sabato 20 ottobre 2012

Tra carità e speranza


 

Mentre il Sinodo riunito a Roma continua il suo laborioso cammino di riflessione sul tema sconfinato della “nuova evangelizzazione”, cercando temi unificatori e fili conduttori fra le centinaia di interventi pronunciati nei giorni scorsi da vescovi, ospiti e osservatori, la cerimonia di canonizzazione di domenica 21 ottobre irrompe sulla scena come un fascio potente di luce e di gioia.

Ben sette beati vengono proclamati modelli di santità per tutta la Chiesa. Sacerdoti, religiosi, religiose, laici, laiche. Uomini e donne. Vissuti in Europa, Asia, Africa, America, Oceania. Dal gesuita missionario in terre lontane che muore martire in Madagascar, al sacerdote educatore e formatore dei giovani in difficoltà, alla malata che svolge per decenni nel suo letto la missione spirituale preziosissima della sofferenza. Dal giovane catechista laico filippino, martire anch’egli, alla religiosa dedicata alla cura dei lebbrosi e a quella che si spende per l’educazione di bambine, giovani, operaie. E, vero fiore di questo gruppo meraviglioso, la giovane Kateri Tekakwita, frutto straordinario del primo annuncio della fede fra le tribù degli indiani d’America.
I santi, da sempre, sono i testimoni più credibili della fede cristiana, della presenza viva e operante dello Spirito di Gesù risorto, della trasformazione dell’umanità grazie alla potenza misteriosa del Vangelo. Senza di essi la Chiesa non vive, tantomeno diffonde efficacemente il Vangelo in mezzo a un mondo che forse ha difficoltà ad accettarlo, ma ne ha un bisogno immenso per ritrovare gratuità di amore, gioia e speranza, che non sa dove attingere. Anche la nuova evangelizzazione ripartirà dai santi del nostro tempo. (P. Federico Lombardi, SI.)
Fonte: Octava Dies

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 Domani 21 ottobre Benedetto XVI proclama sette nuovi santi, tra i quali Marianna Cope (1838-1918)
L'Osservatore Romano
(Erneesto Piacentini, Postulatore dell’ordine dei frati minori conventuali) Esemplare interprete di una vita di fede e di amore che ha recato il frutto di uno spirito missionario carico di speranza e di fiducia. Sono i tratti caratteristici di una religiosa, Marianna Cope, che ha rinunciato completamente a se stessa per portare un raggio dell’amore di Dio nel cuore dei più miseri tra i miseri, i lebbrosi, confinati nell’«isola maladetta di Molokai» nelle Hawai.
Per Benedetto XVI, quando domenica prossima, 21 ottobre, la eleverà al gradino più alto della santità, sarà come tornare ai primi passi del suo pontificato: Marianne infatti, insieme a Ascensión Nicol Goñi, fu la prima serva di Dio a essere beatificata da Papa Ratzinger. Era il 15 maggio 2005. Anche allora come oggi venne esaltato il valore della sua testimonianza tra quanti avevano perso, con la salute, il senso della loro vita.
Marianne nacque il 23 gennaio 1838 a Heppenheim in Germania, e appena due anni dopo la famiglia emigrò in America stabilendosi nella città di Utica (New York), dove passò gli anni della giovinezza. All’età di 24 anni, il 19 novembre 1862, vestiva l’abito religioso e dopo la professione iniziò il lavoro apostolico nella scuola parrocchiale della Assunzione a Syracuse.
Per le spiccate doti intellettuali e di generoso spirito di dedizione fu chiamata a ricoprire delicati incarichi e uffici della sua congregazione religiosa, finché il 27 dicembre 1877 fu eletta madre generale, nella quale carica fu confermata nel giugno del 1881. Fu in questo periodo di governo della congregazione che giunse a lei la richiesta di suore volontarie per andare ad assistere i lebbrosi nell’isola di Molokai nelle isole Hawaii.
In quegli anni infatti si aggravava sempre più la situazione dei malati di lebbra nell’arcipelago hawaiiano Le autorità inviavano i lebbrosi, strappati dalle loro famiglie e dai loro paesi, nell’isola di Molokai, dove non esisteva nessuna costruzione per ricoverarli. Tra loro non vi era nessun medico, e il male era divenuto una «epidemia». I lebbrosi distrutti fisicamente dall’impietoso male, scoraggiati dalla situazione disperata, scacciati dai loro concittadini sani, si trovavano in una condizione morale senza uscita e senza sollievo.
La depravazione dilagava tra quelle genti infelici. Il padre Damiano de Veuster, che aveva scelto di vivere con loro in quella situazione, sentiva che senza un aiuto non gli sarebbe stato possibile provvedere a un ospedale, assicurare l’igiene e l’educazione dei figli dei lebbrosi. Tramite il vescovo di Honolulu fece appello a madre Marianna che rispose immediatamente all’appello. Accompagnò lei stessa sei suore della sua congregazione scelte tra le tante che si erano offerte volontariamente. La situazione era tale che le suore si lasciarono prendere dallo scoramento e solo la vicinanza della loro madre generale dava loro la forza di resistere. Così Marianne decise di restare nell’isola, dove tra difficoltà di ogni genere servì i lebbrosi fino alla morte, avvenuta il 9 agosto 1918.
La situazione in cui dovette operare fu difficilissima, per la mancanza di medicinali, di cibo e di ogni sorta di altri sussidi assistenziali. Madre Marianna cercò, insieme al suo gruppo di suore, di ridare speranza e dignità umana a quegli uomini spesso in preda all’alcool, al vizio, alla disperazione più nera, oltre al dolore fisico. La loro presenza fu veramente provvidenziale. Insieme a padre Damiano, per impedire che i ragazzi e le ragazze, figli di lebbrosi, contraessero la lebbra, stabilirono la costruzione di due case separate in modo che questi appena divenuti adulti potessero essere inseriti nella società. «Madre Marianna — come testimoniò in seguito una suora — ha rivoluzionato la vita a Molokai, ha portato l’igiene, l’orgoglio e la gioia di vivere nel lebbrosario». Alle sue suore ripeteva che era stato Dio a chiamarle a quel servizio di carità e di amore e dunque egli non avrebbe mai permesso che fossero contagiate dalla malattia. Anzi predisse che nessuna delle suore dell’ordine chiamate anche in futuro a quel servizio sarebbero mai state contagiate. (Cronaca di Molokai scritta da suor Leopoldina Burns). A tutt’oggi risulta che nessuna delle suore in missione nel lebbrosario di Molokai, né in quello aperto nell’isola di Maui, furono mai contagiate dal morbo di Hansen.
L'Osservatore Romano, 20 ottobre 2012.

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Nell’intervista che segue, di Radio Vaticana, Benedetta Capelli ha ascoltato il postulatore della Causa di canonizzazione, padre Ernesto Piacentini: 
R. - La cosa che attira maggiormente di lei è la sua generosità davanti al bisogno del prossimo. Suor Marianna ricevette l’invito ad andare ad aiutare padre Damiano a Molokai. Si dice che la richiesta d’aiuto da parte di padre Damiano, che non riusciva più a portare avanti l’assistenza ai lebbrosi, fosse stata rivolta a circa 20-30 Istituti di suore, ma molte non accettarono di andare a lavorare tra i lebbrosi. Madre Marianna Cope, in quel periodo ministra generale del suo Istituto, rivolse lo stesso l’invito a tutte le suore e 20 si offrono di andare con lei a Molokai. Ne scelse sei, partì con loro, le accompagnò nelle Hawaii, e lì fondarono una piccola casa, poi un piccolo istituto per assistere i figli dei lebbrosi, così che i lebbrosi non dovessero vivere insieme ai loro familiari.
D. - Quanto è conosciuta alle Hawaii suor Marianna Cope e quanto è ancora amata oggi?
R. - E’ conosciuta moltissimo e lo è a tal punto che il governo hawaiano per lei e per padre Damiano ha emesso un decreto per renderli cittadini onorari dello Stato delle Hawaii. E’ conosciuta molto anche perché il problema della lebbra era un problema talmente grande, talmente grave e sentito per le Hawaii, che aver avuto una suora e un religioso che hanno dato la loro vita per curare la lebbra, per liberare le Hawaii da questa piaga, è stata una cosa molto apprezzata e molto amata. 
D. - Questa donazione completa di sé è uno dei tratti peculiari del carisma di suor Marianna Cope?
R. - Sì, certamente. Il carisma più importante è proprio quello dell’assistenza ai fratelli che hanno maggiormente bisogno e quindi assistere coloro che maggiormente hanno bisogno di aiuto. Lei dice: “Ormai la mia vita è qui nelle Hawaii; nel lebbrosario di Molokai, io ci resto fino alla morte”. C’è un grande monumento di lei che abbraccia il Cristo e i lebbrosi sono tutti intorno. Diceva sempre: “Sorridi, il sorriso non ti rovinerà la faccia!”. Questa è un’esortazione rivolta a tutti, un invito ad aiutare i lebbrosi, a sorridere ai lebbrosi: il sorriso, che fate, non vi rovina la faccia.