sabato 15 settembre 2012

"Incatenati a Lui"



BOLOGNA, sabato, 15 settembre 2012.- Riprendiamo il testo dell’omelia pronunciata questo pomeriggio dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, nel corso della solenne Concelebrazione eucaristica durante la quale ha ordinato tre nuovi presbiteri.
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1. Cari fratelli e sorelle, anche a ciascuno di noi Gesù fa in questo momento la stessa domanda che fece agli apostoli: «e voi chi dite che io sia?». La fede impegna la persona con una intensità straordinaria. Non basta che si ripeta “ciò che la gente dice” di Gesù. È con Lui personalmente che ciascuno di noi ha a che fare nell’atto della fede.
Tutto questo è vero per ogni discepolo, ma lo è in modo particolare per ciascuno di voi, cari ordinandi. La relazione alla persona vivente di Gesù è la relazione costitutiva della vostra esistenza. E questa è posta in essere dalla fede.
Quando l’apostolo Paolo parla della sua identità, egli la definisce sempre in relazione a Cristo. Narra l’inizio della sua esistenza apostolica come “la rivelazione che il Padre si è compiaciuto di fargli del Figlio” [Gal 1,15]. Anzi, Paolo entrò nella luce nel momento in cui Dio rifulse nel suo cuore «per far(vi) risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» [2Cor 4,6]. Alla fine, Paolo dirà di sé di essere: «il prigioniero del Signore» [Ef 4,1]. Il testo greco è più forte. Dice: «io, Paolo, incatenato…». Ecco, cari ordinandi, chi state per diventare: dei “prigionieri di Cristo”, degli “incatenati a Lui”. Per amore: è questa la vera libertà; è un amore che vi fa capaci di essere il segno vivente della presenza di Cristo. Non vi appartenete più. Scompaiono dalla narrazione della vostra vita parole come “auto-realizzazione”, “autonomia”, “progettazione della vita”. È Cristo che nella Chiesa è diventato il Signore della vostra vita.
Il testo evangelico, cari fratelli e sorelle, riferisce due domande di Gesù. La prima suona nel modo seguente: «chi dice la gente che io sia?»; e poi la seconda: «e voi chi dite che io sia?». Non c’è dubbio che esistono due conoscenze possibili di Gesù. L’una è quella della fede, e risponde alla seconda domanda; l’altra è quella costruita su “ciò che dice la gente”. La diversità fra le due è fondamentale. La differenza è fortemente sottolineata dalla redazione che dello stesso episodio fa l’evangelista Matteo. Gesù dice a Pietro: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» [Mt 16,17].
Beati noi, cari fratelli e sorelle, se risplenderà nel nostro cuore la luce della Rivelazione, per conoscere la vera identità di Cisto! È questa la beatitudine della fede. La fede genera nel cuore una vera gioia di vivere, anche in mezzo alle tribolazioni, perché ci fa “sentire” che le parole di Gesù sono vere; che esse corrispondono così profondamente ai desideri del cuore, da essere «parole di vita eterna».
L’Anno della Fede, che inizieremo fra poco, sia un Anno di rivelazione e di luce: ci sia donata una vera conoscenza di Gesù.
2. Dopo la risposta data da Pietro, Gesù «impose loro di non parlare di lui a nessuno». Come si spiega questa imposizione del silenzio? Perché questa sorta di segreto tra Gesù e i discepoli che doveva rimanere inviolabile? La ragione era che Gesù non aveva ancora rivelato Se stesso. Ed infatti, continua il testo evangelico, «cominciò ad insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani… poi venire ucciso».
Cari fratelli e sorelle, Gesù rivela pienamente Se stesso sulla Croce, poiché è nella sua morte che rivela l’amore con cui ci ama. «Dio ha tanto amato il mondo» scrive Giovanni, «da donare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna» [Gv 3,16]. Una conoscenza di Gesù che non passa attraverso la sua croce; che non trova nell’evento della Croce la sua sorgente, è una conoscenza falsa. È un “pensare secondo gli uomini, non secondo Dio”.
Ma, cari amici, pensare-conoscere Gesù nella luce della Croce non è solo un fatto teorico. Gesù infatti aggiunge: «se qualcuno vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua». L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, rivelando che l’unica cosa che veramente gli interessa è la conoscenza di Cristo, aggiunge, quasi a spiegare che cosa significa “conoscere Gesù”, «la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti» [Fil 3,10-11].
Cari ordinandi, qui voi toccate il nucleo incandescente della vostra esistenza, alla luce della prima lettura. “La vita del sacerdote è sacrificio puro. Egli non vive, non può vivere per sé, non ha più una sua vita. Qualunque cosa egli faccia per essere amato, stimato, per vivere, il suo sforzo non ha mai potere di toglierlo dalla sua solitudine. Il crisma dell’ordinazione lo separa dagli uomini; egli diviene come il capro espiatorio che si abbandona nel deserto, lontano da tutti” [D. Barsotti].
Ma nella vostra coscienza risuona la parola del Servo: «il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non essere deluso».
La preghiera con cui concluderemo questa celebrazione la rivolgeremo al Padre soprattutto per voi. “La potenza di questo sacramento, o Padre, pervada il corpo di questi servi di Cristo collo splendore della loro castità; pervada la loro anima rendendola pura mediante l’obbedienza della fede, perché non prevalga mai in essi il loro sentimento, ma l’azione dello Spirito Santo”. Così sia.