazione mondiale, almeno quella dettata da intenzioni serie e non faziose. Vorrei solo chiarire quali erano le mie intenzioni nel pronunciare le frasi incriminate dell’omelia e perché tali intenzioni si sono smarrite lungo il percorso.
Approfittando del fatto che quest’anno la Pasqua ebraica cadeva nella stessa settimana della Pasqua cristiana, avevo deciso di far giungere agli ebrei un saluto da parte dei cristiani, proprio dal contesto del Venerdì Santo che è stato sempre, per loro, occasione di sofferenza. Già in passato, del resto, nel 1998, in una coincidenza analoga tra Pasqua ebraica e Pasqua cristiana, avevo dedicato tutta la predica del Venerdì Santo a mettere in luce le radici dell’antisemitismo cristiano, unendomi alla richiesta di perdono, lanciata in quel tempo al mondo ebraico dal papa Giovanni Paolo II. La stampa, anche ebraica, diede ampio risalto a quel discorso.
Quando, quest’anno, mi è giunta la lettera dell’amico ebreo che paragonava l’uso dello stereotipo e il facile passaggio dalla responsabilità individuale a quella collettiva nei confronti della Chiesa, a certi aspetti dell’antisemitismo, ho deciso, dietro consenso dell’interessato, di citarla perché mi sembrava un gesto di grande nobiltà da parte di un ebreo, esprimere, in un momento come questo, la sua solidarietà con il capo della Chiesa cattolica, un gesto che, ritenevo, avrebbe incoraggiato i cristiani a fare altrettanto, in circostanze simili, nei confronti del popolo ebraico.
Né io né l’amico ebreo pensavamo minimamente, come ha fatto immediatamente la stampa e la televisione, all’antisemitismo della Shoa, ma all’antisemitismo come atteggiamento culturale che è ben più antico e più diffuso della Shoa. L’antisemitismo, per esempio dell’affare Dreyfus, o quello che consiste nel far ricadere su tutto il popolo ebraico, anche attuale, la responsabilità della morte di Cristo.
Così inteso, il paragone non mi sembrava poi così assurdo come si è voluto far credere. Poche settimane prima, Ernesto Galli della Loggia, un giornalista laico, sulla prima pagina del Corriere della sera, aveva denunciato il diffondersi, nella cultura moderna, di un vero e proprio “anticristianesimo”, frutto, diceva, di un “illuminismo da bar”. Sono molti a pensare che più che da amore e pietà per le vittime della pedofilia, la campagna dei media sia mossa da volontà di mettere in ginocchio la Chiesa. Qualcosa che ricorda l’ “Ecrasez l’infame” di Voltaire o il “Dai all’untore” di manzoniana memoria.
Il quotidiano L’Unità (che è tutto dire), nell’edizione del 10 Aprile scorso, riportava la seguente affermazione dell’ex sindaco di Gerusalemme Ed Koch sul “The Jerusalem Post”: “Credo che i continui attacchi da parte dei media alla Chiesa Cattolica e a Papa Benedetto XVI siano diventate manifestazioni di anti-cattolicesimo. La sequela di articoli sugli stessi eventi non ha più, a mio parere, lo scopo di informare, ma semplicemente di punire”.
Questo non significa minimamente tacere o sottovalutare la gravità dei casi di pedofilia del clero. In quella stessa omelia parlavo, anche se non era il tema principale del discorso, della “violenza sui bambini di cui si sono sciaguratamente macchiati non pochi membri del clero”. In una predica alla Casa Pontificia dell’Avvento 2006 avevo addirittura proposto di indire un giorno di digiuno e di penitenza per esprimere solidarietà alle vittime della pedofilia, una proposta che ebbe larga eco nella stampa.
Come ha potuto dunque, da queste premesse, svilupparsi la tempesta mediatica che conosciamo e che ha avuto ripercussione anche sull’avvenimento per cui siamo qui riuniti? Lo ha spiegato un rabbino ebreo, una settimana dopo l’incidente, sul più diffuso quotidiano di Israele, “The Jerusalem Post”, in un articolo intitolato “Siamo dei cattivi ascoltatori”5. Mi scuso se può sembrare una apologia personale, ma credo sia necessario sentire, almeno in parte, cosa dice.
“Rivisitare l’accaduto, scrive il rabbino, ci fornisce alcune lezioni importanti… Guardiamo le notizie e rimaniamo ciechi davanti alle vere novità. I titoli a sensazione ci fanno perdere di vista ciò che è veramente degno di nota, nuovo e ispiratore. Devo pensare che nessun portavoce ebreo che ha criticato l’affermazione del predicatore ha mai letto la sua omelia. Essi molto probabilmente hanno reagito a un giornalista che chiedeva un commento su una certa frase, e hanno dato una risposta in merito a quella frase. I giornalisti, estrapolando una citazione da un testo più lungo, fissano i termini del problema, i portavoce ebrei rispondono, ne nasce una storia, si crea uno scandalo…
Uno sguardo a ciò che il predicatore francescano ha realmente detto racconta una storia diversa, di cui il minimo che si possa dire è che dissipa l’impressione negativa generata dalle frasi che hanno fatto i titoli dei giornali. Richiamiamo alla mente il momento. Siamo nella liturgia del Venerdì Santo. L’omelia del Venerdì Santo è stata per secoli il momento più temuto dagli ebrei. Dopo aver ascoltato tale omelia, la folla usciva per le strade e gli ebrei temevano per la loro vita. Le rappresentazioni teatrali della Passione del Venerdì Santo erano fonte costante di violenza contro i giudei…Con questo retroscena, sorprende notare ciò che Padre Cantalamessa ha fatto di questa occasione. Egli usa questo momento nella basilica di San Pietro, in presenza del papa, per augurare “Buona festa di Pasqua” agli ebrei!
Nel leggere questo mi sono chiesto: quando mai, prima di adesso, un discorso del Venerdì Santo fu usato per questo scopo? Probabilmente mai. Perché diamo per scontato questo gesto di buona volontà? Perché passiamo sopra di esso in silenzio? Pensare agli ebrei come fratelli di fede durante la liturgia papale del Venerdì Santo è il frutto di decenni di lavoro nel campo delle relazioni giudeo-cristiane. Che questo abbia potuto essere detto così naturalmente e quasi a caso, questa è la vera notizia… Ma il predicatore non si ferma qui: saluta noi ebrei con parole prese dalla Mishna, citate nell’Hagadda, il più popolare dei testi giudaici.
Non abbiamo colto tutto questo perché abbiamo notato solo il paragone tra i violenti attacchi contro la Chiesa e quelli perpetrati con gli ebrei. E anche in questo caso abbiamo omesso di ascoltare per intero la voce dell’ebreo citato dal Padre francescano. C’è solo una risposta appropriata a tutto ciò: riconoscimento del significato sereno e profondo di quanto accaduto e dire: Grazie, P. Cantalamessa!”
A questo punto l’autore dell’articolo fa una considerazione di ordine generale che mi sembra quanto mai attinente al tema di questa mia lectio. “Sta diventando, scrive, sempre più difficile per le persone religiose dare un messaggio pensato, con qualche complessità, sfumatura, con una certa profondità storica e teologica, senza temere che un’idea sia presa fuori del contesto e fare titoli, titoli sbagliati. P. Cantalamessa ha fatto le dovute scuse, ma anche noi dobbiamo esprimere le nostre scuse per aver mancato di ascoltare il messaggio come fu pronunciato, per aver permesso ai media di creare una falsa storia, ignorando quella vera. La battaglia contro le presentazioni selettive e superficiali del nostro messaggio religioso è una battaglia comune, nella quale le voci delle persone pensose di tutte le religioni devono collaborare. Il tema dell’omelia del predicatore era contro la violenza. Questi ultimi fatti ci hanno mostrato come anche il cattivo ascolto può essere fonte di violenza”6.
4. La comunicazione soggettiva
Chiudo questa doverosa parentesi sulla comunicazione di notizie e vengo a quello che più mi interessa in quanto comunicatore del sacro e cioè alla comunicazione in cui prevale la soggettività, la comunicazione di desistenza. Tale è l’arte in tutte le sue manifestazioni, visive e auditive. Anche l’arte astratta non può prescindere dalla soggettività, dalla commozione; essa diviene, anzi, l’arte più soggettiva che ci sia, ma in senso negativo, quando l’artista parla solo a se stesso.
Comunicazione soggettiva è, per eccellenza, la predicazione cristiana in tutte le sue forme, non escluso il catechismo. “La predicazione cristiana, ha detto Kierkegaard, è comunicazione di esistenza, non di dottrina”7. Diciamo forse meglio: è comunicazione di esistenza, anche quando è comunicazione di dottrina. San Paolo era così convinto di ciò, da paragonare l’annuncio del vangelo alla generazione carnale, mediante la quale uno diventa padre: “Anche se aveste diecimila precettori in Cristo, scrive ai corinzi, non avete però molti padri; perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante l’annuncio del vangelo” (1 Cor 4,15).
Da ciò l’importanza che la comunicazione religiosa parli al cuore e non solo alla mente. Dio, dice la Bibbia, “scrive sul cuore” (Ger 31, 33) e “parla al cuore” (Os 2,16); ai suoi profeti raccomanda di “parlare al cuore di Gerusalemme” (Is 40,2). La critica che ho raccolto più spesso da persone che avevano appena ascoltato un discorso, una predica, un’omelia è: “Non tocca il cuore, parla solo alla mente”.
A questo proposito vorrei introdurre nel discorso una nota personale. Il noto critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grasso, una volta ha mosso un appunto al mio modo di condurre la spiegazione del vangelo nel programma “A sua Immagine” di Rai Uno, dicendo di trovarlo “autoreferenziale”. Non voglio liquidare alla svelta questo giudizio, ma discuterlo.
L’aggettivo autoreferenziale può significare due cose. Può indicare la tendenza al protagonismo, a mettere in mostra se stessi, e in questo caso la critica sarebbe più che giusta. La norma dell’annuncio cristiano formulata da san Paolo è: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2 Cor 4,5). Quell’aggettivo, però, può anche indicare quello che ho definito “soggettività”, cioè il partire dalla propria esperienza, il sentirsi coinvolti in ciò che si dice, il parlare al cuore e non solo alla mente. In questo senso, ritengo l’aggettivo autoreferenziale un elogio, non una critica. San Paolo è autoreferenziale in tutte le sue lettere.
Non dico che il mio è l’unico modo di commentare il vangelo; solo dico che ci deve essere spazio anche per esso. Kierkegaard critica l’abitudine di accostarsi alla parola di Dio in maniera solo oggettiva, studiandone il testo, il contesto, i passi paralleli, le fonti, le varianti critiche e tutto il resto, senza mai lasciarsi interpellare personalmente da essa. Questo, dice, equivale a studiare la cornice, la forma, il materiale di cui è fatto uno specchio, senza mai guardarsi nello specchio. Si priva lo specchio della sua vera funzione!
Vorrei accennare a un altro fattore che impedisce di arrivare al cuore degli ascoltatori, oltre l’atteggiamento impersonale e distaccato di fronte alla parola di Dio: l’astrattezza. Il linguaggio astratto, fatto solo di concetti, parla alla mente, ma non al cuore. Esso può essere giustificato e necessario in una lezione universitaria o in una conferenza, non nella predicazione al popolo, soprattutto quando questa si serve dei mezzi di comunicazione sociale. È quello che ho imparato in anni di frequenza del mezzo televisivo.
Nella predicazione anche i concetti astratti devono essere rivestiti di immagini, simboli, metafore, parabole, storie vissute, riferimenti concreti alla vita e agli interessi della gente. La parola deve, sempre di nuovo, “farsi carne”. È quello che caratterizza il linguaggio della Bibbia e risplende in grado sommo nel parlare di Gesù per parabole. Se fosse esistita a suo tempo la televisione, Gesù sarebbe stato il predicatore televisivo ideale! L’esperienza dimostra che quello che l’ascoltatore ricorda di una predica non è, il più delle volte un’idea, ma un esempio, un’immagine, una storia, ed è grazie ad essi che ricorda anche l’idea.
Sant’Agostino ha spiegato magistralmente in che consiste la forza dell’immagine e della metafora. “Tutto ciò –scrive – che è suggerito mediante simboli colpisce ed infiamma il cuore molto più vivamente di quanto potrebbe fare la verità stessa, se ci fosse presentata senza i misteriosi rivestimenti delle immagini… La nostra sensibilità è tarda ad infiammarsi finché resta legata alle realtà puramente concrete, ma se viene orientata verso simboli tratti dal mondo corporeo e di là trasportata sul piano di realtà spirituali significate da tali simboli, essa acquista vivacità, già dal solo fatto di questo passaggio, e si infiamma maggiormente come una torcia in movimento” 8.
Un racconto di Franz Kafka può aiutare a capire cosa impedisce la vera comunicazione, in particolare la trasmissione del messaggio di Cristo. Parla di un imperatore che sul letto di morte chiama accanto a sé un suddito. Gli sussurra all’orecchio un messaggio. “Tutti i muri che sono di impedimento sono stati abbattuti”, per far posto alla folla riunita intorno al suo letto. È tanto importante quel messaggio che se lo fa ripetere, a sua volta, all’orecchio. Quindi congeda con un cenno il messaggero che si mette subito in cammino. Ma sentiamo il resto dal racconto stesso dell’autore:
“Avanzando ora un braccio, ora l’altro, il messaggero si apre la strada attraverso la folla, se incontra resistenza accenna al petto, che reca il segno del sole; e così avanza, leggero come nessuno. Ma la folla è immensa, le sue dimore sterminate. Come volerebbe se avesse via libera! Ben presto udresti il glorioso rumore dei suoi pugni alla tua porta. Invece, si affatica invano; ancora continua ad affannarsi attraverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E se anche questo gli riuscisse, non significherebbe nulla: dovrebbe lottare per scendere le scale. E se anche questo gli riuscisse, non avrebbe fatto ancora nulla: dovrebbe traversare i cortili; e dopo i cortili, la seconda cerchia dei palazzi: e ancora scale e cortili, ancora un palazzo e così di seguito, per millenni. Gli riuscisse di precipitarsi, finalmente, fuori dall’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere – ecco dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti. Lì in mezzo, nessuno riesce ad avanzare, neppure con il messaggio di un morto. Tu, intanto, siedi alla tua finestra e sogni di quel messaggio, quando viene la sera”9.
Dal suo letto di morte, la croce, Cristo ha confidato alla sua Chiesa un messaggio. Ci sono ancora tanti uomini che, stando alla finestra, sognano di un messaggio come il suo. Purtroppo la Chiesa può diventare quel castello complicato e soffocante dal quale il messaggio non riesce più a uscire. L’ostacolo principale alla “corsa” della Parola sono le divisioni tra cristiani, i “muri divisori” che Gesù ha abbattuto al momento della morte (cfr. Ef 2, 14), ma che i cristiani hanno riedificato.
Ostacoli sono anche l’eccesso di burocrazia, il clericalismo che toglie mordente alla Parola e la fa apparire lontana dalla vita. L’ostacolo principale riguarda il linguaggio. Nella maggioranza dei casi esso è astruso e incomprensibile; come esiste un linguaggio politichese, esiste anche un linguaggio che potremmo chiamare ecclesiastichese.
5. Quando il mezzo è veramente il messaggio
Non posso esimermi in un discorso sulla comunicazione dal confrontarmi con le idee di colui che ha svolto la riflessione più originale e più approfondita sui media, autore di alcuni degli slogan più ripetuti nel mondo attuale, come “il villaggio globale”, e “il mezzo è il messaggio”10. Parlo naturalmente del canadese Marshall McLuhan. Il confronto è facilitato dal fatto che McLuhan, convertitosi al cattolicesimo e uomo profondamente religioso, ha lui stesso coltivato un grande interesse per la comunicazione sacra e si è espresso a diverse riprese sui problemi ad essa connessi.
Comincio con l’accennare a qualche punto in cui avrei delle riserve da fare sul suo pensiero, per poi occuparmi invece di una affermazione fondamentale con la quale egli raggiunge, da un versante diverso, una verità fondamentale per la teologia e la Chiesa.
Sono note alcune affermazioni paradossali di McLuhan, come quella che, dal punto di vista del messaggio, non fa differenza che si stampino libri buoni o libri cattivi, che si trasmettano film e spettacoli buoni, oppure spettacoli cattivi e violenti. Per lui infatti il “messaggio” non indica il risultato immediato provocato dal mezzo, ma il tipo di comunicazione in cui si inserisce, il senso che interessa (se l’udito, la vista, o entrambi), addirittura l’emisfero cerebrale che esso attiva. In una parola la causa formale, non la causa efficiente.
In tal modo egli considera solo gli effetti a lungo termine, l’onda lunga, di un fenomeno; trascura completamente gli effetti a breve termine; considera l’effetto dei media più su una cultura e un’epoca che non sulla persona, anche se, sappiamo, sono le persone che creano un ambiente, una cultura e una tendenza. McLuhan ragiona con lo schema di Gian Battista Vico dei corsi e ricorsi storici (il suo interesse per il filosofo napoletano affiora in più occasioni); egli è, per eccellenza, l’uomo dei “megatrends”.
La stessa impressione si riporta leggendo i suoi numerosi interventi sui problemi della comunicazione religiosa. Tutte le interviste da lui rilasciate su questi temi, raccolti ora in un volume disponibile anche in italiano 11, sembrano un dialogo tra sordi. L’interlocutore pone problemi specifici e attuali sulla trasmissione della fede, la liturgia del dopo Concilio, l’uso dei media da parte della Chiesa, McLuhan da, ogni volta, risposte “epocali”.
Anche il famoso slogan “il mezzo è il messaggio” va preso, a mio parere per quello che è: un’approssimazione alla verità, non una sua definizione. È un po’ come certi quadri a grandi tinte che vanno visti da lontano; se uno si avvicina e li guarda da presso, non se ne vede più bene il significato. Viene da pensare a un altro slogan famoso, quello di Buffon “lo stile è l’uomo”. Mi domando, anzi, se non si possa vedere un rapporto tra le due definizioni e se McLuhan non avrebbe potuto dire con altrettanta suggestiva ambiguità: “l’uomo è il messaggio”.
Lascio qui queste osservazioni critiche che altri possono fare con ben maggiore competenza e vengo all’affermazione che, come teologo, non posso che condividere e abbracciare di tutto cuore. McLuhan afferma che in Gesù Cristo “non ci fu distanza tra il mezzo e il messaggio: anzi è l’unico caso in cui si possa dire che il mezzo e il messaggio si identificano perfettamente”12.
In questo modo l’autore raggiunge, da un versante tutto diverso, una conclusione di fondamentale importanza per la cristologia. Equivale all’affermazione classica che “in Cristo il rivelatore è la rivelazione”, o, nel linguaggio giovanneo, che “la via” è, nello stesso tempo, “la verità e la vita” (Gv 14, 6). In ciò sta la differenza tra Cristo e qualsiasi altro rivelatore. Il profeta è il mezzo, ma non il messaggio; i suoi discorsi sono introdotti dalla formula: “Così parla il Signore”, o “oracolo del Signore”, mai dalla formula “io vi dico” che invece è quella costante di Gesù.
Questa differenza appare chiarissima nel passaggio da Giovanni Battista a Gesù. Commentando la definizione che il Precursore da di se stesso “Io sono voce di uno che grida nel deserto”, sant’Agostino scrive:
“Giovanni è la voce che passa, Cristo è la Parola eterna che era in principio. […].Vediamo qual è il processo che si verifica nella comunicazione del pensiero. Quando penso ciò che devo dire, nel cuore fiorisce la parola. Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola, che si trova dentro di me. Le do suono e così mediante la voce, parlo a te. il suono della voce ti reca il contenuto intellettuale della parola e dopo averti rivelato il suo significato svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza peraltro essersi allontanata dal mio”13.
Quello di Giovanni è un caso classico in cui il mezzo non è il messaggio! Ma il discorso va al di là del caso singolo del Battista. Quello che Agostino dice della voce in rapporto alla parola si realizza in ogni comunicazione umana e fa vedere come lo slogan di McLuhan non funziona se applicato al mezzo primordiale di ogni comunicazione che è la voce. La voce non è la parola!
6. Voci che gridano nel deserto
La definizione che Giovanni Battista da di se stesso mi spinge a terminare questa mia lectio con un’altra nota personale. Credo di essere stato anch’io nei quindici anni e passa di televisione “una voce che grida nel deserto”! Non in un deserto di gente. Al contrario, devo dire che il pubblico ha mostrato un interesse commovente per la rubrica da me condotta in televisione. Lo indica la audience relativamente alta, nonostante la valanga di proposte e di canali oggi a disposizione, a differenza dal tempo di Padre Mariano da Torino, quando esisteva un solo canale televisivo. Lo dimostrano, più ancora, le testimonianze dirette di innumerevoli persone che dicevano di lasciare tutto, al sabato sera, per correre a casa e ascoltare quei pochi minuti di vangelo. Alcuni mi hanno confidato che rispondevano in coro, in famiglia, al mio “Pace e bene” e che, a volte, al termine della trasmissione, baciavano il televisore, non avendo altro mezzo per esprimere la loro adesione al contenuto delle parole ascoltate.
Parlo piuttosto del deserto e del silenzio della cultura laica e dei media. Ma questo è un fatto che non tocca soltanto la modestissima rubrica da me condotta, riguarda i programmi religiosi in genere. C’è una specie di ostracismo, più accentuato in Italia che altrove, nei confronti del fatto religioso in genere che pure vediamo svolgere, si voglia o non si voglia, un ruolo determinante nella società attuale. Nelle librerie laiche non c’è spazio per libri religiosi (se non forse per quelli di religioni esoteriche), nei media non c’è spazio per i programmi religiosi. La televisione non fa eccezione e uno dei motivi, a volte, apertamente dichiarato, è che i programmi religiosi non portano all’ente pubblicità, non invogliano la gente a comprare.
L’attuale presidente della commissione di vigilanza sulla Rai, Sergio Zavoli, in occasione di una commemorazione di Padre Mariano da Torino, disse che se ci fosse stata una petizione per portare il breve commento al vangelo a ridosso del telegiornale della sera, egli sarebbe stato il primo a mettere la sua firma. Nella realtà è successo il contrario: quando, negli anni ottanta feci i miei primi cicli di trasmissione, il programma (allora chiamato “Settimo giorno”) era trasmesso alle 19,15 e per un certo periodo, in seguito, anche alle 19,30, cioè a ridosso del telegiornale; negli anni successivi, un passo alla volta, è stato anticipato fino all’attuale 17,15.
Nonostante tutto, alla Rai si deve anche un certo riconoscimento. Resistendo a tutte le spinte contrarie, essa ha ancora il coraggio di dare spazio a una rubrica religiosa veramente tale. In altri paesi europei, per i cattolici e i cristiani in genere, questo è diventato ormai un ricordo del passato e apparirebbe oggi un lusso straordinario. Io, poi, devo un grazie personale alla RAI e in particolare alla redazione delle rubriche religiose per avermi concesso di portare il programma fuori dagli studi televisivi, in giro per il mondo.
Se ho parlato dell’ostracismo del fatto religioso nel mondo occidentale, non era per fare una critica ai media o alla cultura dominante (tanto cadrebbe anch’essa nel deserto!), ma perché in questo contesto mi sembra tanto più coraggiosa e lodevole la decisione dell’Università di Macerata e della Facoltà di Scienze della comunicazione di dare il presente riconoscimento a un rappresentante della comunicazione religiosa. Più che la persona che lo riceve, mi sembra importante, in questo caso, la motivazione che lo ha suggerito.
1. W. Goethe, Faust, I Parte, vv.1224-1237.
2. E. Schillebeeckx, Gesù. La storia di un vivente. Brescia, Queriniana 1974, p- 705.
3. J.-P. Sartre, Porte chiuse, sc. 5 (Gallimard, Paris 1947, p. 93).
4. Tommaso d’Aquino, Summa teologiae, I-IIae , q.26,a.3.
5. L’articolo è disponibile per intero in inglese e in italiano nel mio sito internet: www.Cantalamessa.org. Alla voce del rabbino di Gerusalemme si è unita quella dell’ebreo italiano Guido Guastalla in un articolo pubblicato da “Cultura cattolica” e riassunto ne “L’Osservatore Romano” del 19 Aprile 2010.
6. Alon Goshen Gottstein, “We are bad listeners” in “The Jerusalem Post” , 11/04/ 2010.
7. S. Kierkegaard, Diario IX A,207.
8. S. Agostino, Ep. 55, 11, 21.
9. F. Kafka, Un messaggio imperiale, in Racconti, Feltrinelli Editore, Milano 1972, pp. 146 s.
10. Lo slogan si legge in M. McLuhan, Understanding Media. The Extensions of Man, Mc Graw Hill, N.Y. 1964 .
11. Cf. M. McLuhan, La luce e il mezzo. Riflessioni sulla religione, Armando Editore, Roma 2002.
12. McLuhan, op. cit. p. 117.
13. Agostino, Sermo 293, 3 (PL 38, 1328 s.).