lunedì 15 ottobre 2012

Roma, 16 0ttobre 1978

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(Wlodzimierz Redzioch) «In un lampo ricordai quando tutto era cominciato». Il 16 ottobre 1978 don Stanisław Dziwisz aspettava, come tutto il mondo, l’elezione del nuovo Pontefice. E la commozione oggi è quasi la stessa provata quella sera.
Cosa ricorda di quel giorno che ha cambiato anche la sua vita?
Come tutti i giorni del conclave andavo a piazza San Pietro e tra la folla aspettavo l’elezione del nuovo Pontefice. Ero lì anche quella sera quando il cardinale Pericle Felici pronunciò il nome del nuovo Papa. Rimasi paralizzato. Esattamente dodici anni prima, un giorno d’ottobre del 1966, l’arcivescovo metropolita di Cracovia, monsignor Karol Wojtyła, mi invitò da lui. Avevo ventisette anni, ero un giovane sacerdote e avevo ricevuto la consacrazione sacerdotale tre anni prima proprio dalle sue mani. Allora non mi rendevo ancora conto che stava cominciando la più importante avventura della mia vita. Non potevo prevedere gli scenari futuri, non potevo prevedere che un giorno, dodici anni dopo, in piazza di San Pietro avrei sentito quell’annuncio.Anche perché era la seconda volta quell’anno che, come suo segretario, accompagnava il cardinale arcivescovo di Cracovia a Roma; la prima era stata in agosto, dopo la morte di Paolo VI. Come furono vissuti quei giorni?
Furono giorni di grandi emozioni e di grande impegno. Tornato a Cracovia il cardinale aveva ripreso la vita di sempre, con i ritmi abituali. Poi il 29 settembre, mentre consumava la prima colazione con me, aveva ricevuto dal suo autista, Józef Mucha, la notizia che il Papa era morto. Ne era stato sconvolto. Mormorava: «È una cosa inaudita, inaudita...». Era rimasto nella sua cappella per molto tempo. Durante i preparativi per la nuova partenza Karol Wojtyła era stato pensieroso. Il 3 ottobre atterrammo a Fiumicino. Subito dopo l’arrivo ci recammo a San Pietro per rendere omaggio al defunto Pontefice. Il 14 ottobre accompagnai al conclave il cardinale Wojtyła, che però volle prima fare visita a monsignor Andrzej Maria Deskur, amico di lunga data che proprio in quelle ore era stato ricoverato al policlinico Gemelli per emorragia cerebrale. Alle 16.30 iniziò il conclave che doveva scegliere il successore dell’apostolo Pietro.
Accadde tutto in fretta. Eppure l’elezione del cardinale Wojtyła non era così imprevedibile...
È vero. A Cracovia c’era tanta gente che pregava affinché il “loro” arcivescovo non venisse eletto: la gente non voleva perderlo.
Dopo l’annuncio cosa accadde?
Io stavo sulla piazza vicino all’ingresso della basilica. Qualcuno mi riconobbe e mi accompagnò all’interno del Vaticano. Il marchese Giulio Sacchetti mi portò nella sala dove il Pontefice cenava con tutti i cardinali. Il cardinale camerlengo Jean Villot mi accompagnò dal Santo Padre. Ero emozionatissimo vedendolo nella veste bianca. Lui, senza parlare mi scrutava con gli occhi, per scoprire cosa provavo in quel momento. Dopo qualche istante si avvicinò e mi sussurrò una frase scherzosa. Mi rilassai. Avevo capito che da Pontefice sarebbe rimasto com’era a Cracovia. La sera stessa il nuovo Papa mi chiese di essere il suo segretario. Accettai, ovviamente, ma quando tornai al Collegio Polacco, dove risiedevo, non mi riuscì di prendere sonno. Invece Giovanni Paolo II passò la notte nel piccolo appartamento che nella zona del conclave condivideva con il cardinale Corrado Ursi, arcivescovo di Napoli, preparandosi all’omelia che avrebbe dovuto pronunciare il giorno seguente.
Molti notarono la grande tranquillità e serenità di questo “sconosciuto” arcivescovo di Cracovia nell’affrontare un compito che avrebbe spaventato chiunque.
Riflettendo ora, penso che tutta la vita personale e sacerdotale di Karol Wojtyła sia stata come una preparazione per questa missione unica e difficilissima. Lui ha vissuto in tempi duri per la nazione polacca: l’occupazione nazista prima, il regime comunista poi. Per dodici anni sono stato il testimone privilegiato della vita quotidiana e della missione pastorale del cardinale Wojtyła. La cosa che mi colpiva era il fatto che la sua attività — i suoi incontri con la gente, le decisioni da prendere, le visite pastorali, l’annuncio della parola di Dio, l’attività accademica — era costantemente immersa nella preghiera. La preghiera era il centro della sua, apparentemente frenetica, vita. Nella cappella dell’arcivescovado c’era un tavolino con la lampada: tutti i suoi testi, discorsi, articoli e libri, li scriveva lì, nella cappella. Erano frutto dell’incontro con Gesù eucaristico. Penso quindi che questa vicinanza a Gesù gli abbia dato la tranquillità e serenità nell’affrontare la più grande sfida della sua vita. Rimasi colpito dal fatto che, fin dal primo giorno, lui si sentisse in Vaticano come a casa propria. Imparò molto in fretta a fare il Papa ma nella sua missione petrina teneva sempre conto delle esperienze polacche. Era orgoglioso della cultura e della storia della sua nazione e della Chiesa polacca, che riteneva la radice della sua identità. Ma questo solido radicamento nella cultura cattolica e nazionale gli dava la libertà di aprirsi con facilità alle altre culture, alle altre esperienze, alle altre tradizioni. Ovviamente, gli erano d’aiuto la sua solida formazione intellettuale, filosofica, la capacità di ascolto e di riflessione, la conoscenza delle lingue. Capiva il mondo contemporaneo, le sue sfide, le sue opportunità e i suoi pericoli.
Consapevolezza che riecheggia nella famosa omelia pronunciata durante la solenne messa d’inizio pontificato...
Tanta gente conosce a memoria quelle parole: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!». E poi i riferimenti ai sistemi economici come a quelli politici, ai vasti campi della cultura, della civiltà, dello sviluppo. Fu la sintesi di un programma sviluppato nel corso di 27 anni di pontificato. Parole che sono state ricordate da Benedetto XVI il 1° maggio dell’anno scorso, durante la beatificazione di Giovanni Paolo II: «Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante — forza che gli veniva da Dio — una tendenza che poteva sembrare irreversibile». In una parola, ha detto, «ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà». Giovanni Paolo II aveva la forza di un gigante perché era un gigante. Un gigante della fede. Il suo servizio alla Chiesa e all’uomo aveva la sua fonte nella fede. Da lì nasceva la sua visione del mondo e dell’uomo. Giovanni Paolo II è riuscito a presentare efficacemente questa visione, a giungere con essa al cuore dell’uomo contemporaneo e a convincerlo che solo in Dio, solo in Gesù Cristo, l’uomo trova il senso della sua vita e della sua morte, delle sue sofferenze e gioie e la realizzazione delle sue più profonde speranze.
Siamo nell’Anno della fede e in questi giorni si sta svolgendo il Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Un tema quest’ultimo che stava molto a cuore a Giovanni Paolo II.
Parlava della nuova evangelizzazione perché era un grande evangelizzatore. Nel mondo di oggi si può evangelizzare grazie ai veri testimoni della fede ma anche grazie agli autentici pastori. E lui era un testimone e un pastore. Nella sua persona abbiamo ricevuto il dono di una saggia guida nel nostro mondo difficile e inquieto. Io sono stato testimone — o magari bisognerebbe dire: “tutti noi siamo stati testimoni” — di questo suo gigantesco lavoro di evangelizzazione. Giovanni Paolo II non si è risparmiato in tutto il suo pontificato perché voleva che la verità di Cristo — Signore e Redentore dell’uomo — giungesse a tutti, a quelli che di Lui non hanno ancora sentito parlare, come a quelli che se ne sono dimenticati nel deserto creato dal secolarismo, dove l’uomo vive come se Dio non esistesse.
Che eredità ci lascia Papa Wojtyła? E cosa in particolare le ha personalmente lasciato quest’uomo da lei definito un «gigante della fede»?
Come uomo e come sacerdote mi sono formato alla “scuola” di Karol Wojtyła. Lui continua a influenzare anche il mio servizio alla Chiesa e alla gente. Giovanni Paolo II mi ha fatto esecutore del suo testamento. Ma si tratta piuttosto del testamento spirituale, perché il Santo Padre di cose materiali ne aveva poche: mi ha incaricato di regalare tutto quello che aveva. Egli ha lasciato invece un’enorme eredità spirituale. Stiamo costruendo a Cracovia, nelle vicinanze del Santuario della Divina Misericordia, il Centro di Giovanni Paolo II “Non abbiate paura”, con un museo, un istituto con la biblioteca, una cappella, un centro per i ritiri, un centro di formazione del volontariato. Io interpreto il suo testamento in questa chiave, cercando di custodire e diffondere la sua eredità intellettuale e spirituale, convinto che essa possa arricchire molto la Chiesa. L'Osservatore Romano, 16 ottobre 2012.