sabato 1 settembre 2012

Martini: Cammino di Riconciliazione



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Celebrare il sacramento della riconciliazione nella quaresima dell'anno santo della redenzione
- Lettera alla diocesi per la quaresima 1984.

L'atteggiamento eucaristico
- Meditazione al clero piemontese.

Contemplare il crocifisso. In pellegrinaggio a Roma con la diocesi
- Omelia in s. Giovanni in Laterano.
- Omelia in s. Paolo fuori le mura.

A un mese dal sinodo
- Lettera alla diocesi.
Le lacrime di sant'Ambrogio
- Omelia per la solennità di s. Ambrogio.

* * *

Nell' anno liturgico la quaresima è, da sempre, un tempo forte di rinnovamento per la chiesa intera, un grande ritiro a cui è chiamato tutto il popolo di Dio.
La dimensione sociale del tempo quaresimale è chiaramente sottolineata dal concilio Vaticano II: «La penitenza del tempo quaresimale non deve essere soltanto interna e individuale ma anche esterna e sociale» (SC 110).
Tuttavia la quaresima 1984 riveste un valore particolare perché viene celebrata nell' anno del giubileo che vuole essere soprattutto «un appello al pentimento e alla conversione» (Giovanni Paolo II, Bolla di indizione dell'anno santo, n. 11).
Il 25 marzo 1983, il cardinale arcivescovo di Milano apriva l'anno giubilare portando in processione la croce di s. Carlo Borromeo e, in quella occasione, diceva tra l'altro: «Dopo 410 anni dall'evento del trasporto della croce da parte di s. Carlo in una processione di penitenza, giunge a noi una voce che, di fronte alle sofferenze della "grande città" che è il mondo, di fronte alle divisioni che gridano il bisogno di riconciliazione e di salvezza, di fronte alle miserie, alle sofferenze, alle disperazioni che chiamano la redenzione, invita oggi noi tutti ad aprire le porte al Redentore.
È la voce di Giovanni Paolo II che, indicendo quest' anno del giubileo, millenovecentocinquantesimo della istituzione dell' eucaristia, della morte in croce di Gesù e della sua risurrezione, chiama ciascuno di noi ed ogni chiesa locale, insieme con la
chiesa di Roma, ad un cammino di riconciliazione».
Questa quaresima diviene così un tempo privilegiato di grazia e di riconciliazione.
È la chiesa intera che cammina verso la pasqua rivivendo in pienezza il mistero della redenzione e ciascun fedele deve sentirsi solidale con tutta l'umanità riscattata da Cristo.
Non ci può essere riconciliazione senza conversione. E la conversione dell'uomo non è altro che un riprendere a seguire la voce del Signore: «10 sono il Signore tuo Dio, non avrai altro Dio al di fuori di me» (cf. Es 20,2).
Siamo peccatori tutte le volte che la voce del mondo, la voce di tutto ciò che non è Dio, diventa il nostro cammino. Nella conversione tutte queste voci vengono abbandonate e la voce di Dio ritorna ad essere la nostra strada.
La conversione non è quindi un semplice rinnovo interiore dell'uomo: è un atteggiamento nei riguardi di Dio che coinvolge il cuore, la mente e la vita. Riprendendo l'ascolto del Signore, il dialogo con lui, noi possiamo riconciliarci con i fratelli.
La conversione però non si compie una volta per sempre. È un cammino lungo, lento, paziente, fatto di umiltà, di amore, di compunzione. Un cammino che si fa nella e con la chiesa, attraverso l'ascolto della Parola, la preghiera, la penitenza, soprattutto attraverso i sacramenti.
Per questo riteniamo utile pubblicare alcune parole pronunciate dal cardo Martini, a partire dal maggio scorso, in varie occasioni.
In esse ciascuno di noi può trovare un prezioso aiuto per riflettere sul proprio cammino di conversione, per interrogarsi su come viviamo i sacramenti che la redenzione di Gesù ci ha donato, specialmente l'eucaristia e la riconciliazione, seguendo le orme dei santi: da Paolo ad Ambrogio a Carlo.
Saremo così guidati dal nostro arcivescovo nella salita verso la pasqua del Signore. e.d.


CELEBRARE IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
NELLA QUARESIMA
DELL'ANNO SANTO DELLA REDENZIONE
Lettera alla diocesi
1. Si apre in questi giorni il tempo di grazia della quaresima; ci incamminiamo insieme verso la pasqua del Signore, mistero di morte e di risurrezione. Riprendo il dialogo con tutti voi per proporvi alcune riflessioni e per segnalare l'importanza di alcuni precisi impegni.
Vorrei rifarmi, in particolare, a quanto dicevo nella lettera «A un mese dal sinodo» dello scorso dicembre. Nell'esortarvi ad accogliere il messaggio del sinodo 1983 perché esso entri «a pieno titolo nella storia del cammino pastorale della chiesa che è in Milano», preannunciavo una prima tappa di applicazione: «Mi propongo - scrivevo - di ritornare sul tema del sacramento della riconciliazione in occasione della prossima quaresima», così da aiutare la pratica accoglienza della scelta sinodale «di risignificare il valore e l'importanza del sacramento della penitenza attraverso il proseguimento di una capillare azione di rinnovamento della prassi pastorale e della mentalità teologica che la ispira».
Una seconda ragione mi spinge a rivolgermi a tutti voi: vivremo nelle prossime settimane la fase conclusiva dell'anno santo straordinario della redenzione. Mi pare importante riprendere il richiamo che Giovanni Paolo II rivolgeva nella lettera per il giovedì santo del 1983. Egli invitava «l'intera comunità del popolo di Dio a rinnovare la coscienza della redenzione mediante una singolare intensità della remissione e del perdono dei peccati» e chiedeva ai sacerdoti di «rendersi particolarmente consapevoli di essere al servizio di tale riconciliazione con Dio» perché «servi e amministratori di questo sacramento, in cui la redenzione si manifesta e realizza come perdono, come remissione dei peccati» (n. 3).
Il mio dialogo con voi intende riferirsi pertanto alla celebrazione del sacramento della riconciliazione nella quaresima dell'anno santo della redenzione.

I. QUARESIMA CAMMINO DI CONVERSIONE
2. La liturgia quaresimale si compone di valori che, nel loro insieme, sollecitano e illuminano lo svolgersi di un cammino di conversione. Accompagnare il Signore nel suo «salire verso Gerusalemme»significa rinnovare la scelta di comunione al suo mistero di morte e risurrezione che trova nell'abbandono di fede al Padre e nel servizio di carità ai fratelli le sue espressioni più autentiche. Il nutrimento della Parola - «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» ripete il brano programmatico del vangelo di Matteo alla prima domenica - illumina la direzione dell'itinerario spirituale dei credenti, rivelando la durezza del nostro cuore e la lontananza di tanti dei nostri atteggiamenti dai pensieri di Dio.
I molti richiami della liturgia quaresimale al battesimo costituiscono un invito a rinnovare l'alleanza con Dio e ad intraprendere il sentiero che ci fa autenticamente discepoli di Gesù. Infine, le ricorrenti sottolineature della nostra fragilità e della situazione di peccato in cui viviamo nel mondo chiedono di avere accoglienza nei segni della penitenza che manifesta un cuore consapevole del proprio sbaglio e della propria povertà ma, nello stesso tempo, fiducioso nella misericordia del Signore.

3. Ognuno dei quaranta giorni quaresimali porta dentro di sé questi messaggi. Nelle forme della tradizione liturgica ambrosiana - il messale, il lezionario festivo e feriale, la liturgia delle ore - essi vanno anzi assumendo una eco particolarmente profonda. Facciamo sì che il pregare come singoli e come comunità nelle celebrazioni liturgiche trasformi il nostro cuore e ci indichi i segni di una vera conversione. Sarà importante, per questo, che le comunità si confrontino da vicino con le infinite forme di peccato presenti al loro interno e nel mondo circostante; esse dividono e scardinano i rapporti, generano freddezza e abitudine, riducono Dio a qualcosa di generico e di lontano, coltivano la schiavitù per tanti idoli passeggeri che non sapranno mai riempire il cuore e svelare il senso vero dell'esistenza.
Quali segni di conversione ci chiede la quaresima di quest'anno? Ad ognuno - singolo, gruppo, comunità - l'impegno di una risposta che darà verità al nostro itinerario di popolo di penitenti incamminato verso la pasqua.

4. La scelta di dedicare un'attenzione specifica alla celebrazione pasquale del sacramento della riconciliazione si colloca quindi in un quadro di valori e di attese assai vasto ed esigente. Diventarne tutti più consapevoli significa anche credere a quel messaggio del sino do che sintetizzavo con queste parole nella lettera di dicembre: «Illuminare l'evento di grazia celebrato nel sacramento della penitenza ponendo lo in continuità tra il cammino di conversione della rigenerazione battesimale e la piena comunione significata e realizzata dalla cena eucaristica»(II,3).
5. Per facilitare l'attuazione pastorale di questi orientamenti e, nello stesso tempo, per impegnarci in un comune cammino penitenziale come comunità diocesana chiedo la fedeltà a questi punti:
- Ogni comunità celebri comunitariamente un «ingresso in penitenza» che esprima la volontà di intraprendere insieme un itinerario di conversione; questo potrà avvenire con una celebrazione apposita per la liturgia delle ceneri o con una celebrazione penitenziale da situare comunque all'interno della prima settimana.
- Ogni venerdì veda lo svolgersi di una celebrazione penitenziale comunitaria che aiuti il realizzarsi di un concreto itinerario di conversione; sarà questo, tra l'altro, un modo per valorizzare il senso della aliturgicità del venerdì di quaresima nella tradizione della nostra liturgia.
- L'ordinata e tempestiva programmazione dei tempi della celebrazione sacramentale della riconciliazione in occasione della pasqua conclusiva dell'itinerario di conversione; sarà da prevedere, in particolare, la celebrazione in forma comunitaria del sacramento con la confessione individuale (durante la celebrazione stessa o nei giorni successivi, conclusa poi dal rendimento di grazie).
Ho chiesto agli uffici competenti la preparazione di un sussidio che faciliti la realizzazione di questi momenti.
II. CELEBRARE IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
SIGNIFICA DARE VERITÀ AL CAMMINO QUARESIMALE
6. Compresa in questo modo, la celebrazione sacramentale della riconciliazione nel tempo liturgico che prepara alla pasqua rivela tutta la sua «verità»; essa non appare infatti soltanto come momento importante in se stesso, ma come fatto che esprime e realizza l'impegno di conversione che la liturgia continuamente ripropone come anima di tutto l'itinerario quaresimale.
Anche a questo livello possiamo ritrovare una grande sintonia tra l'impegno pastorale che ci proponiamo per la prossima quaresima e uno dei messaggi fondamentali del sinodo. Dedicare infatti una grande attenzione all'itinerario spirituale del penitente significa raccogliere l'invito del sino do «risuonato frequentemente... a percorrere con lucidità e coraggio tutti i sentieri che possono far ritrovare l'unità al cuore dell'uomo spesso smarrito e diviso e alla società ferita da drammatiche divisioni».
È impegno vasto, che deve coinvolgere tutte le risorse della fede e della carità: «Come aiutare l'uomo a riconoscere nella verità il proprio volto sfigurato o rattristato e il volto paterno di Dio che lo cerca? Come dare un nome e un giudizio alle proprie scelte sbagliate, alle proprie azioni scorrette e a ciò che di negativo ciascuno coltiva nel cuore?
Il compito pastorale della chiesa rispetto al peccato è di vasta portata. Chiede l'impegno a liberare la libertà dell' «uomo dai mille condizionamenti che la imprigionano; chiede di ridire continuamente l'evangelo di un Dio che è giudice della storia e padre di tutti; chiede di esprimere con maggiore evidenza gli aspetti positivi e costruttivi delle esigenze morali annunciate da Gesù e accolte nella tradizione viva della chiesa» (A un mese dal Sinodo II,2).

7. Acquista pertanto grande importanza l'impegno pastorale che aiuti il penitente - singolo e comunità - a vivere l'esperienza spirituale implicata nell'itinerario di conversione che conduce alla celebrazione sacramentale della riconciliazione.
In particolare, vorrei richiamare tutti: - siamo penitenti tutti, bisognosi di redenzione - a coltivare alcuni valori e ad educarsi ad alcuni atteggiamenti veramente fondamentali nel cammino di conversione.
Penso, anzitutto, alla disponibilità a far giudicare la propria vita dalla parola di Dio: non siamo noi arbitri e giudici ultimi o inappellabili del nostro vivere. La fede comporta questo lasciarsi normare dalla Parola, ed impegna ad una lettura di noi stessi e delle nostre azioni che si ispiri da vicino ai criteri evangelici. L'esperienza spirituale del penitente richiede inoltre una rinnovata scelta di mettersi alla sequela di Gesù; il desiderio di una maggiore fedeltà al Maestro e di una scelta più coerente che ci ponga nella scia dei sentieri da lui percorsi costituisce, in qualche modo, l'anima di un itinerario di conversione.
Infine, il desiderio di vivere in pienezza la comunione con Dio e con i fratelli; il peccato infrange o in qualche modo scalfisce questa comunione, la rende meno trasparente e vera; il cuore di un convertito deve imparare a riamarla in modo più profondo.

8. Questo mio invito a vivere la riconciliazione sacramentale in occasione della pasqua può raggi ungervi all'interno di situazioni molto diverse. Non parlo tanto delle differenze di ambiente, di professione, di età; penso piuttosto alla diversità di situazioni «spirituali».
C'è tra noi chi ha rotto in modo grave l'alleanza battesimale; deve decidere un ritorno vero al Signore, nel segno di un cuore pentito e desideroso di perdono e di novità di vita.
C'è chi sta vivendo magari da indifferente o da distratto la propria fede; il cuore è altrove, soltanto nelle cose magari, e per Dio non c'è spazio né desiderio di ricerca; conversione significherà allora decisione di uscire da questo grigiore per rimettersi in cammino ed accettare di avere un rapporto vero e personale con il Signore.
C'è chi sta camminando nella fede, da tempo magari; il cammino penitenziale verso la pasqua lo aiuta allora a riconfermare delle scelte, a purificarsi dai segni di una fragilità che si manifesta in tante forme, a meglio comprendere il disegno di Dio sulla sua vita.

9. C'è qualcosa di grande in tutto questo, meritevole d'essere vissuto in pienezza.
Se nelle mie parole tutti - i singoli e le comunità - vediamo l'invito a entrare nel vivo di noi stessi, delle nostre scelte, del nostro modo di porci di fronte a problemi, situazioni, ambienti, l'itinerario spirituale di conversione potrà trasformarsi in qualcosa che ha un'enorme rilevanza sotto il profilo personale e sociale.
Il sino do ha espresso in più modi questa convinzione della pratica incidenza tra cammino di conversione e autentica testimonianza di riconciliazione:
«.. .dovremo farci attenti a riscattare la celebrazione della penitenza dal rischio della pratica insignificanza - radice non secondaria della sua crisi - in cui spesso viene posta... Occorre far emergere con maggiore evidenza la connessione tra la richiesta di confessarsi e l'impegno di superare le divisioni, all'interno di se stessi, nel rapporto con gli altri e con la società» (A un mese dal Sinodo II,3).

III. MINISTRI DEL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
10. Il dialogo che vi sto proponendo coinvolge tutti, pastori e fedeli, in quanto penitenti. È vero, d'altra parte, che per coloro che hanno il compito di ministri della riconciliazione in virtù dell'imposizione delle mani loro conferita nell'ordinazione sacramentale, questa riflessione sull'itinerario penitenziale conferisce nuove prospettive al modo di intendere l'esercizio del ministero della misericordia. Dedico particolarmente a loro quest'ultimo scorcio della mia lettera.
Vorrei incoraggiare a vivere e a gustare quel momento così qualificante del ministero qual è quello che si esprime nella celebrazione sacramentale della riconciliazione; nonostante la fatica e l'impegno che esso comporta, il ruolo di ministri della misericordia va vissuto con gioia, e con un sentimento di profonda gratitudine a colui che dives in misericordia ci fa degni d'essere tramite del suo amore verso i peccatori.

11. Situare la riflessione relativa al ministero della penitenza alla luce delle considerazioni fatte precedentemente, significa essere aiutati a comprendere quali valori e atteggiamenti debbono accompagnarci nell'interpretarlo. Siamo chiamati anzitutto - quando ascoltiamo il penitente nel dialogo personale o quando aiutiamo la comunità a rileggere la propria vita nelle celebrazioni in forma comunitaria - a rendere familiare il rimando a quella Parola che giudica e che illumina, che discerne e guarisce; in questo modo e per questa ragione diventiamo «guida» dei nostri fratelli.
Sarà importante conseguentemente manifestare l'atteggiamento fraterno proprio di chi ascolta e incoraggia; occorrerà anche richiamare ed educare agli autentici atteggiamenti religiosi, così come si renderà necessario lo sforzo di suggerire il sentiero di una conversione fatta di passi veri e di apertura alle scelte ispirate al vangelo.
A volte non è facile interpretare il momento di vita di un fratello perché non sempre ci appaiono chiari i perché e le cause di alcuni comportamenti. Vi invito tuttavia a non vivere mai con angoscia questa difficoltà. In ogni occasione è sempre possibile porsi questa domanda: questo fratello o questa sorella che passo potrebbe fare oggi? Anche se piccolo, uno spiraglio si aprirà sempre; e sarà l'avvio per un cammino che riprende, un modo cioè con cui il penitente non si sente condannato a rimanere nella sua situazione, ma esortato ad affidarsi a colui che gli dà forza.

12. Potrà essere utile, al riguardo, ridare attenzione a quanto ebbi occasione di dire in varie circostanze circa il colloquio personale all'interno della celebrazione sacramentale della penitenza. Dovremmo aiutare dapprima l'esprimersi di una confessio laudis che dà voce di ringraziamento a chi avverte di esser stato in tanti modi sorretto, visitato da Dio.
Seguirà la confessio vitae, non intesa soltanto come elenco dei peccati commessi, ma anche come individuazione delle loro radici profonde che consenta poi di contrapporsi ad essi in maniera efficace.
Diverrà conseguente allora la confessio fidei, il chiedere a Dio di essere purificati nella radice dei propri peccati, di essere medicati nelle forze oscure che non controlliamo e da cui derivano tanti atteggiamenti sbagliati; il chiedere che venga tolto il peso dei peccati passati, che genera scoraggiamenti, forme di depressione, di aridità, di stanchezza. Occorre insistere in questa preghiera: essa viene coronata dall'imposizione delle mani e dall'assoluzione sacramentale che assicura che non si è soli coi propri propositi, ma che lo Spirito santo, mandato dal Risorto per la remissione dei peccati, rinnova interiormente e guida nel cammino.

CONCLUSIONE
13. L'augurio di buon cammino quaresimale che formulo a ciascuno e ad ogni comunità al termine di queste riflessioni si carica quindi di richiami importanti. Diviene anzi preghiera, da affidare al Padre nel nome di Cristo Signore che la liturgia della prima. domenica ci presenta come vincitore della tentazione, nel tempo del deserto.
Il vangelo di misericordia e di riconciliazione penetri nel cuore di tutti noi e nella vita delle comunità dentro cui viviamo. Aiuti l'esprimersi di una testimonianza vera di fede che dica nei fatti che la parola del Signore è operatrice di pace e di mitezza. Alimenti la volontà di carità e di servizio nella vita delle nostre chiese e ci renda capaci di operare con speranza in un mondo tanto diviso come il nostro e tra gli uomini del nostro tempo che sembrano spesso vivere così lontani da Dio e indifferenti ai loro fratelli.
Ripartiti da Emmaus - come ci ricorda la lettera pastorale di quest'anno - andiamo verso Gerusalemme per celebrare ed annunziare, con il cuore riconciliato, che il Signore è morto e risorto!

Lettera alla diocesi per la quaresima 1984

L'ATTEGGIAMENTO EUCARISTICO
Meditazione al clero piemontese
Carissimi confratelli, voi siete venuti a Milano per celebrare una giornata di adorazione in occasione del congresso eucaristico nazionale e avete desiderato riunirvi in questa basilica di s. Ambrogio, che fu maestro della Parola e dell'eucaristia.
La città e la diocesi vi accolgono a cuore e braccia aperte!
Preghiamo la Madonna della Consolata, preghiamo i nostri santi chiedendo loro di aiutarci a cogliere il senso delle parole della Scrittura che abbiamo ascoltato. Vogliamo, infatti, riflettere insieme sul c. 11, 27-31 della prima lettera ai Corinti e lo faremo con il metodo classico, tradizionale, usato anche da s. Ambrogio, della lectio: leggere e rileggere il testo per individuarne gli elementi portanti.
Dopo la lectio passeremo alla meditatio, alla riflessione sui valori del brano in modo da avviarci, infine, alla contemplatio, all'adorazione personale che ciascuno farà del mistero di Cristo presente nella Scrittura ed ugualmente presente nell'eucaristia.

LECTIO 1 Cor 11,27-31
Con la lectio dobbiamo cercare di capire come il brano si colloca nel contesto, che cosa ci dice e quali siano le sue fasi successive.
Il contesto immediato è quello della seconda parte della prima lettera ai Corinti là dove l'apostolo parla dell'incompatibilità tra la celebrazione dell'eucaristia e le divisioni della comunità. Ricorda, poi, la tradizione antica, che lui stesso ha ricevuto, su come Gesù ha istituito l'eucaristia, per concludere con le parole che abbiamo ascoltato.
Il contesto più ampio parte dalla riflessione del c. 10 sull'antico testamento: ci sono un cibo e una bevanda spirituale che hanno nutrito Israele e c'è continuità tra quel cibo e quella bevanda e ciò che nutre la chiesa oggi e la fa un unico corpo. L'idea di corpo eucaristico, di corpo della chiesa è, dunque, già dominante nel capitolo che precede il nostro e continuerà ad esserlo nei capitoli 12, 13 e 14 in cui Paolo parla dei carismi e delle diverse funzioni nel corpo.

Elementi portanti del testo
Nella sua struttura immediata il brano è un breve discorso persuasivo che comprende, innanzitutto, un'affermazione fondamentale: «chiunque in modo indegno mangia il pane e beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore». All'affermazione segue un'esortazione: «Ciascuno pertanto esamini se stesso». E spiega: «perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna». La spiegazione è rinforzata da un esempio: «È per questo (perché non vi esaminate) che tra voi ci sono molti ammalati e infermi...».
Dopo l'esempio c'è l'esortazione finale: «Se però ci esaminassimo attentamente... non saremmo giudicati». La conclusione è una parola di misericordia: se però «siamo giudicati dal Signore» è perché «veniamo ammoniti» e ci correggiamo «per non essere condannati insieme con questo mondo».
Questa breve pericope sottolinea dei temi che sono ricorrenti: è un vocabolario tipico, quasi processuale, da tribunale.
Le parole che strutturano il brano sono tre: indegnamente («chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice»), responsabili («sarà reo del corpo e del sangue»), esaminarsi («ciascuno si esamini per non essere giudicato»).
Attorno a queste parole ruota tutto il brano. Prima, però, di chiederci cosa vogliono dire e come noi le intendiamo solitamente, vorrei fare una riflessione più generale.

Serietà dell' eucaristia
Non è facile richiamare esattamente le circostanze del modo scorretto di celebrare l'eucaristia a Corinto perché non risultano del tutto chiare dalla descrizione. Paolo stesso dice: «le altre cose le sistemerò alla mia venuta» e non ci dà quindi il quadro completo delle scorrettezze liturgiche o cultuali della comunità.
Tuttavia, qualunque sia l'interpretazione immediata che possiamo dare alle singole parole, ciò che risalta è la grande serietà con cui l'apostolo considera l'eucaristia, la grande serietà dell'atto di mangiare il pane e di bere il calice. Dal suo modo di esprimersi, non sempre facile da comprendersi, ci rendiamo conto della sua consapevolezza profonda che l'azione del mangiare «questo pane» e del bere «questo calice» coinvolge l'intera vita dell'uomo. La sua vita fisica che può venire soggetta a malattia o a morte; la sua vita morale perché può renderlo indegno, colpevole; la sua vita spirituale che si espone alla condanna. Qui possiamo cogliere anche l'aspetto positivo di ciò che viene deprecato come conseguenza della superficialità di fronte all'eucaristia. Il mangiare questo pane e il bere questo calice è azione che coinvolge la vita e la morte dell'uomo, perché lo lega al destino supremo di Gesù: alla sua vita, alla sua morte, al suo ritorno. L'apostolo cerca di dire alla sua comunità: Guardate che ciò che fate coinvolge responsabilmente la vostra vita e rischia di coinvolgerla irreparabilmente se lo fate con leggerezza.
La pericope, dunque, è un'appassionata esortazione fondamentale: non si tratta di prescrivere l'una o l'altra finezza liturgica, di dare qualche ritocco di maggiore armonia, si tratta di vita o di morte per l'uomo e per la comunità.
Siamo così di fronte alla serietà delle parole di Paolo e alle domande che propongono: anche noi dobbiamo essere pieni di timore perché ogni giorno mangiamo quel pane e beviamo quel calice e corriamo, quindi, quotidianamente il rischio di mangiare e bere la nostra condanna.
La nostra lectio comincia, allora, a farsi riflessione e preghiera: «O Signore, donaci di comprendere che cosa intende l'apostolo Paolo quando parla di indegnità, cosa vuol dire essere degni di questo pane, quale atteggiamento vuole suscitare in noi parlando della serietà nell'accostarsi al pane e al vino dell' eucaristia».

MEDITATIO
Per riflettere su che cosa sia l'indegnità di cui parla il testo, possiamo partire da una testimonianza che ci rivela quanto sia ancora viva, in alcune comunità cristiane, l'esperienza dell'indegnità rispetto all'eucaristia. In un incontro ecumenico, tenuto poco tempo fa a Milano in preparazione al congresso eucaristico, un pastore protestante ha raccontato: «Anni fa in Scozia - ma la stessa consuetudine si ritrova in numerosi paesi di tradizione protestante - ho potuto constatare che quando c'è il culto con la cena del Signore, il culto si conclude con la benedizione prima della cena. Le persone che non si sentono di partecipare all'eucaristia si alzano e se ne vanno, ed è un grande numero. Quest'abitudine è sconosciuta alle chiese italiane protestanti: addirittura, però, in alcune chiese nel nord della Scozia, ho constatato con perplessità come solo un piccolissimo numero di persone avesse fatto la confermazione, cioè l'ammissione all'eucaristia». Tutti ricevono il battesimo, ma solo alcuni accedono alla confermazione che segna la capacità di essere ammessi all'eucaristia. «Per contro, un enorme numero di persone, vivamente cosciente della propria indegnità, non era entrato a far parte della comunità. Solo un piccolissimo gruppo, per lo più persone anziane, osava di quando in quando farsi ammettere alla cena, aggiungendosi così ai pochi degni».
I diversi significati dell'indegnità eucaristica
Questo modo di esprimere la degnità o l'indegnità non è molto lontano dalla nostra esperienza: ricordo che una volta, durante una grandissima celebrazione liturgica in un monastero del monte Athos, si accostò alla comunione, con mia sorpresa, soltanto un eremita che stava tutta la settimana solo sulla montagna a pregare. E in alcuni nostri paesi ci sono ancora persone che, non ritenendosi degne, si accostano all'eucaristia una sola volta all'anno: è la tradizione degli anziani, soprattutto uomini ed è probabilmente la conseguenza di un certo modo di intendere l'indegnità dell'uomo rispetto all'eucaristia. Sappiamo, d'altra parte, che oggi nelle nostre comunità la situazione si è praticamente capovolta perché sono moltissimi coloro che fanno la comunione senza essersi confessati. Dobbiamo allora dire che nella chiesa si verificano oscillazioni, modi svariati di intendere la degnità e l'indegnità: il problema, profondamente radicato nel cuore della comunità cristiana, si esprime in esperienze molteplici che danno poi luogo a forme sociologiche diverse.
S. Paolo pone con grande crudezza la serietà del problema sottolineando che l'eucaristia non è un gesto cultuale che va da sé. È la prima riflessione che possiamo fare: l'eucaristia non si offre indifferentemente a chiunque.
Ci sono stati dei secoli che hanno posto l'accento sulla indegnità cultuale propriamente detta, addirittura su forme di impurità fisica che impedivano di accedere all'eucaristia. Oggi, giustamente, noi sottolineiamo di più il tema della indegnità morale, che tocca il fondo della coscienza e siamo soliti definirla come «peccati» che gravano su di noi e dai quali dobbiamo purificarci. In questo modo interpretiamo, quasi istintivamente, il testo di Paolo: quando ci sono divisioni nella comunità non si è degni di fare eucaristia. Viene subito alla mente l'ammonizione evangelica: «Quando presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, deponi la tua offerta davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Mt 5,23-24).
Un altro accento che istintivamente cogliamo nel brano, è, soprattutto oggi, la divisione stigmatizzata tra ricchi e poveri, ubriachi e affamati, che rende indegni di ricevere il corpo del Signore.
E c'è pure l'indicazione del non sapersi aspettare, del non sapersi accogliere. Anche questa è una colpa.
Noi, quindi, alla domanda in che cosa consiste questa indegnità rispondiamo che è un'indegnità morale, un comportamento contrastante con il significato dell'eucaristia che è comunione, amore, unità. L'indegnità è, in concreto, divisione nella comunità, divisione tra ricchi e poveri, contrasti anche esteriori, tutti segni che la comunità non ha come centro l'eucaristia, ma che ne fa pretesto per altre cose.

L'indegnità radicale è l'autosufficienza
Vorrei porre tuttavia un'ulteriore domanda: se si tratta solo di questo, perché l'apostolo non dice queste cose? Evidentemente le suppone, però la sua insistenza è un'altra: esaminatevi, giudicatevi, chi non si esamina e non si giudica si accosta indegnamente.
In realtà, la risposta che Paolo dà non è quella che noi abbiamo presupposto dal contesto: chi si accosta con cuore diviso non è degno. Dice piuttosto: non è degno chi non si giudica, chi non si esamina.
È degno, solo chi prova se stesso, chi esamina se stesso.
Il testo, ritornando continuamente su questo concetto, ci fa sottolineare l'aspetto che, a prima vista, forse troppo concentrati sul contesto generale, non riusciamo a cogliere: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso... perché se no mangia la propria condanna... Se però ci esaminassimo... non saremmo giudicati». La prima indegnità radicale è quella di non giudicarsi, di non discernere; potremmo dire, con parole che sembrano insufficienti, ma che hanno un significato molto grave, è la disattenzione, la superficialità da cui discende un modo ovvio, evidente di {'rendere tutto così come viene, quasi fosse dovuto. E il senso di autosufficienza.
È l'autosufficienza che caratterizza alcuni della comunità di Corinto, che mangiavano e bevevano allegramente perché il dono eucaristico era per loro qualcosa di logico, di dovuto, qualcosa che uno si aspetta e su cui non discute. Il peccato fondamentale che va combattuto, perché distruttivo dell'eucaristia, perché è come un tarlo che rode lo stile eucaristico della comunità, è la pretesa di ovvietà. Ed è la stessa che abbiamo rispetto alla parola di Dio, Parola che già crediamo di sapere, di conoscere, di aver sentito tante volte.

L'atteggiamento eucaristico
L'atteggiamento che Paolo chiede, dunque, è quello di giudicarci e, paradossalmente, di ritenerci indegni: la vera indegnità è di ritenersi degni, di ridurre il dono a dovuto, la grazia a debito, l'amore a calcolo. Quando noi giungiamo a questo, ci accorgiamo che siamo lontanissimi dall'atteggiamento eucaristico che dovrebbe avere l'uomo. Quello, per esempio, di Elisabetta: «Chi sono io perché la madre del mio Signore venga a me?». Quello di Maria che si «turbò» alle parole dell'angelo, perché non le erano dovute. Quello del centurione - che la chiesa ci ricorda ogni volta che riceviamo la comunione -: «Signore, io non sono degno che tu venga nella mia casa»; il centurione era stato lodato dai farisei, era un notabile che aveva fatto grandi beneficenze, che poteva ritenersi «degno», eppure afferma di non esserlo. L'atteggiamento eucaristico è quello di Isaia: «Ohimé, uomo dalle labbra impure io sono e sto vedendo la Gloria del Dio vivente». È l'atteggiamento di Giovanni il Battista: «Non sono degno di sciogliere il legame dei suoi sandali»; è quello del pubblicano: «Signore, abbi pietà di me peccatore».
L'indegnità eucaristica, invece, è espressa chiaramente dal fariseo: «Ti ringrazio, Signore, che non sono come gli altri uomini: adulteri, ladri...», ti ringrazio perché sono a posto, sono tranquillo con la mia coscienza e, perciò, ho diritto al tuo dono.
Mi permetto di citare qui ancora una frase del pastore protestante nella sua riflessione ecumenica sull'eucaristia: «Mangia e beve indegnamente colui che si avvicina alla mensa del Signore senza essere affamato e assetato del perdono di Cristo; mangia e beve indegnamente colui che non riconosce come intorno a questa mensa si forma e si aduna il popolo nuovo di Cristo; mangia e beve indegnamente colui che, sicuro della propria degnità, si crede abbastanza in regola con Dio e con gli uomini da potersi avvicinare a quella mensa. È una sorta di paradosso, un rovesciamento del comune modo di pensare».
La presunzione di credersi degni dell'eucaristia apre la porta ad una sufficienza che rende l'eucaristia poco efficace, perché non la si vede più come dono incredibile, infinitamente grande e immenso di Dio di fronte al quale dobbiamo sempre cadere in riconoscente adorazione.

VERSO L'ADORAZIONE EUCARISTICA
Che cosa può essere la contemplazione eucaristica, l'adorazione su cui abbiamo concentrato tanto del nostro impegno in questi giorni celebrativi del congresso? Che cosa vuole essere quest'adorazione eucaristica che talvolta non comprendiamo bene?
Vuole essere la coltivazione di un atteggiamento stupito di fronte al Cristo che dà la sua vita per noi, di fronte al suo amore infinito di cui siamo indegni e che pure ci coglie con infinita misericordia nella nostra povertà. L'adorazione eucaristica è cultura nel senso più profondo.
Quando si parla di cultura e di ciò che è premessa necessaria della cultura, si parla di coltivare alcuni atteggiamenti di fondo senza i quali nessuna cultura è reale e penetrante. L'adorazione è, propriamente, coltivazione dei sentimenti di umiltà, povertà, riconoscenza e perciò di eucaristia, di ringraziamento ammirato e pieno di stupore di fronte al dono di Dio.
Questi sentimenti, coltivati nell'adorazione, ci fanno vivere pienamente anche la messa e la comunione eucaristica. Allargando il discorso vorrei dire che l'atteggiamento di adorazione è importante non soltanto perché l'eucaristia abbia la sua forza in noi, ma pure perché la Parola abbia la sua forza in noi. La Parola è un dono che comprende l'imprevedibilità appassionata di Dio e che sempre ei coglie nella nostra sprovvedutezza. Soltanto così si rivela come parola vivente, che ha da direi qualcosa di nuovo che non conosciamo ancora, se ci mettiamo di fronte ad essa in reale ascolto.
Infine, l'atteggiamento di indegnità verso l'eucaristia, di indegnità e di ascolto verso la Parola, noi dobbiamo esprimerlo verso la preghiera perché anch'essa è un dono. Mi scriveva un giovane: «Confesso con vergogna che non so pregare». Ma è chiaro che non sappiamo pregare: l'importante è partire dal riconoscimento di non sapere pregare e non ei può essere vergogna nel dirlo, proprio perché la preghiera non fluisce in noi perché ci mettiamo a farla come se sapessimo pregare, come se ci fosse dovuta per l'esperienza che ne abbiamo ed allora, giustamente, cadiamo nella tristezza o nell'aridità.

Chiediamo alla Madonna e ai nostri santi di farei comprendere la vera dignità di fronte all'eucaristia, quella che consiste nel ritenersi indegni. Chiediamo che attraverso l'adorazione eucaristica che stiamo per fare, tutti noi, come comunità cristiana, sentiamo la sua forza trasformante. Noi siamo deboli o malati o assenti o mancanti, come comunità cristiana, ma il miracolo dell' eucaristia può nuovamente e sempre farei rivivere.
Meditazione al clero piemontese Basilica di s. Ambrogio
18 maggio 1983
Settimana del congresso eucaristico nazionale


* * *
CONTEMPLARE IL CROCIFISSO
In pellegrinaggio a Roma con la diocesi

I. Carissimi pellegrini ambrosiani, rinnovo prima di tutto il mio saluto più cordiale a voi che siete venuti con me per visitare il papa, per prendere l'indulgenza del giubileo, per iniziare solennemente a Roma, nella festa di san Carlo Borromeo, l'anno commemorativo del 4° centenario della morte del nostro grande vescovo.
Saluto e ringrazio tutti voi perché avete accolto l'invito del pellegrinaggio dio ce sano e vi siete sobbarcati a non poche fatiche. Penso, in particolare, allo sforzo e all'impegno di tutti i vescovi, dei vicari e delegati episcopali, dei sacerdoti che con celebrano con me; penso ai malati che sono qui con noi; penso ai giovani che, dopo la preghiera di ieri sera in duomo, hanno passato la notte in treno, insieme a me, e in treno ritorneranno a Milano questa notte.
C'è poi la fatica di stare in piedi adesso, pur essendo la chiesa molto capiente: sono tutti sacrifici inerenti al pellegrinaggio e al nostro giubileo penitenziale.

LA CATTEDRALE DEL PAPA
Celebriamo l'eucaristia nella chiesa cattedrale del papa. Spesso noi pensiamo, istintivamente, che sia s. Pietro la chiesa del papa. In realtà lo è questa antichissima basilica di s. Giovanni in Laterano, madre delle chiese di tutto l'universo e, fin dai tempi più antichi, cattedrale del vicario di Cristo.
Per questo ci sentiamo strettamente uniti al papa e da qui gli rivolgiamo il nostro ringraziamento per la meravigliosa accoglienza di stamane e per le parole programmatiche che ha detto e che serviranno di guida per tutto l'anno pastorale.

LA ROMA DI SAN CARLO
S. Giovanni in Laterano è anche legata alla memoria di san Carlo che vi è certamente venuto durante l'anno santo del 1575 insieme ai pellegrini milanesi. In quell'occasione sappiamo che visitò le grandi basiliche romane, pregando e facendo penitenza. Scrive infatti il suo biografo: «Ripeté la confessione dei suoi peccati passati e si immerse nel programma di preghiere stabilito. Si recò a piedi processionalmente col suo seguito con ogni manifestazione di pietà ed umiltà alle basiliche fissate quindi anche in s. Giovanni in Laterano - ed in esse visitò diligentemente tutti gli oggetti che avevano un qualche culto particolare. Lungo la strada si recitavano senza alcuna interruzione le litanie e molte altre preghiere» (cf. C. Bascapé, Vita di s. Carlo Borromeo) .
Noi stiamo seguendo le orme di san Carlo anche in questo: abbiamo pregato, ci siamo preparati con la confessione al giubileo e continueremo a pregare.
San Carlo ha, in Roma, moltissimi ricordi della sua vita. Se gli anni decisivi della sua formazione intellettuale sono stati quelli passati a Pavia, gli anni decisivi della sua conversione, e quindi di tutta l'impostazione spirituale della sua vita, sono quelli trascorsi a Roma.
Qui ha conosciuto Gesù Signore crocifisso: lo ha conosciuto in un modo profondo, intimo, personale che lo ha accompagnato negli anni successivi e che è stato il sostegno della sua instancabile attività.
Proprio a Roma, infatti, nel 1563, anno della sua ordinazione sacerdotale, dalla sua prima messa, della sua ordinazione episcopale, san Carlo fece un mese intero di esercizi spirituali. E durante quelle quattro settimane concepì il proposito di vita e l'impegno di conversione che portò poi avanti, coerentemente, per tutto il resto della sua esistenza. Ebbe probabilmente allora l'intuizione del mistero della croce che prenderà a simbolo e segno della sua penitenza e delle grandi processioni penitenziali. La croce che noi vogliamo onorare, in modo particolare, in questo anno santo, facendone appunto il simbolo dell'anno centenario di san Carlo.
Scrive un altro suo biografo: «Da quel momento (i mesi decisivi del luglio e agosto 1563) Carlo è come attirato dalla croce di Cristo che più tardi chiamerà volentieri «la cattedra» su cui Gesù è salito per insegnare, come in un riassunto, tutto ciò che aveva insegnato in parole e azioni. Gesù crocifisso diventa per lui un «libro aperto», nel quale le ferite sono come altrettante pagine, le gocce del sangue come altrettante parole, le piaghe altrettanti passi. La sua vita diventa vita di preghiera e di penitenza. Trascorrerà momenti sempre più lunghi di contemplazione davanti al crocifisso» (cf. A. Deroo, S. Carlo Borromeo, Ancora 1965).
A Roma, dunque, noi ci troviamo alla radice, al seme di tutta l'attività di san Carlo e siamo qui per prenderne ispirazione.
Dalla radice della sua conversione e del suo amore alla croce, vorrei, brevemente e semplicemente, trarre tre conclusioni.

1. La sorgente della missione
La prima conclusione è che la straordinaria, instancabile e incredibile attività missionaria di san Carlo è profondamente radicata nella contemplazione, nella preghiera e nell' eucaristia.
2. Impegno missionario di catechesi
Dopo aver sottolineato e proposto il tema della contemplazione, del primato della Parola, della centralità dell'eucaristia nei precedenti anni pastorali, noi vogliamo dedicare quest'anno di san Carlo al tema dell'approfondimento della nostra coscienza missionaria.
Ripercorrendo l'itinerario del nostro patrono, vogliamo tenerci sempre ancorati, come lui, alla contemplazione del crocifisso, la cui realtà ci è ripresentata ogni volta che celebriamo la s. messa, sacrificio della croce.
Ecco allora la seconda conclusione: a partire da questa contemplazione, in unità con l'eucaristia, vogliamo seguire s. Carlo nel suo impegno missionario, soprattutto in quella catechesi vasta, ampia e capillare che ha caratterizzato la sua attività e che per noi si traduce, in particolare, in un'attenzione speciale alla catechesi con gli adulti e per gli adulti.
Chiediamo a san Carlo la benedizione sul nostro cammino di missione e di catechesi, che dovrà sfociare nel convegno catechistico diocesano che raccoglierà le esperienze, le riflessioni e i propositi di quest'anno.

3. Itinerari, luoghi e ambienti di catechesi
La terza conclusione è che oggi, nella nostra situazione di civiltà e di cultura, si può pensare ad un'attività missionaria soltanto se si fanno proposte concrete, individuando itinerari catechistici per adulti e scoprendo luoghi e ambienti di catechesi lunghe e programmate.
A questo vogliamo impegnarci partendo da Emmaus e approfondendo (come ci ha detto anche il papa, stamane), in chiave missionaria, il tema della catechesi sistematica, soprattutto per e con gli adulti. Riscoprendo ambiti di incontro e di parola in cui la catechesi possa essere presentata in forma organica e completa, noi potremo ridare fiato, coraggio, parola alla nostra fede e, di conseguenza, ridarle espressione culturale e civile degna della sua intrinseca potenza.
San Carlo ci accompagni nel cammino; benedica l'inizio che desideriamo porre qui, nella memoria di s. Giovanni Battista e di s. Giovanni Evangelista ai quali è dedicata questa basilica, sotto lo sguardo della vergine Maria, davanti al Cristo Signore che ci guarda dal mosaico, antico e meraviglioso, che veglia sull'eucaristia che stiamo celebrando.

Omelia in s. Giovanni Laterano 4 novembre 1983
festa di san Carlo Borromeo
II. Oggi, in occasione del giubileo, vorrei che fosse san Carlo stesso a farci l'omelia. Tuttavia, volendo raccogliere anche soltanto alcuni dei principali pensieri del santo sul tema della croce, noi rischieremmo di fare prediche lunghe, come quelle che teneva al suo tempo e, nonostante questo, di restare ancora molto indietro nel cammino.
Cercherò dunque di sottolineare dei momenti della vita di san Carlo, nel suo cammino verso e con la croce, perché ci possano aiutare a vivere il nostro giubileo.

LA MEMORIA DEL CARDINALE ILDEFONSO SCHUSTER
Prima però desidero rivolgere un particolare saluto ai monaci benedettini che ci ospitano nella basilica di san Paolo: essi, da secoli, hanno qui il loro monastero e custodiscono la tomba dell'apostolo, così come, per secoli, i monaci benedettini custodirono, a Milano, la tomba di sant' Ambrogio.
Il ricordo va, naturalmente, al grande figlio, e poi padre abate, di questa comunità: Alfredo Ildefonso Schuster. Siamo nella sua chiesa, presso la sua comunità carissima a cui sempre ritornava col pensiero quando era ormai cardinale arcivescovo di Milano. Egli stesso diceva che qualche volta, di notte, sognava di essere ancora qui, tra i monaci, e di tenere il capitolo.
Il suo cuore di orante, di asceta e di pastore si è formato tra queste mura ed è, ora, certamente contento di vedere dal cielo noi che celebriamo l'eucaristia e che la celebriamo in rito ambrosiano. È la prima volta che nella basilica di s. Paolo fuori le mura si celebra la messa nel nostro rito, come ieri, per la prima volta, l'abbiamo celebrata in s. Giovanni in Laterano. Due anni or sono usammo il rito ambrosiano per la celebrazione eucaristica in s. Pietro e so che altre volte si era celebrata in rito ambrosiano nella basilica di s. Maria Maggiore.
Abbiamo, per così dire, completato «il giro ambrosiano» delle quattro grandi basiliche romane e di questo credo davvero che si rallegri il servo di Dio cardinale Schuster, che ci sta accompagnando con la sua preghiera d'intercessione.

UNA PREDICA DI SAN CARLO SUL GIUBILEO
Vorrei citare innanzi tutto una predica che san Carlo tenne per invitare a vivere pienamente il giubileo: «Grandissime grazie dobbiamo noi rendere a Dio e alla benignità di Nostro Signore che non cessa di continuamente invitarci alla penitenza, aprendoci egli stesso con ogni sorta di benignità le porte della divina misericordia, al fine che noi riconciliati, come quel figlio prodigo, con l'Eterno Padre, possiamo impetrare da Lui grazia che liberi gli altri nostri fratelli et noi medesimi, dalle forze degli infedeli, il che è stata la potissima e principale intenzione di Sua Beatitudine il Papa, a cui come potremo noi mancare di satisfare, avendo ci egli fatto così prezioso et inestimabile dono, com'è l'indulgenza plenaria dei peccati?» (dall'Omelia in s. Maria Maggiore, in occasione del giubileo di Malta, anno 1565) .
San Carlo coglie, dunque, nell'indulgenza, il tesoro della misericordia di Dio, della conversione, del ritorno; e insieme coglie il senso ecclesiale e il rapporto col papa.
Anzi, sempre in questa omelia, giunge a cogliere, a un certo punto, il tema del corpo mistico legato al tema della croce. Siamo nell'anno 1565, tre anni dopo la grande conversione, e già affiora il tema della croce, che prenderà sempre più corpo e vita nelle sue parole e nella sua esperienza di penitente: «Sibbene una sola stilla del preziosissimo sangue di Cristo basta per redimere mille mondi, è tanto il merito della passione di quel gloriosissimo corpo, unito inseparabilmente alla divinità, che non si può neppure immaginare nonché trovare debito alcuno così grande che senza fine non ne sia avanzato, nondimeno il Salvatore nostro, per manifestarci maggiormente la bontà, la potenza e gloria sua, vuole satisfare per noi all'Eterno Padre, non solo col prezzo del suo vero corpo, ma con quello ancora del suo Corpo mistico, che sono i santi et eletti suoi, facendo tutto un tesoro, dei suoi meriti e dei loro».

San Carlo vive il momento solenne del giubileo in unione con le preghiere e i meriti della Madonna e dei santi, in unione con tutto il corpo mistico di Cristo. Si delinea il grande tema della croce, del sangue di Cristo, della potenza della redenzione che è il tema di questo anno giubilare, a 1950 anni dalla crocifissione, morte e risurrezione di Gesù.
LA CONTEMPLAZIONE DELLA PASSIONE IN SAN CARLO
Per seguire il cammino di san Carlo verso la croce e la contemplazione del crocifisso, voglio citare ancora due omelie da lui fatte negli ultimi anni della sua vita.
La prima omelia che desidero ricordare è del 1583: «La meditazione della passione di Cristo renderà dolcissime le cose più dure, toglierà ogni difficoltà... Veramente felici coloro che hanno impresso nel cuore Cristo crocefisso, e non svanisce mai! Questa continua memoria è per loro uno scudo fortissimo e un'armatura contro tutti gli attacchi di Satana... Chi non sopporterà serenamente anche le cose più terribili pensando: Se sono cristiano, non dovrei essere seguace e imitatore di Cristo?.. Egli dalla passione e dalla morte passò alla gloria (è il tema della lettera ai Filippesi che abbiamo ascoltato come seconda lettura)... e io rifiuterò, prima della gloria, di patire qualcosa? Egli ha il capo trafitto dalle spine, mani e piedi trapassati dai chiodi... E io mi dedicherò tutto ai piaceri? O se sapeste, fratelli, come questa continua meditazione è per il demonio odiosa e terribile, vi applichereste sempre ad essa!... O felici coloro che in ogni istante custodissero la memoria di questa Passione che dà la vita! Oso dire che sarebbe loro, in qualche modo, impossibile peccare» (dall'Omelia 45 del 1583: Sassi, Sancti Caroli Borromei Homiliae, Milano 1747).
Vediamo come, in tutti questi anni, il tema della meditazione e della contemplazione della passione fosse entrato nel cuore e nella mente di san Carlo, così da costituire il suo riferimento fondamentale e da dar ragione all'iconografia e alle rappresentazioni artistiche che ce lo mostrano in pianto davanti al crocifisso o in contemplazione adorante del crocifisso.
La seconda omelia che voglio citare è del 1584, l'anno della morte del santo. Si domanda: «Perché non ci infiammiamo anche noi ardentemente per tanto misericordioso amore di Dio verso di noi? Perché, almeno, a tanta carità non rispondiamo con un'assidua contemplazione?». È l'invito alla contemplazione del Signore crocifisso.
«O noi felici se potessimo versare due o tre lacrime ogni giorno davanti all'immagine di Cristo Signore crocefisso!, dicendo: il Figlio di Dio innocentissimo, così tormentato, sputacchiato, trafitto dalla lancia, fu confitto per me malfattore, indegnissimo peccatore e vilissimo vermiciattolo, per la mia superbia, le mie pompe, la mia sfrenata licenza!».
Ed esortando i suoi figli esclamava: «Lasciate dunque, o figli, botteghe, officine, affari del secolo; giacché siete impediti dal lasciare del tutto la città, almeno lasciate queste cose per qualche poco tempo, affinché in questi sabati tutti insieme... ci dedichiamo alla meditazione della Passione di Cristo» (dall'Omelia 101 tenuta nel sabato della 2a settimana di quaresima del 1584: Sassi, Sancti Caroli Borromei Homiliae, Milano 1747).

Ci potremmo domandare quale sia l'origine interiore della devozione di san Carlo alla passione di Cristo, alla crocifissione del nostro Signore redentore.. A me pare che si debba approfondire e chiarire, per comprendere la forza e la potenza di questa omelia del 1584, una radice che è certamente paolina.
San Paolo che veneriamo qui, nella sua tomba, con le sue parole di contemplazione sulla croce e su Gesù crocifisso, è all'origine dell'atteggiamento interiore di san Carlo. Le parole di Paolo sono tuttavia mediate attraverso l'esperienza del mese di esercizi spirituali che, come ho ricordato ieri, san Carlo fece a Roma nell'estate del 1563, in preparazione alla sua prima messa. Negli esercizi meditò a lungo sulla passione del Signore, sia al termine della prima settimana, contemplando il crocifisso, vedendolo come davanti a sé e parlandogli a tu per tu, sia per l'intera terza settimana, dedicata totalmente alla contemplazione dei misteri della passione. Da quel periodo inizia la sua memoria, che diverrà poi continua, della passione del Signore come strumento di salvezza, forza nelle difficoltà, garanzia quasi egli dice - di impeccabilità.
Possiamo allora terminare con la preghiera che il santo fa nell'omelia della 3a settimana di quaresima del 1584: «Rimani con noi con la tua grazia, col tuo splendore, col tuo calore, o Signore Gesù. Rimani nei nostri cuori, nella nostra volontà e nell'intelligenza, nel più profondo della nostra memoria. Fa' che ci ricordiamo sempre di te, che siamo sempre memori della tua crudelissima Passione, che sempre, con gli occhi dell'anima e del corpo, ti contempliamo crocefisso» (dall'Omelia 102 tenuta nel sabato della 3a setto di quaresima del 1584: Sassi, Sancti Caroli Borromei, Homiliae, Milano 1747).

Chiediamo, in questo momento del giubileo e per intercessione di Maria addolorata, madre di Gesù e madre nostra, che sia data anche a noi la grazia della contemplazione del crocifisso affinché sia forza e nutrimento della nostra vita.
Omelia in s. Paolo fuori le mura 5 novembre 1983
A UN MESE DAL SINODO
Lettera alla diocesi
Il Signore mi ha fatto dono di partecipare, tra il 28 settembre e il 29 ottobre, ad un momento di grazia, il sino do dei vescovi sul tema: La riconciliazione e la penitenza nella missione della chiesa.
Ad un mese di distanza esso mi appare ancor meglio in tutta la sua importanza di evento ecclesiale, destinato ad avere grande risonanza. Mi sento in dovere di parlarvene un po' più diffusamente, pur mantenendo il tono di una «conversazione familiare». Mi sono sinora limitato a qualche cenno nelle lettere scritte da Roma o espresso a voce durante gli incontri avuti in queste settimane. Sono però convinto che l'avviare insieme una riflessione più organica sull'itinerario del sino do possa portare luce al nostro cammino di comunità diocesana. Rispondo così anche alle diverse sollecitazioni che ho ricevuto da più persone in quest'ultimo mese. Nei giorni del sino do mi sono sentito servitore a diversi livelli e in diversi ruoli. Rivedendoli ora in maniera distinta riesco a dar ordine ai molti messaggi che accoglievo in me mentre ero al lavoro, insieme con duecentoventi confratelli riuniti col papa nell'aula sinodale. Ho già sottolineato nelle lettere scritte da Roma quanto sia stato importante per i vescovi questo essere con il papa. I vescovi sono chiamati a esprimere in quanto sinodo, come realtà teologica collegiale, dei suggerimenti per il sommo pontefice, e perciò sono strettamente uniti a lui nella ricerca della volontà di Dio sulla sua chiesa.

I. Il servizio di «relatore»
Incaricato dal santo padre di svolgere anzitutto il compito di «relatore», dovevo aiutare la comprensione del tema in esame, favorire una visione di sintesi a seguito dell'ascolto dei molti interventi, promuovere la maturazione di conclusioni che dessero voce agli orientamenti che l'assemblea andava progressivamente manifestando.
Ho inteso questo compito in primo luogo come un servizio teso a far cogliere in maniera sintetica il tema che il papa ci aveva affidato. Nella problematica di «riconciliazione» e «penitenza» potevano essere distinti o addirittura contrapposti due poli: da una parte, quello legato alla considerazione delle numerose forme di conflittualità presenti nella storia di oggi; dall'altra, la prassi sacramentale in campo penitenziale, giudicata in crisi in molti luoghi. Lette sullo sfondo della missione propria della chiesa, queste due grandi tema ti che potevano e dovevano, in realtà, essere tenute unite, per dar luogo ad un'unica ricerca, ad un unico cammino di discernimento spirituale e pastorale rispetto alla domanda: che cosa chiede oggi il Signore alla sua chiesa perché essa risponda pienamente alla sua missione di sanare il cuore ferito e diviso dell'uomo, fonte delle divisioni e delle discordie tra gli individui e tra i popoli?
Impostato così, il cammino si profilava più unitario. Senza attardarsi in descrizioni prolungate dei molteplici conflitti che travagliano l'umanità, il sinodo si orientava a decifrare le ragioni delle divisioni dell'uomo in se stesso e con gli altri e, quindi, a verificare le modalità di annuncio, di celebrazione, di carità con cui la chiesa interpreta la missione di riconciliazione affidatale dal vangelo per quest'uomo e quest'umanità lacerata.
Avvertivo quotidianamente di dover svolgere questo ruolo in sin toni a con lo stile di collegialità dei lavori del sinodo. Era per me d'importanza decisiva ascoltare, cercare di comprendere l'insieme delle attese, ricostruire con fedeltà il continuo intrecciarsi di diagnosi e di soluzioni legate alla diversità delle situazioni dentro cui ogni vescovo vive. Non ci sono sempre riuscito come avrei voluto; talvolta i tempi di lavoro molto stretti non consentivano la calma e il distacco sufficienti.
Ho però capito sempre meglio che il sino do è un grande fatto di chiesa, che chiede di essere capito e valorizzato fino in fondo in tutte le sue potenzialità. Solo in questo modo esso può svolgere e manifestare un «discernimento pastorale» capace di dire come la chiesa di oggi si pone di fronte ad un determinato problema. Solo così esso può fornire al santo padre gli elementi per una riflessione e una decisione che corrispondano al bene della chiesa universale e agli impulsi che lo Spirito suscita nelle diverse comunità locali. Credo che vivere la collegialità episcopale sia anche questo. L'ho sentito in maniera sempre molto viva in quelle settimane; vi confido anche che la fatica del rimanere fedele al sinodo e al mandato del santo padre risultava ampiamente compensata dalla gioia del cogliere l'unità intensa e dinamica che collega le varie parti della chiesa in un unico organismo vivente.

II. Vescovo tra tanti vescovi
Il ruolo di relatore non mi ha impedito di sentirmi semplicemente come uno dei tanti vescovi che vivevano il sinodo: seguendo i dibattiti, suggerendo, modificando, approvando degli orientamenti operativi.
Mi pongo perciò di fronte a questo fatto ecclesiale che ho vissuto con altri con la domanda piùsemplice: qual è il messaggio di questo sinodo?
È ancora prematura una risposta adeguata a questo interrogativo; ce lo dovremo tutti insieme riproporre quando verrà pubblicato il documento finale che solo potrà proporre, con l'autorità del papa, le conclusioni autentiche e le indicazioni del sinodo.
Ma come «vescovo tra tanti vescovi» ho cercato di cogliere i molti messaggi del sinodo. Voglio brevemente parlarvi di alcuni di essi che ritengo particolarmente rivelatori dell'animo con cui si lavorò in quelle settimane.

1. IL VANGELO DELLA MISERICORDIA
Il sinodo ha voluto dire con forza alle nostre chiese l'urgenza di testimoniare il vangelo di misericordia. Tale vangelo è scritto nel cuore della missione affidataci da Cristo. Essa chiede di riascoltare e ripetere la Parola che dice un progetto di pace; di celebrare la memoria della pasqua, evento di riconciliazione; di farsi prossimo all'altro, accolto e cercato come fratello, in obbedienza al comando di Gesù; di dire a tutti: Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio! (2Cor 5,20).
Non potevo evitare di constatare, ascoltando questo messaggio fondamentale del sinodo, quanto ne sarebbe uscita illuminata anche la nostra fatica diocesana di pellegrini «partiti da Emmaus» per farsi «testimoni del Risorto». Il memoriale della pasqua è il culmine della riconciliazione offerta da Dio all'uomo e diviene il punto di partenza, il criterio e la forza per ogni offerta di riconciliazione agli uomini di oggi.

2. L'ITINERARIO DELLA PENITENZA
Al sinodo è risuonato frequentemente l'invito a percorrere con lucidità e coraggio tutti i sentieri che possono far ritrovare l'unità al cuore dell'uomo spesso smarrito e diviso e alla società ferita da drammatiche spaccature.
Come aiutare l'uomo a riconoscere nella verità il proprio volto sfigurato o rattristato e il volto paterno di Dio che lo cerca? Come dare un nome e un giudizio alle proprie scelte sbagliate, alle proprie azioni scorrette e a ciò che di negativo ciascuno coltiva nel cuore?
Il compito pastorale della chiesa rispetto al peccato è di vasta portata. Chiede l'impegno a liberare la libertà dell'uomo dai mille condizionamenti che la imprigionano; chiede di ridire continuamente il vangelo di un Dio che è giudice della storia e padre di tutti; chiede di esprimere con maggiore evidenza gli aspetti positivi e costruttivi delle esigenze morali annunciate da Gesù e accolte nella tradizione viva della chiesa.
Pastori, catechisti, genitori, insegnanti, tutti siamo coinvolti in una coraggiosa ricerca di verità che restituisca all'uomo e alla società di oggi la libertà di conoscere e giudicare ciò che fa, le strutture che ha costruito, il sistema in cui vive, il futuro per cui si affatica.
Chi vive a fondo gli interrogativi e le speranze del momento presente non può non cogliere l'importanza di porsi in dialogo con queste interpellanze del sinodo.

3. IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE
Emerge con forza dal complesso dei lavori sinodali la scelta di risignificare il valore e l'importanza del sacramento della penitenza attraverso il proseguimento di una capillare azione di rinnovamento della prassi pastorale e della mentalità teologica che l'ispira. Sono rimasto colpito dalla ricchezza degli interventi con cui i vescovi hanno approfondito, in prospettiva pastorale, il tema della celebrazione della penitenza. Se è vero, com'è stato ricordato da molti, che la pubblicazione di un nuovo rituale della penitenza nel 1974 non ha avuto un'accoglienza sufficientemente attenta, diverrà ancora più urgente dare un seguito coerente a un sinodo che, sul problema celebrativo della riconciliazione, ha voluto dare un forte impulso per un rinnovamento.
L'azione pastorale dovrà farsi attenta pertanto a riscattare la celebrazione della penitenza dal rischio della pratica insignificanza - radice non secondaria della sua crisi - in cui essa spesso viene posta. Il sino do non è rimasto sul piano dell'esortazione astratta nel richiamare questo aspetto; lo ha accompagnato con degli orientamenti operativi assai concreti, di cui ne sottolineo alcuni.

- Far emergere con maggiore evidenza la connessione tra la richiesta di confessarsi e l'impegno di superare le divisioni (all'interno di se stessi, nel rapporto con gli altri e con la società).
- Illuminare l'evento di grazia celebrato nel sacramento della penitenza ponendolo in continuità tra il cammino di conversione della rigenerazione battesimale e la piena comunione significata e realizzata dalla cena eucaristica.
- Valorizzare concretamente, nei modi stabiliti dalla disciplina della chiesa, ciascuna delle forme celebrative previste dagli ordinamenti liturgici: da questa complementarietà uscirà arricchita tutta la pastorale della celebrazione.
- Farsi più attenti ai molteplici itinerari penitenziali, rapportati alla diversa situazione spirituale delle persone, (altra è ad esempio la domanda di chi ha rotto l'alleanza con Dio da quella di chi cerca una più delicata purificazione delle intenzioni del cuore) con i conseguenti adattamenti di carattere catechetico, celebrativo, formativo.
- Valorizzare le espressioni penitenziali che la tradizione cristiana consegna alla chiesa nei tempi dell'anno liturgico o nelle forme consuete del digiuno, dell'orazione, dell'elemosina, reinterpretandole anche alla luce del contesto contemporaneo.
Mi propongo di ritornare su questo tema in occasione della prossima quaresima con alcune indicazioni per i ministri del sacramento della penitenza.
4. LA RICONCILIAZIONE NELLA STORIA
Il Sino do ha voluto anche impegnare la coscienza e la vita dei cristiani per la missione di riconciliazione nel vivo della storia attuale dell'umanità.
Ho colto nei vescovi con cui lavoravo l'ansia di richiamare l'attenzione di tutti a farsi interpreti più efficaci nel nostro tempo della missione di riconciliazione della chiesa. C'era in noi la persuasione che non bastasse ricordare a ciascuno l'importanza del proprio ruolo: dal ministro ordinato che perdona nel nome di Cristo, alle famiglie, ai giovani, alle comunità religiose. Un tempo come il nostro domanda una decisa ripresa di iniziativa, che educhi a una coscienza di pace, alla capacità del dialogo, alle varie forme di ecumenismo, al rispetto della dignità dell'altro, alla convinzione che alcune situazioni di divisione e di emarginazione sono insostenibili.
Si pensi che cosa significa ascoltare tutto questo in un'assemblea in cui coesistono esperienze tanto diverse! Vescovi che vivono da vicino il dramma della divisione dei cristiani; altri che sperimentano in forme di grave sofferenza gli effetti di un clima di violenza e di guerra; altri ancora che sanno quanto difficile sia, nei loro paesi, educare alla fraternità e alla giustizia che derivano dal riconoscimento della dimensione religiosa della vita; altri, infine, che fanno esperienza delle numerose forme di schiavitù morale e di divisione che nascono dall'accettazione acritica di un tenore di vita troppo ricco e irresponsabile. Si tocca con mano l'esiguità delle proprie forze di fronte all'imponenza dei problemi che ci scavalcano da ogni parte; ma si fa anche l'esperienza di quanto grande sia il dono di Cristo, che ci chiede di farci annunciatori del vangelo che riconcilia e chiama a conversione. Accogliere e vivere la missione della chiesa significa partecipare al senso più decisivo del cammino degli uomini, chiamati a trasformare una convivenza divisa e continuamente insidiata in una reale esperienza di fraternità e di pace.
III. Vescovo della chiesa di Milano
La lunga assenza dalla diocesi che il sino do mi ha richiesto era, come dissi fin dall'inizio, causa di sofferenza. Sentivo la mancanza della chiesa che il Signore mi ha affidato, temevo l'accumulo degli impegni che mi attendevano, e vivevo la privazione dei doni che ricevo dagli incontri con persone, problemi, situazioni.
Avvertivo tuttavia che il discorso pastorale, che i vescovi andavano svolgendo in aula, interpellava anche noi tutti come comunità cristiana di Milano a fare una diagnosi della situazione presente, ad accogliere l'appello ad una rinnovata coscienza di testimonianza profetica in una società divisa come la nostra, a operare un rinnovamento in profondità della nostra prassi pastorale di penitenza e di riconciliazione. lo stesso, mentre maturavo le sintesi dei dibattiti nel ruolo di relatore, sentivo riemergere le domande, le attese, i problemi che vado incontrando o che ascolto da voi durante il mio ministero di vescovo a Milano.
Vorrei aiutare la diocesi a lasciarsi coinvolgere da questi grandi messaggi del sino do . Occorrerà graduare il cammino in proposito. Se il momento della pubblicazione del documento finale sarà necessariamente la tappa che dovrà trovarci con il massimo di capacità di ascolto e di disponibilità all'impegno, vedo però altre possibili opportunità. Penso alla prossima quaresima, in particolare, e al suo porsi quest'anno come parte conclusiva dell'anno santo della redenzione. Mi riprometto di darle anche la fisionomia di tempo in cui la nostra comunità diocesana inizia ad ospitare in modo riflesso quanto il sino do ha voluto dirci.
Sono persuaso, del resto, che l'aprirci a questi messaggi non costituisce una distrazione da quanto in questi anni stiamo considerando come riferimento essenziale per il nostro cammino diocesano.
Rendersi attenti ai ritmi della chiesa universale non è mai interruzione o disturbo di ciò che facciamo come chiesa locale. Nel nostro caso poi vedo un profondo legame tra il tema della riconciliazione e l'itinerario eucaristico che in tre tappe successive ci ha condotto al congresso di maggio. Analogamente il tema della missione dei testimoni del Risorto è connesso con la coscienza di missione che il sino do ha così efficacemente manifestato.
Il sino do del 1983 entra perciò a pieno titolo nella storia del cammino pastorale della chiesa che è in Milano; ciò significherà anche far vivere tra noi in modo autentico quel concilio Vaticano II che ha avuto nei lavori sinodali un'altra significativa tappa di attuazione e di realizzazione.
In questi giorni di avvento la liturgia continuamente ci richiama ad aprirci alla visita che Dio fa al suo popolo e a gioire per la dimora che lui ha deciso di stabilire tra di noi. Il natale ce lo ricorderà e ci farà dono della grazia legata a questa visita. Se Dio ha deciso di porre la sua tenda tra noi, è necessario costruirgli un'accoglienza degna, come ha fatto la vergine Maria. L'impegno perché il mondo viva riconciliato e perché l'uomo non si rassegni a vivere estraneo a Dio diviene un modo significativo per vivere l'accoglienza di «Colui che viene».
Il messaggio del sino do dia luce anche al modo di celebrare il natale del Signore. Il Dio della pace abiti sempre nei nostri cuori!
Lettera alla diocesi Milano, 1 dicembre 1983

LE LACRIME
DI SANT'AMBROGIO
Omelia
tenuta il 7 dicembre 1983
Vorrei prendere, come oggetto di questa mia omelia, un tema forse inconsueto a cui si potrebbe dare come titolo: le lacrime di sant'Ambrogio. È vero che, in connessione con il tema del recente sinodo mondiale dei vescovi, potremmo usare l'espressione: la penitenza di s. Ambrogio.
In realtà, il punto di partenza, il riferimento letterario e personale che il santo stesso ci dà è proprio il tema delle lacrime.
LA DUPLICE AFFLIZIONE DI AMBROGIO
La prima lettura liturgica che abbiamo ascoltato, descrivendo un atteggiamento abituale della vita del nostro grande patrono, ci ha ricordato: «... Godeva con chi era nella gioia, piangeva con chi era afflitto. Ogni volta che qualcuno gli confessava i suoi peccati per riceverne la penitenza, piangeva a tal punto da ridurre al pianto il penitente. Si considerava, infatti, peccatore con i peccatori».
In queste parole è possibile distinguere una duplice afflizione di s. Ambrogio.
La prima è quella generale della compassione, propria di ogni animo sensibile e, in lui, di un cuore affinato dalla grazia, di un cuore che ha la capacità di sentire al vivo, dentro di sé, le sofferenze altrui.
La seconda è l'afflizione del penitente, anzi del ministro della penitenza. È la capacità di sentire dentro di sé, in qualche modo come proprio, il peccato di altri e di piangerlo con lacrime di penitenza così da commuovere lo stesso peccatore.
Qui ci troviamo in presenza di un grande e raro dono interiore. Tuttavia non dovrebbe essere raro, almeno nelle sue forme espressive più generali: dovrebbe essere il dono specifico di ogni ministro della penitenza. Con le dovute proporzioni, anzi, dovrebbe essere il dono proprio di ogni persona che ha responsabilità di altri.
Penso ai genitori verso i figli, alla responsabilità comune dei coniugi l'uno verso l'altro, alla responsabilità degli educatori e dei docenti verso coloro che sono educati, alla responsabilità di chi ha cura sociale e politica verso coloro che gli sono affidati.
Per questo, vale la pena di approfondire l'atteggiamento di Ambrogio, anche in sintonia con le indicazioni del sinodo dei vescovi sulla riconciliazione e penitenza.
L'OFFERTA DELLA VITA
Può essere interessante per noi partire da un brano di omelia che san Carlo Borromeo tenne esattamente 400 anni fa, il 7 dicembre 1583, per la solennità di S. Ambrogio. Questa data, a meno di un anno dalla morte di san Carlo era anche la data della sua ordinazione episcopale: egli infatti fu ordinato il 7 dicembre 1563. Oggi è quindi giorno di anniversari importanti per la nostra chiesa ambrosiana: quello di s. Ambrogio, di s. Carlo e, come abbiamo ricordato ieri, dello stesso cardo Giovanni Colombo.
San Carlo, nell'omelia del 7 dicembre 1583, commentando il testo evangelico di Matteo: «Voi siete il sale della terra» (5,13), diceva tra l'altro: «E chi può dire quanto al vivo sentisse s. Ambrogio per gli altrui peccati, giacché si crede aver egli per questi domandato al Signore la morte, ed essere morto consumato d'una lunga febbre? Che cosa non faceva quando si trattava della salvezza di un'anima, quantunque non appartenesse al suo gregge?».
San Carlo non nomina espressamente le lacrime di Ambrogio, che pure erano a lui familiari perché quella del pianto era per lui una profonda esperienza spirituale. Tuttavia menziona qualcosa di ancor più significativo: la stessa offerta della vita per i penitenti, la febbre che consumò Ambrogio come derivante dalla sua viva partecipazione per i peccati degli uomini.
L'AMORE DI CRISTO PER IL PECCATORE
Cerchiamo allora di cogliere, dalle parole stesse di Ambrogio, ciò che viveva a questo proposito.
Nel Trattato sulla penitenza, nel libro secondo, richiamandosi all'episodio di Lazzaro, egli invoca che prima di tutto sia il suo Signore a piangere per lui e prega così: «Possa tu degnarti, Signore, di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe!».
Ambrogio riconosce dunque che piangere i peccati, farne sincera penitenza, esserne pentiti profondamente nell'interno, è un dono di Dio. Egli non ha questo dono se per primo non è il Signore a venire a lui e a piangere per lui.
E continua: «Se piangerai per me sarò salvo. Se sarò degno delle tue lacrime, cancellerò il fetore di tutti i miei peccati. Se sarò degno che tu pianga qualche istante per me, mi chiamerai dalla tomba di questo corpo e dirai: Vieni fuori».
Ambrogio guarda a ciò che il Signore ha fatto per lui, all'iniziativa divina di salvezza, all'amore di Cristo per ogni uomo peccatore, alla forza di Cristo di piangere, per primo, per il penitente perché egli stesso possa entrare nella via della conversione.
E ancora: «Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quando era perduto, hai chiamato all'episcopato, e concedimi anzitutto di essere capace di condividere con intima partecipazione il dolore dei peccatori».
Sente di dover chiedere, come vescovo e come responsabile, questa grazia al suo Signore che ha pianto per lui e lo ha chiamato alla penitenza. E dice addirittura che piangere il dolore dei peccatori, condividerlo, «è la virtù più alta».
«E ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere e di piangere, così che, mentre piango su un altro, io pianga su me stesso e dica: Tamar (la donna incestuosa della Bibbia) è più giusta di me!». Facendo poi passare altre categorie di peccati, Ambrogio conclude che sempre il vescovo che ascolta la confessione può dire: «Eppure costui che ha meno responsabilità di me, è più giusto di me!».
Pare quasi di risentire quella parte di colloquio tra il cardinal Federigo e don Abbondio, ricordato dal Manzoni, là dove il cardinale, dopo il suo acerbo rimprovero, aggiunge: «Tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiamo fatto in casi somiglianti!».
S. Ambrogio conclude dicendo: «Non arrossiamo di riconoscere più grave il nostro peccato di quello che rimproveriamo agli altri... Non rallegriamoci del peccato di qualcuno ma piuttosto piangiamo... Rattristiamoci quando veniamo a sapere che è caduto un uomo per il quale è morto Cristo».
IL PIANTO DELLA CHIESA
Il santo vescovo non si accontenta però di chiedere che lui, e con lui ogni ministro della penitenza, pianga per il peccato di chi ha bisogno di perdono. Egli desidera che sia tutta la chiesa, tutta la comunità cristiana a piangere e a bagnare con le sue lacrime, cioè con la sua partecipazione affettuosa e dolorosa, il cammino del penitente.
Sempre nel Trattato sulla penitenza, invita il peccatore a chiedere che sia tutta la chiesa a pregare pubblicamente per lui: «Pianga per te la madre chiesa e con le sue lacrime lavi la tua colpa. Il Signore ama che molti preghino per uno solo: perciò nel vangelo, commosso dalle lacrime della vedova perché moltissimi piangevano per lei, ne risuscitò il figlio».
Queste parole di s. Ambrogio ci colpiscono particolarmente oggi che il sino do ci ha ricordato, da una parte il carattere comunitario della penitenza cristiana, dall'altra la comune responsabilità di ciascuno per il peccato del mondo.
Il sinodo, approfondendo le nozioni di peccato sociale, di peccato strutturale e di peccato collettivo, ha invitato ciascuno di noi a domandarci quanto noi siamo responsabili del peccato di altri e quanto il peccato dell'intera umanità, i peccati più. gravi dell'uomo, come il rifiuto di Dio e la violenza sul proprio fratello, non siano, in qualche modo, condivisi dalla negligenza, dalla povertà di amore, dalla povertà di giustizia che noi stessi viviamo.
IL NOSTRO CAMMINO PENITENZIALE
Ambrogio invita dunque tutti noi, oggi, a un profondo esame di coscienza:
Come vivo il cammino penitenziale?
Come mi lascio scuotere dall'intensità del cammino penitenziale di questo santo vescovo?
Come mi sento unito alle preghiere della chiesa per ogni peccato dell'uomo e per tutta l'umanità?
E, se sono prete, come vivo il ministero della penitenza?
Se ho responsabilità di altri, come aiuto le persone di cui sono responsabile?
S. Ambrogio ci conceda di prendere sul serio, in questo nostro tempo, il cammino della penitenza. Il mondo, come ci ricorda la Madonna a Lourdes e a Fatima, ha urgente bisogno di penitenza. Le catastrofi che ci minacciano esigono da ogni uomo, e prima di tutto da noi, di entrare in quel cammino penitenziale che il nostro patrono ha tracciato, con le sue parole e con la sua vita, per questa sua chiesa!
Omelia per la solennità di s. Ambrogio
Basilica di s. Ambrogio 7 dicembre 1983