sabato 1 settembre 2012

Martini: Le confessioni di Paolo

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Prefazione
Nella storia delle origini del cristianesimo, la conversione di Paolo è solo seconda, per importanza, ai fatti riguardanti Cristo Gesù.
La potente figura dell' Apostolo domina su ogni altro apostolo e discepolo.
Le sue parole sono state luce all'incerto cammino degli uomini di tutte le epoche.
Anche in coloro che hanno ascoltato queste meditazioni si è radicata la certezza che una più intima conoscenza di Paolo e un approfondimento del suo pensiero, conduce inevitabilmente a Cristo.

Tutto di lui sprigiona fascino: l'evento di Damasco, l'amore appassionato per Gesù e il desiderio ardente di vivere in lui e per lui, l'inarrestabile andare per il mondo sospinto e consumato dalla carità, l'instancabile e febbrile passione per la Chiesa, l'impeto della sua tenerezza per i fratelli.
Lo guardiamo, con stupore, flagellato, percosso, naufrago, abbandonato dagli amici, umiliato e, infine, prigioniero a Roma.
Pallido, ammalato e sfinito è condotto in una valle solitaria, a circa tre miglia dalla città, in un luogo chiamato allora Aquae Salviae, oggi Tre Fontane. Il suo corpo, per l'ultima volta, è flagellato. Piega il capo per aspettare la spada che lo condurrà al martirio: la testa cade a terra, tre volte rimbalza e poi si ferma.
L'unico desiderio della sua vita si avvera: Paolo è col suo Signore e Maestro Gesù Cristo.
Mons. Martini si è recato molte volte a pregare e a riflettere
- lo dirà lui stesso nell'introduzione presso le antiche Aquae Salviae.
Lentamente, a partire da quel luogo, è maturata in lui, fino ad urgere una risposta, la domanda su come Paolo, in quel quarto d'ora prima di morire, abbia colto in una visione riassuntiva, il significato della sua densa e travagliata esistenza.
Di qui è nato il desiderio di dettare un Corso di Esercizi Spirituali per indurre l'Apostolo a fare le sue
« confessioni ».

Gli Esercizi spirituali non sono capitoli di un libro e nemmeno un corso di studi biblici. Piuttosto, per chi li detta e per chi li fa, sono un episodio della storia della propria salvezza.
Indubbiamente, dalle meditazioni traspare la profonda conoscenza che Mons. Martini ha degli Atti degli Apostoli e delle lettere paoline. Ciò che va sottolineato però è il fatto che si accosta a Paolo sino a identificarsi con lui.
A chi legge comunica lo stesso amore appassionato per Cristo che aveva Paolo, la sua ansia di servirlo assai prima di servire la Chiesa di Cristo, la sua tensione spirituale a guardare a lui sempre, a cercarlo in tutto e, soprattutto, a vivere di lui.
Con tono semplice e modesto, con parole piene di umanità, l'Arcivescovo, ancora una volta, svela un po' di se stesso e lo comunica lasciando nel cuore il desiderio di imparare.
Forse queste pagine potranno suscitare nell'uomo di oggi distrutto dall'ansia frenetica del nostro tempo, il bisogno di ripercorrere la sola via sulla quale ogni uomo può camminare sicuro: Cristo Gesù. Di ritornare a lui, Figlio di Dio, nella preghiera, nella stima rinnovata per la Croce, e, soprattutto, nella sete di ascoltare la sua Parola e di contemplare il suo Volto.

e. d.
* Questo corso di Esercizi è stato dettato ai Sacerdoti della Diocesi di Milano, a Rho, nel settembre 1981. Il testo, trascritto dalla registrazione, non è stato rivisto dall'autore.
Introduzione
Ti ringraziamo, Padre, per averci riuniti nel nome del tuo Figlio. È lui che ci ha portato qui e noi abbiamo obbedito alla voce del suo Spirito, più profonda di tutte le altre ragioni umane. Siamo davanti a T e per dire la tua Parola e per ascoltarla. Risveglia nel nostro cuore il dono che ci hai dato con l'imposizione delle mani, risveglia in noi il dono del battesimo e della cresima, risveglia la pienezza dei doni che ci hanno condotto fino a questo momento perché, ringraziandoti nella gioia, possiamo conoscere ora la tua volontà. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. Amen.
Ci troviamo insieme per le necessità di tutto il popolo di Dio: vogliamo santificarci per tante intenzioni e per tante sofferenze che ciascuno porta nel proprio cuore.
Possiamo riassumerle nella parola esortatrice che Paolo rivolgeva alle comunità dell' Asia Minore, rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede perché «è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio» (At 14, 22).
È la ripetizione di ciò che Gesù disse ai discepoli di Emmaus: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? » (Lc 24, 26).
La corrispondenza verbale tra Gesù e Paolo è significativa: l'Apostolo reincarna, per le comunità, il messaggio del Risorto.
Il tema degli Esercizi
Il tema di questo corso di Esercizi vuole partire proprio dall'esperienza di Paolo.
Il luogo tradizionale del suo martirio è alle Tre Fontane, in Roma. Ci si arriva attraverso un lungo viale che invita al silenzio; si entra nell'atrio della chiesa cistercense; proseguendo, si giunge ad una chiesa rotonda (la scala del Paradiso). Più avanti ancora, la chiesa delle Tre Fontane, così chiamata a ricordo della testa di Paolo che per tre volte batté sul terreno prima di arrestarsi nell'istante drammatico della morte.
A me è capitato di andarci spesso, quando stavo a Roma, soprattutto nei momenti di oscurità o di confusione spirituale. E mi sforzavo di immaginare come Paolo avesse percorso quell'ultimo tratto della sua vita: spogliato della clamide, afferrato dai soldati. Come avrà rivisto la sua esistenza, la sua conversione, le difficoltà, i litigi con Barnaba e con Pietro, le depressioni, i momenti di solitudine, i quattordici anni nel deserto, il sentirsi respinto dalla comunità? Come avrà ripensato le gioie vissute, le grandi lettere, l'attività intensa?
Quali elementi gli saranno sembrati validi e importanti davanti alla morte, quando l'uomo è totalmente vero, senza più possibilità di retorica o di nascondimento?
Più d'una volta ho pensato che sarebbe stato interessante fare un corso di Esercizi riflettendo insieme a Paolo sul suo apostolato e rivivendolo con lo sguardo con cui lui lo rivisse nell'ultimo quarto d'ora della sua vita terrena.
Ecco come è nato il tema degli Esercizi di quest'anno.
Cercheremo dunque con fraternità e amicizia di fare confessare a Paolo la sua vita, un po' a modo delle confessioni di Agostino o di Geremia.
Naturalmente occorrerà collegare l'esperienza di Paolo con l'esperienza di Chiesa e con quella di ciascuno di noi, in modo da rispondere alla domanda fondamentale: qual è il disegno di Dio su di me? In che maniera posso scorgere nella mia vita, così come la vedo adesso e con l'aiuto delle confessioni di Paolo, un disegno di misericordia?
Le confessioni di Paolo, d'altra parte, sono anche la storia delle sue conversioni.
La prima fu talmente grande, sconvolgente e violenta che soltanto negli anni seguenti ha potuto integrarne il significato a livelli sempre più profondi.
Anche per noi la conversione iniziale del battesimo e l'evento fondamentale di chiamata che è l'ordinazione presbiterale, sono così sconvolgenti che soltanto a poco a poco, attraverso conversioni successive, riusciamo ad approfondire ed a inverare la potenza trasformatrice della grazia.
Il lavoro fondamentale
In un corso di Esercizi, però, non conta tanto il tema, perché il lavoro fondamentale è quello che ciascuno deve compiere secondo una linea che ha alcuni punti portanti:
- ascolto della Parola di Dio proclamata nella proposta di meditazione, nella liturgia, nell'ufficio, nella celebrazione eucaristica;
- lettura di alcuni testi della Scrittura suggeriti di volta in volta;
- riflessione meditativa, secondo diversi metodi e modi che vanno dalla riflessione diretta sulle cose lette e ascoltate, all'esame della propria vita davanti a Dio;
- preghiera: preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento, di pentimento e di richiesta;
- comunicazione nella fede: è un elemento non necessario ma utile per chi lo desidera. Dopo la Compieta ci si può incontrare per scambiarsi ciò che abbiamo sentito come particolarmente importante per noi e tale da poter essere utile agli altri.
Difficoltà e modi per ovviarle
L'abitudine: non è la prima volta che facciamo gli Esercizi e proprio per questo c'è il pericolo di cominciarli senza aspettarci molto, senza impegnarci, e magari anche di non ricordarci bene che cosa siamo venuti a fare.
Il numero: siamo tanti, troppi per un corso di Esercizi. L'ideale, per un corso, è che sia possibile uno scambio e una certa attenzione di chi propone le meditazioni al cammino di ciascuno. Quando si è tanti, la proposta diventa più generica, con il rischio di essere più anonima.
Conviene, allora, che io proponga due punti pratici perché si possa ovviare alle difficoltà.
Massima cura per la solitudine interiore perché ciascuno possa sentirsi solo con Dio. Questo non esclude la comunicazione con gli altri, la quale deve avvenire a livello profondo, nella comunione di preghiera. Solitudine con Dio come radice di comunione.
La solitudine non è isolamento ma immersione nella misericordia di Dio, base della vera comunione tra gli uomini. Vi invito quindi ad evitare tutto ciò che può disturbare gli altri, in modo che ciascuno viva l'esperienza degli Esercizi come se fosse solo.
Fissare il tempo o i tempi. Alcuni tempi sono fissati da un ritmo necessariamente comune: le meditazioni quotidiane, la liturgia eucaristica, alcuni momenti della liturgia delle ore, qualche momento di adorazione. Ma è anche importante che ciascuno fissi i suoi tempi personali, rispondendo a tre domande:
a) Quanto e quale tempo intendo dare alla riflessione, alla preghiera contemplativa propriamente detta. Occorre evitare di lasciarsi guidare dall'arbitrio del momento, dall'umore, dalla stanchezza o dall'entusiasmo.
b) Quanto e quale tempo intendo dare alla lettura biblica. Parte di questa lettura la faremo già durante il pranzo e la cena: saranno letture della vita di Paolo, dagli Atti degli Apostoli, dal cap. 9, la prima conversione, e poi passando al cap. 13 fino alla fine del libro.
Come lettura raccomandata converrebbe rileggere attentamente alcune delle maggiori lettere di Paolo, che forse non abbiamo mai avuto modo di leggere per intero, in un momento di calma, dedicato proprio a questo. L'ignoranza delle lettere di Paolo ci porta a non comprendere a fondo il Vangelo.
Suggerisco cinque lettere fondamentali: 1 Tessalonicesi, Galati, 2 Corinti, Filippesi, Colossesi. Con queste cinque lettere abbiamo tutti i temi toccati da Paolo:
- i temi escatologici, nella 1 Tessalonicesi;
- i temi della presenza della salvezza in Galati;
- i fondamentali problemi ecclesiologici nella 2 Corinti (anche se 1 Corinti li sviluppa molto ampiamente, la 2 Corinti presenta però alcuni punti essenziali dell'ecclesiologia in luce autobiografica);
- la lettera ai Filippesi, che è riassuntiva dell'esperienza di Paolo;
- e una lettera tipica della concezione cosmica della salvezza del mondo e della storia, che è la lettera ai Colossesi.
c) Quale frutto vorrei ottenere da questi Esercizi. Che cosa in questo momento mi sta più a cuore nella mia vita. Il frutto fondamentale potrebbe essere quello di capire il disegno di Dio, adesso, per me. L'abbiamo capito quando ci siamo preparati all'ordinazione,ma forse ora è il momento provvidenziale per cogliere tutto il cammino dall'ordinazione ad oggi e cercare di comprendere il disegno che Dio ha su di noi.
Ho parlato di frutto fondamentale, ma ciascuno può evidentemente proporsi il frutto che gli sembra più importante.
Chiediamo alla Madonna addolorata, che ha compreso sempre più profondamente il disegno di Dio su di sé, che ci faccia capire ciò che abbiamo intuito, nello Spirito, fin dal nostro battesimo e, con coscienza più matura, nella nostra ordinazione.
Sulla via di Damasco
In queste meditazioni sulle confessioni di Paolo procederemo secondo un metodo di alternanza. Dapprima ci fermeremo su un episodio di conversione cercando di ripensarlo e di riviverlo. Nella successiva meditazione, passeremo all'approfondimento dottrinale e spirituale dei temi emersi dall'episodio, così come Paolo li propone nelle sue lettere.
Il primo episodio di conversione è l'avvenimento di Damasco. Infatti se domandassimo a Paolo che si prepara a subire il martirio, quale fatto sia stato determinante per la sua vita, non c'è dubbio che ci risponderebbe: l'incontro di Damasco.
Tutta la vita dell'Apostolo è segnata da quell'evento. È difficile per noi capirlo, perché, in realtà, Paolo stesso comprende solo al momento della morte che cosa abbia significato per lui quell'episodio. Probabilmente anche noi capiremo che cosa è stato il dono del battesimo e dell'ordinazione sacerdotale soltanto al termine del nostro cammino.
D'altra parte, se partire da Damasco è difficile, perché è l'episodio che racchiude tutto e che si può comprendere solo nell'esame delle conversioni successive, tuttavia è certo che per Paolo tutto comincia da lì.
Prima era tutto diverso; dopo tutto sarà diverso.
False interpretazioni
1. Cominciamo ad abbattere innanzitutto alcune idee false che noi ci possiamo fare di questo episodio.
È un racconto talmente trito e ripetuto nella catechesi, nella liturgia, nell'arte - i quadri su Paolo, per lo più, raffigurano il cavallo, la caduta, la luce -, da essere facilmente banalizzato, frainteso, colto riduttivamente, con delle conseguenze gravi per il nostro modo di capire la via di Dio nell'uomo.
- Una prima idea falsa, o incompleta, è di pensare a Damasco solamente nell' ottica di una conversione morale: Paolo era un grande peccatore e, a un certo punto, avendo capito il male che stava facendo, cambia il modo di viverre. La conversione a livello di mutamento etico, che dénota la tenace volontà di Paolo, segna un profondo rivolgimento e un cammino. interiore.
In questa ottica tutto si concentra su ciò che Paolo era, su ciò che fa per cambiare, su ciò che Paolo diviene.
- Un'altra interpretazione riduttiva è quella di pensare a Paolo come all'uomo che cambia bandiera. Uno zelante osservatore della Legge che, a partire da un certo punto in avanti, butta il suo zelo, la sua abilità oratoria, la sua instancabile attività, nel servizio della nuova bandiera di Cristo.
Qui c'è solo cambiamento di oggetto, cambiamento di chiesa: prima serviva la Sinagoga, dopo la Chiesa di Cristo che ha visto come il cammino vincente. Anche nella storia cristiana si ripetono quelle che chiamiamo conversioni e che invece sono cambi di bandiera; alle volte, poi, hanno anche un successivo passaggio ad un terza bandiera.
Si entra nella dinamica in cui il vulcano delle proprie energie, messo su una cosa, si sposta su un'altra che sembra migliore. Di questo passo, va a finire magari che ritorna alla prima, generando inquietudine in tanti che non capiscono più cosa avviene. Non si tratta perciò di una conversione ma semplicemente di un cambio di campo.
Se noi interpretiamo la conversione di Paolo in questo modo, la conseguenza è che applichiamo alla conversione nostra o altrui questi modelli interpretativi, riducendo di molto l'azione di Dio.
2. Cerchiamo inoltre di sbarazzare il campo da ciò pensiamo egli che noi facciamo dire a Paolo o che abbia detto sulla sua conversione.
La prima è proprio la parola « conversione ».
Mi pongo il problema se sia corretto parlare di « conversione di Paolo », anche perché lui non usa mai quel termine per l'evento di Damasco. Forse non abbiamo capito molto di ciò che gli è accaduto: l'abbiamo classificato in un certo modo, riducendolo ad una categoria semplice ma non esaustiva.
Sappiamo che il termine « conversione» è tipico del Nuovo Testamento: oggi, nelle nostre traduzioni, leggiamo « conversione» là dove le traduzioni più antiche, che riflettevano soprattutto la Volgata, parlavano di «penitenza ». C'è stato evidentemente un cambio di linguaggio.
Un tempo il primo annuncio di Gesù riportato in Mc 1, 15 veniva tradotto: «Fate penitenza e credete al Vangelo ». Era un calco del latino paenitemini. Oggi traduciamo « convertitevi ». La parola conversione ha preso più esattamente il posto di « pentitevi » o « fate penitenza».
Nel Nuovo Testamento c'è quindi un vocabolario specifico della conversione che è bene ricordare, perché ci fa capire cose non del tutto esatte.
Il termine «conversione» è tipico della Bibbia in cui si usa il verbo ebraico "sub" che vuol dire "ritornare" .
Conversione è esattamente quella manovra per cui si va in una direzione, a un certo punto ci si blocca e si ritorna indietro.
Nel Nuovo Testamento l'idea del ritorno è espressa soprattutto con due verbi che troviamo nei sinottici e negli Atti: «metanoéin », che significa cambiamento di mentalità; «epistréfo », che più propriamente indica il « ritornare ».
In Mc 1, 15: « Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al V angelo », il vocabolo è « metanoéite ». Mentre in Atti 3, 19 (il secondo discorso di Pietro) troviamo sia « metanoéin »sia «epistréfo »: «Pentitevi, dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati ». Ritorna la traduzione « pentitevi» per avere una varietà di termini rispetto all'altra «cambiate vita », ma il senso è questo: cambio di mentalità; è il ritorno.
Anche la parola «pentitevi» ha un suo significato preciso; si riferisce sia al dolore interiore per ciò che si è fatto, sia alle forme penitenziali che si assumono come simbolo dell'avvenuto cambiamento. Tutti i vocaboli vanno quindi presi insieme e il tema fondamentale è quello del « ritorno ». Secondo gli Atti degli Apostoli, Paolo stesso usa questo linguaggio quando deve riassumere la sua predicazione: «lo predicavo ai pagani di convertirsi e di rivolgersi a Dio compiendo opere di vera conversione» (At 26, 20); i due verbi sono «metanoéin» ed «epistréfein»; e parla anche di opere di « metanoias ».
Proprio per questo dobbiamo stupirci anche di più che l'Apostolo non abbia mai descritto il proprio evento con la parola «conversione ». Non dice di aver fatto un'azione che definisce con « metanoéin » o con « epistréfein ».
Paolo capiva bene ciò che era una conversione e sapeva che la sua aveva tutte le caratteristiche di una conversione. Tuttavia l'evento da lui vissuto ha avuto modalità più grandi e più profonde. C'è anche da dire che, mentre i sinottici e gli Atti usano di frequente il vocabolario della conversione, Giovanni non lo usa mai. Questo dimostra che ci sono, nel Nuovo Testamento, punti di vista diversi per cogliere la complessità del fenomeno del cammino dell'uomo verso Dio. Giovanni preferisce dire: venire a Gesù, venire a lui, andare a lui. L'idea fondamentale della conversione - che è profondamente biblica - è espressa nel quarto Vangelo in termini di rapporto personale con Gesù, di sequela. Questo è già più vicino alla lettura che Paolo ha fatto della propria conversione.
Il mistero di Damasco
Spianata la strada da interpretazioni false e riduttive, vediamo come l'Apostolo descrive l'evento di Damasco.
La prima sorpresa è che lo descrive poco. Quell'evento fondamentale per lui e da lui sviluppato in tutte le sue lettere, quasi lo tace. È l'episodio che al momento della morte penso abbia in maniera chiara davanti agli occhi; eppure lui, che è così autobiografico, direttamente non ne parla quasi mai. Forse per Paolo ha contato di più l'integrazione di Damasco nella sua vita, come l'ha vissuto e come l'ha riespresso nella teologia.
Quali sono i pochi testi in cui ne parla?
a) Delle grandi lettere, l'unico testo fondamentale in cui descrive l'incontro di Damasco è la lettera ai Galati: «Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani... » (Gal 1, 15-16). I verbi che usa per parlarne sono quattro: mi scelse... mi chiamò... si compiacque di rivelare... perché lo annunziassi. Di questi verbi soltanto il terzo si riferisce direttamente alla conversione. Gli altri collocano la conversione in un quadro di provvidenza: mi scelse, si compiacque, cioè decise, volle rivelare a me. L'esperienza è quindi descritta essenzialmente come rivelazione del Figlio a lui (secondo il testo greco « in » lui) e come missione.
b) In un passo della lettera ai Romani Paolo trasferisce in un quadro di descrizione generale ciò che lui stesso ha sperimentato: «Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» (Rm 8, 29-30).
c) Nella prima lettera ai Corinti c'è un brevissimo accenno, in un contesto polemico: «Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? » (1 Cor 9, 1): Damasco è stato un.-« vedere il Signore ». E più avanti, nella stessa lettera: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. lo infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15, 8-9). Da lui che perseguitava la Chiesa l'evento di Damasco è definito come apparizione « a me indegno ». Ci sono gli elementi di conversione morale; ma il fatto è: Gesù è apparso.
d) C'è un altro passo importante perché, pur non parlando dell'evento, descrive il modo in cui Paolo l'ha vissuto: «Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3, 4-9).
Il prima e il dopo è in termini di possesso e povertà (nuovo possesso di Cristo). Ma la descrizione di tutte le cose che aveva prima ci deve far pensare. Nella lettera ai Corinti ha scritto: «Sono l'infimo» (noi diremmo peccatore); ora si definisce « irreprensibile quanto alla osservanza della legge ». Ecco perché non è facile usare la categoria del peccatore e del bestemmiatore parlando di Paolo.
Se è irreprensibile, che cosa è cambiato? « Quello che poteva essere per me un guadagno l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo ». In lui è avvenuta una rivalutazione completa di tutto il suo mondo; ciò che prima considerava importante, ora gli appare zero, non gliene importa più niente. Ciò che prima sarebbe stato per lui irrinunciabile, adesso è diventato spazzatura, perché la conoscenza di Cristo ha assunto un primato assoluto, è la capacità di riempire tutto. L'incontro, la conoscenza, la pienezza di Cristo fa impallidire i suoi giudizi e le sue valutazioni.
e) Un altro testo importante: «E Dio che disse: Rifulga la luce nelle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6). Qui il riferimento è ad ogni apostolo, ma ha una forza particolare se lo applichiamo alla conversione di Paolo. Il Dio della creazione rifulge nel suo cuore e lo illumina per fargli comprendere la ricchezza di Cristo, sua vita.
f) L'ultimo passo è quello che più facilmente ci fa interpretare moralmente la conversione di Paolo. Sarebbe ingiusto trascurarlo, anche se presenta dei problemi dal punto di vista del linguaggio: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l'innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 12-13).
Ma allora, era un bestemmiatore e un violento? Era irreprensibile - come scrive ai Filippesi -, o era un peccatore anche moralmente?
Prosegue: «Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1 Tim 1, 13-16). Ecco tutto l'incomprensibile, ricchissimo mistero di questa conversione.
L'evento di Damasco è dunque molto più complesso di un semplice episodio di una conversione morale, di un cambio di mentalità.
È qualcosa di talmente ricco che dobbiamo accostarci ad esso con grande umiltà e riverenza, convinti che ne capiamo poco, che ne sappiamo poco ma che ne potremo conoscere molto di più per grazia di Dio. Allora capiremo meglio noi stessi, il cammino della nostra vita e le nostre conversioni.
Le domande per noi
Terminiamo facendoci una domanda fondamentale, in consonanza con la meditazione: quando mi sono convertito io?
C'è nella mia vita un « quando» della conversione, a cui posso fare riferimento come momento storico? Anche se non c'è stato un « quando» temporale, certamente sono avvenuti momenti di cambio, di rivolgimento, di crisi, che ci hanno portato a una nuova comprensione del mistero di Dio.

Se non abbiamo mai realizzato fino in fondo questo cambio di mentalità che è essenziale per la vita cristiana, noi non abbiamo ancora colto che cosa è la novità del cammino cristiano, il ritornare indietro. Se non capisco bene le cose dette su Paolo, probabilmente è difficile che capisca che cosa è avvenuto in me. Mi devo allora affidare alla preghiera e dire così:
Signore, fammi conoscere la mia via. Fa' che, come dice Geremia, io possa mettere nel mio passato dei paletti: «Rivedete le vie del passato, mettete dei paletti di riferimento». Aiutami a capire le tappe del tuo disegno, i momenti di luce e i momenti di ombra, di prova, magari fino al limite della tolleranza. Donami di conoscere a che punto sono in questo cammino e dove mi trovo. Te lo chiedo per Cristo Signore nostro. Amen.

La conoscenza di Gesù
Vogliamo cercare di approfondire l'episodio di Damasco così come Paolo stesso lo approfondisce in alcune lettere. Confessiamo la nostra titubanza nel penetrare il mistero di Dio in un'altra persona, anche se Paolo è figura emblematica per tutto il cristianesimo.
Confessiamo volentieri anche la nostra incapacità di cogliere il senso dei testi. Il Signore ci usi misericordia e ci faccia cogliere qualcosa di quella indescrivibile luce che ha avvolto e trasformato la vita dell’Apostolo.
Ci rivolgiamo direttamente a te, apostolo Paolo. Tu vedi con quanta presunzione pretendiamo di penetrare nel mistero della tua vita che tu stesso hai ripensato in tanti anni. Se lo facciamo è perché vogliamo conoscerti attraverso la conoscenza di ciò che Dio ha fatto in te, conoscere chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi è Gesù per noi. Noi sappiamo che tu, apostolo Paolo, non sei indifferente di fronte al nostro desiderio; anzi è il tuo desiderio. Tu hai vissuto per questo, hai sofferto e sei morto per questo. È per la tua sofferenza e per la tua morte che ora ti preghiamo. Apri i nostri occhi come il Signore ha aperto i tuoi, perché comprendiamo la potenza di Dio in te e la potenza di Dio in noi. Donaci di comprendere ciò che tu eri prima della conversione, ciò che noi eravamo prima che Dio ci chiamasse, ciò che noi siamo di fronte alla chiamata di Dio.
Ci rivolgiamo anche a te apostolo Matteo perché, uscendo da ciò che crediamo di sapere o di avere già capito, entriamo nella terra sconfinata che è la Parola di Dio.
In questa terra sconfinata troviamo il nutrimento, l'acqua e la manna che ci fanno camminare, il fuoco che ci riscalda e ci illumina, ascoltiamo la Parola di Dio, vediamo il lampo della sua gloria.
Anche a noi sia concesso, come a Paolo e a Matteo, di portare il tuo messaggio con coraggio e con libertà di parola e di spirito.
Ascolta, o Padre, la preghiera che ti facciamo insieme con gli Apostoli Paolo e Matteo, insieme con Maria, Madre di Gesù. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Per comprendere la ricchezza dell'azione divina in Paolo, per capire ciò che lui ha detto della sua esperienza a cui fanno riferimento milioni di uomini, occorre aggiungere ai testi già citati le tre descrizioni della sua conversione che si trovano negli Atti degli Apostoli al cap. 9 (in terza persona) e ai capitoli 22 e 26 in forma autobiografica.
La descrizione del cap. 26 è la più ricca di spunti autobiografici, la più distesa e diffusa. Essa può servire come punto di partenza per chiarire quali domande fare a Paolo, ascoltare le risposte che ci dà, sulla base del testo degli Atti e di quelli delle lettere già evocate. È l'ultimo discorso che Paolo fa in sua difesa di fronte ad Agrippa, a Cesarea.
Recentemente sono stati scoperti i resti del palazzo imperiale: ed è proprio là, presso il mare, dove oggi le onde si infrangono sui ruderi delle costruzioni romane, che Paolo ha parlato di sé: «Anch'io credevo un tempo mio dovere - aveva un forte senso del dovere - di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l'autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando venivano condannati a morte, anch'io ho votato contro di loro – il caso cui si riferisce è evidentemente quello di Stefano e l'approvazione da lui data alla sua morte, anche se non ha buttato le pietre -. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all'eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 9-11).
Qui si pongono dei problemi di critica storica. Non sembra che il sinedrio, a quel tempo, avesse il potere di andare aldilà delle sinagoghe della Palestina e nelle sinagoghe stesse aveva un potere limitato, non certo quello di uccidere. La stessa uccisione di Stefano è probabilmente un atto inconsulto, frutto di sommossa popolare e al di fuori del diritto. Le sinagoghe potevano interrogare, flagellare, imporre alcune penalità ed è in questo ambito che Paolo aveva operato all'inizio. Gli storici sono quindi dubbiosi davanti alla dizione « città straniere ». Forse Paolo si è fatto dare delle lettere di raccomandazione e poi, con uno zelo superiore a quello di quasi tutti gli altri, si è recato in queste città per convincerle a perseguitare i cristiani. È un uomo dotato di grande inventiva nel perseguire ciò che gli sembra giusto: «In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio» (At 26, 12-13).
Le parole sono da considerare con attenzione: «una luce dal cielo ». Su questo Paolo ha molto riflettuto e ci ritornerà scrivendo ai Corinti: «Quel Dio che ha detto: Sia la luce, è lo stesso che ha rifulso nei nostri cuori» (2 Cor 4, 6).
Il Dio della creazione che ha creato ogni luce gli si è manifestato con una luce ancora più grande: Paolo collega tutte le grandi opere creative di Dio nell'Antico Testamento con ciò che in lui è avvenuto. Una profonda illuminazione la cui sorgente è la gloria del Cristo stesso, alla luce del quale tutto il resto impallidisce.
« Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l'eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 14-18).
Mettendo insieme questo testo con gli altri, possiamo fare a Paolo alcune domande:
- Da dove ti ha fatto uscire il Signore a Damasco, e dove eri quando la Parola di Dio ti ha raggiunto? - Verso quale direzione ti ha portato questo avvenimento fondamentale della tua vita?
- Come è avvenuto questo passaggio, cioè la tua pasqua dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla non-conoscenza di Dio alla conoscenza di Dio?
Suggerisco qualche risposta.
Dove eri quando la Parola ti ha raggiunto?
La risposta è nel testo autobiografico della lettera ai Filippesi, dove Paolo afferma che la Parola di Dio lo ha colto mentre era in pieno possesso di valori fondamentali, a lui cari, e conquistati, in parte, a caro prezzo: «sebbene io possa confidare anche nella carne » (Fil 3, 4). Sono le realtà che vengono all'uomo dalla sua natura, dalla sua storia, dalla forza delle sue mani: «io più di lui ». Appartengono alla storia gloriosa di Paolo:
- circonciso l'ottavo giorno: non come i pagani, chiamati con disprezzo gli incirconcisi, nel senso di maledetti, abbandonati, quelli di cui Dio non sembra curarsi;
- della stirpe di Israele: del popolo eletto, luce delle nazioni;
- della tribù di Beniamino: conosco il mio passato, i miei antenati, il legame che mi riporta al figlio di Giacobbe;
- ebreo da ebrei: i possessi ricevuti, cioè padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione;
- fariseo quanto alla legge: cioè ebreo della stretta osservanza, del rigore morale più assoluto, che più conosce la legge, che più vive le tensioni spirituali profonde del giudaismo. Fariseo era nome glorioso che sottolineava l'impegno di vita vissuta nell'ambito della legge, con una grande carica morale interiore.
- Quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall' osservanza della legge. È la stessa parola di lode che viene applicata a Giuseppe: uomo giusto. Così vengono anche descritti i genitori di Giovanni Battista, Zaccaria ed Elisabetta: erano entrambi giusti. La massima lode che si può fare dal punto di vista biblico, Paolo la applicava a sé.
- Irreprensibile: «Chi di voi mi convincerà di peccato? », avrebbe potuto dire;
- Non c'era in me niente che mi si potesse rimproverare dal punto di vista della legge: noi sappiamo quanto fossero minuziosi i comandamenti, le prescrizioni cerimoniali, e complicati i rituali. Anche oggi il pasto ebraico è molto complicato, con tante prescrizioni di cibi, alcune mescolanze da evitare, alcuni cibi da verificare all'origine. È tutta un'attenzione che richiede una grande tensione spirituale.
Paolo è colto quindi in una situazione in cui possiede tradizioni, impegno personale, zelo, giustizia: un insieme di grandi beni che gli è immensamente caro, di cui fa l'elenco con profonda commozione. Bisogna avere conosciuto gli ebrei per sentire con quanta intensità, anche oggi, dicono di essere ebrei, confessano la loro stirpe e la loro tradizione. È qualcosa che entra nella carne come una seconda natura, un modo di essere irrinunciabile. Il caso più tipico è quello di Simone Weil. Ella ha intuito in una maniera profondissima i misteri del Battesimo, dell'Eucaristia, della preghiera, ha scritto delle pagine forse tra le più belle sulla vita cristiana, sul lavoro, sulla contemplazione; ma non è mai giunta al Battesimo, perché le sembrava di non poter rinunciare al suo essere ebrea. Pur intuendo profondamente la bellezza della realtà cristiana, morendo dalla voglia di nutrirsi dell'Eucaristia, nella quale vedeva davvero il culmine della storia e della creazione, è stata fino all'ultimo bloccata dalla pienezza delle cose che le sembrava di possedere e dal bisogno di solidarietà con il suo popolo martoriato.
Paolo usa, sempre nella lettera ai Filippesi, una espressione che riferiste a Gesù, ma che certamente, a questa luce, acquista un sapore autobiografico: «Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Il testo greco sembra voler dire « non considerò come preda », cioè come oggetto di possesso avido, da tenersi con bramosia. Così Paolo viveva la sua realtà: un tesoro geloso che non poteva consegnare a nessuno. La risultanza di questo possesso era la grande cura nel difenderlo, il grande zelo nel promuoverlo, la grande violenza contro tutti quelli che potevano attentare al tesoro.
Ciò spiega la sua intolleranza verso i cristiani e il bisogno di sterminarli, perché coglieva, giustamente, che essi andavano proprio alla radice di quel tesoro.
Possiamo capire allora anche le autoaccuse che si farà e che vengono riferite nella prima lettera a Timoteo: «Ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 13). Non un bestemmiatore nel senso che si rivolgeva contro Dio, ma nel senso che, senza saperlo, - ed è qui tutta la sua conversione, il dramma che lui vive - si rivolgeva contro Cristo, Figlio di Dio, per la difesa del suo tesoro. Ora è comprensibile che descriva la sua vita come vissuta nel peccato perché, in realtà, - e se ne accorgerà sempre più - il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato. Non considerava Dio come Dio, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c'era il suo possesso, la sua verità, i tesori che gli erano stati affidati. Un atteggiamento esteriormente irreprensibile ma che interiormente era di una possessività esasperata, tale da turbare in radice il suo rapporto con Dio, padre e creatore.
È lo stravolgimento che viveva senza saperlo e dal quale scaturirà la sua comprensione nuova del Vangelo, della grazia, della misericordia, dell'iniziativa divina, dell'attività di Dio.
Egli viveva non il Vangelo della grazia, ma la legge dell'autogiustificazione che gli faceva dimenticare di essere un pover'uomo, graziato da Dio non perché fosse qualcosa in sé, ma perché Dio lo amava.
Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale dell'immagine di Dio in lui.
Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. La violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell'incapacità di capire gli altri se non come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai nostri giorni. Ancora l'uomo cerca una salvezza propria, cerca una giustizia e un'autogiustificazione che porta ad ogni genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalménte padroni, e non servi, della verità.
La situazione di Paolo è istruttiva a riguardo di alcune delle perversioni più profonde. Quelle che affronterà Gesù nel Vangelo quando dirà: «I peccatori vi precedono nel Regno di Dio ». Vuol dire che chi commette dei peccati perché, ad esempio, si ubriaca o si lascia vincere dalla sensualità, commette peccato, certo, ma è sempre, in qualche modo, conscio di fare il male: ha bisogno di comprensione, di aiuto e di misericordia per superare la propria debolezza e confessa di essere fragile. Paolo invece non avrebbe mai confessato di essere fragile e debole. Ed è questo il peccato che Gesù attacca nei farisei: quella perversione fondamentale per cui l'uomo si fa salvezza di se stesso e, credendo di essere giunto all'apice della perfezione, giunge alle più gravi aberrazioni della violenza.
Verso quale direzione ti ha portato il Signore?
Paolo stesso ci fa comprendere nella lettera ai Filippesi e nella lettera ai Galati il significato di questa direzione.
a) Prima di tutto il Signore lo ha portato verso un totale distacco da ciò che prima gli era sembrato sommamente importante: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7-8).
Lo ha portato verso la percezione che tutto questo non vale niente di fronte a Cristo: non in sé, ma di fronte a Cristo.
Lo ha portato ad una visione completamente nuova delle cose. Non a un cambiamento morale immediato, ma ad una illuminazione: egli parla di rivelazione, perché mettendosi da un punto di vista nuovo, quello di Cristo, tutte le cose gli appaiono diverse. Egli giudica la sua vita in maniera così nuova che l'esclamazione che meglio riassume la sua risposta interiore alla parola di Gesù sulla via di Damasco è: ho sbagliato tutto. Ho creduto valido ciò che non lo era e mi sono lasciato trascinare ad un modo di agire violento e, alla fine, ingiusto. lo che mi gloriavo della mia giustizia sono diventato giustiziere degli innocenti.
Mentre Gesù gli chiede: «Perché mi perseguiti? », capisce, d'un colpo, che ha confuso, miserevolmente, la verità delle cose. È comprensibile il terribile choc di Paolo che, non attraverso un ragionamento, ma attraverso una presa di contatto della verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare dall'alto in basso. Analogamente Matteo al cap. 13 descrive il mercante che, avendo trovato una perla preziosa, si accorge che tutto il resto non vale niente; così come l'uomo che, avendo trovato il tesoro nascosto nel campo, comprende che tutto il resto non ha alcun significato.
Quello che è avvenuto in Paolo è una tale rivelazione dell'essere di Gesù che gli ha fatto cambiare giudizio e atteggiamento su ciò che era e su ciò che faceva: una rivelazione che ha capovolto il suo atteggiamento interiore.
b) Il secondo modo che esprime « verso quale direzione » lo troviamo soprattutto in un capitolo della lettera ai Galati: «Si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunzi assi in mezzo ai pagani» (Gal 1, 15). È la missione che viene affidata a Paolo. È sconvolgente per Paolo che le due cose avvengano insieme: nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «hai sbagliato tutto», gli dice: «tutto ti affido», ti mando.
Il Dio del V angelo e della misericordia è Colui che nell'istante in CUI mi fa capire che ho sbagliato tutto su di lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la sua stessa Parola.
Questo istante riassume per Paolo tutto ciò che egli sapeva di Dio in maniera sbagliata. L'oscuro diventa chiaro, il violento diventa misericordioso.
Come è avvenuto questo passaggio?
Vogliamo capire che cosa gli è stato rivelato e perché Paolo parla di rivelazione, prima che di conversione.
- Tutto gli è stato donato: non c'è stato da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché egli fosse per tutti i popoli segno del Dio misericordioso, la cui iniziativa precede sempre la nostra ricerca.
Sarebbe bello rianalizzare il v. 15 del cap. 1 della lettera ai Galati che usa un linguaggio antico testamentario per descrivere ciò che è avvenuto in Paolo:
« Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio... ». Il soggetto della conversione non è Paolo: è Dio. Tutto il peso è dalla parte di Dio, lui è l'autore della conversione.
Come per la creazione « Dio disse e fu fatto », così per la conversione l'iniziativa è Sua, al di là di ogni nostro merito, di ogni nostro desiderio o pensiero.
Dio ci chiama e si compiace di manifestare a noi suo Figlio.
Questo è il primo aspetto del « come»: per grazia, per dono, perché piacque a Dio.
- Tutto gli è stato dato, nella conoscenza di Gesù. Abbiamo già visto, infatti, che Paolo descrive la conversione in termini di incontro (1 Cor 15, 8). Cristo è la rivelazione dell'iniziativa divina e misericordiosa per me. Cristo è l'incontro tra Paolo e Dio.
Poniamoci anche noi alcune domande
- Che cosa c'è in me di affine, di diverso o di analogo, all'esperienza di Paolo?
Come posso cogliere nella mia vita l'azione preveniente di Dio che mi fa essere ciò che sono?
- Come e in quale maniera Gesù, che è stato per Paolo la rivelazione della misericordia divina, è per me il punto di riferimento fondamentale per comprendere chi sono, che cosa sono, da dove vengo, a che cosa sono chiamato?
- Quali sono i possessi che mi impediscono di cogliere con libertà l'iniziativa divina verso di me?
Dobbiamo farci queste domande con amore: se le poniamo con spirito possessivo o autogiustificativo, risponderemo in fretta e non riusciremo a vedere in profondità la storia della nostra vita sotto lo sguardo di Dio. Ma se ci interroghiamo con amore e misericordia potrà emergere ciò che in noi è l'opera di Dio e ciò che in noi è la resistenza di Paolo all'opera di Dio.
Concludiamo rileggendo il racconto di 1 Tim 1,15 ss: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io ».
Il peccato fondamentale dell'uomo, che è alla radice di tutti i peccati è non riconoscere Dio come Dio, il non riconoscersi come dono suo, come frutto del suo amore: è l'atteggiamento satanico di opposizione dell'uomo a Dio. Paolo ha vissuto questo atteggiamento sotto colore di possesso di cose buone, ha vissuto il rifiuto della bontà di Dio su di lui. Tutti noi ci portiamo dentro l'incapacità a riconoscere Dio come Dio. « E di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ».
È la giustificazione del nostro corso di Esercizi su Paolo che è stato ed è segno per altri, per la storia e per il mondo.
«Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli ». Dio. solo, unico meritevole di onore e di gloria per ciò che ha operato e opera in noi, ci conceda di vivere con questa lode nel cuore.


Le tenebre dell'uomo Paolo
Ci proponiamo in questa meditazione di approfondire un aspetto dell'evento di Damasco: «la cecità» che segue immediatamente la conversione. Le tenebre non soltanto del Paolo storico, ma di Paolo come uomo che vive questo momento di tenebra.
Il tema è difficile perché tocca le tenebre che sono in noi e che non vorremmo mai affrontare. È un tema penitenziale. Chiediamo la grazia dello Spirito Santo per entrarvi con verità e con apertura di cuore:
O Signore, tu ci scruti e ci conosci, sai quanto siamo incapaci di comprendere il tuo e il nostro mistero. Conosci la nostra incapacità a parlare di queste cose con verità. Ti chiediamo, o Padre, nel nome di Gesù: manda a noi il tuo Spirito che scruta le profondità dell'uomo, che sa ciò che c'è dentro di noi, perché ci renda capaci di conoscerci come siamo conosciuti da te nelle profondità del nostro male, con amore e con misericordia. Fa' che noi guardiamo con occhio vero ciò che c'è in noi di peso, opacità e opposizione a te; fa' che sappiamo guardarlo nella luce misericordiosa che viene dalla morte e risurrezione del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, che con lo Spirito vive e regna con te per tutti i secoli. Amen.
È stato importante definire la conversione di Paolo come « rivelazione e illuminazione ». Ora ci domandiamo come mai dopo la conversione Paolo è cieco.
Questo fatto è sottolineato, con una certa enfasi, dal racconto degli Atti: «Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Cosi, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (At 9, 8-9). Si direbbe che l'illuminazione di Cristo, invece di riempirlo di gioia, di luce, di chiarezza, lo abbatte, quasi gli fosse caduta addosso una grave malattia; è incapace a vedere, a nutrirsi, è bisognoso di essere condotto.
La stessa cosa viene ripresa più avanti: «E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, Il). E acquistò la vista quando Anania gli si accostò dicendogli: «Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell'istante io guardai verso di lui e riebbi la vista» (At 22, 13).
Perché Paolo è colpito da cecità dopo che gli è stato rivelato il mistero luminoso di Cristo?
La cecità nella Scrittura è chiaramente collegata col peccato, col disorientamento dell'uomo, con il suo barcollare incapace di trovare una direzione. È un castigo: Elimas a Cipro viene colpito da cecità per castigo: « Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: "O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco, la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole" » (At 13, 9-11). Nel caso di Elimas però il significato simbolico della cecità è molto ben spiegato: egli deve smettere di sconvolgere le vie diritte del Signore, di opporsi, con il suo modo di agire, alla vera immagine di Dio. Quindi è il simbolo dell'uomo incapace di trovare la via giusta, dell'uomo prigioniero delle forze di Satana, «figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia », « pieno di frode e di ogni malizia ». È chiaramente l'immagine del peccato, di ciò che nel peccato parte dall'interno: «frode e malizia »; di ciò che parte dall'esterno: «figlio del diavolo »; e nelle conseguenze: «nemico di ogni giustizia ».
Per la cecità di Paolo non è facile invece rispondere, perché gli Atti degli Apostoli non ce la spiegano, ma si limitano a descrivere il fatto a cui l'Apostolo non sembra mai accennare nelle sue lettere.
Cercando di riflettere e di entrare nel suo animo, possono emergere due motivi.
La cecità come riflesso dello splendore di Dio
C'è anzitutto un motivo biblico ricorrente: «L'uomo non può vedere Dio senza morire ». La visione di Dio è luce ma per la carnalità dell'uomo è motivo di spavento e fa percepire all'uomo tutta l'oscurità in cui si trova. A contatto con Dio che è luce, l'uomo si riconosce tenebra. Paolo vive cosi il cammino penitenziale che non era mai stato capace di vivere prima. La conoscenza della gloria di Cristo si riflette nella conoscenza della propria oscurità, vissuta da Paolo simbolicamente, con un simbolo reale, finché la parola della Chiesa, la parola di Anania, non interverrà a dargli il senso della sua accettazione nella Chiesa e della sicurezza di camminare nella via di Dio.
La cecità è il riflesso negativo della gloria di Dio che gli è stata manifestata. È tipico della conversione cristiana il fatto che l'uomo venga a conoscere molto di più se stesso e a spaventarsi delle proprie tenebre quando conosce la luce di Dio, che non attraverso un esame rigoroso, quasi una psicanalisi delle proprie profondità. È al contatto col volto di Cristo che l'uomo si scopre tenebra!
La cecità come cammino penitenziale
Il secondo motivo che può spiegare la cecità è la partecipazione di Paolo al peccato del mondo, la sua inserzione nell'umanità peccatrice.
Ci chiediamo come l'ha vissuta e come gli si è presentata.
Non è necessario lavorare di fantasia, perché Paolo ha avuto modo di esprimere in diverse occasioni la propria visuale della peccaminosità di ogni uomo, dell'abisso di tenebre che è in agguato, sempre, in ciascuno di noi. Esso è vinto soltanto dalla forza di Dio, ma potrebbe riemergere ad ogni momento se Dio non fosse continuamente vincente. E quando la forza di Dio è da noi rifiutata o trascurata, allora torna a galla ciò che Paolo chiamerà il peccato personificato.
Riflettere sulle tenebre che sono nel cuore dell'uomo non è semplicemente fare una meditazione descrittiva di qualcosa che è lontano da noi, ma è realtà che è in noi, anzi è in agguato dentro di noi. La dolorosa esperienza storica di ciascuno di noi sa che questo essere in agguato può trasformarsi, certe volte, rapidamente ed in maniera imprevista, in realtà. È questo un discorso impopolare e difficile da tradurre in linguaggio quotidiano.
Noi oscilliamo sempre fra due posizioni. Da una parte talora deploriamo la malizia dell'uomo, quando vediamo fatti sconcertanti. Intendo accennare alle violenze, a forme di crudeltà tipiche del terrorismo, la crudeltà stessa delle prigioni, con le uccisioni tra detenuti, dove si raggiunge una situazione da inferno e le persone si odiano, pur essendo sottoposte alla stessa pena. Noi stessi rimaniamo attoniti di fronte a certi omicidi barbari che succedono vicino a noi, nel tempo e nello spazio. Dall'altra parte ci culliamo nell'idea degli uomini di buona volontà: tutti hanno buona volontà, tutti sono abbastanza buoni.
Non riusciamo mai a cogliere veramente il fondo di queste due posizioni e ad accordarle tra loro: ci muoviamo un po' in senso moralistico-deplorativo e un po' in senso di bonaria comprensione per tutto. Spesso ci manca lo sguardo che sappia vedere il male dell'uomo, ma con misericordia, e non soltanto in maniera deplorativa e pessimistica.
Quali sono dunque le dimensioni delle tenebre e dell'oscurità di cui Paolo ci parla nelle sue lettere, riflettendo su quanto gli è accaduto nel momento della conversione?
Possiamo esprimerle secondo tre livelli diversi:
a) il livello del peccato personale;

b) il livello del peccato fondamentale;
c) il livello del peccato strutturale.
Il peccato personale
A tal proposito i testi da segnalare sono due: «Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5, 19-21). Siamo al livello dei peccati singoli, personali: è un elenco impressionante dei quattordici atteggiamenti negativi dell'uomo, che Paolo trae dalla esperienza sua e del suo tempo. Una visuale molto realistica ed insieme pessimistica dell'uomo che si muove nell'ambito dei propri interessi.
Sono le opere della carne. Sono le opere che nascono nell'uomo che vive nell'ambito del proprio puro tornaconto. L'uomo si rivela allora come un essere pieno di «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia... ». È uno sguardo drammatico sulla società e la gente del suo tempo.
L'altro testo riprende questo quadro con nuove pennellate, facendo una lista di ventuno atteggiamenti negativi: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, d'omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Rm 1, 2831). È una descrizione che sembra persino retorica tanto è gonfiata nelle parole, ma reale, dei fatti e della società del suo tempo.
Rileggendo queste due liste ci domandiamo che tipo di descrizione è. Sono peccati sociali, cioè peccati nel comportamento verso il prossimo: tutto il modo distorto dell'uomo di agire verso il fratello, frutto di una errata cognizione di Dio, e in ultima analisi di una sbagliata concezione della vita fondata sull'egoismo.
L'Apostolo vuole dimostrare alla gente del suo tempo - che era orgogliosa tanto quanto la nostra, che pensava di avere cultura, civiltà, diritto, leggi, di essere infinitamente superiore ai barbari - che sono dei poveri uomini in preda ad ogni forma di depravazione perché cercano il proprio tornaconto personale.
Paolo fa una descrizione delle cose così come le vive e le vede, ma sa benissimo che ciò che descrive ha radice anche in lui. Secondo la parola fondamentale di Gesù nel cap. 7 di Marco ai vv. 21-22: «Dal cuore dell'uomo nascono queste cose ». E non soltanto dal cuore di un uomo che per caso è nato in situazione disgraziata, ma dal cuore di ogni uomo.
Confrontando la lista paolina con quella di Gesù, cogliamo l'insegnamento fondamentale: tutte queste cose sono dentro di noi.
Sapere che sono dentro di noi ci spinge a prenderle molto più sul serio e a riflettere con attenzione. Pensiamo per esempio a un tema che ricorre in tutte e due le liste: l'invidia. Oppure ai dissensi, divisioni, fazioni. Com'è vero che sono sentimenti che albergano nel nostro cuore! Clemente Romano scrive che Paolo è stato ucciso per invidia: non è stata la persecuzione, la cattiveria dei pagani, ma l'invidia di alcuni che, essendo suoi rivali, lo hanno denunciato. Ciò vuol dire che la comunità cristiana era soggetta a dissensi, rivalità, divisioni, fazioni che ad un certo punto si avvalevano dei pagani per le proprie manovre e le proprie vendette. C'era certamente l'autorità pagana che portava avanti la persecuzione ma non sarebbe arrivata a tanto, nei riguardi di Paolo, se i cristiani fossero stati più uniti.
La stessa morte di Pietro viene attribuita ad invidia, a delazioni e a spinte venute dall'interno del gruppo dei credenti giudeo-cristiani, o di gruppi rivali.
Pensiamo ad altre parole di quella lista: diffamatori e maldicenti, e ci accorgiamo che spesso lo siamo anche noi nel modo di parlare degli altri.
Se continuiamo a rileggere l'elenco, scopriamo come esso è vicino all'esperienza nostra di ogni giorno e che talora questi atteggiamenti emergono in maniera clamorosa, proprio perché è mancata la vigilanza e l'attenzione a cogliere il male dentro di noi e a sottoporlo continuamente alla luce di Dio. Non c'è niente di più dannoso come il venir meno alla vigilanza evangelica che è una delle virtù fondamentali.
Anche il prete che non vigila o che comincia a non vigilare più su di sé, che pensa con la forza dell'abitudine di aver trovato un certo modo di vivere, può soccombere sotto il peso di qualcuna di quelle forze negative descritta da Paolo, che emergono e si affermano in lui.
Queste opere della carne che troviamo nelle lettere dell' Apostolo servivano da liste penitenziali sulle quali si esaminavano i catecumeni e su cui si confrontavano i cristiani nella loro esperienza di penitenza.
Questo livello del peccato personale ci tocca tutti, perché sono cose immediatamente percepibili nei loro effetti di ingiustizia e sono in noi con le loro radici, nelle propensioni negative che abbiamo.
Il peccato fondamentale
Paolo va ancora in profondità e, seguendo l'insegnamento di Gesù, denuncia il peccato fondamentale che sta alla radice di tutti gli altri: «E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28).
È questo uno degli aspetti del peccato radicale a cui l'uomo è inclinato e a cui ciascuno di noi è profondamente proteso e inevitabilmente attratto, se la forza di Dio non venisse in nostro soccorso.
Qual è questo peccato fondamentale?
Si può esprimerlo in tanti modi e ciascuno a partire dalla propria esperienza. È «il peccato» di cui Giovanni parla nel quarto vangelo usando quasi sempre il singolare. È, sostanzialmente, il non voler riconoscere Dio come Dio, è il peccato che sta alla radice della rivolta di Satana: non riconoscere che la nostra vita è determinata solo dall'ascolto di Dio.
La radice nascosta, e quindi non facilmente esplicitabile, di tutto ciò che è chiamato laicismo sta proprio qui. Non si tratta di una propensione cattiva, come ad esempio nella scelta del furto, dell'ingiustizia, della menzogna. Il peccato sta nel dire che non c'è bisogno dell'ascolto di Dio, che non è la Parola di Dio a determinare la vita ma, ultimamente, la nostra sola scelta.
Ecco il peccato fondamentale da cui tutto il resto deriva, al quale sono sottese tutte le mancanze personali. Per Paolo la distorsione fondamentale è quella di non riconoscere il Dio del Vangelo; . è la tendenza a negare che l'uomo è fatto per l'ascolto di Dio, a vivere della sua Parola; è il rifiuto istintivo e diabolico in sé, perché irragionevole, di lasciarsi amare e salvare da Dio e di vivere del suo amore. Questo rifiuto può assumere, come in Paolo, persino il colore dello zelo: vantandosi della sua tradizione, della sua onorabilità, egli di fatto rifiutava la misericordia di Dio come determinante per la sua vita.
È il peccato che veramente ha bisogno di essere curato nell'uomo, perché sia curata la radice delle opere della carne. Ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia non sono semplici fragilità e debolezze ma derivano da un'origine più profonda.
L'uomo è maledettamente scontento di sé e la sua scontentezza è venuta fuori in forme paradossali, abnormi. Questa scontentezza di sé è, in radice, il rifiuto di essere amato, di lasciarsi amare; il fissarsi talmente nella propria autonomia da farsene un idolo, con tutte le reazioni di tristezza o di disperazione che ne seguono e con tutte le conseguenze di crudeltà, di ingiustizia che sono l'apice della malvagità umana. Solo così possiamo spiegare i grandi massacri, anche recenti, della storia, le uccisioni spietate che sono avvenute e che avvengono in momenti di rivolgimenti politici, sociali, in cui si sfoga un'interiore disperazione dell'uomo. Chi è scontento di sé infierisce sugli altri.
Grazie a Dio solo raramente noi incontriamo nella vita questi casi limite: però li incontriamo, ci sono e fanno la storia. Ciò che è avvenuto infatti nei campi di concentramento al tempo di Hitler non si può spiegare se non con questo sorgere del demoniaco rifiuto di Dio.
Paolo parlando di questo peccato ci sconcerta perché, riferendolo a se stesso e ad ogni uomo, sottolinea che è invincibile.
« Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 14-19).
È una impotenza umana storica, misteriosa, paradossale fino a sfiorare l'assurdo. L'uomo desidera il bene ma si accorge che non lo realizza. Condizionato dalle vicende, dalle tensioni, dalle difficoltà, dalle opposizioni che deve superare, si indurisce e, indurendosi, si rinchiude in sé, si arriccia contro le difficoltà, si rinchiude nel possesso e nell'autodifesa e così rifiuta la dipendenza da Dio, dalla sua Parola e dalla sua misericordia.
Nei casi peggiori resta travolto e nega la trascendenza di Dio. Nei casi migliori, l'uomo arriva a vivere il dualismo per cui nei momenti buoni gli sembra di essere teso all'ascolto della Parola, e poi, nell'incalzare delle circostanze, specialmente avverse - amarezze, delusioni, odii, contrasti, ingiustizie che subisce e che ha voglia di ritorcere - si difende ad ogni costo, si oppone agli altri e soprattutto non fa più riferimento alla Parola di Dio.
Paolo ha toccato con quel « peccato che abita in me » la profonda miseria dell'uomo, difficile a capirsi, però sperimentabile negli effetti, nelle conseguenze, nelle situazioni storiche.
Il peccato strutturale
È la condizione dell'uomo storico per cui, di fatto, nelle durezze della vita si restringe in se stesso e, senza volerlo, diventa avido, ingiusto, difensore del proprio bene ad ogni costo. Non è evidentemente soltanto il frutto della malizia individuale ma è la condizione culturale nel senso vasto della parola, sociale, dell'uomo storico. È il peccato inserito nei sistemi di vita, nella mentalità, nelle idee ricevute; è un modo di essere e di vivere che la Scrittura chiama « mondo », in senso negativo, in cui, aldilà delle belle parole, prevale il tornaconto, il bisogno di sopraffare gli altri, di contrattaccare, di polemizzare per primo per non essere sottomesso. Questa realtà conflittuale noi non l'abbiamo scelta e potremmo, come don Abbondio, pensare di esserne a lato. Resta però il fatto che ci accorgiamo di non poterla sfuggire.
La condizione umana che lo stesso Paolo analizza in modo molto drammatico, non possiamo dire che non sia vera; se riflettiamo con attenzione vediamo che noi stessi ne siamo condizionati. Non poche delle idee ricevute come ovvie sono frutto di questa mentalità, non poche delle nostre scelte istintive sono dovute a questa mentalità. Quando esaminiamo la storia del passato e ci meravigliamo che si siano compiute alcune scelte, anche nella storia della Chiesa - come la tortura o la guerra - dovremmo capire che quella gente viveva secondo le idee ricevute. Era praticamente impossibile per loro sottrarsi ad una certa mentalità, che poteva portare a commettere ingiustizie. Fa parte del cammino storico dell'uomo il vivere sottomessi alla mentalità del proprio tempo e compiere delle scelte inavvertite che forse fra uno o due secoli appariranno sbagliate ma che oggi, istintivamente, compiamo.
Questo peccato strutturale, inserito nella vita sociale, economica e nella mentalità, Paolo lo denuncia, ed è un aspetto della realtà perché, mentre lo denuncia, afferma che nel più profondo del cuore dell'uomo c'è una mentalità opposta: l'apertura a Dio.
L'uomo è prima aperto a Dio che chiuso; però storicamente la chiusura a Dio è quella che scoppia e si manifesta in determinate circostanze.
La salvezza che Dio offre all'uomo è il ritrovare, il rivivere per grazia e per misericordia, nella pienezza dell'incontro con Cristo, la potenzialità di quell'apertura originaria che crea la mentalità del bene, la cultura positiva.
L'uomo non può riconoscere tutto questo se prima non ha la percezione del male. Tale conoscenza del male non dev'essere fonte di pessimismo sistematico; essa è un fatto che ci permette un giudizio vero sulla realtà.
Può spiegare meglio ciò che ho detto sul peccato strutturale e sul modo con cui ci avvolge, un esempio della vita di Gesù. È l'episodio che prelude alla passione: «Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l'unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: "Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest'olio a più di trecento denari e darli ai poveri! ". Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: "Lascia tela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un'opera buona" » (Mc 14, 3-6).
Si tratta di un giudizio su un'azione particolare. Gesù e la donna si trovano soli e coloro che li circondano, agendo per motivi istintivi, condannano quel gesto, non lo sanno capire. È un caso tipico della forza della mentalità che si comunica dall'uno all'altro e non permette l'apertura alla verità di un gesto che ha un significato profetico. Agendo con le convinzioni ordinarie, con quello che sembra il comune buon senso, tutti si mettono contro Gesù che rimane solo.
Paolo vive in sé, e con il mondo con cui si sente solidale, tutta la realtà di questa mentalità comune quando dice: «lo sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7, 24). In altri termini: non c'è scampo per me di fronte alla realtà di questa situazione. E subito aggiunge: «Sia-. no rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7, 25).
Nella sua cecità l'Apostolo è penetrato, fino in fondo - al di là di quello che è dato all'uomo normale nel mistero delle tenebre dell'uomo e ha così potuto comprendere la potenza della luce di Cristo e delle sue capacità di rifare un mondo nuovo.
Nell'esperienza delle tenebre ha percepito la potenza dell'illuminazione battesimale a cui, allora, si è sottoposto volentieri per mano di Anania, ricevendo nella Chiesa e dalla Chiesa la potenza di salvezza.
L'enciclica «Dives in misericordia », parlando della inquietudine e delle fonti di inquietudine, dice:
«Evidentemente un fondamentale difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo difettoso, sta alla base dell'economia contemporanea e della civiltà materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi da situazioni così radicalmente ingiuste» (n. Il). Il Papa applica alla realtà della famiglia umana quella incapacità che Paolo applicava all'uomo: vedo, voglio e non posso. Viene estesa ad una situazione di struttura la realtà che l'uomo sperimenta già nel fondo di sé, nel peccato strutturale che sta in lui.


Conversione e delusione
Ci proponiamo di riflettere su come Paolo ha vissuto il periodo che comprende circa dieci anni dall'evento di Damasco. Se collochiamo l'incontro di Damasco verso l'anno 34-35 arriviamo fino al 45-46, che segna l'inizio della prima missione dell' Apostolo veramente riuscita, a Cipro ed in Asia Minore.
Sono dieci anni di esistenza oscura e difficile.
Paolo non ne parla molto, forse anche per un certo pudore, perché dovrebbe dire delle cose spiacevoli verso la comunità che l'ha accolto: qua e là, però, qualcosa trapela.
Teniamo poi presente che egli incomincia a scrivere dopo 13-14 anni dall'esperienza di Damasco, quando ha ormai raggiunto la maturità e la pienezza del Mistero di Cristo che aveva visto.
Vogliamo capire cosa è successo, perché rappresenta un tipico approfondimento doloroso e insieme costruttivo della conversione fondamentale.
Signore, tu tieni in mano ogni cosa. Tu hai tenuto in mano la vita di Paolo in maniera aperta e grandiosa dal momento della sua conversione. Tu non l'hai mai abbandonato anche nei momenti difficili in cui egli forse non sapeva che cosa gli stava succedendo. Tu ti sei manifestato a lui con amore misericordioso forse proprio là dove stava per abbandonare il ministero. Donaci di comprendere la tua misericordia su di noi perché possiamo, con fiducia, accettare la tua guida, credere nel significato provvidenziale di ciò che è avvenuto e avviene nella nostra esistenza cristiana e sacerdotale. A gloria tua, nella forza dello Spirito, per intercessione di Maria e di tutti i Santi. Amen.
Per la nostra riflessione:
- prima leggeremo i testi;
- poi ci domanderemo qual è la storia che si può ricavare da questi testi;
- in un terzo momento vedremo quali sono le motivazioni dietro la storia;
- ci chiederemo qual è stata l'esperienza di Paolo in quei dieci anni;

- infine concluderemo con una parola su di noi.
I testi
« Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli a Damasco, e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: "Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?". Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero cosi parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta. Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Cosi egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (At 9, 19-31).
Già qui si potrebbe notare, un po' maliziosamente, anche se non è nell'intenzione del testo, che, partito Paolo per Tarso, la Chiesa è in pace; si è tolta di mezzo una persona che creava scompiglio e disturbo.
Un altro testo interessante lo troviamo nella lettera ai Galati: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre... si compiacque di rivelare a me suo Figlio... senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
In seguito, dopo tre anni, andai a Gerusalemme per consultare Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: "Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere". E glorificavano Dio a causa mia.
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito» (Gal 1, 15 - 2,1). È un'altra serie di fatti.
Per analogia con questi quattordici anni, aggiungiamo un altro testo: «Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest'uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze» (2 Cor 12, 1-5).
Paolo è molto rispettoso nel descrivere l'atmosfera di questi anni, ma qualche volta si scatena. Come, ad esempio, nella lettera ai Filippesi, là dove, ritrovandosi in situazione analoga a quelle già vissute, dice: «Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Gesù Cristo, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa confidare anche nella carne» (Fil 3, 2-4). Ritornano alcune frasi della lettera ai Galati che fanno pensare ad un collegamento delle emozioni di quel tempo.
La storia dei fatti
Cosa è avvenuto in realtà? Alcuni fatti sono abbastanza evidenti. Dopo la conversione, Paolo comincia a predicare, probabilmente non abitando sempre a Damasco; e qui c'è la sua permanenza in Arabia, forse nei dintorni delle città presso popolazioni arabe, perché la sua presenza non era tanto gradita.
Ad un certo punto le autorità si preoccupano e suscitano una tale opposizione che deve fuggire. Non si legge che la comunità lo abbia né sostenuto né richiamato: rappresentava un fattore di disturbo, anche se lo ammiravano per il suo zelo.
Dopo questa fuga non si ricorda più che sia ritornato a Damasco o abbia di nuovo coltivato quel gruppo di discepoli.
A Gerusalemme succede un po' la stessa cosa: non dei pericoli clamorosi come quelli di Damasco, e quindi non una fuga cosi avventurosa. Però la sua predicazione diventa via via troppo vistosa, i fratelli si preoccupano di lui e lo riportano in patria. In altre parole, viene ringraziato e rimandato.
Ai due eventi di Damasco e di Gerusalemme segue un periodo di assoluta solitudine in patria e di sconforto. Lo si deduce dal fatto che questo tempo termina con la grande visione di cui parla la seconda lettera ai Corinti, che si può considerare come una ripresa che il Signore fa della prima apparizione di Damasco. La nuova visione della gloria di Dio, della quale forse era stato tentato di dubitare, chiude: un periodo di solitudine e di amarezza.
Riassumendo, i dieci anni dalla prima conversione sono stati anni di difficoltà, di scontri, di disagi provocati dal suo modo troppo focoso di predicare, dal suo esporsi eccessivamente. Sono stati anche anni di solitudine, di silenzio, di sconforto.
Quando Paolo racconta queste cose, le vive ormai nella pienezza del suo secondo ministero, e quindi non vi indugia più.
È interessante notare questa sequenza dei quattordici anni che viene ripetuta due volte. Il primo doppio settenario va dalla conversione alla seconda visita a Gerusalemme.
L'altro doppio settenario è quello indicato nella seconda lettera ai Corinti: tra il momento della visione e il momento in cui scrive la lettera. Mentre scrive, la sua vita gli appare come due periodi sabbatici. Gli Ebrei, infatti, solevano, a quel tempo, calcolare anche gli eventi e la vita secondo un ciclo settenario che corrispondeva al periodo che si concludeva con l'anno sabbatico.
Dopo ventotto anni dalla conversione, Paolo ha imparato a calcolare la vita secondo un ritmo sacro: ha già visto in una luce provvidenziale ciò che gli è avvenuto e si è addirittura accorto che questo coincideva con il computo sacro del tempo. Ma mentre viveva quei periodi intermedi, non aveva ancora la chiarezza del perché la sua vita si svolgesse così.
La storia dei dieci anni dopo Damasco (che copre l'arco dell'età di Paolo dai 25-30 anni ai 35-40 anni) possiamo ricostruirla, dunque, come disagio a Damasco, incomprensione a Gerusalemme, momenti di solitudine e di sconforto.
Le motivazioni dei fatti
Ci chiediamo: durante questo tempo c'è in Paolo qualcosa che non ha girato bene, oppure tutta la colpa è degli altri che non l'hanno capito, l'hanno osteggiato, non l'hanno difeso, hanno preferito disfarsi di lui, non l'hanno saputo valorizzare? Probabilmente, come in ogni cosa umana, il torto sta da entrambe le parti.
È vero che soprattutto i giudeo-cristiani, legati ad una visione angusta dell'apostolato, con molte paure e molte riserve, non l'hanno capito, non l'hanno saputo valorizzare nel timore che il suo modo di agire producesse più danno che vantaggio. Gli avversari poi si sono scagliati contro di lui perché intuivano che era un uomo-chiave. Dai primi e dai secondi, con quegli accordi taciti che talora avvengono, Paolo è stato eliminato.
Al di là di questo, però, io penso che Paolo stesso, interrogato, confesserebbe che qualcosa anche in lui non ha girato del tutto bene. Gli è accaduto ciò che avviene nelle conversioni grandi e rapide, in cui tutto appare nella luce migliore e più pura, e il motivo della conversione non è un cambiamento di bandiera o di campo, ma è la nuova visione della vita che in Gesù gli si presenta: è il totalmente altro, è l'opera di Dio.
Ma quando poi si tratta di riprendere la vita quotidiana, l'uomo si ritrova se stesso, e Paolo si butta nella nuova missione con lo stesso entusiasmo con cui si era buttato in quella precedente, trasferisce il suo zelo da un campo all'altro e ritorna ad appassionarsi dell'opera come se fosse sua.
Allora il Signore permette un periodo di durissima prova di purificazione perché impari che la conversione non gli ha fatto cambiare oggetto di attività, ma ha formato in lui un altro modo di essere, un altro modo di vedere le cose, che deve macerare lentamente prima di integrarsi nella sua personalità.
Le idee erano chiare, le parole anche; però il modo istintivo di agire ritornava ad essere quello di prima.
Facendo queste reinterpretazioni stiamo forse parlando più di noi che di Paolo. Nel cammino della ricerca di Dio noi desideriamo chiarire sempre meglio le nostre motivazioni, ma sappiamo bene che ciò non va d'accordo con l'immediato cambiamento del nostro modo istintivo e possessivo di collocarci in rapporto alle cose e alle situazioni. Questa possessività si trasferisce dal campo materiale al campo spirituale, dal campo degli interessi economici a quello degli interessi dello spirito e ci ritroviamo sempre un po' noi stessi, sempre bisognosi di purificazione continua, al di là delle parole che diciamo o dei bei concetti che formuliamo.
L'esperienza vissuta da Paolo
Possiamo, a questo punto, chiedere a Paolo: Come hai vissuto questi dieci anni? Che cosa è stata per te questa prova di solitudine e di emarginazione rispetto alla comunità? Che cosa pensavi a Tarso la sera, in riva al fiume,' quando andavi a passeggiare là, solo, e nessuno ti conosceva e riandavi alla via di Damasco? Che cosa sono state le prime prediche a Gerusalemme mentre ti sentivi tanto lontano da quel mondo, e a un certo punto ti veniva quasi l'idea che tutto fosse stato un sogno? Come hai vissuto questa esperienza drammatica?
Paolo ci ricorda innanzi tutto che non è stato il primo a vivere questa esperienza.
Mosé, cacciato dall'Egitto e dimenticato dal suo popolo, molti secoli prima di lui ha vissuto nel deserto una simile esperienza. Anche Elia si è sentito abbandonato da tutti, è fuggito nel deserto, tremendamente solo.
Parlandoci dei suoi sentimenti, Paolo ci può dire che la prima reazione è stata certamente di indignazione, di rivalsa ed anche di risentimento. Perché perdere le forze e la vita per gente che tratta male, per una Chiesa e per dei cosiddetti fratelli che non ne vogliono sapere? È un risentimento che cova dentro, che non lascia in pace e che alla fine - come sempre accade - diventa anche risentimento contro Dio. Perché Cristo mi ha chiamato con tante parole per poi ridurmi a lavorare nella mia bottega di T arso senza prospettive? C'è veramente un disegno di Dio sulla mia vita oppure sono sogni del passato? Che cosa volevano dire quelle parole che mi erano risuonate all'orecchio (le parole che riprenderà nel discorso ad Agrippa: «Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani» - At 26, 16-17)? Il risentimento contro Dio è la difficoltà ad accettare la provvidenza e il modo misterioso e incomprensibile dell'azione divina.
Paolo è passato - possiamo dire con certezza - per questi momenti. Sono momenti attraverso i quali passano i santi. Nessun santo è stato risparmiato da questo travaglio interiore e quindi nemmeno l'Apostolo. Ma dopo l'indignazione e il risentimento, come succede con la grazia di Dio quando la prova viene macerata dentro, emerge la riflessione e nasce una domanda piccola ma capace di squarciare il nero di un cielo che non presenta aperture: «E se ci fosse anche qui una parola provvidenziale di Dio per me? ». Al termine dell'ora media, mi veniva in mente, ascoltando il brano biblico da Giobbe 5, 17-20, che una parola come questa può essere penetrata adagio adagio, quasi come una medicina, nel cuore di Paolo. « Felice l'uomo che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell'Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima non ti toccherà il male; nella carestia ti scamperà dalla morte e in guerra dal colpo della spada ».
Lui che certamente leggeva e rileggeva la Scrittura, viene medicato dalla Parola di Dio che anche qui attua la sua funzione di balsamo, di liberazione e di consolazione.
Riascoltandola, la riflessione diventa illuminazione e Paolo rientra in quella luminosa rivelazione che era stato l'incontro di Damasco. Vi rientra secondo due linee che appaiono dalle sue lettere.
a) Una linea è una riflessione escatologica che svilupperà nella 1 Corinti: «Fratelli, il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno» (1 Cor 7, 29 ss.). Paolo ridimensiona il suo zelo appassionato, accorgendosi che si era legato a progetti immediati, mentre il Regno di Dio è al di là e al di sopra di tutto; che le cose per buone e interessanti che siano, passano, "ma è il Signore che rimane.
b) Una seconda linea è una illuminazione: l'opera è di Dio: è Dio che pone tempi e condizioni.
Si attua: per Paolo una seconda espropriazione di sé. La prima, quando aveva buttato dietro di sé i suoi privilegi di fariseo, di ebreo figlio di ebrei. La seconda espropriazione sta nel dover perdere ciò di cui poteva giustamente vantarsi: apostolo dalla parola facile, dal linguaggio persuasivo, focoso, violento, molto superiore alla timida espressione degli altri di Gerusalemme.
Paolo capisce che tutto questo è importante, ma l'opera è del Signore: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone» (Rm 14, 4). Nelle nostre ipotesi le cose dovevano andare in un certo modo, però è il Signore che ha in mano l'opera: «Che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? » (1 Cor 3, 5). E prosegue: «Siamo ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. lo ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Non c'è differenza tra chi pianta e chi irriga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio» (1 Cor 3, 5-9). Non siete il « mio» campo, il « mio» edificio: è l'edificio di Dio.
Attraverso le esperienze dolorose Paolo giunge alla percezione molto semplice che Dio è il Signore e che il ministro di Dio si prepara liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio.
Nella visione del terzo cielo descritta nella seconda lettera ai Corinti, l'Apostolo comprende cose che non sappiamo perché non le abbia volute descrivere. Certamente riprende coscienza dell'assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio che gli era diventato così vicino nell'apparizione del Cristo da sembrargli suo, mentre in realtà è al di là di ogni capacità umana di parlarne e di disporne.
È a questo punto che giunge a T arso la notizia che è arrivato Barnaba per dire a Paolo che, se vuole, ad Antiochia c'è una comunità giovane che lo desidera. Gli propone di andare con lui per cominciare a lavorare. È il secondo momento dell'attività apostolica. Egli riprende, in forma nuova, ciò che già dieci anni prima aveva iniziato con tanto zelo ma mettendoci dentro non poco di sé. Nel misterioso disegno di Dio, tutto questo aveva dovuto passare per il fuoco purificatore.
Una domanda per noi
Dopo aver cercato di interpretare la vicenda di Paolo nel suo esilio di Tarso, ci facciamo l'ultima domanda: il nostro zelo per chi è?
È difficile rispondere perché lo zelo è fondamentale nell'impegno apostolico; la parola stessa indica qualcosa che divora, che coinvolge. Proprio perché ci coinvolge tanto, corriamo il rischio della possessività.
- Quando ci siamo convertiti nella seconda maniera?
- Ci sono stati, nella nostra vita, momenti nei quali la prima conversione, la prima integrazione tranquilla delle realtà battesimali nella famiglia, nella parrocchia - pur senza indicare una conversione precisa -, è stata rimessa alla prova, magari in un'esperienza nella quale alcuni aspetti della nostra possessività apostolica sono stati vagliati, passati attraverso il setaccio e forse attraverso difficoltà che ei hanno notevolmente colpito?
- A prescindere da quando il Signore ei ha chiamati alla seconda conversione, qual è la qualità del nostro zelo?
Lo zelo autentico è quello che coinvolge profondamente senza mettere in questione noi stessi. Se siamo respinti o se non troviamo lo sbocco che desideriamo, ciò non deve diventare un problema personale che causa depressioni, sconforti e che porta al limite dell'abbandono o al limite della rassegnazione.
Tutto questo avviene, quasi sempre, perché siamo fatti in maniera che non possiamo buttarci in una cosa senza coinvolgerei in essa e non possiamo coinvolgerei storicamente senza che la nostra figura, anche personale e psicologica, vi sia dentro. Non possiamo vivere le vicende in cui l'opera di Dio si manifesta senza sentircene toccati e talora in maniera dolorosa. Ma è proprio lì che la Provvidenza ei attende e non per rimproverarci. Se Paolo è passato tra queste prove noi non siamo migliori di lui. Se lui si è sentito coinvolto nella propria immagine, capiterà anche a noi. Non ei viene detto di non aspettarci questo tempo: piuttosto, ei è detto che è un tempo provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è apparizione di Cristo sulla via di Damasco.
Non ci viene chiesto di essere invulnerabili ma di aprire gli occhi al disegno misericordioso di Dio. Come per Paolo c'è stata una via di misericordia, così anche per noi: in tutte le difficoltà, piccole o grandi, che il nostro coinvolgimento apostolico comporta, c'è una parola misericordiosa di salvezza.
La parola di Giobbe: «Dio ferisce e risana », prova che il Signore ei ama e ei purifica perché vuole fare di noi dei servitori adatti del Vangelo, interiormente liberi.
Chiediamo l'intercessione di Maria. Lei che fin dall'inizio ha vissuto questa libertà ma che ha dovuto integrarla alla sua vita attraverso la sofferenza, domandi al Signore di farei passare attraverso le prove senza che la nostra libertà interiore ne sia condizionata, diminuita, o mortificata. Il Signore ei purifichi e la nostra libertà sia pronta per riprendere ad Antiochia l'esperienza della nuova chiamata di Paolo.


Esame di coscienza pastorale
A questo punto del corso di Esercizi, tutti, più o meno, ci disponiamo per fare la confessione sacramentale. Tenendo conto dell'importanza dell'argomento, riprendo brevemente alcuni punti secondo lo schema che parte da una riflessione sul nuovo « ordo paenitentiae ». È uno schema suddiviso in tre parti:
- «confessio laudis »,
- «confessio vitae »,
- «confessio fìdei ».

- Confessio laudis. Occorre iniziare la confessione con un atto di ringraziamento, rispondendo alla domanda: di che cosa devo ringraziare Dio principalmente in questo tempo?
- Confessio vitae. Si tratta di rispondere alle domande: «Che cosa in me vorrei che non fosse stato davanti a Dio? Che cosa mi pesa maggiormente in questo momento? ». La risposta va estesa dalle mancanze agli atteggiamenti interiori da cui le mancanze derivano: antipatie, risentimenti, sospetti, delusioni, amarezze; cose tutte che forse non costituiscono un peccato vero e proprio ma sono la radice ordinaria dei peccati. Messe con umiltà davanti a Dio e alla Chiesa, ci danno la possibilità di lasciarci medicare dalla grazia.
Confessio fidei. È la certezza che Dio, nel suo amore, mi accoglie e mi risana. L'atto di dolore diventa allora una manifestazione di fede.
La meditazione che ha come titolo « esame di coscienza pastorale », sarà un'ulteriore riflessione su come Paolo ha vissuto i diciannove anni dopo la conversione. Avremo in tal modo materia abbondante per prepararci alla confessione sacramentale.
Signore Gesù, tu sai quanto desideriamo servirti e come ci sentiamo spinti dallo Spirito nell'impegno pastorale. Conosci che spesso, in questo servizio, siamo presi da dubbi, da timori e ci domandiamo se ciò che stiamo facendo è veramente importante, se lo facciamo nel modo migliore. Ti chiediamo, Signore Gesù, pastore supremo del gregge della Chiesa, Vescovo delle nostre anime, di illuminarci perché in ogni cosa imitiamo te pastore, e imitiamo Paolo pastore del tuo gregge.
Medica il nostro cuore da ciò che lo turba e gli impedisce di comprendere le parole dell' Apostolo. Fa' che, dimenticando le nostre pesantezze, possiamo cogliere con animo libero il senso di quelle parole e la verità di amore e di salvezza che racchiudono. Tu vedi che non sappiamo esprimere queste realtà e non sappiamo comprenderle se tu non ci illumini nello spirito, nella mente e nella parola. Lo chiediamo a te, Signore Gesù, che con il Padre e lo Spirito Santo vivi e regni in eterno per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Partiamo dalle prime battute del discorso di Paolo a Mileto. Quel discorso corrisponde un po' a quello che stiamo facendo noi in questi Esercizi. Molto prima di noi l'evangelista Luca, nel libro degli Atti, riferendo le parole di Paolo a Mileto, ha cercato di richiamare i punti che l'Apostolo avrebbe avuto maggiormente a cuore ricordando il suo passato in relazione ad una comunità.
Questo discorso che si chiama anche il « testamento pastorale di Paolo », oppure il « discorso di addio », è un capolavoro insuperato.
Come discorso di addio si colloca nella linea di tanti simili discorsi di addio che la Scrittura ci presenta: il cap. 49 della Genesi con il discorso di addio di Giacobbe ai suoi figli; il Deuteronomio con i discorsi di addio di Mosè; gli ultimi due capitoli di Giosuè, 23 e 24, con il testamento di Giosuè; e così via per Samuele, Davide, Tobia, Mattatia. Gesù stesso, nell'ultima cena (Gv 13-17), fa un lungo discorso di addio che è anche uno sguardo retrospettivo alla sua vita. Il discorso di Paolo si colloca in questa linea.
È interessante notare che il Nuovo Testamento ci dà soltanto due discorsi conclusivi: di Gesù e di Paolo. In tal modo sottolinea l'importanza di queste due figure.

Il testamento di Paolo è impostato, dal punto di vista di analisi logica, sul rapporto io-voi: io mi sono comportato...; voi sapete...; io vado a Gerusalemme...; voi non vedrete più il mio volto...
Un linguaggio come questo non gli è abituale: nel discorso ad Antiochia di Pisidia, il soggetto è sempre Dio, ciò che Dio ha fatto. Per questo, appunto, il discorso di Mileto è un discorso pastorale in cui Paolo riflette sui rapporti fra sé e coloro che per tre anni egli ha guidato nella via di Dio.
È quindi adattissimo per un esame di coscienza pastorale. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.
Con questo spirito cerchiamo di approfondire il discorso. Non potendo medi tarlo tutto, mi limito ad un esempio di analisi del primo versetto e mi servo di un libro molto bello: «Il testamento pastorale di San Paolo », di Jacques Dupont. È un commento ricchissimo di riflessioni su questo testo pastorale fondamentale del Nuovo Testamento.
Il metodo con cui il Dupont procede è molto semplice: prende le singole parole, le soppesa attentamente, lungamente, rimettendole nella luce della storia di Paolo e di tutte le affermazioni simili che si trovano nelle lettere. In questo modo si riesce a cogliere il discorso come sintesi della pastoralità paolina e del suo modo di riferirsi alle comunità.

Il versetto su cui ci soffermeremo: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime» (At 20, 19) sottolinea un atteggiamento pastorale importante per la Chiesa di tutti i tempi.
«Essere con»
Con le parole introduttive del discorso Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo» (v. 18). E lo abbraccia con una formula che rimanda immediatamente il gioco agli uditori. Non ha bisogno di descrivere prima di tutto se stesso; si riferisce all'esperienza che gli altri hanno fatto.
Fin da questa battuta introduttiva, comprendiamo che Paolo si sente uno con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Non deve raccontare niente perché: «Voi sapete, mi avete visto, sono stato con voi ». Il suo ministero si può riassumere con: «è uno che è stato fra la gente », uno che la gente conosce, di cui sa tutto, e può renderne testimonianza.
È un ministero fondato sull'« essere con», sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardavano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità non soltanto delle parole che ha detto, ma di ciò che ha fatto. Non: «voi ricordate ciò che vi ho detto in questi anni... », ma: «voi sapete come mi sono comportato ». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche.
E lui si è comportato servendo.

«Ho servito il Signore»
Il suo modo di essere nella comunità è definito con: « Ho servito il Signore, tra le lacrime, in tutta umiltà ». Servire il Signore è la prima realtà. Paolo si vede, e sa che gli altri lo vedono prima di tutto come un servitore di Cristo e non come un servitore della comunità. Questa qualifica caratterizza il suo attaccamento a Cristo e la sua libertà verso la comunità. Talora, noi parliamo del ministero come un « servizio» e lo intendiamo come un « servire la Chiesa », la diocesi, la gente. Il Nuovo Testamento parla di servizio e di servo in rapporto a Cristo Gesù. È vero che in qualche occasione Paolo dice: «Sono servo vostro per Cristo» (Gal 5, 13), ma ordinariamente è « servitore di Cristo».
Quindi il pastore deve vivere primariamente a servizio della persona di Cristo. Soltanto così può servire la Chiesa, la gente, il popolo.
Stupenda questa libertà che Paolo vive: non deve niente a nessuno se non a Cristo; e attraverso lui, poi, a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo e la comunità sa benissimo che lui non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.

«Tra le lacrime»
Se avessimo dovuto completare noi la frase, avremmo aggiunto: con zelo, con fervore, con intelligenza, con coraggio, con competenza, con perseveranza.
La sua esperienza gliene fa dire altre: «tra le lacrime, con tutta umiltà». Rimaniamo stupiti davanti ad una sottolineatura che appare negativa e ce ne chiediamo il perché.
Indubbiamente c'è da considerare che è un discorso di addio. Ed è un addio che non lo porta verso una nuova missione importante. Ciò che lo attende è chiaramente la persecuzione e le sofferenze. È un saluto pieno di nostalgia e che giustamente fa emergere elementi di sofferenze già vissute e che preludono a quelle future.
Al di là di questo bisogna però dire che, se emergono l'umiltà e le lacrime come modo di servire il Signore, vuol dire che questa era l'esperienza di Paolo, che nella sua vita risaltavano umiltà, lacrime, prove, insidie, difficoltà.
Si presenta come si sente: l'Apostolo mentirebbe, in questo caso, se sottolineasse elementi che non gli sono così presenti al cuore e allo spirito.
Proviamo a pensare attentamente alla sua azione apostolica ad Efeso, per meglio capire il senso della sua umiltà e delle lacrime. Di lacrime parla molte altre volte: è un tema che ricorre sia nel discorso di Mileto, che nelle lettere. Ritorna nel testo degli Atti: « Vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (v. 31). Sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente di convincere qualcuno.
Dalle lettere possiamo citare: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime» (2 Cor 2, 4). È un'esperienza-limite quella delle lacrime, per Paolo. Non sembra che fosse un uomo facile al pianto, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni che scoppiava in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.

Tutto questo fa vedere l'intensità emotiva con cui Paolo viveva la sua missione pastorale. Esattamente l'opposto del funzionario, del burocrate, del programmatore intelligente.
Paolo è un uomo di intensissima partecipazione emotiva, che ha evidentemente riscontro nelle profondissime gioie. Proprio perché partecipava cosi emotivamente alle sofferenze del suo ministero poteva avere delle gioie e degli entusiasmi grandiosi di cui parla ancora più spesso nelle sue lettere.
Scriveva: «Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio? » (1 Ts 3, 9). Le intense sofferenze sono compensate da gioie profondissime, da entusiasmi straordinari: «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Sono cosi contento di voi che le sofferenze non le sento più se penso alla vostra corrispondenza, al vostro affetto e alla vostra fede. Tutti sappiamo cosa significano queste esperienze: chi ama molto, soffre molto, gode molto; chi ama poco, soffre meno e gioisce meno.

L'immagine del pastore che Paolo ci dà, in queste prime battute, è di un uomo profondamente, affettivamente, emotivamente coinvolto in ciò che fa. Ama moltissimo la gente e non con un amore generico: ha presente i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti, uno per uno sono fonte di amarezza, di tristezza, di lacrime oppure di gioia intensa.
Ecco il senso del suo aver servito il Signore tra le lacrime.

«Con tutta umiltà»
Anche qui vogliamo capire come mai tra le mille altre qualifiche del suo ministero Paolo sceglie questa, sottolineandola come fondamentale atteggiamento pastorale.
Il termine greco con cui si esprime può essere inteso « in ogni genere di umiliazione », con riferimento non all'atteggiamento ma alle situazioni. Cosi va inteso nel Magnificat là dove Maria dice: «Il Signore ha guardato all'umiltà della sua serva ». Indica l'insignificanza, l'abiezione, la piccolezza, il non contare nulla, e non la virtù dell'umiltà. Ma mentre nel Magnificat il vocabolo greco è esattamente «tapéinosis », qui è « tapeinofrosune »: sentimento di umiltà. Paolo qui si riferisce all'atteggiamento di umiltà con cui ha servito il Signore nell'attività pastorale. Umiltà è una parola che ripetiamo mille volte, ma di cui non è sempre facile cogliere tutte le implicazioni che ha per l'Apostolo.
In senso generale si potrebbe dire che l'umiltà è l'opposto di ciò che è detto nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ». I superbi sono quelli che credono di essere qualcuno, che hanno di sé un concetto così alto da fame quasi una ragione di vita, per cui gli altri devono piegarsi al loro servizio, e neppure vanno ringraziati perché fanno ciò che è dovuto. È l'atteggiamento che Paolo stigmatizza altre volte nelle sue lettere. Ad esempio scrivendo ai Romani: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12, 16). L'atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude.
È importante riflettere su questo atteggiamento di non-sapere: esso è utile sempre, ma è indispensabile soprattutto nel rapporto con Dio. Infatti « noi non sappiamo neanche pregare, non sappiamo neanche cosa chiedere» (cf. Rm 8, 26).
Spesso non riusciamo a pregare bene perché incominciamo con la presunzione di saper pregare, mentre dovremmo partire sempre confessando: «Signore, non so pregare; so di non sapere pregare ». Già questa è preghiera, perché fa posto allo Spirito che dobbiamo chiedere.
L'umiltà come atteggiamento che qualifica l'attività pastorale di Paolo si può descrivere secondo tre aspetti:

- aspetto sociale: un modo di comportarsi;
- aspetto personale: una certa coscienza di sé;
- aspetto teologale: un certo rapporto verso Dio.

a) L'aspetto sociale è da una parte assenza di pretese e, dall'altra, attenzione agli altri. «Ho cercato di essere tra voi senza pretese, non pretendendo per me niente di speciale, ma stando molto attento a ciascuno di voi », direbbe Paolo.
Si descrive così anche nella prima lettera ai Tessalonicesi, dando uno sguardo retrospettivo al suo rapporto con la comunità: «Come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2, 4-8).
L'umiltà è socievolezza senza pretese, colma di affetto, di attenzione, amorevolezza, prevenienza. Paolo sente che, per grazia di Dio, è stato così e che il suo modo di essere è modello per ogni pastore. L'umiltà come virtù sociale comporta anche distinzione, correttezza, un certo riserbo, un'educazione profonda, finezza sacerdotale che conquista il cuore, perché non è espressione semplicemente di un'affettazione esteriore. Niente commuove di più le persone che sanno di contare poco nella società, che il vedersi trattate con estremo rispetto e con grande valorizzazione di ciò che sono. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati, e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati. Come doveva sconvolgerli il metodo apostolico di Paolo!

b) L'aspetto personale è un giudizio di valore semplice dato su di sé. Paolo ritorna diverse volte su questa capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere.
Nella prima lettera ai Corinti parla della apparizione di Gesù a lui: «Ultimo fra tutti apparve anche a me. lo sono l'infimo degli apostoli, non sono degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8-9). Lo dice con verità e con sincerità: non è affettazione, è chiarezza di giudizio su di sé.
E questo giudizio, è una maniera di comportamento che ha acquisito attraverso la scuola della vita, che gli ha fatto conoscere la sua fragilità e povertà. Ha imparato a pensare di sé in maniera umile, distaccata, tranquilla, senza colpevolizzarsi, con pace.
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, aldilà delle nostre forze, si da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 8-9). Ci stupisce un apostolo che parla di sé in quèsto modo, a rischio quasi di scandalizzare.
L'umiltà personale, venendo da una storia vissuta, difficilmente può averla un giovane. Magari avrà meditato queste cose, ma non potrà sentirle come naturali, perché non è passato per quella scuola di prove e di esperienza della propria debolezza che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione.
È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Se Paolo di fronte alle tribolazioni che gli sono venute in Asia si fosse messo ad imprecare contro tutto e tutti, invece di riconoscere la propria debolezza e fragilità, non avrebbe tratto alcun profitto dalla prova. Invece si è formato come vero pastore perché ha saputo accogliere dal dolore quella umiltà vissuta, che poi espresse nella sua vita.

c) Aspetto teologale. Paolo si esprime cosi perché vive profondamente la sua verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non l'abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto? » (1 Cor 4, 7). Al fondo dell'atteggiamento di umiltà, che è uno dei segreti della sua capacità di conquistare la gente, stava un senso profondo di Dio 'creatore, padrone, signore, misericordioso, datore di ogni bene. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. La stessa Parola è Parola di Dio, non di Paolo: a lui è stata data nella misura del dono di Cristo. Lo stesso zelo apostolico non è di Paolo, ma gli è stato dato da Cristo che vive in lui.
Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, una trasparenza cristologica, di Cristo come lui l'ha conosciuto e capito, di Cristo Servo di Jahvè, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra, ma che ha scelto di essere servo di tutti.
L'umiltà di Paolo è quella di Cristo che egli ha recepito e che esprime lasciandolo vivere in sé.
Per questo egli può presentarla come l'atteggiamento fondamentale di chi serve il Signore, così come il Signore ha servito. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo sceglie la sua stessa via esercitando l'autorità con l'umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.
Questa è certamente una delle caratteristiche che distinguono radicalmente il potere pastorale da quello politico. Il potere pastorale è fondato sulla mitezza di Cristo e proprio per questo può assumere, come in Paolo, anche atteggiamenti duri, taglienti, risoluti, basati non sulla pretesa di difendere la propria personalità ma sulla mitezza e l'umiltà di Cristo che sa prendere posizione di fronte alla vita.
Ciascuno di noi deve meditare profondamente, con la coscienza che siamo molto lontani da questo ideale. Istintivamente il personalismo interviene tutte le volte che è in gioco il potere e noi siamo continuamente tentati di inserire nel servizio del Signore il nostro prestigio personale.
Abbiamo bisogno di essere purificati sull'esempio dell'Apostolo e soprattutto di essere purificati dalla forza di Cristo in noi.

Chiediamo per intercessione di Maria, di cui Dio ha guardato l'umiltà, di saper seguire Cristo come Paolo lo ha saputo seguire, con la coscienza che è un compito arduo e che siamo lontani da questa meta.
Con la grazia di Dio cerchiamo di metterci di fronte ad essa, di riconoscere le nostre mancanze, di chiedere che la potenza di Cristo, che vive in noi, ci renda simili a lui.


Conversione e rottura
Rifletteremo sopra un altro episodio fortemente drammatico e oscuro della vita di Paolo: la rottura con Barnaba.
Negli ultimi istanti della sua vita Paolo, ripensando ai momenti che più l'hanno scosso, non avrà dato probabilmente molto peso alla prigionia, alle percosse, ai naufragi, ai trentatré colpi di flagello, insomma alla lista della 2 Cor, 11. Niente pare l'abbia segnato più di questo evento.
Paolo non ne parla mai nelle sue lettere. Questo episodio difficile anche per la nostra interpretazione fa parte di quelle oscurità dell'esistenza attraverso le quali l'uomo di Dio passa, si raffina e si purifica.

Chiediamo al Signore, nella preghiera, di aprirci gli occhi del cuore per capire il significato di questi eventi oscuri nella vita della Chiesa primitiva, nella vita della Chiesa di tutti i tempi e della nostra vita.
Signore Gesù, tu sai che noi passiamo per tanti eventi difficili a capirsi ed incontriamo intorno a noi, nella storia della Chiesa e dei tuoi Santi, tanti avvenimenti di cui non comprendiamo bene il senso. Signore, non ti chiediamo di capire, vorremmo invece saper amare di più, vorremmo trarre da ciò che possiamo comprendere la capacità di amare, perché noi siamo certi che niente ci può separare dal tuo amore, niente ci può separare dalla forza dello Spirito diffusa nei nostri cuori.
Che la forza dello Spirito sia ora presente in noi mentre leggiamo la Scrittura.
Concedici, o Maria, Madre del Signore, che se non sappiamo capire, sappiamo almeno amare. E tutto questo chiediamo a Dio Padre, fonte dell'amore e della luce, che vince ogni oscurità per mezzo di Cristo luce del mondo, nello Spirito fuoco che illumina la nostra notte, per Cristo nostro Signore. Amen.

Procederemo domandandoci:
- prima di tutto chi era Barnaba;
- poi chi era Barnaba per Paolo;
- che cosa è successo;
- con quali conseguenze;
- come Paolo ha vissuto questa lacerazione traumatica.

Chi era Barnaba
Uno dei giganti della Chiesa primitiva, uno dei primissimi che aveva preso sul serio il Vangelo. Non aveva probabilmente conosciuto il Signore, ma era tanto meritevole che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, che erano stati col Signore, gli avevano dato fiducia.
È uno dei primi a credere alla parola degli apostoli, uno dei primi che si butta, il primo che vende tutto. Ci viene presentato negli Atti: «Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa" figlio dell'esortazione", un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4, 36). In un momento in cui la comunità ancora non significava quasi niente, era un gruppo sparuto di uomini, che potevano apparire fanatici, lui ha creduto, si è sbarazzato di tutto e si è messo totalmente dalla parte degli apostoli e di Cristo. Per questo è chiamato «figlio dell'esortazione, figlio della consolazione ».
Come personalità, Barnaba, era un uomo ricco di sapienza, di ottimismo, irradiava fiducia, e volentieri gli altri camminavano con lui e facevano affidamento su di lui.

Infatti lo vediamo adoperato in missioni di somma importanza. Ritorna il suo nome nel cap. 11 degli Atti: quando si tratta di verificare quello che sta succedendo ad Antiochia, da Gerusalemme inviano Barnaba. Barnaba va ad Antiochia e « quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore» (At 11, 23-24).
Barnaba è l'uomo che ha saputo riconoscere l'autenticità del cristianesimo di Antiochia da cui è nato tutto il cristianesimo dell'occidente greco e dell'Asia Minore.
Senza di lui la Chiesa sarebbe rimasta ancora chissà quanto tempo prigioniera delle pastoie giudeo-cristiane di Gerusalemme. Barnaba ha una intuizione profonda, è libero da pregiudizi, da paure, e capisce che ad Antiochia sta operando lo Spirito. È capace anche di mediare: di rassicurare Gerusalemme e di incoraggiare Antiochia, evitando le rotture. Uomo, perciò, prezioso per la primitiva cristianità.

Chi è stato Barnaba per Paolo
È stato d'importanza fondamentale: dopo Anania è l'uomo a cui Paolo deve di più. Anzi ad Anania deve il primo ingresso, la prima accoglienza, ma poi tutto il resto lo deve a Barnaba. Egli è stato per Paolo colui che l'ha cercato (l'abbiamo accennato parlando del periodo doloroso di Tarso), l'ha capito, l'ha sostenuto. È stato l'amico, il padre spirituale, il maestro di apostolato, quello che l'ha introdotto nell'esperienza apostolica.
Vediamo qualche testo. Dopo essere fuggito da Damasco, Saulo va a Gerusalemme: «Cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo» (At 9, 26). Le diffidenze che c'erano state tra Gerusalemme ed Antiochia, ci sono ora, a Gerusalemme, verso questo nuovo arrivato che non si sa bene cosa voglia.
Il testo continua: «Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (At 9, 27).
È molto bello poter commentare questo testo parola per parola. «Barnaba lo prese con sé »: il verbo greco è « epilabòmenos », lo stesso che viene usato per Gesù che prende per mano Pietro che sta per affondare nel lago durante la tempesta (cf. Mt 14, 31). L'immagine che possiamo avere davanti è quella di Paolo smarrito a Gerusalemme: tutti gli chiudono la porta in faccia, non ha neanche dove dormire, e Barnaba va, gli tende la mano e gli dice: «Vieni con me, ti accompagno, ti presento io ».
Per Paolo, attraverso Barnaba, le porte si riaprono. Dicono gli Atti: «Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme parlando apertamente nel nome del Signore» (At 9, 28).

Anche in seguito, quando si tratta della comunità di Antiochia, Barnaba è il primo dei profeti: «C'erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaen, compagno di infanzia di Erode tetrarca, e Saulo » (At 13, 1). Dunque la gente di Antiochia riconosce i profeti, ma il primo è Barnaba e Saulo è l'ultimo venuto, e sappiamo come: «Barnaba poi partì alla volta di T arso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia; Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani » (At 11, 25-26).
Dietro a questo versetto c'è l'immagine di una meravigliosa collaborazione tra Barnaba e Paolo: Barnaba è il primo dei profeti, Paolo è l'ultimo venuto, ma Barnaba lo sa valorizzare e lo introduce in una attività che diventa la più fruttuosa di tutta la Chiesa antica, quella da cui nasce una cristianità, che si impone talmente che il nome di cristiani deriva da lì. È la comunità che ha cominciato veramente a farsi notare nella storia.
Barnaba è stato tutto questo per Paolo.

Barnaba è anche il primo scelto dallo Spirito per la missione. È descritto l'inizio della missione che poi diventerà la grande missione ai pagani: «Mentre essi - questi profeti - stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati» (At 13, 2). Barnaba è il primo e Saulo è l'aggiunto. Barnaba è il capo della nuova spedizione; descrivendola, l'autore menziona per primo sempre Barnaba. L'ordine non è mai indifferente: Barnaba è colui che viene riconosciuto ufficialmente capo della missione: al v. 7 dice che arrivarono dal proconsole, persona di senno, « che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio ».
Ed ecco che, molto rapidamente, in questa missione la personalità di Paolo comincia ad emergere. Pochi versetti dopo, noi vediamo che l'attore principale della situazione in cui il mago Elìmas viene accecato è Saulo: «Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia» (At 13, 9); e più avanti: «Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia» (13, 13). Barnaba è già ridotto al rango di « compagno ».
Possiamo qui cogliere lentamente il cambiamento psicologico che è avvenuto e la mutazione di ruoli in questa primitiva spedizione.

E purtroppo, proprio poco dopo, quando la mutazione di ruoli è ormai quasi codificata - il primo discorso di missione del cap. 13 degli Atti è attribuito a Paolo e non a Barnaba: «Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: Uomini di Israele... » (At 13, 16) - accade che. Giovanni-Marco se ne va e la spedizione si restringe di numero.
Durante tutta la prima missione noi assistiamo ad una alternanza di primato tra Barnaba e Paolo.
Nell'episodio di Listra, quando i pagani vedono la guarigione dell'uomo paralizzato e scambiano i due missionari per esseri divini, il testo dice: «Chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes » (At 14, 12). In questo caso Barnaba era l'anziano, l'uomo dalla lunga barba che si imponeva come figura di vecchio, Paolo era l'uomo attivo, intraprendente, che sapeva parlare. Quindi i ruoli erano divisi e la gente oscillava nel riconoscere l'uno o l'altro come principale: «Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: Cittadini, perché fate questo? » (At 14, 14-15). Barnaba torna ad essere primo nell'ordine.

Poco dopo, nasce un'opposizione radicale alla loro missione ed è Paolo - come dice il testo - ad essere preso a sassate e trascinato fuori dalla città. È chiaro che pur essendo ancora un po' incerta la designazione di chi era il capo reale della missione, gradualmente Paolo prende importanza di fronte agli occhi della gente. La missione termina senza rotture, a parte l'incidente dell'allontanamento di Marco che lascia amareggiati i due missionari, ma non causa, per il momento, difficoltà.
Il capitolo seguente, il 15 degli Atti, mostra Paolo e Barnaba in strettissima collaborazione, ormai però sempre nell'ordine, prima Paolo e poi Barnaba. I due sono pienamente d'accordo, agiscono con piena concertazione e condivisione di scopi là dove si tratta di resistere all'ingiunzione dei giudaizzanti di circoncidere i pagani convertiti. Tutto il cap. 15 è presentato ancora sotto il segno di una precisa collaborazione fra i due.

Che cosa è accaduto
Verso la fine del capitolo 15 viene presentato il dramma della rottura.
C'è stato il Concilio di Gerusalemme. La lettera è stata consegnata a Paolo, a Barnaba e ad altri due fratelli, Giuda-Barsabba e Sila, perché la portassero ad Antiochia. Scendono ad Antiochia, rimangono là ad insegnare, ad annunciare la Parola di Dio e poi Paolo decide di riprendere la missione. Leggiamo il testo:
« Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: "Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la Parola del Signore, per vedere come stanno" » (At 15, 36). Non è più la comunità che manda Barnaba e Saulo, ma è Paolo che si sente responsabile di tutta l'attività dell'Asia Minore e vuole rivisitare i fratelli. « Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l'uno dall'altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s'imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore» (At 15, 37-40).

Che cosa è successo? Dal punto di vista immediato il racconto è evidente: un dissenso su un collaboratore. Per Barnaba andava bene, per Paolo no. Si aggiungeva il fatto imbarazzante che Barnaba era cugino di Giovanni-Marco, e probabilmente difende anche un po' se stesso, l'immagine di famiglia.
Paolo si irrigidisce su una questione di principio: « Il dissenso fu tale che si separarono» (At 15, 39). Discutono forse per parecchi giorni, forse la comunità cerca di riconciliarli, di convincerli; ma la discussione raggiunge un punto tale di tensione che pare davvero meglio che ciascuno se ne vada per conto proprio. Questo culmine è indicato nel greco con la parola « paraxusmòs », «parossismo », anche se, in altri casi, ha un significato più blando, cioè provocazione o stimolo.
Ma in At 17, 16 questo termine viene usato per dire che Paolo fremeva Bel suo spirito, al vedere la città piena di idoli. Possiamo immaginare come fosse il fremito di Paolo e a quale incandescenza fosse giunta la discussione con Barnaba.
C'è anche un altro uso del verbo, là dove Paolo, nella prima lettera ai Corinti, descrive le qualità della carità: la carità « ou paroxunetai » (1 Cor 13, 5), non si adira, non giunge a questi eccessi di irritazione.
È interessante pensare che forse Paolo fa qui un giudizio su se stesso perché lui stesso è arrivato a quell'eccesso e non era stato capace di frenarsi nella discussione con Barnaba.

È naturale chiederci se un punto di vista diverso a proposito di un collaboratore possa giustificare una rottura così drammatica; o se in realtà sia stato solo un pretesto. Non c'era dietro qualcosa di più? Non ci poteva essere, dal punto di vista psicologico, quel crescente imbarazzo su chi doveva essere il capo missione tra Paolo e Barnaba? Barnaba era l'uomo di grande autorità, che fin dai tempi di Gerusalemme era noto a tutta la Chiesa. Come poteva lasciare il posto a un uomo nuovo, che ancora molti non conoscevano, che a Gerusalemme era inviso, e per questo avrebbe magari screditato la figura della missione? Oppure motivi psicologici più profondi: Barnaba era a disagio nell'avere da una parte la responsabilità e accorgersi, d'altra parte, che in fondo era Paolo a prendere le decisioni. Paolo dal canto suo aveva l'imbarazzo opposto. Non possiamo sapere quanto questi elementi abbiano giocato nella decisione finale.
C'è un altro fatto: Paolo stava tirando la corda per la rottura con i giudaizzanti e Barnaba invece era l'uomo delle grandi amicizie con la Chiesa giudeo-cristiana e vedeva più opportuno non tirare troppo la corda, perché le conseguenze sarebbero state gravi. Barnaba già intravedeva la spaccatura con la Chiesa giudeocristiana, che poi è avvenuta, e avrebbe voluto a tutti i costi evitarla. Anche Paolo diceva a parole di volerla evitare, ma in realtà agiva in maniera da irritare ed esasperare gli avversari.
Pensiamo ancora al fatto di Pietro ad Antiochia: Paolo scriverà che Barnaba si è lasciato attirare dalla ipocrisia dei Giudei (cf. Gal 2, 11-14).
Ci è impossibile storicamente determinare cosa sia stato. Tuttavia, dobbiamo concludere che quella lacerazione è stata molto dolorosa e drammatica per entrambi.

Con quali conseguenze?
Una conseguenza paradossale, dal punto di vista dell'incontro tra le persone. Paolo che aveva goduto della fiducia di Barnaba e, grazie a questa fiducia, si era salvato ed era stato rimesso in circolazione, non riesce a dare fiducia a Barnaba per Marco.
La sofferenza di Barnaba è assai dolorosa: si sente respinto forse anche come amico, non per una volontà cattiva di Paolo, ma come conseguenza delle cose che stavano accadendo.
Barnaba, dopo questo episodio, scompare. Un gigante della Chiesa primitiva, ad un certo punto, non lascia quasi più traccia di sé. Lo ricorda ancora Paolo come una persona che si conosceva e che aveva buona reputazione (cf. 1 Cor 9,6), e un'altra volta, in modo indiretto che sembra riparatorio: «Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni; se verrà da voi, fategli buona accoglienza» (Col 4, lO). Paolo si è riconciliato con Marco e, menzionandolo come cugino di Barnaba, pare voler dire: «quello che io non avevo accolto un tempo ».
Al di fuori di questi brevissimi ricordi, di Barnaba sappiamo solo quel poco che ci dice la tradizione. Rinchiusosi a Cipro, non ha più fatto grandi viaggi missionari, ma, ritornato in patria, vi è rimasto. Tutta la sua enorme capacità si è ridotta entro un limite ristretto.

Un testo su S. Paolo sempre classico, anche se di qualche anno fa, è quello dello Hollzner: «L'Apostolo Paolo ». L'autore riflette sui fatti narrati e dice: «Guardando le cose da un punto di vista umano forse l'atteggiamento di Barnaba ci potrebbe apparire il più simpatico, mentre Paolo avrebbe giudicato con troppa severità il giovane Marco. Anche di fronte a Barnaba egli ci può apparire duro e quasi ingiusto: doveva pur nutrire verso di lui della riconoscenza per il suo intervento che lo aveva tratto dall'ombra ». E più avanti: «Il suo spirito doveva progredire di conoscenza in conoscenza, passo passo e così la sua totale immedesimazione col Cristo avveniva per gradi successivi ». E qui cita un altro autore tedesco che scrisse una vita di Paolo e che commenta così: «Non pervenne Paolo sempre a rendersi padrone del tempestoso palpito del suo cuore; riuscì a uno soltanto di camminare sulla terra senza raccogliere nemmeno un granello della sua polvere, a colui che non aveva nessun peccaminoso legame di natura con Adamo ». Poi conclude: «È sempre cosa dolorosa lo spezzarsi di una antica e santa amicizia e quanto più profondo era il vincolo tanto più riesce doloroso il distacco ». « Quante volte avrà rievocato il tempo in cui Barnaba era il solo che credeva in lui, mentre tutti ne diffidavano, specialmente il giorno indimenticabile nel quale egli si era portato a Tarso per cercarlo, e quella notte quando a Listra, Barnaba, con l'animo pieno di angoscia si era chinato piangente sull'amico che credeva morto. Non si lacerano simili legami senza che il cuore ne sanguini».
Chi aveva ragione? Il tempo ha dato ragione a Barnaba; tuttavia gli eventi si sono svolti così e, da un certo punto, ciascuno ha dovuto adattarsi alla nuova situazione.
Potremmo fare ancora una riflessione e dire cosa sarebbe stato per la Chiesa primitiva se i due non si fossero separati. Forse Barnaba avrebbe operato da mediatore e da moderatore e le Chiese giudeo-cristiane non sarebbero giunte alla rottura a cui giunsero. È difficile fare delle ipotesi su ciò che non è avvenuto. Tuttavia è probabile che, in seguito, Paolo abbia più volte rimpianto la capacità mediatrice, l'affabilità, il senso della misura di Barnaba, che in parecchie situazioni avrebbe contribuito a chiarire le cose. Eppure l'Apostolo ha dovuto camminare per questa via, in fondo senza aver nulla da rimproverarsi, oppure ben poco, perché era venuta fuori un'esasperazione senza che nessuno capisse bene cosa stesse accadendo.
Negli anni successivi Paolo imparerà a convivere con queste difficoltà e con questi problemi.

Come Paolo ha vissuto la rottura
Paolo ha vissuto questa rottura certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine. E anche questo evento gli ha fatto approfondire sempre meglio l'intuizione fondamentale della prima visione di Damasco. Il Signore è il solo amico perfetto, di sempre, il solo fedele, il solo che capisce .fino in fondo, che non ci abbandona mai.
Comprendendo l'animo affettuoso e vulcanico di Paolo, possiamo intuire come si sia chiarito in lui quell'amore personale per Cristo, amato fino in fondo, in maniera tenerissima, ardente, che lo caratterizzerà sempre più. Ancora oggi leggiamo con stupore le frasi meravigliose delle sue lettere che non possono essere nate se non da un travaglio di sofferenza, dall'aver capito che il Signore è davvero tutto. Lui ci ha fatto e ci conosce fino in fondo; le amicizie umane, per belle e grandi che siano, impallidiscono di fronte alla forza della « conoscenza di Cristo nostro Signore» .
«Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3, 8-11). « Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Cristo è divenuto l'inseparabile e per questo potrà scrivere nella lettera ai Romani: «Chi ci separerà dall'amore di Cristo? » (Rm 8, 35). Di fronte a qualunque possibile infedeltà egli mi amerà ancora e mi chiamerà a sé.

Attraverso vicende diverse, non tutte chiare e limpide come noi vorremmo, Paolo gradualmente viene condotto dalla misericordia di Dio a concentrare sempre di più la sua attenzione dall'impresa apostolica come impresa sua, verso l'impresa apostolica come impresa di Dio, dal Regno di Dio verso il Re Gesù Signore.
Matura in lui l'identificazione del Regno di Cristo con Cristo stesso: era stato il faticoso cammino che Gesù aveva fatto seguire agli apostoli durante tutta la sua vita e che ci è presentato, in particolare, dal Vangelo di Marco. Nella prima parte, Gesù è il grande guaritore, il taumaturgo, l'uomo la cui opera entusiasma. Nella seconda parte si rivela il mistero messianico: Gesù stesso è il Regno, Gesù nella sua morte e nella sua risurrezione è la pienezza del Regno.

Paolo ha capito che l'essenziale per lui è Cristo: tutto il resto che egli fa, opera, predica con tutto l'entusiasmo di cui è capace non è se non Cristo che vive in lui. La sua inseparabilità da Cristo è la radice di tutto.
Egli è colui nel quale ogni altra amicizia acquista senso, significato, bellezza. L'Apostolo ritornerà spesso sul tema dell'amicizia con i suoi, con la comunità, con i collaboratori, perché certamente sapeva anche collaborare, pur avendo momenti così difficili. Ma ritroverà sempre meglio questa bontà profonda a partire dall'esperienza che non delude: l'amicizia piena col Cristo che è la sua vita.
Chiediamo anche noi che, attraverso le vicende del cammino apostolico, la nostra esperienza pastorale ci si chiarisca sempre più come dipendente dall'amicizia con Cristo nostra vita.


La trasfigurazione di Paolo
Partendo dall'episodio storico della sofferenza nella vita di Paolo, riflettiamo sulla trasfigurazione a cui l'ha portato l'interiore purificazione, per meditare poi sulla trasfigurazione del pastore.
Come grazia di questa meditazione chiediamo di potere, attraverso la conoscenza dell' Apostolo, giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi.
Ti ringraziamo, Padre, per il dono di gloria luminosa, affascinante, che hai posto sul volto del tuo Figlio Risorto. Questa gloria l'hai mostrata alla tua Chiesa, nel tuo servo Paolo, come l'avevi mostrata interiormente a Maria, Madre di Gesù, a Pietro e agli Apostoli.
Ti ringraziamo perché continui a mostrare questa gloria nella storia della Chiesa attraverso i santi. Ti ringraziamo per i santi che abbiamo conosciuto, per tutti coloro i cui scritti, le cui parole ci edificano, per tutti coloro la cui vita ci è di sostegno. Manifesta la gloria del volto di Cristo anche a noi, perché qualcosa di quello splendore risplenda in noi stessi e, interiormente trasformati, possiamo conoscere il tuo Figlio Gesù e farlo conoscere come sorgente di trasformazione della vita di ogni uomo. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.

Quanto abbiamo detto della sofferenza di Paolo per la rottura con Barnaba può essere esteso ad altri conflitti, che hanno segnato la vita di quest'uomo straordinario: i conflitti con le comunità, soprattutto quelli a cui fanno riferimento la seconda lettera ai Corinti e la lettera ai Galati. In esse Paolo ei appare chiaramente in contrasto con certi modi di agire e in situazioni di tensione, di dolore, di solitudine. Emblematico è il conflitto con Pietro ad Antiochia, in cui Paolo si trova in una situazione estremamente imbarazzante e difficile.
Innanzitutto ciò che dobbiamo ricavare da queste considerazioni è che non ei si deve stupire di queste cose: nella storia della Chiesa questi conflitti nascono. Le difficoltà di collaborazione tra preti, le difficoltà di collaborazione tra parroco e coadiutore sono di origine apostolica, cioè le troviamo già nel Nuovo Testamento.
È una realtà sulla quale dobbiamo, come Paolo, continuamente riflettere per purificarci e per trovarne la soluzione in un approfondimento delle cose e non in una semplice rassegnazione. Non stupirei, ma crescere nella comprensione di noi stessi e degli altri. Se nella vita di Paolo sono entrati, in qualche momento, dei personalismi, quanto più in noi. Bisogna sapersi conoscere, sapere comprendere come nei conflitti che viviamo non sempre è in gioco soltanto l'onore e la gloria di Dio, ma qualche volta anche la nostra personalità. Bisogna saper crescere nella misericordia che è l'atteggiamento con cui Dio considera la storia e le realtà umane.
Cosa si intende per trasfigurazione
Diamo alla meditazione il titolo di « trasfigurazione » perché il punto di riferimento è la Trasfigurazione di Cristo: «Mentre pregava, il suo volto cambiò di aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9, 29). È interessante osservare che il verbo usato qui è lo stesso che Luca userà nel descrivere la luce nella quale Paolo entra nel momento dell'apparizione di Damasco: anche Paolo vive il riflesso del Cristo trasfigurato.
Per descrivere la stessa scena il Vangelo di Marco parla di trasformazione: «Si trasformò, si trasfigurò» (cf. Mc 9, 2 ss). Il verbo greco è: «metamorfòthe: si trasformò», tradotto « si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime ». Questo verbo è il medesimo che Paolo usa nella lettera scritta ai Corinti per descrivere il processo di trasformazione che lui - e ogni apostolo e pastore dietro di lui ~ esperimentano, riflettendo la gloria di Cristo: «Noi tutti - è chiaro che esprime una sua esperienza che poi vuole condividere con noi - a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). È la descrizione di quanto stiamo considerando: Paolo investito della gloria del Signore a Damasco, si trasforma. Ma il verbo è al presente per indicare una azione di continua trasformazione, di gloria in gloria, per la forza dello Spirito di Dio. Si trasforma ad immagine di Gesù, acquista la luminosità di Cristo.
Non dimentichiamo che la festa e l'episodio della Trasfigurazione è ampiamente usato nella liturgia della Chiesa greca per indicare ciò che avviene nel cristiano attraverso l'integrazione progressiva che egli fa dei doni battesimali e, per noi, della grazia dell'Ordinazione.
Parlando di «trasfigurazione» di Paolo voglio riferirmi al crescendo di luminosità e di trasparenza che avviene in lui lungo il suo cammino pastorale e che si riflette in maniera inimitabile nelle grandi lettere.
Leggendole siamo affascinati dalla chiarezza e dallo splendore della sua anima e dopo duemila anni sentiamo che dietro alle parole scritte c'è una persona viva, ricca, palpitante e illuminante.
Il suo aspetto trasfigurato attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata.
Anche il pastore, come Paolo, è chiamato a diventare, attraverso l'esperienza, le sofferenze, le fatiche, i doni di Dio, luminoso e trasparente.
Nelle sue parole e nella sua azione la gente deve trovare quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza, che è indescrivibile ma che si percepisce senza alcun ragionamento.
Ciascuno di noi ha avuto modo, per grazia di Dio, di conoscere preti che sono stati così nella loro vita: irradiavano ciò che Paolo lascia trasparire abbondantemente da tutto il suo modo di parlare e di esprimersi.
Vediamo di descriverlo analiticamente perché possa essere specchio ideale del pastore su cui confrontarci. - Quali sono le caratteristiche della luminosità di Paolo?
Possiamo ricavarle da tre atteggiamenti interiori tipici di questa trasfigurazione e da due più esteriori. - Come raggiungere e mantenere in noi qualcosa di simile a questa trasfigurazione, che è dono di Dio anche per noi?
Gli atteggiamenti interiori della trasfigurazione
a) Il primo atteggiamento, che troviamo in tutte le lettere, anche le più conflittuali, è una grande gioia interiore e pace: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Paolo mette chiaramente insieme le sue moltissime tribolazioni con la gioia, anzi con una gioia sovrabbondante. Che non sia forzata o idealistica lo ricaviamo dalle stesse lettere: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Paolo riconosce che questa gioia straordinaria viene da Dio: da sé non potrebbe averla. È tipica della trasfigurazione, non frutto di buon carattere, non dote naturale, non umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2 Cor 4, 8-10). Non è una situazione di tranquillità; è una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di cose spiacevoli che gli avvengono; coi malintesi, coi malumori nei quali vive la sua giornata. Come la viviamo noi. Paolo era un po' nevrastenico di carattere e perciò soggetto a depressioni e a momenti di sconforto. Egli sperimenta gradualmente nella sua vita che non c'è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui.
Ancora, è una gioia che guarda intorno a sé, è per la sua comunità, non è privata; è gioia per ciò che succede intorno a lui, per le comunità che sta seguendo. « Siamo i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1, 24). E scrivendo ai Filippesi definisce le comunità come « mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Non illudiamoci che fosse una comunità ideale, perfetta: anzi dalla lettera sappiamo che Paolo deve scongiurarli, quasi in ginocchio, di non litigare, di non mordersi, di non dividersi: «Non fate nulla per spirito di rivalità, per vanagloria» (Fil 2, 3). Vuole dire che c'erano rivalità e vanagloria, che la comunità non era facile, che gli creava problemi e molestie. Eppure riesce a considerarla come la sua gioia perché gli è stata donata una visuale di fede che va aldilà della considerazione delle cose puramente pragmatica, abituale, di routine. È un vero dono soprannaturale, potenza dello Spirito che era in lui ormai in grado eminente.
b) Il secondo atteggiamento interiore conseguente al primo è la capacità di riconoscenza. Esorta i suoi a ringraziare con gioia il Padre (Coll, 12). È tipico dell'Apostolo unire la gioia al ringraziamento.
Tutte le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento, eccetto quella ai Galati perché è di rimprovero. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto ma esprimono ciò che sente. D'altra parte lo stesso Nuovo Testamento incomincia con una preghiera di ringraziamento: infatti, con ogni probabilità, lo scritto più antico del Nuovo Testamento, quello che ha preceduto anche la stesura definitiva dei Vangeli, è la prima lettera ai Tessalonicesi. Quindi, la prima parola del Nuovo Testamento è: «Grazia a voi e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi ».
All'opposto, non troviamo mai in Paolo la deplorazione sterile. C'è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Come dono di Dio, nella sua trasfigurazione apostolica ha la capacità di vedere sempre per prima cosa il bene. Cominciare ogni lettera col ringraziamento, vuol dire saper valutare innanzitutto il positivo che c'è nella comunità a cui scrive, anche se poi ci saranno cose gravissime, negative. All'inizio della prima lettera ai Corinti la comunità è lodata come piena di ogni dono, di ogni sapienza; poi vengono i rimproveri; ma non è un'incongruenza. Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine.
Il pastore maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c'è intorno e di esprimerlo con semplicità.
c) Il terzo atteggiamento è la lode.
In Paolo abbiamo quelle lodi meravigliose che continuano la tradizione giudaica delle benedizioni. Egli le sa ampliare per tutto quello che riguarda la vita della comunità, nel Cristo. Per esempio: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3). La preghiera di Paolo, così come la conosciamo nelle lettere, è prima di tutto di lode: diventa anche di intercessione ma spontaneamente la prima espressione che gli viene è di lode. Così può valorizzare i suoi momenti più oscuri: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3). Potremmo usare le sue frasi come specchio per domandarci se possiamo dirle in prima persona come espressione di ciò che c'è in noi di più profondo (o se invece sentiamo la fatica di dire queste cose).

La grazia da chiedere a Dio è che questi atteggiamenti tipici del pastore trasfigurato dal Cristo risorto, diventino nostra esperienza abituale. Il demonio ci tenta continuamente per farci ricadere nelle forme mondane della vita: la tristezza è caratteristica dell'uomo che vive nella chiusura delle prospettive. E la tristezza di fondo poi cerca l'evasione, il divertimento, tutto ciò che sembra rendere allegra la vita pur di non affrontare la tristezza.
Gli atteggiamenti esterni di Paolo trasfigurato nel Cristo
a) Il primo atteggiamento esterno è l'instancabile ripresa che ha davvero del prodigioso.
Fin dal primo giorno della sua conversione: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica e lo fanno partire; a T arso rimane finché la provvidenza non lo richiama; quando lo richiama, dimenticati i risentimenti passati, riparte. Nel suo viaggio missionario praticamente ogni stazione è un ricominciare da capo; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va a Iconio; a Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra. A Listra è sottoposto a una gragnuola di sassi. È interessante notare l'impassibilità con cui Luca descrive la scena: «Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe. Dopo aver predicato il Vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia» (At 14, 19-21).
È così un po' tutta la sua vita: da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia, anche se ha l'animo pieno di timore.
Questa ripresa non è umana: un uomo dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. Noi non possediamo la sua instancabilità, nemmeno lui la possedeva: è un riflesso di quella che chiamerà «la carità ». «La carità non si stanca mai» (1 Cor 13, 7). È la carità di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Il suo modo di agire è riversato dall'alto, è un dono, ed è quello che fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rm 5, 3), «perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).
Se queste parole fossero dette da un neo-convertito ai primi inizi dell'entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza. Dette da un missionario che ha vissuto vent'anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere. Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato.
La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui.
b) Il secondo atteggiamento esterno è la libertà dello spirito. Sente di avere raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro. Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare. Vediamo questa libertà di spirito nella lettera ai Galati quando dice che umanamente sarebbe stato più prudente circoncidere Tito secondo le richieste dei giudeo-cristiani: «Ad essi però non cedemmo per riguardo neppure un istante perché la verità del V angelo continuasse a rimanere salda tra di voi» (Gal 2, 5). Paolo è libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile in peso all'opinione altrui. Questa sua forza gli permette, a un certo punto, di opporsi addirittura a Cefa. È un caso-limite di libertà: «(Ad Antiochia) anche gli altri Giudei imitarono Pietro nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia» (Gal 2, 13). Quella che chiama ipocrisia evidentemente per Barnaba era il desiderio di mediare tra le parti. Paolo non accetta e di qui la sua resistenza che chiarisce la situazione.
Una libertà che non è arbitrio o presunzione ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo. Lui stesso mette talora in parallelo l'essere servo di Cristo con l'essere libero da tutte le altre opinioni umane.
In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato a osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti pei virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano. Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà... Purché questa libertà non divenga pretesto» - e noi sappiamo che sotto la parola libertà c'è molto spesso un pretesto - « per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 1-13). È uno dei pochi passi in cui essere a servizio - in greco essere schiavi - si applica gli uni agli altri. L'assolutezza del servizio di Cristo rende l'uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. Questa libertà quindi è fonte di servizio umilissimo ed è la radice di quel «con tutta umiltà»che è la caratteristica dell'apostolato di Paolo.
È difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano: il tentativo serve da invito a riprendere i testi di Paolo e a lasciare che agiscano su di noi come parola ispirata, in tutta la loro forza.
La trasfigurazione di Paolo
è modello della trasfigurazione del pastore

Ci proponiamo di riflettere quale sia la metodologia per raggiungere e mantenere questa condizione di trasfigurazione.
Paolo incomincia a diventare un pastore secondo il cuore di Cristo dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Lo diventa per dono di Dio, non per sua conquista.
Riconoscere che Dio nella sua misericordia ci trasfigura è la metodologia fondamentale.
- Il primo modo per ricevere il dono divino è la contemplazione del cuore di Cristo crocifisso, che effonde lo Spirito. Contemplazione che potremmo chiamare eucaristica: prendere sul serio la duplice mensa della Parola di Dio e dell'Eucaristia, lasciarsi nutrire dalla Parola di Dio come forza che chiarisce il significato storico-salvifico del cibo che è Cristo morto e risorto. Questo cibo diventa nostro nutrimento e ci inserisce nella storia di salvezza di cui la Parola di Dio ci comunica la realtà, l'ampiezza, la direzione.
Come per Paolo, anche per noi questa contemplazione è la via della Trasfigurazione. L'Apostolo ha vissuto la preghiera incessante e prolungata che è la contemplazione del Cristo morto e risorto.
- Il dono del cuore trasfigurato nella gioia, nella lode, nella riconoscenza, nella perseveranza, nella libertà, viene per intercessione di Maria.
Maria, come mistero di Dio nella storia della Chiesa e della salvezza, è colei che sostiene e che alimenta in noi la luminosità della fede. Una esperienza cristiana matura sa scoprire il posto .della Vergine come modello e intercessione per raggiungere l'umile dipendenza dalla Parola di Dio che ci trasfigura, assicurando la nostra continua apertura alla forza rinnovatrice dello Spirito. Maria ci richiama a vivere autenticamente quel livello di contemplazione e di ascolto che è il livello che essa occupa nella Chiesa.
- Il dono della trasfigurazione pastorale viene anche dalla condivisione} dalla capacità di mettere la mano nel buio sulla spalla di colui che vede la luce. È questa la nostra comunione ecclesiale e presbiteriale: tenere la mano sulla spalla di chi ha visto la lucei a vicenda.
Si innesta qui il tema della direzione spirituale, del colloquio penitenziale che sono molto importanti perché significano il tenerci la mano gli uni gli altri, la maniera pratica di aprirci e conservare in noi i doni di trasfigurazione che ammiriamo in Paolo.
- Il dono della trasfigurazione ha bisogno della vigilanza evangelica. «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione»; «lo spirito è pronto ma la carne è debole»; «vegliate e resistete saldi nella fede». Questo invito ripetuto è l'espressione esortativa della intuizione fondamentale che l'uomo è un essere storico, che si stanca, che di natura sua non è capace di perseveranza.
Ogni cristiano, ogni vescovo, ogni prete deve convincersi che nessuno è assicurato nella perseveranza e che il maggior rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un grado di stabilità tale che le precauzioni non sono più necessarie. La vigilanza neotestamentaria ci dice che fino all'ora della morte il demonio cerca di togliere in noi la gioia, la fede, la lode. Siamo sempre attaccati su questi atteggiamenti fondamentali.
Occorre vigilare sapendo che non c'è tregua in questa lotta e che rapidamente possiamo ritrovarci tristi, stanchi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede. Paolo ritorna più volte sul tema della vigilanza e della insistenza nella preghiera.
Chiediamo per intercessione di Maria, di poter vigilare con lei, con Gesù e con Paolo perché si compia in noi la trasfigurazione apostolica che assicura una vita pastorale in cui - malgrado le difficoltà, le sofferenze, le delusioni - il fondo di noi è afferrato da Cristo e saldamente posseduto dalla mano di Dio.

Passio Pauli, Passio Christi
La parola « passio Pauli », passione di Paolo, si usa comunemente per indicare i capitoli degli Atti degli Apostoli che vanno dal 21 al 28, cioè l'ultima parte del libro: dalla prigionia a Gerusalemme alla prigionia a Roma.
Vogliamo estendere la «passione di Paolo» anche alle sofferenze successive che conosciamo in parte dagli accenni delle lettere e in parte dalla tradizione. È singolare che gli Atti degli Apostoli non ci narrino tutta la vita di Paolo, ma si fermino ad un certo punto, introducendo poi i capitoli sulla sua « passione ». L'attività apostolica è descritta in tanti capitoli quanti sono quelli che descrivono l'imprigionamento, il processo, fino alla prigionia a Roma.
Anche nei Vangeli, la Passione di Cristo ha un trattamento amplissimo rispetto alla brevità della vita narrata in precedenza. L'evangelista corre per brevi note su due o tre anni della vita pubblica di Cristo, mentre descrive la Passione quasi ora per ora, minuto per minuto.
Comprendiamo da questo fatto l'importanza che l'evangelista, la Chiesa primitiva, danno alla Passione di Cristo e alla passione di Paolo.
Gli evangelisti hanno compreso che Cristo era Messia e rivelatore del Padre soprattutto nella Passione.
Lo stesso accade per Paolo, testimone di Cristo non soltanto nei discorsi travolgenti o dotti o pieni di tenerezza ma anche quando viene imprigionato, portato davanti ai tribunali, trasferito da un carcere all'altro, con sorte incerta, con limitazioni gravi della libertà, con il timore della morte.
Come grazia specifica di questa meditazione possiamo chiedere di comprendere la frase misteriosa della lettera ai Filippesi: «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Paolo desidera conoscere Gesù entrando in misteriosa comunione anche fisica con le sue sofferenze.
Tu conosci, Padre di misericordia, quanto è importante per noi la misteriosa comunione con le sofferenze del Cristo. Tu sai come ci è difficile, lontana dalla nostra mentalità, smentita continuamente dal linguaggio quotidiano. Per questo ti chiediamo umilmente, insieme con Paolo, di aprirci gli occhi della mente e del cuore perché conosciamo Cristo, la potenza della sua Risurrezione, la comunicazione alle sue prove, per potere con lui offrire la nostra vita per il corpo di Cristo.
Illumina, o Signore, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole della Scrittura, riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane ma, in realtà, le stiamo vivendo e sono la chiave della nostra esperienza presente, della situazione di tante persone oggi nel mondo.

Te lo chiediamo, Padre, insieme con Maria, Madre addolorata, con Paolo, per la gloria di Gesù, morto e risorto per noi, che vive e regna nella Chiesa e nel mondo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Propongo di procedere rispondendo alle domande:
- quali sono le similitudini e le diversità fra la passione di Cristo e la passione di Paolo;

- qual è la passione del cristiano;
- come Paolo vive la passione;
- come noi dobbiamo viverla.
Similitudini e diversità
della «Passio Christi» e della «Passio Pauli»

Cerchiamo di vedere alcune tappe della Passione di Cristo paragonandola con quella di Paolo. Sottolineo tre momenti:
- l'arresto di Cristo e l'arresto di Paolo;
- Cristo e Paolo ai tribunali;
- le sofferenze fisiche e morali di Cristo e di Paolo.
L'arresto di Cristo e l'arresto di Paolo
« Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?". Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: "Signore, dobbiamo colpire con la spada?" » (Lc 22, 47-49).
Paolo si trovava nel tempio, aspettando i giorni della Purificazione, «quando i Giudei della provincia di Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: Uomini di Israele, aiuto! Questo è l'uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! » (At 21, 2727). Tutta la città è in subbuglio. Paolo è trascinato fuori del tempio, chiudono le porte, cercano di ucciderlo. Quando giunge il tribuno con la coorte, lo arrestano e lo legano con due catene. Da questo momento, Paolo è in prigione per lunghissimo tempo. Che cosa hanno in comune le due scene pur nella loro diversità?
In entrambi i casi, l'arresto è proditorio, ingiusto; è un arresto fatto alle spalle, con un agguato. Agguato per Gesù ed agguato anche per Paolo, suscitato ad arte dai suoi nemici.
Per entrambi l'arresto avviene nel momento in cui si spendevano per il loro popolo. Per Gesù avviene nella 'notte della preghiera, per Paolo nel momento dell'offerta quando, dopo aver portato doni per il suo popolo, ha spinto la sua condiscendenza fino a volersi purificare nel tempio. Sono toccati nell'istante della loro dedicazione apostolica, del loro servizio.
Cristo e Paolo davanti ai tribunali
Gesù passa vari tribunali: il Sinedrio, il tribunale di Pilato, l'interrogatorio con varie accuse alle quali prima risponde e, da un certo momento in avanti, tace. Il processo di Paolo è descritto più ampiamente ed è segnato da una lunga serie di discorsi: il discorso fatto sui gradini del tempio al cap. 22 degli Atti, quello davanti al Sinedrio nel cap. 23, davanti a Felice nel cap. 24, l'arringa davanti a Festo nel cap. 25 e davanti al re Agrippa nel cap. 26. Una serie di apologie di Paolo che si difende, a differenza di Gesù che dice solo brevi parole.
È interessante notare la diversità delle situazioni: Paolo non è un pedissequo imitatore di Gesù. Sente di avere in sé lo Spirito di Dio e, ispirandosi alla vita del Maestro, vive le situazioni con propria responsabilità e si comporta con dignità e con fermezza. Imita Gesù nella dignità, nel senso della giustizia, nella nobiltà d'animo; però agisce in altro modo, nell'ampiezza e nel calore con cui difende se stesso, nel tentativo di confondere gli avversari; e riesce a dividere il Sinedrio facendo litigare fra loro i suoi accusatori.
Gesù testimonia in brevissime parole la perseveranza nell'affermazione della propria missione e il coraggio della parola: «Tu lo dici, tu dici che io sono re; vedrete il Figlio dell'Uomo seduto alla destra della potenza di Dio ».
In tutti e due i processi, vediamo che dietro a una parvenza di giustizia prevalgono interessi personali, paure, scontri di ambizioni individuali o di gruppi. Sia Gesù che Paolo sono sottoposti alle incertezze del giudizio umano; se Paolo poteva avere qualche speranza - l'aveva sempre fomentata nelle sue lettere, là dove insiste sul rispetto dell'autorità -, si accorge che il tornaconto personale, avido e meschino, prevale anche in chi dovrebbe garantire il diritto.
Le sofferenze fisiche di Cristo e di Paolo
Le sofferenze di Gesù sembrano molto più grandi perché sono descritte ampiamente nel resoconto della Passione. Di Paolo si può solo intuire la situazione pesante dell'essere in prigione: di fatto ha già avuto in precedenza sofferenze notevoli nelle flagellazioni o nelle lapidazioni alle quali è stato sottoposto. Egli le riferisce quasi considerandole come un avvenimento che si aspettava.
Paolo dà più rilievo alle sofferenze morali, soprattutto alla solitudine. Questo aspetto è quello che maggiormente indica cosa accomuna la nostra passione con la passione di Cristo e di Paolo.
Certamente le sofferenze morali più gravi che Cristo sopporta sono dovute all'abbandono totale in cui viene lasciato da parte degli uomini. Tutti fuggono: solo Pietro lo segue da lontano e poi lo rinnega. Gesù che in fondo si era abituato ad avere sempre qualcuno che lo sosteneva - e questa è un'abitudine che ci si fa - si vede rapidamente ridotto alla solitudine più estrema. La solitudine è accresciuta dal misterioso abbandono di Dio che si esprime nel grido: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ». È stato scritto moltissimo per cercare di comprendere che cosa significa.
Le pagine più drammatiche e più belle sono forse quelle di Hans Urs von Balthasar nel suo «Mistero pasquale»: egli cerca di interpretare, partendo da queste parole, il venerdì santo di Gesù, l'oscurità che si abbatte nella sua anima e la discesa agli inferi.
Balthasar parte dal principio che possiamo interpretare la passione di Gesù a partire dalla passione dei santi: comprendendo le oscurità, le desolazioni, i momenti drammatici di esperienza di abbandono che i grandi santi hanno vissuto, possiamo cogliere qualcosa di ciò che Gesù ha sperimentato prima di tutti, per tutti, a conforto e sostegno di tutti.
Che cosa dire della sofferenza morale di Paolo?
Paolo sperimenta lungo la sua passio, intesa fino alla fine della sua vita, un abbandono progressivo dei discepoli. Lui, che è così pieno di carica vitale, esce in affermazioni che non riescono a nascondere che è stanco e ha l'impressione di aver sofferto al limite delle forze; dice: «Cerca di venire presto da me sono parole di chi veramente non ne può più - perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito. il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia - come dire: eccomi qua solo -. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero ». E continua: «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tim 4, 9-11.14-16). Quest'ultima è la frase più dura.
È un Paolo diverso da quello che siamo abituati a conoscere; è stanco anche fisicamente, prostrato dalla prigionia, come appare anche nelle altre lettere « pastorali» a Timoteo e a Tito. A noi qui non interessa stabilire se questi scritti sono di sua mano, se riportano frasi sue; li prendiamo come la Chiesa ce li ha tramandati, come espressione della figura dell'Apostolo così come la Chiesa primitiva l'ha conosciuta e ce la trasmette.
Certamente ci danno l'immagine di un Paolo in parabola discendente. Non è più l'entusiasta della lettera ai Galati, della lettera ai Romani, con le grandi sintesi teologiche. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo. Denuncia ciò che sta avvenendo e prevede dei mali futuri; il tono oscuro e deplorativo ha preso il posto della speranza, della baldanza, dell'ardore.
Questa prova attraverso cui Paolo è passato, è una prova reale, nella quale riconosce che non ha più un possesso completo delle sue forze, dell'ottimismo, dell'entusiasmo, ma deve fare i conti con la fatica e l'accumularsi di pesi e delusioni. Dio ci vuole mostrare in lui il segno che l'uomo viene purificato in tanti modi e questa è una profonda forma di purificazione.
Ci possiamo chiedere se Paolo abbia provato anche abbandono da parte di Dio, le tenebre interiori, la desolazione, la notte dello spirito. Autobiograficamente non è possibile determinarlo. Tuttavia, parla più volte delle forze oscure del male che cercano di ottenebrare l'uomo, che lo insidiano e non lo risparmiano. Egli conosce, quindi, queste potenze delle tenebre che insidiano continuamente l'intimo di ciascuno di noi.
Se ci basiamo su quello che Balthasar dice di Gesù, dobbiamo pensare che probabilmente anche Paolo ha vissuto momenti in cui la fede è stata avvolta da tenebre e ha dovuto camminare col solo ricordo di tutta la ricchezza posseduta e della forza di Dio non più sensibilmente presente.
La passione del cristiano
Mi ha colpito, qualche tempo fa, un libro che descrive la prova della fede di Teresa di Lisieux. L'ultima parte della vita di questa santa è stata profondamente oscura e, dopo i doni meravigliosi che aveva avuto da Dio, è entrata in uno stato quasi incomprensibile. Ella stessa dice che è una prova dell'anima indicibile ed ha quasi paura di parlarne. Poi scrive: «Suppongo di essere nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l'aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; ...d'un tratto le tenebre che mi circondano, divengono più spesse, penetrano nell'anima mia e la avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l'immagine così dolce della mia Patria: tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano; ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori mi dicano facendosi beffe di me: Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente ». E ancora: «Quando canto la! felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova si interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece di rallegrarmi, rende ancora più fitte le mie tenebre ». «È l'agonia pura - dice il 30 settembre, giorno della morte - senza alcuna traccia di consolazione» .
Sono parole che ci colpiscono. Forse una delle più -dure è quella riferita al processo di beatificazione da una consorella che l'aveva sentita: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa; non credo nella vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non vi sia più nulla. Tutto è scomparso per me, non mi rimane altro che l'amore ».
Ha l'impressione di non credere più, però sente che l'amore c'è: non è una contraddizione, è la purificazione terribile della carità. Sono esperienze che fanno parte del cammino cristiano.
Possiamo trovare anche in altri santi confessioni di questo tipo.
S. Paolo della Croce durante la sua ultima malattia esce in espressioni che fanno davvero pensare. Confida a un confratello: «Oggi mi sentivo impeti gagliardissimi di andarmene disperso e fuggiasco per queste selve, stimolato a gettarmi da una finestra - quindi tentazioni di suicidio -, e continue gagliardissime tentazioni di disperazione ». E ancora: «Un'anima che ha provato carezze celesti e poi si trova a dover stare del tempo spogliata di tutto, anzi, arrivare a segno di trovarsi, a suo parere, abbandonata da Dio, che Dio non la voglia più, non si curi più di lei e che sia molto sdegnato, onde le pare che tutto ciò che fa una tal anima sia tutto malfatto. Ah, non so spiegarmi come desidero! Le basti sapere che questa è una sorte quasi di pena di danno, pena che supera ogni pena».
E poi; «L'impressione di non avere più né fede né speranza né carità, di sentirsi come sperduto nel profondo di un mare in tempesta senza avere chi gli porga una tavola per sfuggire al naufragio, né dall'alto né dalla terra. Non ha nessun lume di Dio, incapace di un minimo buon pensiero, incapace di trattare alcun argomento di vita spirituale, desolato come i monti di Gelboe e sepolto nel ghiaccio. Nelle orazioni stesse vocali non so far altro che passare i grani della corona».
Racconta un suo confratello: «Entrando nella sua camera quando stava infermo, con voce da muovere a compassione anche le tigri disse per tre volte: "Sono abbandonato" ».
Certamente conta molto il carattere delle persone. Chi è molto sensibile in certi momenti di fatica, di depressione e di malattia giunge a parlare così di sé. Comunque è vero che Dio permette misteriosamente nei suoi santi la prova dell'abbandono. È una situazione reale e quando avviene deve farci pensare che è il cammino percorso da Cristo sulla croce, percorso da Paolo e percorso da tanti santi.
Paolo, scrivendo a Timoteo, subito dopo aver detto: «Tutti mi hanno abbandonato» aveva affermato: « Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza... Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (2 Tim 4, 17-18).
La potenza dello Spirito in lui gli aveva permesso di superare un momento in cui poteva essere tentato addirittura di disperazione. Non possiamo però sapere se l'ultimo quarto d'ora della sua vita sia stato un tempo di luminosità, di chiarezza, oppure di tenebra. Il mistero del cammino umano va verso l'esperienza della morte.
Proprio per questo dobbiamo riflettere su di noi, sulle sofferenze attraverso le quali altri possono passare e sulla necessità di saper prestare aiuto. Un malato, soprattutto grave, difficilmente apre il suo animo: forse solo a qualcuno di cui ha piena fiducia. La missione è di suscitare questa fiducia per poter essere collaboratori nelle prove contro la fede e contro la speranza che l'uomo prossimo alla morte può vivere.
Si racconta che Teresa di Gesù Bambino verso la fine della sua vita rimase in preda ad un' agitazione e angoscia inesprimibili, che spaventarono le consorelle. La sentirono dire: «Quanto bisogna pregare per gli agonizzanti! Se si sapesse! ».
Ecco come la vita dei santi può aiutarci a penetrare meglio la passio Christi e la passio Pauli.
Come Paolo ha vissuto la comunione con la passione di Cristo
- Dalle lettere in cui Paolo parla delle sue sofferenze ricaviamo, prima di tutto, che ha da Dio il dono di viverle con grande spirito di fede, valutandone il significato alla luce del piano salvifico. «...il Salvatore nostro Gesù Cristo... del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro» (2 Tim 1, 9-11).
Se soffro, soffro per Cristo e « non me ne vergogne: so infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato» (2 Tim 1, 12).
- Lo spirito di fede è intriso di senso ecclesiale per ciò che soffre. « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio Vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù insieme alla gloria eterna» (2 Tim 2, 8-10). lo soffro ma per gli altri, per tutta la Chiesa, per l'opera di Cristo. «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi: di realizzare la sua parola» (Col 1, 24-25).
Il profondissimo senso di missione che è la molla interiore di tutto ciò che fa per la Chiesa, non lo abbandona neanche in questi momenti, ma gli dà la grazia di considerarli come il completamento del servizio che vuol compiere fino in fondo.
Domande per noi
Potremmo concludere chiedendoci qual è il nostro atteggiamento.
Innanzitutto dobbiamo riconoscerci estremamente fragili, suscettibili di essere tentati, forse anche in cose da poco e di dover passare per questi momenti difficili. Il senso della fragilità è importante perché, altrimenti, rischiamo di parlare di queste cose con facilità, e quando ci troviamo a viverle reagiamo in modo del tutto contrario, cambiando, per così dire, mondo e linguaggio. La coscienza della nostra fragilità ci permette di collegare meglio ciò che leggiamo con ciò che in realtà viviamo.
Per questo è necessaria la vigilanza di cui abbiamo già parlato e che Paolo ricorda spesso: «E quando si dirà: pace e sicurezza, allora d'improvviso vi colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro; V'pi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri» (1 Ts 5, .3-6).
«Rivestitevi con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5, 8). «Rivestitevi dell'armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove» (Ef 6, 11-13).
L'esistenza cristiana è una prova non da poco perché ci mette di fronte ad un avversario implacabile che continuamente torna ad attaccarci. Quando consideriamo la realtà quotidiana, le cose semplici di ogni giorno, questo linguaggio ci sembra eccessivo; ma se andiamo più a fondo nella nostra storia, nella storia degli altri uomini, nelle prove dolorosissime che la gente vive, nei problemi che portano all'angoscia e alla disperazione, allora vediamo molto più chiaramente che il nemico dell'uomo è all'opera. Esso cerca in tutte le maniere più semplici, più coperte, più subdole, di portare ciascuno di noi a mancare di fede e di speranza, suggerendoci una visione rassegnata della vita, senza la luce interpretativa del piano salvifico di Dio. Continuamente vuol distruggere la scintilla della fede che ci permette di vedere tutto come cammino di Dio in noi e cammino nostro verso di lui.
Il Nuovo Testamento esorta alla vigilanza e alla lotta, perché conosce benissimo la condizione umana e sa che le prove sono riservate a tutti; quando pensiamo che sono passate, sono invece più vicine che mai.
Chiediamo al Signore che nella riflessione sulla passione di Cristo e sulla passione di Paolo, sia dato anche a noi di camminare nella via di Dio e di stare in piedi, di resistere con coraggio nelle difficoltà, e di poter aiutare altri, molti altri, affinché non soccombano nella prova.

Dio è misericordia
Siamo giunti al termine del nostro lavoro di riflessione e ci accorgiamo, con sgomento, di avere raccolto solo qualche secchiello d'acqua dal grande mare dell'insegnamento che ci viene da Paolo.
Sarebbe bello, come sintesi, fermarci sul tema della preghiera in Paolo, oppure sulla libertà dalla legge. Sarebbe egualmente stimolante una riflessione sulla visuale cosmica della salvezza, come viene descritta nelle «lettere della prigionia ».
L'imbarazzo della scelta mi fa decidere per una parola di Paolo che può essere commentata come parola conclusiva degli Esercizi. È la finale del discorso pronunciato a Mileto, l'ultima raccomandazione pastorale prima che cominci la sua passione.
Resta vero - secondo gli Atti ~ che Paolo a Mileto dice l'ultima parola della sua vita pubblica. Per quest0ha un significato particolare e riassuntivo di ciò che l'Apostolo pensava e voleva, e di come la Chiesa primitiva se lo raffigurava.
Chiediamo, di fronte all'ultima parola di Paolo, di poterla comprendere nello spirito con cui l'ha pronunciata, dandole tutta la verità che essa ha oggi per noi, come Parola di Dio, viva ed efficace.
Ti ringraziamo, Signore, perché questa Parola, pronunciata duemila anni fa, è viva ed efficace in mezzo a noi.
Riconosciamo la nostra impotenza e incapacità a comprenderla e a lasciarla vivere in noi. Essa è più potente e più forte delle nostre debolezze, più efficace delle nostre fragilità, più penetrante delle nostre resistenze.
Per questo ti chiediamo di essere illuminati dalla Parola per prenderla sul serio ed aprire la nostra esperienza a ciò che ci manifesta, per darle fiducia nella nostra vita e permetterle di operare in noi secondo la ricchezza della sua potenza.
Madre di Gesù, che ti sei affidata senza riserva, chiedendo che avvenisse in te secondo la Parola che ti era detta, donaci lo spirito di disponibilità perché possiamo ritrovare la verità di noi stessi. Donaci di aiutare ogni uomo a ritrovare la verità di Dio su di lui, fa' che la ritrovi pienamente il mondo e la società in cui viviamo e che vogliamo umilmente servire.
Te lo chiediamo, Padre, per Cristo Gesù, tua Parola incarnata, per la sua Morte e Risurrezione, e per lo Spirito Santo che continuamente rinnova in noi la forza di questa Parola, ora e per tutti i secoli. Amen.

«E ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere la eredità con tutti i santificati» (At 20, 32).
È questa la conclusione solenne del discorso, sulla quale vogliamo riflettere. Essa ha anche, come vedremo, un valore di preghiera liturgica, di benedizione. Faccio notare, però, che dopo c'è un'aggiunta, quasi che Paolo voglia insistere su un tema che gli sta a cuore: «Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere" » (At ,20, 33-35).
Cronologicamente, quindi, l'ultima parola meravigliosa e riassuntiva dell'esperienza paolina è: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere ».
Tuttavia noi ci fermiamo sulla finale «ufficiale» che è ugualmente significativa e conclusiva della sua vita pastorale, anche perché corrisponde a ciò che si desidera al termine di un ritiro.
Che cosa rappresenta, infatti, questa parola nella struttura del discorso di Mileto?
Paolo ha parlato ai presbiteri; ora deve abbandonarli e si preoccupa di ciò che faranno, del loro avvenire. A loro volta, i presbiteri si chiedono come porteranno avanti il lavoro vissuto insieme.
Quella parola è, quindi, la risposta di Paolo, la sua raccomandazione, il suo ricordo finale alla comunità.
Può essere utile il parallelo con la vita di Gesù. Secondo il Vangelo di Giovanni l'ultima parola di Gesù, riassuntiva di ciò che ha fatto, è: «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26). Secondo il Vangelo di Luca, l'ultima parola è un invito alla vigilanza: «Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo» (Le 21, 36). Questo invito corre anche nella penultima parola del discorso di Mileto.
Analoga è la finale in Marco, mentre in Matteo è il giudizio sulle opere di misericordia.
Ogni evangelista fa concludere la predicazione pubblica di Gesù con ciò che è particolarmente significativo per ciascuno.
Così gli Atti fanno concludere la vita pubblica dell'Apostolo con una frase che è significativa per tutto ciò che Paolo è, proclama, crede, vive.
Noi possiamo prenderla come ricordo degli Esercizi affinché ci aiuti a mantenere i propositi e quella intuizione del disegno di Dio che in questi giorni, per sua grazia, abbiamo avuto.
L'ultima parola di Paolo
- «E ora»: il termine greco « kài tà nun » è abbastanza singolare e raro nel Nuovo Testamento.
Vuol dire: «Per quanto, dunque, concerne la presente situazione». La vostra situazione di distacco da me, di incertezza per il futuro, di timore per ciò che vi capiterà.
Si tratta di una formula solenne e conclusiva che troviamo per esempio al termine della preghiera degli apostoli, durante la prima persecuzione. Dopo aver detto: «Signore, tu che hai fatto il cielo, la terra, il mare... tu che hai detto per bocca di Davide:
Perché si agitarono le genti
e i popoli tramarono cose vane?
Si sollevarono i re della terra
e i principi si radunarono insieme,
contro il Signore e contro il suo Cristo";
davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo Santo servo Gesù» (At 4, 24-27), conclude: «E ora (kài tà nun), Signore, considera le loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola» (At 4, 29). Analogamente l'espressione di Paolo suppone tutta la situazione precedente che ha delineato: il suo ministero nella comunità, il suo affetto per loro e la loro corrispondenza, i pericoli per l'avvenire e soprattutto il suo timore per ciò che accadrà. Per questo conclude: «E ora... ».
- « vi affido al Signore ». È una parola che ci stupisce. Ci saremmo aspettati che raccomandasse di essere fedeli, di stare uniti, di scrivergli, di fare adunanze, di fargli sapere notizie, di tenere presente la lettura della Scrittura.
Invece Paolo li affida a Dio, sottolineando così che l'avvenire e la perseveranza sono nelle mani di Dio: è Lui che riceve e sostiene. È una conclusione abbastanza comune per la Chiesa primitiva quando si trova in situazioni analoghe. Alla fine del primo viaggio missionario, lungo la strada del ritorno, Barnaba e Paolo rianimarono i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede; designarono degli anziani per ogni Chiesa e, dopo aver fatto preghiere e digiuni « li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto» (At 14, 23).
E poco dopo: «Fecero vela verso Antiochia da dove erano partiti affidati alla grazia di Dio» (At 14, 26). Lo stile della comunità, dunque,. è quello di esprimere la parola definitiva come un affidarsi al Signore, alla sua grazia. L'affidare a Dio con preghiera e digiuno è una forma liturgica solenne. Possiamo immaginare che avvenga stendendo le mani e dicendo: «Ecco, vi affidiamo alla potenza di Dio ».
Lo stesso verbo « affidare» ha una storia molto lunga. Nel Nuovo Testamento designa una realtà concreta, l'affidamento di un tesoro prezioso ad uno di cui ci si fida: ho un tesoro, devo partire e lo do in mano a persona fidata. È vero che questo uso del termine che troviamo nel Nuovo Testamento, è un uso profano, però spiega la mentalità che vi sta sotto e ha il suo culmine nella parola di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23, 46). È l'atto di suprema fiducia: Gesù consegna se stesso, la sua vita e la sua morte nelle mani di Dio sapendo che la custodirà e gliela renderà. Gioca tutto sulla certezza della potenza divina.
Il salmo ripreso da Gesù: «Nelle tue mani affido il mio spirito, tu mi libererai; liberami Signore, Dio fedele» (Sal 31, 6) è l'espressione dell'uomo che dopo aver fatto tutti i calcoli, sa che l'unica cosa che veramente conta è l'affidamento di sé alle mani di Dio. Per riprendere l'immagine che abbiamo posto in una omelia tra il livello dell'operosità e quello dell'ascolto e della contemplazione, possiamo dire che l'uomo, dopo aver messo in opera quanto può, ritorna al suo livello fondamentale sapendo che è la realtà che lo fa essere uomo.
Paolo, pur essendo preoccupato della comunità che gli è carissima, ha la certezza che Dio porterà avanti l'opera, la sosterrà, la illuminerà, la guiderà. Questa parola segna il culmine dell'affetto pastorale e insieme del distacco. Paolo ama molto quella comunità(il commiato avviene fra abbracci, pianti, preghiere sulla spiaggia presso la nave) ma sa che appartiene a Dio e che Dio è infinitamente più potente.
- «e alla Parola della sua grazia ». L'espressione è inconsueta e dobbiamo cercare di chiarirla.
Il Vangelo di Luca la riporta come prima definizione del parlare di Gesù. Nella Sinagoga di Nazareth, infatti, la gente, sentendolo, «gli rendeva testimonianza ed era meravigliata davanti alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4, 22).
Possiamo allora dire che la Parola della grazia è un sinonimo del Vangelo, della manifestazione della iniziativa divina e gratuita di salvezza. Ecco il senso di questo termine «della grazia» - « chàritos» -. Viene da « chàris », grazia, da cui deriva « charà », gioia e anche la parola «gratis» usata da Paolo ad indicare l'azione di Dio che perdona il peccatore senza alcun suo merito.
Maria sarà salutata dall'angelo come «kecharitoméne» (Lc 1, 28), cioè graziata per eccellenza, oggetto del favore pieno e illimitato di Dio.
È vocabolo tipico del Nuovo Testamento: ricorre 155 volte e circa 100 volte in Paolo. Paolo usa il termine «grazia» insieme con altri: giustizia salvifica, fede, Vangelo, speranza, Spirito, tutte realtà che enuncia quando vuole parlare dell'economia positiva di Dio nei riguardi dell'uomo. Ad essi contrappone: legge, peccato, vanto, carne, che indicano l'economia negativa o restrittiva in cui l'uomo tende a rinchiudersi per orgoglio, per autosufficienza, per debolezza o malvagità.
Per Paolo tutto l'apostolato cristiano è proclamazione della grazia di Dio ricco in misericordia. «Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio - questa è la definizione dell'evangelizzatore! - Dio dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6, 1-2). È la sintesi dell'annuncio apostolico. L'aspetto rinnovativo, trasformante della rivelazione di Dio che con la parola «grazia» viene definito nella sua origine gratuita, libera, spontanea, al di là di ogni nostro merito o resistenza. Dio è più grande del nostro cuore.
La definizione della seconda lettera ai Corinti è seguita dalla descrizione della fisionomia dell'apostolo modellato secondo le caratteristiche di questa grazia: « In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, con pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri, sconosciuti eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto! » (2 Cor 6, 4-10).
L'Apostolo, proclamando la grazia, vive un'esistenza in cui gli atteggiamenti mondani - depressione, umiliazione, paura, ripiegamento su di sé - lasciano il posto a serenità, gioia, fermezza, capacità di arricchire altri: è il Vangelo vissuto.
È significativo che, dopo essersi sfogato con. quella lunga descrizione che è la sua esperienza, Paolo conclude: «La nostra bocca vi ha parlato francamente, il nostro cuore s, è tutto aperto per voi» (2 Cor 6,11). Ha detto, cioè, tutto quello che aveva dentro: il mistèro di essere Apostolo della grazia e di vivere la contraddizione tra ciò che le circostanze tenderebbero ad ottenere soffocandolo e ciò che invece, con estrema umiltà e modestia, sente che avviene in lui, l'iniziativa divina che rovescia l'evidenza umana che lo schiaccerebbe.
L'Apostolo con la specificazione: «Vi affido alla Parola della grazia », ricorda che Dio si manifesta loro nella Parola-Gesù. Paolo non sarà più con la comunità, non parlerà più ma la Parola di Dio è sempre con loro e la potenza di questa Parola rinnova con una iniziativa gratuita che previene e ripara ogni umana debolezza.
Nel libro degli Atti torna spesso il riferimento alla Parola personificata, come persona che agisce e che ha potere. Luca, anche nel Vangelo, scrive che «il fanciullo (Gesù) cresceva» (Lc 2, 40). La Parola è vista come Gesù stesso che cresce nella comunità, che vive e opera e, attraverso lo Spirito, permane nella Chiesa.
- « ... che ha il potere di edificare ». Vengono in mente alcuni testi fondamentali del Nuovo Testamento, soprattutto la lettera ai Romani, dove viene enunciato più esplicitamente il potere di Dio attraverso il Vangelo. È anch'essa una parola di congedo e possiamo leggerla come ampliamento liturgico della benedizione finale di Paolo alla comunità di Mileto: « A colui che ha il potere di confermarvi secondo il Vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli, ma rivelato ora e annunziato mediante le Scritture profetiche, per ordine dell'eterno Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Rm 16, 25-27); L'affidamento alla potenza divina diviene preghiera, dossologia e indica la solennità con cui l'Apostolo intende la espressione.
La Parola ha il potere di edificare tutta l'attività della comunità. La comunità è un corpo che cresce secondo tutte le sue giunture ben compatte, secondo una gerarchia interna, un ordine, una ricchezza di carismi. È un corpo che si sta formando ed è la Parola di Dio la forza edificatrice. Anche il contenuto e i
messaggi di questa Parola costruiscono l'edificio. E Paolo vede l'avvenire della comunità che, restando fedele al primato della Parola, si costruisce nella ricchezza dei carismi, dei doni, dei servizi, dei ministeri.
- «E di concedere l'eredità con tutti i santificati ». La Parola di Dio opera anche 1'accrescimento della comunità, chiamando molti altri a partecipare e a godere di questa eredità preziosa.
Conclusione
Così Paolo ci lascia, testimoniando la totale dedizione apostolica e il profondo distacco, segno della sua fedeltà all'originaria intuizione: è Dio che salva, è Gesù che gli è apparso sulla via di Damasco e al quale deve tutto. Se Gesù gli è apparso con potenza quando era peccatore, questo vale anche per la comunità e per ogni altro uomo. La comunità è quello che è, non perché Paolo ha fatto qualche cosa, ma perché Gesù con potenza si manifesta e si manifesterà nel cuore di ciascuno.
Già Mosè aveva ascoltato sul monte questa Parola: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia» (Es 33, 18-19).
Nella comprensione neo testamentaria significa che Dio è l'origine e la fonte di ogni misericordia. Non è il nostro sforzo, la nostra attenzione: quando avessimo fatto tutto, ancora la bilancia pende dalla parte della misericordia di Dio.
È Lui che ci salva, Lui che ci ama.
Ora Paolo può congedarsi da noi, almeno temporaneamente, dopo averci fatto qualcuna delle sue confessioni e averci comunicato qualcosa della sua esperienza.