mercoledì 31 ottobre 2012

"Lingue come di fuoco..."


ROMA, mercoledi, 31 ottobre 2012.- Di seguito il testo della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso dal cardinale Albert Vanhoye, S.J., al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
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Cari amici
Mi è stato gentilmente richiesto di trattare un tema formulato in questo modo: «Lingue come di fuoco si posarono su di loro» (At 1,3). “Roveto ardente”, amore che arde e non si consuma. Lo Spirito Santo e la vita nuova in Cristo.»
Come potete vedere, questo tema parte da un punto molto preciso, un frammento di una frase degli Atti degli Apostoli, presa dal racconto della Pentecoste, poi il tema si allarga con un accenno al racconto del “Roveto ardente”, che si trova nel Libro dell’Esodo, all’inizio del terzo capitolo. Viene allora introdotto nel tema l’amore, di cui il racconto dell’Esodo non parla. Infine, il tema viene allargato immensamente al rapporto tra lo Spirito e la vita nuova in Cristo. Mi pare che questa presentazione del tema manifesti splendidamente la libertà dello Spirito, il quale soffia dove vuole,” come disse Gesù a Nicodemo (Gv 3,8). Non mi sarà facile spiegare in pochi minuti tutta questa abbondante materia.
Come sapete, nel racconto della Pentecoste, la presenza e l’azione dello Spirito Santo si manifestano all’inizio in due modi, uno per le orecchie e l’altro per gli occhi. Per le orecchie c’è stato “un fragore, come di un vento che si abbatteva impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Che lo Spirito si manifesti come un vento è molto naturale, perché il primo senso della parola greca usata per designarlo è “soffio”. Lo Spirito soffia. Questo esprime bene il dinamismo dello Spirito, che mette tutto in moto, non ci lascia tranquilli! La parola italiana “spirito” è meno espressiva, non esprime un dinamismo.
Per gli occhi lo Spirito manifestò la sua presenza e la sua azione in modo diverso, cioè con un’apparizione. San Luca scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco e se ne posò una su ciascuno di loro e furono tutti riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi.” (At 2,3-4).
L’espressione “lingue come di fuoco” si trova soltanto qui nella Bibbia. Senza la parola “come” e al singolare, “lingua di fuoco” si legge una volta nell’A.T. in un passo di Isaia, che contiene una minaccia contro i peccatori, dicendo: “Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume…” (Is 5,24). È chiaro che questo testo non illumina per niente l’espressione di At 2,3, nella quale la parola “come” ha un’importanza capitale, perché indica che “fuoco” non definisce bene una realtà che non è del nostro mondo. Queste lingue non erano realmente “di fuoco”. Erano “come di fuoco”. Rappresentavano un fuoco spirituale.
Questa apparizione è molto diversa da quella del roveto ardente, la quale è un’apparizione di persona. Il testo dell’Esodo dice, infatti, parlando di Mosè: “L’Angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Es 3,2). Più avanti il testo dice che “Dio gridò a lui”, cioè a Mosè, “dal roveto” (Es 3,4), e si presentò come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6).
L’apparizione del giorno della Pentecoste non è stata, invece, un’apparizione di persona, ma un’apparizione di “lingue”, che manifestò l’intervento dello Spirito, il quale non parlava, ma riempì le persone e le fece parlare. La prima cosa che dice san Luca di queste lingue, anche prima di nominarle, è che si dividevano; Luca, infatti, scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco” (At 2,3). La traduzione della CEI non rispetta l’ordine del testo greco, ma mette: “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, …”. L’ordine del testo, però, è significativo; fa capire che non sono state le lingue singole che si dividevano, ma le lingue singole sono state il risultato della divisione. Questa divisione non manca d’importanza; manifesta, infatti, che lo Spirito Santo non agì in modo globale, ma in modo diversificato. Non produsse uniformità, ma unità nella diversità. Lo spiega bene san Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi scrivendo: “A uno, infatti, per  mezzo dello Spirito, viene dato un linguaggio di sapienza, a un altro, invece, dallo stesso Spirito, un linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, un atteggiamento di fede; a un altro, nell’unico Spirito, doni di guarigioni”; san Paolo continua l’elenco dei carismi, poi conclude: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Cor 12,8-11).
Il racconto di Luca insiste poi sull’aspetto di lingua, perché dice che l’effetto prodotto dallo Spirito Santo fu che “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi” (At 2,4). Che cosa sono queste “altre lingue”? Il seguito del racconto suggerisce che si tratta delle lingue di altri popoli; perché nella folla cosmopolitica radunata a causa del fragore che si era sentito, la gente diceva: “ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa” (At 2,8), “li sentiamo parlare, nelle nostre lingue, delle grandi opere di Dio” (At 2,11).
Però se cerchiamo di rappresentarci l’evento, ci rendiamo conto che questa interpretazione suppone una cacofonia tremenda, cioè che nello stesso momento ciascun apostolo si esprimeva ad alta voce in una lingua diversa dagli altri. Perciò, già nell’antichità, si è pensato che il miracolo non fosse stato nel parlare degli apostoli ma nel sentire degli uditori, cioè lo Spirito Santo dava agli uditori l’impressione di sentire un discorso ciascuno nella propria lingua. Nel secolo scorso, Padre Lyonnet ha precisato l’interpretazione, dicendo che gli apostoli ebbero allora il carisma di glossolalia e gli uditori il carisma di interpretazione. Nella Prima ai Corinzi, san Paolo parla di questi due carismi, il “parlare in lingue” e “l’interpretare questo parlare in lingue”. Il “parlare in lingue” consiste nel lodare Dio con una serie di parole piene di entusiasmo, ma che non formano un discorso comprensibile. Sapete meglio di me che questo carisma era scomparso nella Chiesa, ma è apparso di nuovo a partire dall’inizio del secolo scorso in gruppi di protestanti pentecostali e si è diffuso nella Chiesa cattolica dopo il Concilio, il quale secondo il desiderio del Papa Giovanni XXIII doveva suscitare una nuova Pentecoste.

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Torniamo all’espressione “lingue come di fuoco” per parlare del rapporto del fuoco con Dio, secondo la Bibbia. Abbiamo già citato il testo dell’Esodo in cui Dio si rivela nel roveto ardente (Es 3,2-6) a Mosè che era allora “nel territorio di Madian” (Es 2,25). Mosè tornò in Egitto per riempire la sua missione e guidare il popolo fuori dell’Egitto. Dopo la partenza, il racconto riferisce che “il Signore marciava alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte, in una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,21). La colonna di nube non ha niente di straordinario; invece la colonna di fuoco è straordinaria e manifesta la potenza di Dio. Tuttavia, il fatto che Dio si serve dell’una e dell’altra indica che non c’era un’unione permanente di Dio con il fuoco. La prospettiva era utilitaria, non era di rivelazione. Si trattava di “far loro luce”.
Invece nella teofania del Sinai, si tratta di rivelazione. In Es 19,18 leggiamo: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace.” C’era un’unione tra il Signore e il fuoco.
Il testo di Es 24,17 dice di più; dichiara: “La gloria del Signore, appariva  agli occhi degli Israeliticome fuoco divorante sulla cima della montagna”. Altri testi sono ancora più espliciti, dicono: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore” (Dt 4,24). L’idea espressa non è di amore, ma di minaccia, di pericolo. “Chi di noi, dice Isaia, può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?” (Is 33,14). La minaccia può avere un aspetto positivo, perché può rivolgersi contro i nemici di Israele. È il caso in Dt 9,3: “Ascolta, Israele, tu stai per andare a conquistare popoli più grandi e più potenti di te […] Sappi dunque che il Signore, tuo Dio, passerà davanti a tecome fuoco divoratore, li distruggerà e li abbatterà davanti a te.” Ma più spesso la minaccia prende di mira gli Israeliti e viene attuata. Nel suo capitolo 11, il Libro dei Numeri riferisce che “il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signore. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’estremità dell’accampamento” (Nm 11,1).
Nondimeno, è possibile scoprire nei testi di minaccia qualche traccia di amore, perché parlano di gelosia divina. I testi vietano l’idolatria, perché essa è una violazione del legame di amore esclusivo che unisce Israele a Dio. Per appoggiare il primo comandamento del Decalogo, che vieta l’idolatria, Dio stesso dice: “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa […] per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es 20,5-6; Dt 5,9-10). La bontà di Dio è immensa. La reazione di Dio contro gli Israeliti peccatori è una reazione di amore deluso. Similmente nel Deuteronomio, dopo aver ricordato il primo comandamento, Mosè dice al popolo: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore, un Dio geloso” (Dt 4,24).
In modo analogo, è possibile mettere la rivelazione del roveto ardente in rapporto con il tema dell’amore. Di per sé, questa rivelazione di un roveto che arde e non si consuma esprime soltanto l’eternità di Dio, al quale un salmo dice: “Si logorano tutti come un vestito, […] ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine” (Sal 101/102,27-28). Nel contesto, però, Dio si rivela anche pieno di amore per il suo popolo. Egli dichiara: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido, […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…” (Es 3,7.8). Tuttavia, non si può dire che il racconto operi la fusione tra questi due aspetti, eternità divina e atteggiamento di amore. Sono nettamente distinti.
Soltanto nel Nuovo Testamento, Dio viene definito “amore”. S. Giovanni proclama che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16); diventa allora possibile dire che Dio è “amore che arde e non si consuma”.
L’espressione “lingue come di fuoco” non esprime direttamente questo concetto, ma il contesto successivo, il quale rivela gli effetti prodotti dalle “lingue come di fuoco”, parla implicitamente in questo senso, perché dichiara che le persone sulle quali si erano posate queste “lingue come di fuoco” si sono messe a “parlare delle grandi opere di Dio” (At 2,11); manifestavano così, con amore riconoscente, l’amore generoso di Dio. D’altra parte, il discorso di Pietro è stato una manifestazione di grande zelo apostolico. Ispirato dallo Spirito Santo, lo zelo apostolico ha la sua origine nell’amore di Dio per gli uomini ed è una manifestazione dell’amore dell’apostolo per gli uomini. L’apostolo, cioè, accoglie nel proprio cuore e nella propria attività la corrente di amore che viene da Dio in vista della salvezza degli uomini. In fin dei conti, vediamo che l’espressione “lingue come di fuoco” sta in rapporto abbastanza stretto con il tema dell'amore. L’aspetto di minaccia che il fuoco ha in altri testi è qui completamente assente.
Tra lo Spirito Santo e l’amore la relazione è affermata fortemente dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani. San Paolo dichiara che “l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci  è stato dato” (Rm 5,5). Nella Lettera ai Galati, il primo aspetto del “frutto dello Spirito” secondo san Paolo è “l’amore” (Gal 5,22). Questo passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito Santo e la vita in Cristo.
Quando san Paolo parla della vita nuova dei cristiani nella Lettera ai Romani, egli non accenna al ruolo dello Spirito Santo, ma parla unicamente di unione al mistero pasquale di Cristo. Egli scrive: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una novità di vita” (Rm 6,4). Come vedete, san Paolo parla di unione alla morte di Cristo e alla sua risurrezione, ma non parla del dono dello Spirito Santo, benché questo dono sia indispensabile perché i cristiani siano in grado di “camminare in una novità di vita”. Il rapporto con lo Spirito, san Paolo lo suggerisce più avanti quando parla di “una novità di spirito”. Per poter camminare “in una novità di vita”, è necessario accogliere la “novità dello spirito”, la quale libera dalla “vecchiaia della lettera”, libera cioè dal sistema della Legge (Rm 7,6). Il rapporto con lo Spirito viene poi espresso molto chiaramente nella Lettera a Tito, che dice: Dio “ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, che ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (Tt 3,4-6). Questo testo è molto bello; comincia con un accenno alla dottrina paolina della giustificazione “non per opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia” di Dio, la sua grazia. Poi viene un accenno al battesimo, chiamato “lavacro di rigenerazione di rinnovamento nello Spirito Santo”, il che significa che, per mezzo del battesimo, lo Spirito Santo introduce le persone in una vita nuova; esse sono generate una seconda volta, “da acqua e Spirito”, come Gesù diceva a Nicodemo (Gv 3,5), e sono radicalmente rinnovate. San Paolo sottolinea poi, in modo molto bello, l’abbondanza dell’effusione dello Spirito.
Come ho detto, un passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito e la vita in Cristo. Questo passo non parla di novità, ma è parallelo ai passi della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, che mettono in contrasto l’uomo nuovo e l’uomo vecchio.
La Lettera agli Efesini invita i cristiani “ad abbandonare…l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli… e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,22.24). Poi c’è tutto un elenco di difetti da evitare e alcuni consigli positivi molto importanti. Nel passo di Ef 4,22-24 lo Spirito non è nominato; però, nel capitolo precedente, san Paolo dice che prega perché Dio conceda ai cristiani “di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (Ef 3,16). Il passo di Ef 4,22-24 va quindi completato con questo passo precedente.
Nella Lettera ai Colossesi, san Paolo parla similmente dell’uomo vecchio e dell’uomo nuovo; scrive: “vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo ha creato” (Col 3,9-10). San Paolo fa un elenco di difetti da evitare e dà molti consigli positivi, ma non parla dello Spirito Santo in proposito.
Quanto alla Lettera ai Galati, invece di parlare del contrasto tra l’uomo nuovo e l’uomo vecchio, essa parla di contrasto tra la carne e lo Spirito. Ai Galati san Paolo dice: “Camminate con lo Spirito e non ci sarà pericolo che portiate a compimento un desiderio della carne” (Gal 5,16). Poi san Paolo spiega: “La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne, queste cose si oppongono a vicenda, affinché non facciate tutto ciò che vorreste” (Gal 3,17). Chi segue la carne, non può nel contempo seguire lo Spirito, e viceversa.
San Paolo elenca poi, per la carne, una serie di “opere” cattive, cioè peccati in materia di sessualità, di culto, di relazioni tra le persone, di alimentazione. Per lo Spirito invece, san Paolo non parla di “opere”, ma di “frutto”, non al plurale di dispersione, ma al singolare di unità. La parole “frutto” esprime una fecondità profonda e non, come la parola “opere”, un’attività esterna. La fecondità implica un’unione vitale nell’amore. L’elenco che spiega il frutto dello Spirito non è semplicemente un elenco di virtù, opposte ai vizi della carne, ma, dopo “l’amore”, comprende anche la gioia e la pace, doni meravigliosi di Dio e segni della sua benedizione.
San Paolo conclude dicendo: “Se viviamo dello Spirito, con lo Spirito anche camminiamo” (Gal 5,25). Questa frase è molto significativa. Dimostra anzitutto che noi cristiani abbiamo ricevuto lo Spirito, il quale ci comunica una nuova vita, “viviamo dello Spirito”. Questo dono ci rende poi capaci di una condotta corrispondente, una condotta “con lo Spirito”. San Paolo ci invita a sfruttare attivamente questa capacità, camminando effettivamente con lo Spirito e accogliendo sempre nella nostra vita “il frutto dello Spirito.”
Con questa conclusione di san Paolo, concludo anch’io la mia modesta conferenza! Vi ringrazio per la vostra attenzione.