Di fronte ad una società disgregata, afflitta da calamità e da sventure e con l'incubo di essere travolta dai barbari, quale era quella del VI secolo in cui viveva, Gregorio Magno sentiva che la missione della Chiesa doveva essere quella di recare aiuto e porre riparo ai mali che devastavano le strutture e la vita dei singoli. È questa la condizione spirituale da cui nasce la Regola pastorale. In essa l'Autore delinea la figura ideale del sacerdote offrendo un quadro ampio e ricco dei compiti connessi con la cura animarum; dando consigli preziosi e illuminanti riguardo ai criteri di comportamento; indicando le virtù indispensabili da vivere. Definita dagli studiosi sia un codice di santità sacerdotale sia un trattato di teologia pastorale, l'opera ha conosciuto nel Medioevo grandissima diffusione e continua a costituire un testo di riferimento imprescindibile per i sacerdoti. Ne propongo la lettura oggi, 3 settembre, giorno della sua nascita al cielo, ricordando anche il Cardinal Martini, di cui oggi si sono svolte le esequie. Dio lo accolga nella Sua pace.
* * *
Regola pastorale
di san Gregorio
Magno, Pontefice romano,
a Giovanni Vescovo della Città di
Ravenna
Gregorio
al reverendissimo e santissimo Giovanni,
fratello
nell’episcopato
Carissimo
fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto
sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non
sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro
tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi
aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di
averlo ottenuto.
La
materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare l’animo
del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un cammino.
Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo
pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi
giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua
vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto,
egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile
considerazione, della propria debolezza;
e così non avvenga che o la sua umiltà lo sottragga dall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita
contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita
o la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto
sia il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare
un magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che
quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche
attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria
debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie,
affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice
occulto.
Molti però, che sono simili a me
per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò
che non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero,
quanto meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal
principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad
occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro
precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.
PARTE PRIMA
REQUISITI DEL
PASTORE D’ANIME
1 — Gli ignoranti non osino
accostarsi al magistero
Non c’è arte che uno possa
presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento
e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il
magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle
arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle
viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure
le regole della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima,
mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di
passare per medico del corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità
del secolo presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono
pochi coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una dignità
dietro l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a passare per maestri,
bramano di superare gli altri e — come afferma la Verità — amano i primi saluti
in piazza, i primi posti nelle cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7). Essi sono tanto più incapaci
di assolvere degnamente
all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al
magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché nell’insegnamento perfino la
lingua si confonde quando si insegna qualcosa di diverso da ciò che si è
imparato. Contro costoro il Signore si lamenta per mezzo del profeta dicendo: Da
sé hanno regnato, non designati
da me; sono divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os. 8, 4). Infatti, coloro che, senza
il sostegno di alcuna virtù, non chiamati per vocazione divina ma accesi dalla
propria cupidigia non conseguono ma rapiscono il più alto grado del governo
delle anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo
reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non li
riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora coloro che
pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a certuni che vanno da
lui dopo aver compiuto addirittura dei miracoli: Allontanatevi da me
operatori di iniquità, non so
chi siete (Lc. 13, 27). E
così viene aspramente rimproverata dalla voce della Verità la ignoranza dei
Pastori, quando essa dice per mezzo del profeta: Perfino i pastori non hanno
saputo comprendere (Is. 56,
11). E ancora il Signore
li respinge dicendo: Pur avendo in mano la legge non mi hanno conosciuto (Ger. 2, 8). Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta
da costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la conosce,
giacché è certo che quanti non conoscono le cose del Signore, non sono
conosciuti da lui, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Se qualcuno
poi ignora sarà ignorato (1
Cor. 14, 38). Naturalmente
poi, a questa ignoranza dei Pastori corrispondono spesso i demeriti dei
sudditi, perché quantunque sia tutto a loro proprio carico se i Pastori non
possiedono il lume della conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade
che a causa della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui
la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se un cieco presta la sua guida a un
altro cieco, cadono ambedue
nella fossa (Mt. 15, 14).
E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo animo, ma nell’esercizio
del suo ministero profetico, dichiara: Si oscurino i loro occhi perché non
vedano, e piega sempre di più
il loro dorso (Sal. 68, 24).
Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a tutti al grado
sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare da guide nel cammino; e
quelli che al loro seguito aderiscono ad essi sono giustamente chiamati dorsi.
Dunque, se gli occhi si oscurano, il dorso si piega: così quando coloro che
guidano perdono la luce della conoscenza, quelli che seguono si curvano
inevitabilmente sotto il peso dei peccati.
2
— Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di
vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio
Ci
sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta
cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a
comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato
con lo studio ma non con la pratica; e combattono con i loro costumi ciò che
predicano con le loro parole. Così avviene che quanto il pastore cammina per
terreni scoscesi il gregge che lo segue
cade nel precipizio. Perciò il Signore si lamenta per mezzo del profeta contro
la spregevole scienza dei Pastori, dicendo: Mentre voi bevevate acqua
limpidissima, intorbidavate l’altra
con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto voi avevate
calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i vostri piedi avevano
intorbidato (Ez. 34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono
alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come intorbidare
quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli studi di una meditazione
santa con una cattiva condotta di vita. Sono poi pecore che bevono l’acqua
intorbidata dai piedi di quelli, i sudditi che non seguono le parole che
ascoltano, ma imitano solo ciò che vedono, cioè gli esempi di una vita
depravata. Infatti essi hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma
poi sono pervertiti dalle opere e allora è
come se nei loro bicchieri bevessero
fango perché le sorgenti si sono inquinate. Perciò è pure scritto per mezzo del
profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei sacerdoti dice ancora il Signore: Sono
divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per l’iniquità (Ez. 44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi portando un titolo o un ordine
sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale
peccatore e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio
quando, a causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene
onorato. Ma pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità di una
colpa così grave se valutassero con attento orecchio del cuore la sentenza
della Verità che afferma: Chi avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli
che credono in me è meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo si
getti nel profondo del mare (Mt. 18, 6). Dove la macina d’asino significa quel faticoso
ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la
condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina
gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che
lo avessero trascinato a morte
le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue
funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio
da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una
pena infernale comunque più tollerabile.
3 — Il peso del governo delle anime.
Bisogna disprezzare le avversità e temere la prosperità
Abbiamo voluto dimostrare in breve, con quel che
abbiamo detto sopra, quanto sia grave il peso del governo delle anime, perché
nessuno che non sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai
ministeri sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima dignità,
si assuma invece la guida della perdizione. Per questo Giacomo mette piamente
in guardia dicendo: Non vogliate,
fratelli miei, divenire maestri in molti (Giac. 3, 1). E perciò lo stesso
Mediatore fra Dio e gli uomini rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui
che superando la scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei
cieli prima dei secoli. Difatti è scritto: Gesù, dunque, sapendo che sarebbero
venuti per rapirlo e farlo re, fuggì di nuovo sul monte, lui solo (Gv.
6, 15).
Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini come colui che
avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché era venuto nella carne
proprio per questo, non solo per redimerci con la sua passione ma anche per
ammaestrarci con la sua vita e offrirsi come esempio per quelli che lo
seguivano, perciò non volle divenire re, ma si avviò spontaneamente al patibolo
della croce, fuggi la gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò
la pena di una morte obbrobriosa. Ciò evidentemente perché noi sue membra
imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i terrori della
morte, ad amare le avversità per difendere la verità, a evitare con timore la
prosperità, perché questa con la gonfiezza che l’accompagna corrompe il cuore,
mentre le avversità lo purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità l’animo
si innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si prostra.
Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma nell’avversità anche non
volendolo è richiamato quasi per costrizione a ricordarsene. Nella prosperità
spesso anche il bene compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità viene
cancellato ciò che di male si è commesso anche nel corso di un lungo tempo.
Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è come costretto
dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più alto grado di governo, per l’esperienza
della gloria si muta ben presto fino all’esaltazione. Così Saul, che in un
primo tempo era fuggito per non essere fatto re considerandosene indegno (cf.
1 Sam. 10, 22), poi come ebbe assunto la guida del regno
si gonfiò, e bramoso di essere onorato davanti al
popolo, per non essere rimproverato pubblicamente, rinnegò perfino colui che l’aveva
unto re (cf. 1 Sam. 15, 17-30). Così David, approvato quasi in ogni sua azione
dal giudizio di Dio, appena non si senti più oppresso dalla persecuzione ruppe
nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam. 11, 3 ss.) e divenne rigido e
crudele nel volere la morte di un uomo nobile, mentre era stato molle e senza
forza nel desiderio dissoluto di una donna. Lui che prima aveva saputo salvare
piamente i malvagi imparò poi a desiderare l’uccisione anche dei buoni con
fredda determinazione (cf. 2 Sam. 11, 15).
Infatti una volta pur trovandosi nelle mani il suo persecutore non volle
colpirlo, ma in seguito uccise un soldato devoto, con danno, inoltre, dell’esercito
che già si trovava in difficoltà. E la colpa lo avrebbe certamente strappato e
portato ben lontano dal numero degli eletti, se il castigo divino non lo avesse
richiamato al perdono (cf. 2 Sam. 12).
4
— L’occupazione del governo delle anime per lo più dissipa l’unità dello
spirito
Spesso
le cure assunte col governo delle anime disperdono il cuore in diverse
direzioni così che ci si ritrova incapaci di affrontare problemi singoli perché
la mente confusa è divisa in molte occupazioni. Perciò un sapiente avvertito
ammonisce: Figlio non applicarti a molte attività (Sir.
11, 10). E
ciò per dire che la mente divisa in diverse operazioni non può raccogliersi
pienamente nella considerazione esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al
di fuori da una cura prepotente, si svuota di quella unità dello spirito
prodotta dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose
esteriori, e ignara solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non conosce se
stessa. Infatti, quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è
come se, distratta lungo un viaggio, si dimenticasse della meta cui era diretta
e così, noncurante di attendere all’esame di se stessa, non considera neppure
quali danni riceve da ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti Ezechia
non credette di peccare quando mostrò agli ospiti stranieri i depositi dei
profumi (cf. 2 Re 20, 13),
ma per questa azione che egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del
Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf. Is.
39, 4-8). Accade spesso che molte azioni per sé lecite e
tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi,
provochino però una esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa,
quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira
senza riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo colui che giudica ed è l’intimo
che è giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta
nascosto agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato.
Infatti il re di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a
pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza
della sua condanna quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf. Dan.
4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva lavato la
sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che aveva offeso,
predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-100);
ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo potere, compiaciuto di aver
compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si
inorgoglì al punto di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho
edificato come cosa del mio regno,
merito della mia forza, gloria della mia maestà? (Dan.
4, 27)
Furono certamente queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta
di quell’ira che l’intima esaltazione aveva acceso. Infatti il severo Giudice
aveva veduto già da prima ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò
poi pubblicamente con la punizione: lo trasformò in animale irrazionale, lo
separò dal consorzio umano, lo associò per la sua mente sconvolta alle bestie
della campagna, affinché per un giudizio evidentemente severo e tuttavia
giusto, finisse col non essere più un uomo colui che si era stimato grande al
di sopra degli uomini (cf. Dan.
4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo
disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama
di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima
dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si
arrischino a porre il piede sul precipizio.
5
— Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle anime potrebbero
giovare col loro esempio, ma
rifiutano cercando la propria quiete
Ci
sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati
per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita
ascetica. Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che
è frutto dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili
nella loro paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a
motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della
giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che
non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati
alla massima dignità del governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché
pensano al loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni
che desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice ai
discepoli: Non può restare nascosta una città posta su un monte, né si accende una lampada e la si pone
sotto un moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti
coloro che sono in casa (Mt.
5, 15). Perciò
dice a Pietro: Simone di Giovanni,
mi ami? (Gv.
21, 17)
E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire: Se mi ami, pasci le mie pecore (Gv. 21, 17).
Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore,
chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in ciò stesso la
prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo dice: Se Cristo è
morto per tutti, dunque tutti
sono morti, e se è morto per tutti resta che coloro che vivono non
vivano pia per sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2 Cor. 14, 15). Perciò
ancora Mosè dice che un fratello che sopravvive al fratello morto senza figli
ne sposi la moglie e generi figli a nome del fratello; e se rifiuterà di
prenderla la donna gli sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli tolga
un sandalo, e la sua abitazione sia detta casa dello scalzato (cf. Deut.
25, 5).
Ora, il fratello morto è certamente colui che apparendo dopo la sua gloriosa
risurrezione disse: Andate,
dite ai miei fratelli (Mt. 28, 10).
Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il numero dei suoi
eletti, e allora al fratello superstite viene ordinato di ricevere la sua
sposa.
Poiché
è certamente cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta a chi più
di ogni altro è in grado di governarla. E se egli non vuole, la donna gli sputa
in faccia, giacché chiunque non ha cura di giovare agli altri coi doni che ha
ricevuto, la Santa Chiesa gli rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è
come se gli gettasse saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto
il sandalo da un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è
scritto: Calzati i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace (Ef. 6, 15).
Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci
prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse con
vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria utilità
trascura quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci sono alcuni ricchi
di grandi doni i quali ardono dal desiderio della sola contemplazione e
rifiutano di assoggettarsi all’utilità del prossimo attraverso il servizio
della predicazione, perché amano la quiete appartata e aspirano alla
meditazione in solitudine. Se si dovesse giudicarli con rigore sotto questo
aspetto, essi sono responsabili nei confronti di tante anime, quante sono
quelle cui avrebbero potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti
con quale pensiero colui che avrebbe potuto brillare nella sua dedizione a
vantaggio del prossimo prepone il proprio ritiro alla utilità degli altri,
quando lo stesso Unigenito del Sommo Padre, per giovare a molti, è uscito dal
seno del Padre (cf. Gv. 1, 18; 8, 42; ecc.)
per venire fra gente come noi?
6
— Coloro che fuggono il peso del governo delle anime per umiltà sono
veramente umili quando non resistono al decreto divino
Ci
sono poi alcuni che rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè preferiti a
coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche
delle altre virtù, è certamente vera agli occhi di Dio, perché essa non si
ostina a respingere ciò cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile.
Non è veramente umile cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli
altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza.
Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione
ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli
viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire
da essa col cuore, ma pur contro voglia deve obbedire.
7
— Si dà spesso il caso che alcuni aspirino lodevolmente all’ufficio della
predicazione, e altri
lodevolmente vi si lascino attirare costretti
Sebbene
non di rado ci sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della predicazione, c’è
anche chi lodevolmente vi si lascia attirare se è costretto. Possiamo renderci
conto facilmente di ciò se pensiamo all’opposto atteggiamento di due profeti:
uno si offrì spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di
timore si rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al Signore che
chiedeva chi mandare, dicendo: Eccomi, manda me (Is.
6, 8). Geremia invece
è mandato e tuttavia resiste umilmente per non esserlo, dicendo: Ah, ah, ah, Signore Dio,
ecco non so parlare perché sono un ragazzo (Ger. 1, 6).
Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e dall’altro,
ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore, giacché due sono i precetti
della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Isaia bramando di
giovare al prossimo con la vita attiva aspira all’ufficio della predicazione;
mentre Geremia desiderando di aderire sinceramente all’amore del Creatore
attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato a
predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui l’altro lodevolmente
ebbe terrore: questo non voleva guastare, parlando, i frutti di una tacita
contemplazione, quello non volle sentire, tacendo, i danni di un’attività
nutrita solo di desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di
ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e colui che
volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone acceso dell’altare (cf. Is.
6, 6-7)
a significare che nessuno osi accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato
purificato, o anche che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica
superbamente sotto il pretesto dell’umiltà. Dunque, poiché è molto difficile che una persona qualsiasi possa
riconoscere di essere stata purificata, è più che sicuro
declinare l’ufficio della predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna
insistere con ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà
celeste l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a cui Mosè aderì
mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una moltitudine tanto grande, non
volle ma obbedì (cf. Es. 3, 10 – 4, 18).
Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una popolazione
numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora risultato superbo se avesse
rifiutato di obbedire all’ordine del Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu
insieme umile e soggetto, poiché misurando se stesso non volle essere capo del
popolo e tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava.
Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di quanto è grande la loro colpa, se per il
proprio desiderio non temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro l’ordine
di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo. Mosè trepida
dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque anela ad un ufficio d’onore.
Così, chi è spinto a cadere con forza sotto i propri pesi offre volentieri le
sue spalle per caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di sopportare il
peso di cui è già carico e aumenta quel che porta.
8
— Alcuni bramano il potere e si appropriano di una affermazione dell’Apostolo
ai fini della propria concupiscenza
Per
lo più coloro che bramano il potere si appropriano della parola con cui l’Apostolo
dice: Se qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio (1
Tim. 3, 1),
e l’adoperano ai fini della propria concupiscenza.
Egli tuttavia pur lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che
ha lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre però che il vescovo sia
irreprensibile (1
Tim. 3, 2); e
continuando poi a enumerare le virtù necessarie, chiarisce in che cosa consiste
questa irreprensibilità. Incoraggia quanto al desiderio, ma incute timore col
precetto come se dicesse apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima
imparate bene che cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi
stessi, la vostra consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in quanto
ha fretta
di mostrarsi a tutti rivestita della dignità episcopale. Così, colui che fu
grande maestro del ministero pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e
incoraggia, dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia,
con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli alla vita
che li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da notare però che egli
parlava così in un tempo in cui chiunque fosse a capo del popolo veniva
condotto per primo ai supplizi del martirio. Allora sì era cosa lodevole
aspirare all’episcopato, quando si sapeva con certezza che attraverso di esso
si sarebbe giunti alle più gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato
viene definito con l’espressione buon ufficio, quando è detto: Se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un buon ufficio (1
Tim. 3, 1). Pertanto,
colui che cerca l’episcopato per la gloria di quell’onore e non per il buon
ufficio di questo ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato
ciò a cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto l’ufficio
sacro, ma non sa neppure che cosa sia, lui che anelando alla massima
dignità del governo pastorale, nei pensieri nascosti della sua mente si pasce
della sottomissione altrui, gode della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore
al pensiero dell’onore, esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni
parte. Così si cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella
dignità attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti
distruggere. E quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado dell’umiltà
avendo di mira la propria esaltazione, muta e deforma nell’intimo ciò a cui
aspira esteriormente.
9
— La mente di coloro che vogliono dominare spesso si lusinga con il finto
proposito di compiere opere buone
Ma
per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in
animo anche il proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro
aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia
considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in
essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò
che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di
rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina — quanto al bene
operare — di amare ciò che di fatto non ama, e — quanto alla gloria del mondo —
di non amare ciò che ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca
diviene timoroso verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti,
finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato,
immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno
diritto. E quando incomincia a godere mondanamente del
primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di
compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che quando l’immaginazione
va oltre i limiti di ciò che è praticamente realizzabile, subito l’attenzione
della mente sia richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno
valuti quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda
immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone che si è
proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non ha cessato di
insuperbire non è per nulla in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito
al luogo più alto. Non sa fuggire la lode che gli viene ampiamente tributata,
colui che ha imparato a bramarla quando ne era privo. Né può vincere la
cupidigia colui che si dispone a provvedere a molti, mentre prima per sé solo
non gli bastavano i propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso dall’esame
della sua vita passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo
illuda. Del resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del
bene operare che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo
anche un inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate
tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il
culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del
cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là
fino ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come
contro degli scogli. E così tra questi frangenti, quale via occorre seguire e
quale linea tenere se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad
accedere al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non accostarvisi?
Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover essere giudicato come
colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo averlo avvolto in un fazzoletto (cf.
Lc. 19, 20). Perché avvolgere il denaro nel fazzoletto
significa nascondere i doni ricevuti, nell’ozio di una molle rilassatezza. D’altra
parte, chi brama il governo delle anime badi che attraverso l’esempio di un
agire perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono
entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la parola del
Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci entrino gli altri (cf.
Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare che,
quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un medico che si
accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono ancora vive le passioni,
con quale presunzione si affretta a medicare chi è stato percosso, colui che
porta la propria ferita sul volto?
10 — Come deve essere chi
si accosta al governo delle anime
Pertanto,
in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che
morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto
a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i
beni interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo
contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio.
Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le
sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette
dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette
nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri.
Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni
del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile
agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per
fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare,
con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la
pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò
che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre
ancora tu parli, io dirò:
Eccomi, sono qui
(Is.
58, 9).
Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori
presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi
risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo
niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un
altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di
intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della
sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli
altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore
sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a
sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se
chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è
irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai
desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira
del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di
rovina per i sudditi.
11 — Com’è colui che non deve accostarsi al
ministero
Ciascuno
dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di
governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire
intercessore per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del
suo peccato. Perciò viene detto a Mosè dalla voce celeste: Parla ad Aronne: chiunque appartenente a famiglie della
tua discendenza avrà un difetto, non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (Lev. 21, 17). Poi prosegue
immediatamente: Se sarà cieco,
zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una
frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con
albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo, l’ernia
(Lev. 21, 18). È cieco
chi non conosce la luce della contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della
vita presente, incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa
dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di Anna: Custodirà
i passi dei suoi santi, e gli
empi taceranno nelle tenebre (1 Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve
dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via
della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono
efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una
condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita.
Perciò infatti Paolo dice:
Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per
i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia
guarito (cf. Ebr. 12, 12-13). Ha il naso piccolo colui che non è
adatto a osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso
distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto rappresentare col
naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù e riproviamo i peccati. È
perciò che si dice, in lode della sposa: Il tuo naso è come torre sul Libano
(Cant. 7, 4), poiché è evidentemente con la
discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole
cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno
per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo poco
intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi ricercate
in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto anche: o
col naso grande e storto. Questo
infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che, per essere
cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto procedere
della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa
percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone
opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del
tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini
terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto,
ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se
qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste, gravato
com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi del
cuore, poiché colui che è tenuto curvo
a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare
verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono
incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal.
37, 7). Anche la Verità
in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto fra le spine
sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle
ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc. 8, 14).
Il
cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità,
e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi
le pupille sono sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di
umore si gonfiano, e per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così
che anche la acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui
sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la
sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi
sono oscurati dalla pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui
la natura ha fatto acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la
confonde. Ben vien detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i
tuoi occhi per vedere (Ap.
3, 18). Allora ungiamoci
gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare
l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della vera luce.
Ha l’albugine nell’occhio colui al quale l’accecamento, prodotto dalla sua
presunzione di sapienza e di giustizia, non permette di vedere la luce della
verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta una
macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua
meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza della
chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida lucentezza della
sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla conoscenza della luce
divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della vera luce, quanto più
per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo
di essere sapienti sono divenuti stolti (Rom.
1, 22).
È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante
richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere
affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se
la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un
ardore intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente
copre il corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel
pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere
il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non
umana (1 Cor.
10, 13); come
a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è
demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola
in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo
devastato dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile
che si espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo
indolore e, senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce
deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi
l’impressione di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima
e mentre gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo
accende alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché
promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa
stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle
altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il
corpo, così l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento
di Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf. 1 Tim. 6, 10). E il malato di ernia è chi
non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e
smodato; e se di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il
suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a resistergli.
Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando l’umore viscerale scende
nelle parti virili che si gonfiano in modo certo molesto e indecoroso.
Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che trascorrendo alla lascivia
con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non
esprima nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con la
mente; e non è capace di
innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere perché è gravato di
nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di
questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo
sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri. Dunque,
poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può accostarsi degnamente al
magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è indegno, ora intendiamo
mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo degno, debba vivere in
esso.
PARTE
SECONDA
LA
VITA DEL PASTORE
1
— Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime colui che vi
sia giunto legittimamente
Il
comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del popolo,
quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da quella del gregge.
Infatti è opportuno che egli si dia cura di misurare con sollecitudine quale
necessità lo costringa ad una rigorosa rettitudine, perché è per lui che il
popolo è chiamato gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero,
esemplare nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia
vicino a ciascuno con la sua compassione e
sia,
più di tutti, dedito alla contemplazione; sia umile
alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo della giustizia sia inflessibile
contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle
occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la
sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una trattazione
più estesa queste qualità che abbiamo ristrette brevemente nell’enunciazione.
2 — La guida delle anime
sia pura nel pensiero
La
guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza
contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare
anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura
di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda
ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto
per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is. 52, 12). Infatti portano i vasi del
Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la
fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto
debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé
portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola
divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del
giudizio (cf. Es. 28, 15), affinché il cuore del sacerdote
non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla
sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che,
stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità
della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che in
questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di
continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la
vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa
il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto,
considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non
oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato il nome di
razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame
sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli
oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma
considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai
sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore,
e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al
Signore, sempre (Es. 28, 30). Per
il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al
Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà
del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli
dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca
l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi
altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non
contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma
considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo
Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che
mentre umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione
spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino
sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. Tutte
queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è
necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto
che l’anima
tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere
e
non la uccida con la spada del consenso.
3 — La guida delle anime sia sempre esemplare nel suo
agire
La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per
potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il
gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto
dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del
suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a
mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più
facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla,
il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è
detto per mezzo del profeta: Sali
su un monte eccelso, tu che
evangelizzi Sion (Is. 40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve
mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di
sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il
meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti.
Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla
destra separata dal resto (cf. Es.
29, 22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche
esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le
virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a
loro, per la dignità dell’Ordine. A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera
del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad
immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti
pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate,
indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema
le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di
terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al
conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina ordina pure
che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es.
29, 5), perché egli sia sempre difeso
dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché,
secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a
sinistra (cf. 2 Cor.
6, 7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori,
non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.
Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità,
nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle
difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione
trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di
quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. Ed è anche giustamente
prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto
tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es.
28, 8), per dimostrare di
quante virtù debba risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote,
soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una
intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il violaceo
che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni
conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi
all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere
incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza
della verità. All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare
cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve
reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come
in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà
di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del
regno celeste. Di questa nobiltà
dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1 Pt. 2, 9). E
anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla
parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di
diventare figli di Dio (Gv. 1, 12). Ed è
considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono
stati molto onorati i tuoi amici,
o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Sal.
138, 17).
Poiché è certo che l’animo
dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno,
essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo
e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli
occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e
tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto
deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità,
in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto,
colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del
prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per
avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto
due volte, sul velo omerale. Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo
spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza.
Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce
dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal
bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si
intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata
al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza.
E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso
ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale.
4
— La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile con la sua parola
La guida delle anime sia
discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che
bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare
incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore
coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso, guide d’anime
improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di
dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più
alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei
mercenari (cf. Gv. 10, 13),
poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo
del lupo. Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera
dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10). Per questo ancora, si
lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele,
per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5). Salire contro è contrastare
i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi
in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia
agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire
la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio? Ma chi si espone
in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele.
Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per
te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti
alla penitenza (Lam.
2, 14). È
noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che,
mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che
stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose
false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i
peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori
perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti
le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano
la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.
Perciò
Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di
confutare i contraddittori (Tit.
1, 9). Perciò viene
detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza
e cerchino la legge dalla sua bocca,
perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).
Perciò
per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce
come una tromba (Is. 58, 1).
E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del
banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile
aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se dunque il sacerdote non sa
predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito
Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha
riempiti. Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel
tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della
predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di
colui che lo osserva dall’alto. È scritto infatti: Perché si oda il suono
quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore, e non muoia (Es. 28, 35). Così il sacerdote,
che entra o che esce, muore se da lui non si ode suono, poiché attira su di sé
l’ira del Giudice occulto se cammina senza il suono della predicazione.
Inoltre, quei campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue
vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle altrimenti che
come le sue buone opere, per testimonianza del profeta che dice: I tuoi
sacerdoti si rivestano di giustizia (Sal. 131, 9). Pertanto,
i campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della
parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. Ma
quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni
studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un
parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla
ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non
spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). Col sale è
indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare
sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli
ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom.
12, 3). Perciò
nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono
le melagrane (Es.
28, 34).
E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti,
come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica
buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli
popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per
la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a
parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi
discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura
della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché,
in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità
della fede. Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita
cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non
dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore
delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da
una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è
certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui
che la esercita. Per cui è ben detto per mezzo di Mosè: L’uomo che soffre di
flusso di seme, sarà immondo (Lev.
15, 2). Di
fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà
dietro nella mente degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio,
nella mente genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo,
il bravo predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18). Dunque, chi patisce flusso
di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a una eccessiva loquacità si
macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe
potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma se
lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il seme, non al
fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche Paolo, quando esorta il
discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a
Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola,
insisti opportunamente, importunamente (2
Tim. 4, 1-2);
prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella
considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità
spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.
5 — La guida delle anime sia vicino a ciascuno con
la compassione e sia più
di tutti dedito alla contemplazione
La
guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti
dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di
misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso
nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E
così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del
prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto.
Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo
cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.),
e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili,
richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce
come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e
ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto
le deve; e similmente, la moglie al marito (1 Cor. 7, 2). E poco dopo: Non
privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e
di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5).
Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e
tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione
carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose
invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme.
Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua
sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché,
congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio
della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo
spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole
negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi
patisce scandalo e io non brucio?
(2 Cor. 11, 29). E
perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1 Cor. 9, 20). Evidentemente
mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua
misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse
imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare
a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto
fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché
nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente
moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo
Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse
la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12):
a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con
la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro
misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente
Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla
contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro,
medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure,
quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca
del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide
delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza,
ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero
davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per
cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della
parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione
della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città
opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per
appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche
sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia
mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si
eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze
del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità
tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino
tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri
segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti
delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col
sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le
impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti
alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la
purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali
sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25).
Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei
quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere
la museruola al bue che trebbia (1
Cor. 9, 9)? Di
essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende
nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro
paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice
è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché
chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore
del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue
azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare
benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza
dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si
purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro
che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si
deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con
cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto
maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui.
6
— La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene; e per il suo zelo della giustizia sia
inflessibile contro i vizi dei peccatori
La
guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della
giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga
in nulla ai buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a
riconoscere il potere del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la
dignità che riveste, si consideri uguale ai sudditi che vivono operando il
bene, e verso i malvagi non tema di affermare i diritti della verità e della
giustizia. Infatti, come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib. 21, cap. 10),
è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei
meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. Però, anche la diversità che
procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non
ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci
siano alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se
stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza
secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro.
I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini;
e quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e
riempite la terra, subito
aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gen.
9, 1). Evidentemente, se viene
prescritto che debba esserci questo terrore e tremore sugli animali della
terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. L’uomo
è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e perciò
gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono temere; quindi voler
essere temuto da un eguale corrisponde ad una esaltazione contro natura. E
tuttavia è necessario che le guide delle anime incutano timore ai sudditi
quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché
coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una
paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono
nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la propria gloria
ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da coloro che conducono
una vita malvagia è come se governassero animali e non uomini, perché è per
quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i sudditi debbono
giacere persino prostrati dalla paura. Ma spesso chi guida delle anime, per il
fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo
pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente
eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo
ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo
per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo anche
quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che
gli viene elargito dal basso. Così, circondato all’esterno da grandissimo
favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà
profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale
quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio
intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo l’ordine
naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della propria
vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in sorte.
Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente. Nella
stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare
agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione di una,
uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede ogni
sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25), a
colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita
degli angeli dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile
all’Altissimo (cf.
Is. 14, 13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per
mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era
innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata
l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo
avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del
suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la
testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù
di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi? (1
Sam. 15, 17). Prima
si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana,
non si vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri
poiché aveva un potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come —
mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande davanti a Dio,
quando appari grande davanti a se stesso divenne piccolo davanti a Dio. Dunque
accade spesso che l’animo si gonfia perché è grande il numero di coloro che gli
sono soggetti e, adulato dalla
sola altezza della sua potenza, esso si corrompe effondendosi nella superbia.
Ma questa potenza, evidentemente, la regge bene chi sa tenerla in pugno e
insieme combatterla; la regge bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e
con essa sa essere uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta
anche quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in alto se
le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere ben esercitato da chi
sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le tentazioni che esso ispira e,
pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e insieme sa anteporsi ai
peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo l’esempio del primo
Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa
discrezione. Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per
volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione fuor di misura
da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale gli si era umilmente
prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse: Alzati, non farlo, sono un uomo anch’io (Atti,
10, 26).
Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf.
Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente
sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva
conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità
nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a
fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con
trasporto. E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in
una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò
l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi
nel bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede, ma siamo cooperatori della vostra gioia
(2 Cor. 1,
23).
E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede (ibid.), come
per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni
sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali
a voi in ciò in cui riconosciamo che restate fermi. Ed era come non
considerarsi preposto ai fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino
piccolo in mezzo a voi (1 Tess. 2, 7); e
ancora: E noi vostri servi per Cristo (2 Cor.
4, 5). Ma
quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di
essere maestro, dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1 Cor.
4, 21). Colui
che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che
sui fratelli; ma quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario
che in virtù del loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per
il dovere cui sono tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare
l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che
vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra
tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che
correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore
della disciplina, mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo
scalfiti neppure da una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque
tanto più obbligati presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso
gli uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi
davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro
colpe. Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere.
Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo
non restino vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore
si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi
sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a
quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e
conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla
stima di sé. Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di
sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere
dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà.
Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a
deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne sia tutto
preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non sia più in grado di
tenere sottomessa quella potenza, alla quale si sottomette per libidine di
dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non venga rapito dal
compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente ha giustamente
detto: Ti hanno stabilito guida,
non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Sir.
32, 1). Perciò anche Pietro dice: Non
come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1 Pt. 5, 3). Perciò la Verità stessa
invitandoci ai più alti meriti della virtù dice: Sapete che i capi delle
nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere su di loro. Non così sarà tra voi, ma
chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà
essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è
venuto a essere servito ma a servire (Mt.
20, 25). Di
qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il
potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e
incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi;
verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che
non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt.
24, 48 ss.).
Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina
muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si
pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza
che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire
i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna
presso il severo Giudice (cf. 1 Sam. 4, 17-18);
e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli
pia di me
(1 Sam. 2, 29).
E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato
ciò che si era fratturato, non
avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez.
34, 4). Si
riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si
richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la
fasciatura stringe la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché
la piaga non degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del
castigo. Ma spesso la frattura si fa più grave se viene fasciata senza
precauzione e la ferita duole maggiormente se le bende la stringono in modo
eccessivo. Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei
sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la
stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della
disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. Bisogna cioè avere cura
che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la
disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e
avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia
troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap.
8), sia la disciplina
che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece,
nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che
provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. Ed è
perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo semivivo viene condotto
all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc. 10, 34) e gli vengono
somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli
sperimenti la pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che
lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le ferite
somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e attraverso l’olio
la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il putridume e con l’olio
si nutre e si ristora per la guarigione. Così, bisogna mescolare la dolcezza
con la severità; bisogna fare come un giusto contemperamento
dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino esasperati da troppa
asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben
rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di Paolo — nella
quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna (cf.
Ebr. 9, 4);
cioè, se nell’anima della buona guida spirituale, insieme alla scienza della
Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza.
Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Sal. 22, 4), perché la verga ci colpisce
e il bastone ci sostiene e se c’è la correzione della verga che ferisce ci sia
anche la consolazione del bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale
però che renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo
zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che risparmia ma
non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio del governo, conciliando giustizia
e clemenza, il superiore muova il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro
dolcezza, e con questa dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.
7
— La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle
occupazioni esterne, né
tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene
interiore
La
guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni
esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine
del bene interiore, affinché, dedito alle attività esterne
non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di
rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. Accade spesso infatti
che alcuni, dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime,
si dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi secolari, e l’essere
presenti a questi li fa esultare di gioia, e anche quando sono assenti anelano
ad essi, giorno e notte, nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi,
forse per una interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa
quiete li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere oppressi
dall’attività e considerano una fatica non faticare in occupazioni terrestri. Così
accade che, mentre godono di essere incalzati da inquietudini mondane, ignorano
i beni interiori che avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente
anche la vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano al
progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore come contro un
ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando la testa è malata anche
le membra perdono vigore, e nella ricerca del nemico non serve che l’esercito
segua con prestezza se la stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna
esortazione innalza gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo
efficace contro le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime
eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è rivolta alla
custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la luce della verità perché,
quando interessi terreni occupano i sensi del Pastore, la polvere spinta dal
vento della tentazione acceca gli occhi della Chiesa. Perciò il Redentore del
genere umano, volendoci trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver
detto: Fate attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia
e dall’ubriachezza, subito
aggiunse: o nelle preoccupazioni di questa vita; e poi ancora introduce il timore proseguendo con forza:
che non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc.
21, 34). E
di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà infatti come un laccio
su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc.
21, 35).
Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni (Lc.
16, 13).
Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o
piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si
immischi in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato (2
Tim. 2, 4).
Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e
mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se avrete delle liti riguardo a
interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella Chiesa (1
Cor. 6,
4), perché
all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di
alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno penetrare
le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. Perciò Mosè, che
parla con Dio (cf. Es.
18, 17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero,
perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo, e riceve
subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti, per
potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e insegnarli
al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e
alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della
polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino Infatti, tutti
coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio è il capo che
deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di percorrere la via
diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio, quando il corpo si
incurva e il capo si piega verso terra. Ma con quale disposizione interiore
colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se
lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare negli
altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della giusta retribuzione,
minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo così sarà il
sacerdote (Os. 4, 9). E
il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio spirituale
compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora designati dai
loro interessi carnali. Vedendo questo, il profeta Geremia piange, con grande
dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio
dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le pietre del santuario sono state
disperse in capo a tutte le piazze (Lam. 4, 1). Che
cosa si intende infatti con oro,
che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della
santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la
riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano
le pietre del santuario, se
non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col nome di piazze, se non la larghezza della
vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è detta platos ed
è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la Verità in
persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt. 7, 13). L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve
essere santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si
muta quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva
vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il
costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza
che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli
uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario
vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa
avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del
Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In
effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del
Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della
religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore
dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono
ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che
portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti
presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice che sono sparsi nelle
piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle cose
del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento
del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene attribuito alla
santità. Del resto possiamo anche intendere senza difficoltà che le pietre del
santuario siano invece quelle medesime con cui il santuario era stato
costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo alle piazze quando
gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di
affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel
servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono assumere talvolta
per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con passione, per
evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo trascinino avvinto
al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. Ma si dà anche il caso
che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé
di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per
nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono
in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene
sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei
peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario alla vita presente.
Infatti la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una
mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della
parola germina facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di
colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime possa infondere
le verità spirituali e anche provvedere alle necessità esteriori con una
attenzione del pensiero che però non gli danneggi. Così, i Pastori siano
ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi, purché in questo non
tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo
detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla predicazione che
dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura dell’aiuto esterno. Perciò
il primo Pastore ammonisce con sollecitudine
dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi.
Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo
intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non
per costrizione ma spontaneamente,
secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1 Pt. 5, 1). E
certo, con queste parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano
l’indigenza dei sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e
se per loro mezzo il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro
stessi poi non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa
sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi non ha cura dei suoi, soprattutto dei familiari, ha
rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1 Tim. 5, 8). E
così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione
che mentre si trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo
fervore; poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano
improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda
l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere nell’oblio,
col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto, la cura che pure si
deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere
necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele:
I sacerdoti non si radano il capo,
né si tacciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez. 44, 20). Infatti
sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire
loro una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a
cure esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure
della vita presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da
una sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque,
poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini
esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione,
giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i
capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la
vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo
da farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli, evidentemente nel senso che
se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere preoccupazioni di cure
materiali, tuttavia esse devono essere tagliate ben presto perché non crescano
smodatamente. Pertanto, quando la vita materiale viene protetta attraverso la
pratica di una previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione
spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli sul capo del
sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle, ma vengono tagliati perché
non chiudano gli occhi.
8
— La guida delle anime, col
suo zelo, non abbia di mira il favore degli uomini; e tuttavia
sia attento a ciò che ad essi deve piacere.
Oltre a ciò, è pure
necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la
spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad
approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori,
non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle
sue buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda
estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le
opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed
è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo
manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando
l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a
una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo
spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi
peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso
di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che
avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai
a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di
ogni età, per rapire anime (Ez. 13, 18). Porre
cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che
vengono meno alla propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo
mondo. Ed è come accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo
di uno che giace, quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e
gli si offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da alcuna
aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che
amano sé stesse, senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono
gli possano nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse
opprimono con l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che
vedono non avere alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai
benignamente ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza
del loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per mezzo del
profeta: Voi comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez. 34, 4).
Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si ergono contro i sudditi
con tracotanza e non guardano a quello che hanno dovere di fare ma a ciò per
cui hanno la forza; senza alcun timore del giudizio che seguirà, si gloriano
sfrontatamente del loro potere temporale purché possano compiere con ogni
licenza anche cose illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto,
colui che desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano,
testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della verità, che
non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste certamente nessuno che viva
in questo modo e, almeno entro un certo ambito, non pecchi. Vuole invece che si
ami la verità più di lui, chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni
della verità. Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf. Gal. 2, 11 ss.);
perciò David ascoltò umilmente la correzione di un suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.);
poiché le buone guide di anime non sanno amare se stessi di un amore
particolare e considerano un umile ossequio, da parte dei sudditi, una parola
ispirata da una libera purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura
del governo delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i
sudditi possano esprimere con libera parola quanto hanno rettamente avvertito,
anche se poi questa libertà non deve essere tale da erompere in superbia; perché
non accada che se si concede ai sudditi una eccessiva libertà di parola, essi
abbiano poi a perdere l’umiltà della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno
che le buone guide delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per
attirare il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della stima
che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per fare dell’amore
di cui sono oggetto come una via attraverso la quale introdurre all’amore del
Creatore i cuori di coloro che ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto
dica la verità, sia ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato.
Dunque, chi presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato;
e tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come
chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del
suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli
aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti
in ogni cosa (1 Cor.
10, 33). E
tuttavia dice di nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei
servo di Cristo (Gal. 1, 10). Dunque,
Paolo piace e non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di
piacere lui, ma che agli uomini piaccia la verità attraverso di lui.
9
— La guida delle anime deve essere attenta nella consapevolezza che non di
rado i vizi si travestono da virtù
La guida delle anime deve
anche sapere che non di rado i vizi si travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia
si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto l’appellativo
di generosità. Spesso una accondiscendenza senza discrezione è considerata pietà,
e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso un’azione precipitosa passa per rapidità
efficiente e la lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è
necessario che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi,
perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si compiaccia di
apparire parco nella sua amministrazione; oppure si vanti, magari con l’aria di
commiserare la propria liberalità, quando c’è stato qualche sperpero per la sua
prodigalità; o trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato
che avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi egli
stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta troppo
anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente e con ponderazione
o, differendo il compimento di una buona azione, ne converta in peggio il
risultato.
10
— Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel correggere e
nel dissimulare; nello zelo e
nella mansuetudine
Bisogna pure sapere che
occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei sudditi ma che pur
dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli. Talvolta, colpe
manifeste bisognerà tollerarle per un certo tempo, talvolta invece, quando sono
nascoste, esaminarle diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza;
talvolta al contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo
detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di conoscerle,
affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale, e di essere tuttavia
sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe che vede tollerate in silenzio
nei suoi confronti, e fattosi giudice di se stesso si punisca, lui che la
clemente pazienza della sua guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con
questa dissimulazione il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del
profeta: Hai mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor
tuo; perché io tacevo quasi
come uno che non vede (Is. 57, 11).
Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in
quanto tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere
taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un certo tempo;
finché cioè l’opportunità della situazione non sia tale da consigliare un’aperta
correzione. Infatti le ferite operate troppo presto si infiammano maggiormente,
e se i medicamenti non vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro
che non rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve cercare
tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio sotto il peso di
quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò dice bene il salmista: Sul
mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Sal.
128, 3). Poiché
è sul dorso che portiamo i pesi, egli si lamenta che sul suo dorso i peccatori
hanno fabbricato, come se dicesse apertamente:
Porto addosso come un peso coloro che non posso correggere. Alcune colpe
invece, che sono nascoste, vanno esaminate diligentemente perché, se se ne
manifestano alcuni segni, la guida delle anime possa scoprire tutto ciò che si
nasconde, chiuso, nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della correzione,
possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe maggiori. Perciò
giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio dell’uomo, fora la parete. E
subito il profeta prosegue: E quando ebbi forato la parete mi apparve una
porta. E mi disse: Entra
e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed entrato
vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli
idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez.
8, 8-10). È
chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei superiori, e la parete la
durezza dei sudditi. E che cosa significa forare la parete se non aprire la
durezza del cuore con penetranti indagini? Quando ebbe forato la parete apparve
una porta, perché quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente
indagini o alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla
quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene ammonito.
Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra e vedi le orribili
abominazioni che costoro commettono.
Ed è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando
oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei sudditi in modo
che gli risultino chiari tutti i loro pensieri illeciti. E quindi prosegue: Ed
entrato vidi; ed ecco ogni tipo
di rettili e animali abominevoli. Nei rettili sono indicati i
pensieri del tutto terreni, negli animali i pensieri già un poco sollevati da
terra ma ancora alla ricerca di un compenso terreno.
Infatti i rettili aderiscono
alla terra con tutto il corpo, mentre gli animali con gran parte del corpo sono sospesi da
terra e tuttavia continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito
della gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si
rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E ci sono
pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni, sia pure giusti e
onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di guadagni e onori temporali:
per sé, in effetti, sono già quasi elevati da terra ma si sottomettono ancora
alle realtà più basse per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio
di gola. Perciò ancora prosegue giustamente: E tutti gli idoli della casa di
Israele erano dipinti sulla parete.
In effetti è scritto: E l’avarizia, che è schiavitù agli idoli (Col. 3, 5). Dunque è giusto che dopo
gli animali si descrivano gli idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da
terra per l’agire onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si
riadagiano per terra. Ed è ben detto: Erano dipinti, perché, quando gli aspetti
delle cose esterne vengono assorbiti interiormente, viene come dipinto nel
cuore quello che si pensa e si delibera sulla base di quelle false immagini.
Pertanto, occorre sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si
vede la porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò
evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del peccato,
quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e infine si spalanca ogni
male che si nasconde nell’intimo. Alcuni peccati però vanno ripresi con
dolcezza; infatti, quando non si pecca per malizia ma solo per ignoranza o per
debolezza, è assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia
temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne mortale, soggiacciamo alla
debolezza della nostra natura corrotta, così ciascuno deve apprendere da se
stesso come si debba essere misericordiosi nei confronti della debolezza altrui
affinché, se si lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo
accese contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che si è
dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se qualcuno sarà
colto in qualche peccato, voi
che siete spirituali istruite questo tale in spirito di mansuetudine,
considerando te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal. 6, 1); come se dicesse
apertamente: Quando vedi qualcosa di spiacevole dovuto alla debolezza altrui,
pensa a ciò che sei; perché nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se
teme anche per se stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si
devono rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne
conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo rimprovera. E se
qualcuno è portato a considerare con leggerezza il male commesso, lo tema
molto, al contrario, per la severità di chi glielo rimprovera aspramente. Ed è
certamente dovere della guida delle anime mostrare con la predicazione la
gloria della patria celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico
nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere con zelo
grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere tollerati con
leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo di tutte le colpe se il
suo sdegno non si accende contro quelle. Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi
un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di
Gerusalemme. E
subito prosegue: E disporrai l’assedio contro di essa, edificherai le opere di difesa,
costruirai un terrapieno, e porrai contro di essa gli accampamenti e
metterai intorno gli arieti. E subito per sua protezione gli
viene suggerito: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro
di ferro fra te e la città (Ez. 4, 1-3). E
di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei maestri? Giacché gli vien
detto: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso
la città di Gerusalemme. E
in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a sé il cuore
di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono davanti a sé quel mattone
evidentemente nel senso di custodirlo con tutta la tensione dello spirito. E
ricevono l’ordine di disegnare su di esso la città di Gerusalemme, perché
predicando a cuori di terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la
visione della pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria
della patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni dell’astuto
nemico che vi fanno irruzione, si prosegue opportunamente: Disporrai l’assedio
contro di essa e edificherai le opere di difesa. E i santi predicatori indubbiamente dispongono un
assedio intorno al mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando
dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste quanto
essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili dei vizi.
Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato insidia coloro che
avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla voce del predicatore si
disponesse un assedio intorno alla città di Gerusalemme. Ma poiché non solo
devono risultare chiari gli assalti dei vizi ma anche come ci fortifichi la
custodia delle virtù, giustamente si prosegue: Edificherai le opere di
difesa. Queste
difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù si
oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo più crescono le
guerre della tentazione, si aggiunge giustamente ancora: E costruirai un
terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli
arieti. Infatti
costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità della
tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme, quando predice
le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto nemico, alla onesta
intenzione degli ascoltatori. E pone arieti intorno, quando fa conoscere gli
aculei delle tentazioni, che ci circondano da ogni parte in questa vita e sono
capaci di perforare il muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime
riesca a suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde di
uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si procura assoluzione
in eterno; perciò, in quel luogo, ancora giustamente si prosegue: E tu
prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra te e la città. Con teglia si intende
l’ardore dello spirito, e con ferro la forza del rimprovero. Che cosa
infatti fa ardere e tormenta il maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E
Paolo, che bruciava per l’ardore di questa teglia diceva: Chi è
infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non brucio? (2 Cor. 11,29)
E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è custodito in eterno da una forte
custodia, per non dovere essere condannato per la negligenza, è detto
giustamente: La porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti, la teglia di ferro è
posta come muro di ferro fra il profeta e la città, nel senso che, quando le
guide delle anime manifestano un forte zelo, questo stesso zelo essi lo
conservano come forte difesa fra sé e gli ascoltatori,
affinché se saranno troppo indulgenti nella correzione non siano poi
abbandonati alla vendetta [divina]. Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo
del maestro si esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o
l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo più accade
che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande impeto, la lingua del
maestro è trascinata ad eccedere nelle parole; e, quando il rimprovero è acceso
oltre misura, il cuore dei peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è
necessario che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei
sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla penitenza
dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di fronte alla Verità, anche
per ciò in cui pecca per eccessivo zelo. A ciò corrisponde, in figura, il
precetto del Signore che per mezzo di Mosè dice: Se uno andrà con un suo
amico nel bosco, semplicemente
a tagliar legna, e gli sfuggirà di mano il manico della scure, e
il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli fuggirà in
una delle città sopraddette e vivrà; perché non accada che il parente
prossimo di colui di cui è stato sparso il sangue, spinto dal dolore,
lo insegua, lo prenda e colpisca la sua vita (Deut.
19, 5-6). Dunque,
noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a ricercare i
peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna quando recidiamo, con
disposizione d’animo pietosa, i vizi dei peccatori. Ma quando il rimprovero si
trascina fino a divenire più aspro del necessario, è allora che la scure sfugge
di mano; e quando le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade
dal manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo parole ingiuriose,
spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità. Infatti l’animo di colui che
subisce la correzione immediatamente precipita nell’odio se questo rimprovero
va oltre i limiti. Ma è necessario che, chi colpisce incautamente la legna e
uccide il prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse;
perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto la speranza
la fede e la carità nell’unità del sacramento non è considerato reo dell’omicidio
commesso. E il parente prossimo dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà;
perché quando verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte
della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua colpa col
castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto il suo perdono.
11 — Quando la
guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della
legge sacra
Ma
tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato dallo
spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza, medita i precetti
della Parola sacra, affinché le parole della divina ammonizione ricostruiscano
in lui la forza della sollecitudine e della previdente attenzione verso la vita
celeste, che viene distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli
uomini. E chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto
alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si rinnova a un
amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel parlare con gli uomini
il cuore si disperde, e constatando con certezza che, spinto dal tumulto delle
occupazioni esteriori, decade dalla sua condizione, deve avere una cura
incessante di rialzarsi attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò
Paolo ammonisce il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino alla mia
venuta attendi alla lettura (1
Tim. 4, 13). Perciò
David dice: Come amo la tua legge,
Signore, tutto il giorno è la mia meditazione (Sal. 118, 97). Perciò il Signore dà ordine a Mosè a
proposito del trasporto dell’arca, dicendo: Farai quattro anelli d’oro che
porrai ai quattro angoli dell’arca,
e farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le infilerai
negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con quelle, che
saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai estratte (Es. 25, 12 ss.). Che
cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina poi che ad
essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa
che essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del
mondo, è annunciata cinta dei quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno
stanghe di legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché
bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i
quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della
Santa Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca
con le stanghe significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle
rozze menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono
essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro discorsi
predicano agli altri devono risplendere anche loro per la luminosità della
vita. E giustamente, riferendosi a loro si aggiunge: Le quali saranno sempre
dentro gli anelli e non saranno mai estratte
da essi, perché
evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della predicazione non
cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E l’ordine che le stanghe siano
sempre negli anelli è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca
senza che si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa
che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche
contenuto spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la
risposta proprio quando deve risolvere una questione. Ma le stanghe sono
inserite negli anelli perché i maestri che meditano sempre nel loro cuore la
Parola sacra alzino l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza
incertezze in qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della
Chiesa ammonendo gli altri Pastori: Pronti sempre a rispondere a chiunque vi
chiede ragione della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15). Come
se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai tolte dagli anelli affinché
nessun indugio intralci il trasporto dell’arca.
PARTE TERZA
COME DEVE INSEGNARE E
AMMONIRE I SUDDITI
UNA GUIDA DELLE ANIME
CHE HA BUONA CONDOTTA DI
VITA
Prologo
Poiché abbiamo indicato come
deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo
insegnamento. Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di
Nazianzo di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo
genere di esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di
ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così accade non di
rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un
leggero fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che
fa passare una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le
persone forti uccide i bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve
essere fatto tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a
quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo
proprio genere che è di servire alla comune edificazione. Infatti che cosa sono
le menti degli ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra
che l’artista tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si
accordi col canto?
E le corde danno un’armonia
ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con vibrazioni
diverse. Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della carità
deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso
genere di esortazione.
1
— Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande diversità di
modi
Infatti
deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne.
Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i poveri e per i ricchi;
per gli allegri e per i tristi; per i sudditi e per i prelati; per i servi e
per i padroni; per i sapienti di questo mondo e per gli incolti; per gli
sfrontati e per i timidi; i presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i
pazienti; i benevoli e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i
malati; coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e
quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono; i
taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i mansueti e gli
iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e gli incostanti; i golosi e
i temperanti; quelli che distribuiscono per misericordia i propri beni, e
coloro che fanno di tutto per rapire quelli degli altri; quelli che né
rapiscono i beni altrui né elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò
che hanno e tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i
pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro che non
intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro che, invece, le
intendono certo rettamente ma non ne parlano umilmente; coloro che sono in
grado di predicare degnamente ma temono di farlo per eccessiva umiltà e quelli
a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li
spinge a farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni
temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane, durano la
fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono vincolati dal
matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale; quelli che hanno
esperienza di unione carnale, e quelli che non l’hanno; quelli che piangono
peccati di opere, e quelli che piangono peccati di pensiero; quelli che
piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e
tuttavia non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che
compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano; quelli
che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che restano
prigionieri della colpa con deliberazione; quelli che commettono frequentemente
peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano
nei più gravi; quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che
dopo averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il male di
nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il bene che fanno e
tuttavia lasciano che si pensi male di loro per certe loro azioni pubbliche. Ma
non ci sarebbe alcuna utilità a passare in rassegna in una breve enumerazione
tutte queste situazioni se non esponessimo anche, con la maggiore brevità
possibile, i modi dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve
essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni
bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre
operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più
leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve essere il modo di
ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo
più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che
dispone i secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare un
anziano ma pregalo come un padre (1
Tim. 5, 1).
2
— Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi
Diverso
è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il
sollievo della consolazione di fronte
alla tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al
povero, il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai
confuso. E non molto
tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is. 48, 10). E ancora la consola
dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della povertà (Is. 54, 4. 11). Paolo,
al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai ricchi di questo
secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro incerte
ricchezze (1 Tim. 6, 17); dove occorre notare che il
maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina, perché quantunque si debba
usare misericordia alla debolezza, non si deve onore all’orgoglio. Dunque, ciò
che è giusto dire a tali persone viene loro tanto più giustamente comandato
quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà
che passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a voi, ricchi, che avete la vostra
consolazione (Lc. 6, 24).
Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne
e si consolano con la ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire
consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri,
che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il
timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e
i ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono. Spesso
tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il
ricco è umile e il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore
deve adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior
rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata
imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei
ricchi in quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta. Tuttavia non
di rado anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché
spesso dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è
ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro
incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania. Infatti bisogna
penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva
quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la
cetra (cf. 1 Sam. 16, 23);
giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti?
E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi? Dunque, quando
Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di
David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio,
è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla pacatezza
del nostro parlare come dal dolce suono
della cetra. Ma talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo
mondo, occorre prima
metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare
che non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come
rivolta a un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente
con l’accusa della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza
mondana, non si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso
giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non provi a
difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza pronunciata con la sua
stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re
con l’aria di chiedere un giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12, 1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza
e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era
giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E così l’uomo
santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile
procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo
troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi
improvvisamente colui che teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con
minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire
apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il
rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un malato, vedeva
che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato; pertanto,
nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo conficcò nella
ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse
rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.
3 — Come bisogna ammonire gli
allegri e i tristi
Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i
tristi. Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono
dietro al castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno.
Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i
tristi ascoltino le
gioie del premio che già possono pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete (Lc. 6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del
medesimo maestro: Vi vedrò di nuovo e il
vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia (Gv.
16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le
circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far
conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più
proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi all’ira.
Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a
causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore
pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve sopportare,
si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere libero.
4 — Come bisogna ammonire i
sudditi e i prelati
Diverso
è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non
annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. Quelli non compiano
meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può
compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con
moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai
sudditi viene detto: Figli,
obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i
prelati c’è il precetto: E voi,
padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21). I primi imparino come
disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come
offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro
affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse
sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi
offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa
con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle
loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto
con i loro cattivi esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno
severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto
a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche
se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente. I sudditi
abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono
preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza
tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in
nulla devono essere pigri a
custodire quanti sono stati loro affidati. Infatti a colui che deve provvedere
solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6); ma
all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio
mio, ti sei impegnato per il
tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio
con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov. 6, 1). Infatti,
impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a
rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo,
perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non
aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei
propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli
sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice,
ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è
costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli
va insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere,
praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole.
Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio,
e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri,
affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi,
non sonnecchino le tue palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi
infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a
vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la
sua vita sia buona, che vegli, se non separa
dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. Ed è detto bene: Non
dare sonno ai tuoi occhi, non
sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa
trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. E le
palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna
rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia.
Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei
sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va
rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie
di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo,
e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e
quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di
non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna
ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e
attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali
celesti (cf. Ez. 1, 18):
quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e
di fuori (cf. Ap. 6, 6).
Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti
dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice
interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va
corretto negli altri. I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare
temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche
cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente
rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali
peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non
diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi
colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei
loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio.
Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che
Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era
David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua
persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase
con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore.
Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf.
1 Sam. 24, 4 ss.). Che cosa rappresenta Saul
se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto,
Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel
cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei
fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe timore di
colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera
maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro
lingua, anche quando li rimproverano per la loro imperfezione. E se pure
talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe
mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è
come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare
verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale
a rovinare la veste del re costituito su di loro. Ma essi poi rientrano in se
stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel
leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto
in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello
di Saul (1
Sam. 24, 6). Dunque,
le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche
quando si giudica che sia giusto rimproverarle. Se però qualche volta la lingua
si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si
stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo
peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui
che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo contro i superiori
contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè,
quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne,
disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Es. 16, 8).
5
— Come bisogna ammonire i servi e i padroni
Diverso
è il modo di ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna ammonirli a
considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro condizione; i padroni, a
non dimenticare la propria natura per la quale sono creati uguali ai loro
servi. I servi bisogna ammonirli a non disprezzare i loro padroni per non
offendere Dio insuperbendo e contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna
ammonire anche i padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo
al suo dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro che,
per la loro condizione, tengono sottomessi.
I servi bisogna ammonirli a
sapere di essere servi dei loro padroni; i padroni bisogna ammonirli a
riconoscere di essere conservi dei loro servi. Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite ai vostri padroni secondo la
carne (Col. 3, 22). E
ancora: Coloro che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro
padroni degni di ogni onore (1
Tim. 6, 1); ma agli
altri è detto: E voi,
padroni, fate lo stesso con loro rinunciando a minacciarli,
sapendo che il padrone vostro e loro è nei cieli (Ef.
6, 2).
6
— Come bisogna ammonire sapienti e incolti
Diverso
è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I sapienti,
bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a
desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli uni la prima cosa da distruggere è
il fatto che essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare
tutto ciò che si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna
superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio.
Coi sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti:
abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25);
agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente
stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai primi è
detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi stolto per essere sapiente (1
Cor. 3,
18); e
agli altri è detto: Non molti sapienti secondo la carne (1
Cor. 1, 26). E
ancora: Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1
Cor. 1, 27). Per
lo più ci vogliono ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto
spesso valgon meglio gli esempi. A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle
loro argomentazioni; per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano
azioni altrui degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore verso i
sapienti e verso gli insipienti (Rom.
1, 14), insegnando
agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e
parlando loro del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza
con l’argomento: Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr.
8, 13). Ma
poi, rendendosi conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza
degli esempi, aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi
e battiture e inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove,
uccisi di spada (Ebr. 11, 36-37). E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno
parlato la Parola di Dio e,
considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede
(Ebr. 13, 7). E
così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva
ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione.
7
— Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi
Diverso
è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti, nulla vale a
trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli
altri per lo più si dispongono al meglio con una esortazione moderata. Quelli
non si accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a
convertire i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla
mente con dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li
affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior
risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare. Perciò il
Signore, rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La
tua fronte è divenuta come quella di una donna prostituta: non hai voluto arrossire (Ger. 3, 3).
E di
nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti
dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché sarà
tuo Signore colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5).
E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che
peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal. 3, 1)
E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito
finite con la carne? (Gal. 3, 3).
Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con
compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono
rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10).
E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci
copriva la negligenza degli altri.
8
— Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi
Diverso
è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti, sono molto
sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo
consci della propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla
disperazione. I primi hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che
compiono; gli altri giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si
scoraggiano e disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei
presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò
in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li
correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver
fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la
gloria provenga un utile turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono
conto per nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se
restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta
scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in grado di difendersi
riconoscano che non sostengono rettamente ciò che difendono. Perciò Paolo,
rivolgendosi ai Corinzi che vedeva presuntuosamente gonfi gli uni verso gli
altri dire che uno era di Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di
Cristo (cf. 1 Cor. 1, 12),
tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e
restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di
voi, e una tale fornicazione
quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come
sua la moglie di suo padre. E voi vi siete gonfiati e non avete fatto
piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una
tale azione (1 Cor. 5, 1-2).
Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di
essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per
questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame? Al contrario,
riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo
indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello
stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché
la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal
rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con
loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto
qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già
commessa, ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora
commetterla, affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che
approviamo, mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il
rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa.
Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta
erano turbati da un senso di paura come per una prossima fine del mondo, prima
loda quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni,
rafforza la loro debolezza. Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio
per voi, fratelli, come è
degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la
carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese
di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede (2 Tess. 1,
3-4). E dopo avere
premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue
dicendo: Vi preghiamo tuttavia,
fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro
riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro
sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata
scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente (2
Tess. 2, 1). Così,
da vero maestro, fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che
riconoscevano di sé, e quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che
dovevano seguire; affinché la lode premessa rafforzasse il loro spirito per
accogliere senza turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene
sapesse che essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li
rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa, quasi non si
fosse ancora data, li preveniva affinché non si turbassero. E questo perché,
mentre per quel lieve cenno potevano credere che il loro maestro avesse
addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero però sia di meritare il
rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui.
9
— Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti
Diverso
è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli impazienti
bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte
azioni inique contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore
spinge l’animo dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne
renda conto, provoca turbamenti, di cui poi egli si
duole quando ne prende coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando
agiscono come folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono
conto delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro che
non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse
avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto
ciò che forse avevano costruito con lunga e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza
si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è paziente (1
Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è
carità. Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal
vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende
attraverso la pazienza (Prov. 19, 11);
per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente. E
neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa
sopportare in pace i difetti altrui. Inoltre, per questo vizio dell’impazienza
lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non
sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si
sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e,
per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria
con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante (Qo. 7, 9);
poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare
qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni
nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche
falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male.
Pertanto,
poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che
si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di
Dio si faccia una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra
(cf. Ez.
43, 13). Infatti
se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero
dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima
del giusto che pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha
compiuto come sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza
dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra
come adagiato nel fondo di una fossa? Si faccia dunque una cavità nell’altare,
affinché il vento non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito
degli eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza,
anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto che quella medesima cavità,
secondo quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non
si abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo
dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). Poiché
la legge di Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i
quali, anche quando portano grave peso, non trascendono. Ascoltino gli
impazienti ciò che sta scritto: È meglio un paziente che un uomo forte, e chi domina il suo animo pia che un
conquistatore di città (Prov.
16, 32). Vale
meno infatti una vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si
sottomette è qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la
pazienza, poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette
se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé. Ascoltino gli
impazienti ciò che la Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza
possederete le vostre anime (Lc.
21, 19). Infatti siamo
stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima e l’anima
possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il
corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore,
insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato che la
pazienza è custode della nostra condizione naturale. Perciò possiamo conoscere
quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il
possesso di ciò che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice
Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov.
29, 11). Per l’impulso
dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che
l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo
trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per l’avvenire.
Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito, poiché anche dovendo
sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che tutto riceverà la
giusta vendetta nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti
a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non
corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di quel
sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo
dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame
divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini
pretende di passare per virtù. Dunque bisogna dire ai
pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché
se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si
muti nella peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La
carità è paziente, aggiunge
subito: La carità è benigna (1
Cor. 13, 4), volendo
mostrare chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che
sopporta con pazienza.
Perciò il medesimo egregio
maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni asprezza e
ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef. 4, 31), come
dopo averli già tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e
aggiunge: con ogni malizia; poiché,
evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria
se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori
dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a
riaffiorare moltiplicato. Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri
nemici, fate del bene a coloro
che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano (Lc.
6, 27-28). Dunque è virtù
davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli,
poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende
davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad
alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la pagliuzza nell’occhio
del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? (Mt. 7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la
pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti il soffio
della tentazione agita il filo
di paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse. E
giustamente in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per
gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt.
7, 5), come
se dicesse all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si
mostra santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e
poi rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i
peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di
simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel
momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano
spinte da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette
loro di conservare anche l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di
tempo, richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono in sé
il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con
questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano
conservato nella pazienza. Allora il maestro li soccorre ben presto se gli
manifesta la causa di questo mutamento. Infatti l’astuto avversario muove
guerra contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per
primo, l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito
vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto
da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta. Pertanto, vincitore del
primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la
sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e
vinca; ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in
cui riceveva l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e
attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto
per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di
esercitare nascostamente le sue insidie. Così, nel tempo del riposo, ritorna
all’animo del vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite
delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato inflitto
glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta tristezza, che
spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria, arrossisce di
avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non averle
ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori. A chi
dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono
vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano
fare prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a coloro che
una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una
leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le persone pazienti a
fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto
combattimento non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano
maggiormente la malattia che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché
il nemico astuto non goda poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in
quanto, ora calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di
lui.
10
— Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi
Diverso è il modo di
ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei
beni altrui così da desiderare di farli propri. Lodino con vero amore le azioni
del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta
della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma
insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto
pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare
afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in
ozio. Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di
bene, ma non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non
imitiamo ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non
si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a
loro piace la santità delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità
delle arti ludiche. Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di
aurighi e di attori e tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere
coloro che lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole,
tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.
Bisogna dire ai benevoli che
quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio cuore e non si
vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché
tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui è
piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli invidiosi a
valutare attentamente la cecità di coloro che vengono meno per il successo
degli altri e si struggono per la gioia altrui. Quanto
grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare
gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione
in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può
essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della
felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che
non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti
nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per
la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza
reciproca diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che
il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo dei piedi, l’ascolto
delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in bocca concorre con gli
orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene l’attività delle mani e le
mani lavorano per il ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che
riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo
vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro ciò che amiamo negli
altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama.
Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende
nostre senza fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli
invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia, sprofondano
nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui è scritto: Per l’invidia
del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap.
2, 24). Infatti, poiché egli
aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato, ed essendosi perduto
lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire
gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le quali
cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non gettano via l’invidia
dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere. Se infatti Caino non
avesse invidiato il sacrificio gradito [a Dio] del fratello, non sarebbe giunto
a spegnere la sua vita. Perciò è scritto: E il Signore riguardò ad Abele e
ai suoi doni; ma non riguardò a
Caino e ai suoi doni. E Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen. 4, 4). E così, l’invidia per il
sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava
fosse migliore di lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire
agli invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi
uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé. Perciò è
scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa (Prov. 14, 30). Che cosa si intende per carne
se non le azioni molli e deboli, e per ossa se non quelle forti? Eppure
accade spesso che alcuni i quali appaiono deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza
del cuore e altri invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini
e tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste
dell’invidia. Pertanto è ben detto: La sanità del cuore è vita della carne, perché se si custodisce l’innocenza
del cuore, anche se l’agire esterno talvolta è debole, prima o poi si
irrobustisce. E si aggiunge correttamente: L’invidia è putredine delle ossa, perché per il vizio dell’invidia,
agli occhi di Dio vanno perdute anche quelle azioni che agli occhi degli uomini
sembrano da forti; infatti l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il
deperire di certe cose anche forti.
11
— Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri
Diverso
è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.
I
semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna
ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il falso nuoce sempre a
chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità. Perciò il
Signore, temperando il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho
molte cose da dirvi ma ora non potete portarle (Gv.
16, 12). Pertanto
bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo
stesso modo che sempre utilmente evitano l’inganno. Bisogna ammonirli ad
aggiungere al bene della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano
quella sicurezza che viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione
propria della prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio
che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom. 16, 19). Perciò
la Verità stessa ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come
serpenti e semplici come colombe (Mt. 10, 16). Perché
evidentemente nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta
la semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve
temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere
nell’esercizio della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso
dell’intelligenza.
Al
contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa
la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono. Infatti, per il timore di
essere scoperti cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da
sospetti che li rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a
propria difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore
costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è
scritto: La fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal. 139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà perché
opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori d’impaccio
a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si dice in Geremia: Hanno
insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger. 9, 5), come se dicesse apertamente:
Coloro che potevano essere amici della verità senza fatica, si affaticano per
peccare e mentre rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le
loro forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo, mentre
rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono sotto il velo della
falsità e si affaccendano per giustificare ciò in cui stanno peccando e che è
già apertamente visibile; così che spesso colui che ha cura di correggere le
loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione
di aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro riguardo. Perciò
all’anima che pecca e si giustifica si dice, per mezzo del profeta che
rettamente la rappresenta nella Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio (Is.
34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente impura che si
difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il riccio, nel momento in cui
viene preso, mostra tutto intero il corpo e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si
raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo
scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si mostrava
tutto intero. Così certamente sono le anime insincere quando vengono sorprese
nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il capo del riccio perché si vede
quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del
riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre
subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i piedi, cioè
nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il capo, perché con le sue
mirabili difese dimostra di non avere neppure dato inizio a qualcosa di male, e
resta come una palla in mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si
ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un
peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui stesso, che
lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto, tratto in inganno dai
raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto intero lo ignora. Il riccio
dunque ha una tana nei reprobi, esso che raccogliendosi in se stesso nasconde
le doppiezze di un animo malizioso nelle tenebre della giustificazione.
Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi cammina nella semplicità, cammina con fiducia (Prov.
10.9); poiché la
semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza. Ascoltino ciò che è
detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge una dottrina di falsità
(Sap. 1, 5). Ascoltino ciò che ancora è
offerto dalla testimonianza della Scrittura: La sua conversazione è coi
semplici (Prov. 3, 32). Infatti
il conversare di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini
attraverso l’illuminazione della sua presenza. Pertanto si dice che conversa
coi semplici perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i
loro cuori che non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle
persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con
l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di
loro; e poiché non considerano la severità della retribuzione che riceveranno,
esultano miseramente del proprio danno. Ma ascoltino come sopra di loro il
profeta Sofonia stenda la forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il
giorno
del Signore, grande e terribile, giorno
d’ira quel giorno,
giorno
di tenebre e di caligine, giorno
di nebbia e di turbine, giorno
di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati (cf. Sof.
1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si
intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre circondati
di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene rimproverata la loro
colpa respingono da sé i dardi della verità? E che cosa è indicato con angoli
elevati (poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete) se non i cuori
insinceri? I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per la stessa
perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è
peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro pensieri
come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il giorno del Signore,
pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle città
fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio distruggerà
i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le pieghe
della loro doppiezza. Allora infatti cadranno le città fortificate perché
saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio. Allora
crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si edificano, attraverso l’astuzia
della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia.
12
— Come si devono ammonire i sani e i malati
Diverso
è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a esercitare
la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano
ad un uso malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio
per questo dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi
quanto più ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio.
Bisogna ammonire i sani che non disprezzino l’occasione di una salute da
meritare per l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza (2
Cor. 6, 2). Bisogna
ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che
non lo possano quando lo vorranno troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la
Sapienza abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto,
dicendo: Vi ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete
disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri;
anch’io riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che
temevate (Prov. 1, 24 ss.). E ancora: Allora
mi invocheranno e non ascolterò;
si leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov.
1, 28). Pertanto, quando si
disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di
quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza
frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto.
Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il
tuo onore e i tuoi anni al crudele,
perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue
fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga,
quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov. 5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri,
per noi, se non gli spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste?
E qual è il nostro onore
se non l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante
che siamo fatti di corpo e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo
apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e,
ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E così, consegna
il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio,
amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti
maligni. Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita
ricevuto, secondo la volontà dell’avversario signore del male. E qui bene si
aggiunge: Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza, e il frutto delle tue fatiche finisca in
casa altrui. Infatti chiunque si affatica, con la forza del
corpo che ha ricevuto e la sapienza della mente che gli è stata assegnata, non
a esercitare la virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con
le sue forze, ma certamente — praticando sia la
lussuria sia la superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il
numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli
spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga, negli ultimi giorni, quando
avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso, infatti,
la salute del corpo che si è ricevuta
viene dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la
carne viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si
ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo,
male. E allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando
ormai non possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza.
Per cui altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano (Sal.
77, 34). Al
contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto
più li castigano i colpi della correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto
di dare l’eredità a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli
attraverso le sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo:
Io rimprovero e castigo quelli che amo (Ap.
3, 19). Perciò
ancora è scritto: Figlio mio,
non trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere
rimproverato da lui. Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio
che accoglie (Ebr.
12, 5-6). Perciò
il salmista dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti, ma da tutte li ha liberati il Signore (Sal. 33, 20).
Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non
leverò la testa, sazio di
tribolazione e di miseria (Giob. 10, 15). Bisogna
dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che
patiscano fatiche in questa come in terra straniera. È per questo infatti che,
per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del
Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi
siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio
di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è
superfluo ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga
uniti la sola concordia della carità.
Bisogna ammonire i malati a
considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli carnali, e
solamente in vista di eredità terrene. E perché allora ci è pesante la pena
della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non andrà mai
perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice Paolo: Del
resto, noi abbiamo avuto come
educatori i nostri padri secondo la carne, e rispettavamo; non
obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli invero ci
educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma questo ci
educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione (Ebr.
12, 9-10). Bisogna
ammonire i malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del
corpo, la quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il
ricordo della propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo
spirito, portato fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale
condizione è soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò
è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse voluto seguire
obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino.
Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è prefisso ma l’animale che egli
guida ostacola il suo desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.).
In effetti, l’asina trattenuta dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo
spirito dell’uomo non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla
sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito, mentre lo
stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così la carne [sofferente]
trattiene l’ansietà dello spirito di colui che brama di progredire in questo
modo, come di chi sta percorrendo un cammino, finché gli illumina l’invisibile
che gli si oppone. Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette
la correzione della sua follia:
un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta (2 Pt. 2, 15). E
avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente
esaltata, si ricorda per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che
avrebbe dovuto custodire. Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione
proprio perché, andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna
ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo,
che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti
compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo
colpito. Perciò è scritto: Il livido della ferita porta via il male, e così le piaghe nei recessi del ventre
(Prov. 20, 30). Infatti
il livido della ferita porta via il male perché il dolore delle percosse
scioglie i pensieri e le azioni inique. Con la parola ventre si suole
intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando
scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta ventre, lo insegna il
proverbio: Lo spirito dell’uomo è lampada del Signore, che scruta tutti i recessi del ventre (Prov.
20, 27); come se dicesse: l’illuminazione
del soffio divino, quando viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra
a se stessa, essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare
pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della ferita porta
via il male e così pure le piaghe nei recessi del ventre, perché quando siamo
percossi all’esterno, veniamo richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei
nostri peccati, e riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo
compiuto di male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore
nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più abbondantemente
che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga nascosta del ventre, perché la
ferita nascosta del dolore sana la malizia del cattivo operare. Bisogna
ammonire gli ammalati a conservare la virtù della pazienza, a considerare
incessantemente quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che
aveva creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e degli
schemi, lui che rapisce ogni giorno
le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi
degli insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la
faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua intercessione ci libera
dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture; lui che ci assegna
eterni onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle
punture dei peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci
inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete;
lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità, lo adorò per noi —
adorato per
irrisione, tacque; lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la
vita, giunse fino a morire. Perché allora si giudica crudele che l’uomo
sopporti castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali
tanto grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che, sano
di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo
mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo?
13
— Come si devono ammonire coloro che temono i castighi e coloro che li
disprezzano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò conducono una vita
innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li
correggono. A coloro che temono i castighi bisogna dire che né desiderino come
gran cosa i beni temporali dei quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano
come intollerabili i mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo
spesso essi colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano
veramente essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non
restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità crescano
fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La carità perfetta caccia
il timore (1 Gv. 4, 18). Ed
è ancora scritto: Non avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma spirito di adozione a figli nel
quale gridiamo: Abbà, Padre (Rom. 8, 15). Perciò
il medesimo maestro dice ancora: Dove è lo Spirito del Signore, là c’è la libertà (2 Cor.
3, 17). Dunque, se è il terrore
della pena che trattiene dal commettere il male, non è certo la libertà di
spirito a possedere l’animo di colui che è atterrito. Infatti, se non temesse
la pena non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E così il cuore, legato
dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà, poiché il bene si
deve amare per se stesso e non sono le pene che devono spingere a compierlo. Infatti,
chi fa il bene perché teme il male dei castighi, vorrebbe solo che non
esistesse ciò che teme per potere osare di compiere ciò che è lecito. Da cui
risulta più chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca
di desiderio davanti ai suoi occhi. Al contrario, coloro che neppure i castighi
trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero tanto più aspro quanto
maggiore è l’insensibilità del loro indurimento. Spesso infatti occorre
respingerli, pur senza disprezzo, e lasciare che la disperazione incuta il
terrore e quindi subito l’ammonizione li riporti alla speranza. Così, bisogna
pronunciare severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano
richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio eterno. Ascoltino
che si è compiuto contro di loro ciò che sta scritto: Se pestassi lo stolto
nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del pestello, non verrebbe tolta da lui la sua
stoltezza (Prov.
27, 22). Contro
costoro il profeta si volge con lamenti al Signore, dicendo: Li hai
stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione (Ger. 5, 3).
Ed è ciò che dice il Signore: Ho ucciso e
distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti dalle loro vie (Ger. 15, 7).
E poi di nuovo dice: Il popolo non è ritornato a
colui che lo percuote (Is. 9, 13).
Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta dicendo: Abbiamo
curato Babilonia ma non è guarita (Ger. 51, 9).
Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non
guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole della
correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di ritornare al retto
cammino della salvezza. Perciò il Signore rimprovera il popolo di Israele
prigioniero e tuttavia non convertito dalla sua iniquità, dicendo: La casa
di Israele si è mutata per me in scoria: tutti costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace (Ez. 22, 18).
Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col
fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento, ma mi sono
riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella tribolazione si sono
buttati nei vizi e non nella virtù. Rame, perché quando lo si percuote dà suono
più ampio degli altri metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve
rompe nel suono della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno,
invece, trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi nella
tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa stagno nella
fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del ferro, e così è ferro
nella fornace chi, pure nella tribolazione, non perde la malizia di nuocere. E
c’è anche il piombo che è il più pesante degli altri metalli; e nella
fornace si rivela piombo colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato
che, anche posto nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri
terreni. Perciò ancora è scritto: Con molta fatica si sudò e non usci da
essa tutta la sua ruggine,
neppure col fuoco (Ez. 24, 12).
Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci dalla ruggine dei vizi,
che è in noi; ma non
perdiamo la ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci
asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano li ha fusi il
fonditore: le loro malizie non
si sono consumate (Ger. 6, 29).
Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a non
correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una dolce
ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non
si lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati, che una
forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono risanati da acqua
tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi incidendo, guariscono con
impacchi di olio. Così il duro diamante che non resta minimamente scalfito dal
ferro, diviene molle nel leggero sangue di capri.
14 — Come bisogna ammonire i
taciturni e i chiacchieroni
Diverso
è il modo di ammonire coloro
che tacciono troppo e coloro che sono sempre pronti a parlare molto. Bisogna
suggerire a coloro che parlano troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in
modo poco avvertito — certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi
peggiori. Spesso infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in
cuore un eccessivo peso di parole, e così, tanto più i
pensieri ribollono nella mente quanto più li costringe la
custodia forzata di un silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più
ampiamente quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a
chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e disprezza
come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la bocca del suo corpo,
non si rende conto di quanto si apre ai vizi col suo insuperbire. Infatti
comprime la lingua e innalza il pensiero e mentre non considera affatto la sua
malizia, dentro di sé accusa tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in
segreto. Perciò bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con
sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di fuori, ma
anche come si debbano disporre interiormente così da temere di più l’occulto giudizio divino
in seguito ai loro pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro
discorsi. Infatti è scritto: Figlio mio, fa’ attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia
prudenza per custodire i pensieri (Prov.
5, 1). Poiché
niente in noi è
più instabile del cuore, che si allontana da noi ogni
qual volta è trascinato via sull’onda dei cattivi pensieri. Perciò infatti il
salmista dice: Il mio cuore mi ha abbandonato (Sal. 39, 13). E
perciò, ritornando in se stesso dice: Il tuo servo ha trovato il suo cuore
per pregarti (2
Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi,
si ritrova quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando
coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in un dolore
tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono sopportare; perché se
dicessero tranquillamente la sofferenza che è stata loro inflitta, il dolore
uscirebbe dalla coscienza. Infatti le ferite chiuse fanno soffrire di più e
quando il pus che infiamma dentro viene espulso, il dolore si apre alla
guarigione. Pertanto, coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che
non è bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano, per
il fatto di trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non tacere al
prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui giustamente lo rimproverano,
giacché con la medicina della parola si concorre alla salute di ambedue: si
frena dalla cattiva azione colui che la compie (cf. Lev. 19, 17),
e con l’apertura della ferita si allevia la fiamma del dolore di colui che la
sostiene. Infatti, coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e
poi trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite,
sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di morte in
quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero potuto. Dunque,
bisogna frenare la lingua con discrezione e non legarla indissolubilmente,
poiché sta scritto: Il sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir.
20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità,
tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si adopera
per l’utilità. E ancora sta scritto: C’è un tempo per tacere e un tempo per
parlare (Qo. 3, 7).
Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei momenti diversi, perché
la lingua non scorra inutilmente sulle parole quando dovrebbe invece
trattenersi; o non si trattenga pigramente quando potrebbe utilmente parlare.
Ciò che ben considera il salmista dicendo: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta intorno
alle mie labbra (Sal.
140, 3). Infatti
non chiede che gli sia posta una parete davanti alla bocca, ma una porta che,
evidentemente, si apre e si chiude; perciò anche noi dobbiamo imparare con
prudenza il momento opportuno perché la voce apra la bocca con discrezione, e
ancora il momento opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano pronti a
rendersi conto di quanto vengon meno alla loro rettitudine col diffondersi in
tante parole. Giacché la mente umana è come l’acqua, che quando è trattenuta si
raccoglie verso l’alto poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata
andare viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi. Infatti,
ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori dalla censura del
proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per tanti rivoletti. Perciò non è
più capace di rientrare in se stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa
nelle molte parole si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e
si scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna protezione la
circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come una città aperta e senza
giro di mura, così è l’uomo che
non può trattenere il suo animo quando parla (Prov. 25, 28); giacché
la città della mente non possiede il muro del silenzio ed è aperta alle frecce
del nemico, e quando si butta fuori di se stessa attraverso le parole, si
mostra tutta all’avversario. Ed egli la espugna senza fatica tanto più in
quanto anche lei stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo
continuo parlare. Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a cadere
per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose, giungiamo a quelle
dannose; così che, prima si gode a parlare degli altri, poi si morde la vita di
coloro di cui si parla, con la detrazione, e infine la lingua rompe fino alle
aperte offese. E di qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si
accendono le fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è
detto per mezzo di Salomone: Chi lascia andare l’acqua, dà principio alle contese (Prov. 17, 14). Lasciare
andare l’acqua significa abbandonare la lingua allo sproloquio. Al contrario, è
detto ancora in senso buono: Le parole che procedono dalla bocca dell’uomo
sono acque profonde (Prov. 18, 4). Pertanto,
chi lascia andare l’acqua dà principio alle contese perché chi non frena la
lingua dissipa la concordia. E perciò in senso inverso è detto: Chi impone
silenzio allo stolto, mitiga le ire (Prov.
26, 10). Che
poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non possa mantenere la rettitudine
della giustizia, lo attesta il profeta che dice: L’uomo linguacciuto non va
diritto sulla terra (Sal. 139, 12). Perciò,
pure Salomone dice ancora: Nel molto parlare non mancherà il peccato (Prov. 10, 19). Perciò
Isaia dice: Il silenzio è coltivazione della giustizia (Is. 32, 17), significando
chiaramente che la giustizia dell’animo resta desolata se non la risparmia il
parlare smodato. Perciò Giacomo dice: Se qualcuno pensa di essere religioso
e non tiene a freno la sua lingua ma seduce il suo cuore, la sua religione è vana (Giac. 1, 26). Perciò
dice ancora: Ognuno sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare (Giac. 1, 19). E
di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È un male irrefrenabile, piena di veleno mortifero (Giac.
3, 8). Perciò
la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di ogni parola oziosa che avranno
detto, gli uomini dovranno
rendere conto il giorno del giudizio (Mt.
12, 36). Ed
è oziosa ogni parola che non sia giustificata da una ragionevole necessità o
dall’intenzione di una pia utilità. Se dunque si esige il rendiconto di una
parola oziosa, pensiamo quale pena attenda il molto parlare in cui si pecca
anche con parole che arrecano danno.
15
— Come si devono ammonire i pigri e i precipitosi
Diverso
è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna persuaderli a
non perdere quei beni di cui differiscono l’adempimento; gli altri invece
bisogna ammonirli che, col prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo
di fare certe opere buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna
inculcare nei pigri che ciò che speso non vogliamo fare al momento opportuno
mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più in grado;
poiché la stessa pigrizia della mente, se non viene accesa e stimolata da un
ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto al desiderio delle buone
opere, da un torpore sotterraneo e crescente. Perciò è detto apertamente per
mezzo di Salomone: La pigrizia fa venire sonno (Prov. 19, 15). Il
pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si può dire che veglia,
nonostante il torpore del suo non far nulla; ma si dice che la pigrizia fa
venire sonno, perché, se si cessa dalla pratica del bene operare a poco a poco si perde anche
la vigilanza del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E l’anima indolente
soffrirà la fame (Prov. 19, 15). Infatti,
poiché non si dirige verso l’alto col suo sforzo, con la trascuratezza di sé,
si espande verso il basso, nei suoi desideri; e non essendo costretta dal
vigore di interessi elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così
che quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si dissipa,
affamata, nei desideri dei piaceri. Perciò ancora dal medesimo Salomone è
scritto: Ogni ozioso vive nei desideri (cf. Prov.
21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno spirito immondo è uscito da una casa
questa è pura, ma se quando quello ritorna essa è vuota, viene poi
occupata da spiriti tanto più numerosi (cf. Mt.
12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare le cose
necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme infondatamente; e
trovata la scusa con cui giustificare il suo timore, pretende di dimostrare che
il suo dormire in ozio non è ingiustificato. A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il pigro non ha
voluto arare per il freddo;
dunque in estate andrà a mendicare, e non gliene daranno (Prov. 20, 4). Il
pigro non ara per il freddo quando, costretto dal sonno della pigrizia,
trascura di fare le opere buone che deve; non ara per il freddo quando
tralascia di fare cose importanti per timore di piccoli mali in contrario. Ed è
ben detto: In estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti chi ora non fatica
nelle buone opere, quando il sole del giudizio apparirà più bruciante, in
quella estate, mendicherà senza ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso
del Regno. E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice giustamente a
costui: Chi bada al vento non semina; e chi considera le nubi non miete (Qo. 11, 4). Che
cosa si esprime col vento se non la tentazione degli spiriti maligni? E che
cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se non le ostilità di uomini
iniqui? Evidentemente, le nubi sono spinte dai venti perché gli uomini iniqui
sono eccitati dal soffio degli spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non
semina, e chi considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione
degli spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né semina il
grano delle buone opere né taglia i covoni della santa retribuzione. Al
contrario, i precipitosi che prevengono il tempo delle buone azioni, ne
pervertono il merito e spesso cadono nel male perché non hanno alcun
discernimento del bene. Essi non indagano quale sia il momento giusto di
compiere qualcosa, ma per lo
più se ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con
l’accorgersi che così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta,
viene detto da Salomone: Figlio, non fare nulla senza consiglio, e dopo che l’hai fatto non
ti pentirai (Sir.
32, 24). E
ancora: Le tue palpebre precedano i tuoi passi (Prov.
4, 25). Le
palpebre precedono i passi quando retti consigli prevengono il nostro agire.
Chi infatti trascura di considerare in precedenza ciò che prevede di fare,
drizza i suoi passi, chiude gli occhi e giunge al termine del suo cammino, ma
non si fa precedere dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente, perché non fa
attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a dove deve mettere il piede
dell’opera.
16
— Come si devono ammonire i mansueti e gli iracondi
Diverso
è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti, quando i
mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di una certa lentezza
di decisione unita alla loro mitezza; e per lo più, per via di una pacatezza
eccessivamente rilassata, addolciscono oltre il necessario il vigore della
severità. Al contrario, gli iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più
si lasciano travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente, tanto
più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la tranquillità e la pace.
Quando il furore li spinge a trascendere inconsideratamente, ignorano ciò che
fanno nell’impeto dell’ira e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da
se stessi. Spesso però, ciò che è
più grave, giudicano lo stimolo della propria ira zelo
di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù, senza timore si accumula
colpa su colpa. Infatti, spesso, i mansueti intorpidiscono per la noia della
rilassatezza; e gli iracondi peccano per zelo di rettitudine. Pertanto, per i
primi, si tratta di un vizio che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli
altri invece, il proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna
ammonire quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a ciò
che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi ciò che hanno: i
mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi bandiscano l’agitazione.
Bisogna ammonire i mansueti che si studino di avere spirito di emulazione per la
giustizia; e gli iracondi ad aggiungere la mansuetudine a questo medesimo
spirito che essi credono di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è
mostrato come colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie,
mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco dello zelo.
Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che, tranquillo della sua
mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo, né colui che ancora per l’ardore
dello zelo, perde la virtù della mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se
portiamo come esempio il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti
di non diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione.
Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2
Tim. 4, 2); ammonisce
anche Tito dicendo: Di’ queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità (Tit. 2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto
sapientemente la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e
all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più mansueto di
Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò infiamma quello, con l’amore
dello zelo e modera questo, con la dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che
manca all’uno e toglie ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare
il primo e di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha
ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede crescere più
del normale li pota affinché non accada che, o non crescendo non portino frutto
o crescendo eccessivamente perdano quello che hanno già dato. Ma è molto
diversa l’ira che accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba
un cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti, essa
si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro invece si accende
sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che gli impazienti differiscono
dagli iracondi in ciò, che quelli non sopportano ciò che viene loro imposto da
altri; questi invece sono loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare.
Infatti gli iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano
occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese. Costoro tuttavia si
correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione della loro ira, perché
in quel momento ignorano ciò che viene detto loro, ma ritornati in sé,
accolgono tanto più liberamente le parole di esortazione quanto più
arrossiscono di essere stati sopportati in pace. Giacché, qualunque cosa giusta
si dica a una mente ebbra di furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò anche, a
Nabal ubriaco, Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto
lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1 Sam. 25, 37);
e perciò egli poté conoscere il male che aveva compiuto e che non gli fu detto
quando era ubriaco. Quando però gli iracondi assalgono gli altri in modo che
essi non possano in alcuna maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con
aperto rimprovero ma usando verso di loro il riguardo di un certo cauto
rispetto. Cosa che si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando
Asael lo inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner parlò ad Asael dicendo:
Ritirati, non inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra.
Ma quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora Abner
lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e lo
trafisse e mori (2
Sam. 2, 22-23). E
di chi è figura Asael se non di coloro che quando il furore li coglie con violenza,
li trascina a precipizio? Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto
dell’ira in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner —
che nella nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché la lingua
dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede la mente di
qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura di restituire le frecce
delle sue parole contro l’irato, è come chi non vuol ferire il suo persecutore.
Ma
quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come Asael non
cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è necessario che coloro i quali
cercano di trattenere i furiosi, non si erigano anch’essi con furore, ma
mostrino tutta la possibile tranquillità; facciano cioè qualche sottile
osservazione che colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò
anche Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò con
la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta corrisponde ad
affrontare d’impeto con un aperto rimprovero; invece, ferire con la parte
posteriore della lancia vale toccare tranquillamente il furioso con qualche
argomento e vincerlo quasi risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché
le menti eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con
tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte, cadono
improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano innalzati. Così,
coloro che sotto un leggero colpo piombano dall’impeto del loro ardore, sono
come chi muore quasi senza ricevere ferita di spada.
17
— Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi
Diverso
è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna suggerire
quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri
bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur
tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a
cui aspirano e quanto è transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino
quanto è passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino gli
umili, dalla maestra voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato (Lc. 18, 14); ascoltino
gli orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato (Lc.
18, 14). Ascoltino
gli umili: L’umiltà precede la gloria (Prov.
15, 33); ascoltino
gli orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina (Prov. 16, 18). Ascoltino
gli umili: A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme
le mie parole? (Is. 66, 2); ascoltino
gli orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere? (Sir. 10, 9).
Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle
cose umili (Sal. 137, 6); ascoltino
gli orgogliosi: e conosce da lontano le alte (Sal.
137, 6). Ascoltino
gli umili: Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per
servire (Mt. 20, 28); ascoltino
gli orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir. 10, 15). Ascoltino
gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino
alla morte (Fil. 2,
8); ascoltino
gli orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i
figli della superbia (Giob. 41, 25). Dunque, la superbia del
diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata
argomento della nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come
tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur rimanendo
grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte. Si dica dunque agli
umili che nel loro abbassarsi si elevano alla somiglianza di Dio; si dica agli
orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo
apostata. Perciò, che cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al
di sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa è più
sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si unisce al suo
Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza più eccelsa? C’è tuttavia
dell’altro che in essi si deve valutare con prudenza, poiché spesso alcuni
restano ingannati dalla apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del
proprio orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un
timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado l’affermazione
di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi; e così, quando bisogna
rimproverare certi vizi altrui, i primi tacciono per timore, e tuttavia pensano
di tacere per umiltà; i secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e
si immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la colpa della
paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene quelli dal rimproverare i vizi
altrui; mentre, sotto l’immagine di uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio
spinge questi a fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel
che devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di quanto è
conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno,
affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio della
superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più del
necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però
considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se
mescoliamo le correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna
riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno
quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro
di male che a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo
delle loro cose buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a
un ascolto placato. Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con
mano leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a
un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che
deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra
amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore
mortifero viene espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli
orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con l’accoglimento
degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che odiano. Ma
spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se facciamo
passare il loro progresso piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro,
se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro
stessi. Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la
propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosè che aveva Dio come guida e
attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo
parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio
onnipotente, [lo pregò dicendo]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci
darà; vieni con noi affinché ti
facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele. Ma
poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra dove
sono nato, aggiunse
subito: Non ci abbandonare,
perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre
l’accampamento e sarai nostra guida (Num. 10, 29 ss.). Certo
l’ignoranza riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosè, lui che la
conoscenza della divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la
colonna precedeva all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione
assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma evidentemente, da uomo
avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto
per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli
essere guida alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si
offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva
considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo
esorta, di fatto obbediva alle sue parole.
18 — Come si devono
ammonire gli ostinati e gli incostanti
Diverso
è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi bisogna dire che
essi si stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli
altrui; i secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno
alcuna considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano
il loro giudizio a seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si
stimassero migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla
propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione
del proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li
trascinerebbe per tanta diversità di posizioni. A quelli è detto per mezzo di
Paolo: Non siate prudenti presso voi stessi (Rom. 12, 6). Al
contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro da ogni
vento di dottrina (Ef. 4,
14). Di quelli, per
mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si
sazieranno dei loro consigli (Prov.
1, 31). Di questi,
ancora lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole (Prov. 15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se
stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare.
Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità,
non rimane mai ciò che è stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano
altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più
riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la
fonte stessa della loro amarezza. E in effetti, l’ostinazione è generata dalla
superbia, l’incostanza dalla leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a
riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se
stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere
dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla
superbia. Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha
sempre una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la
nostra volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che
mi ha mandato (Gv. 5, 30).
Egli che, per meglio raccomandare la grazia di
questa virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io
non posso fare nulla da me stesso,
ma come ascolto giudico (Gv.
5, 30). Dunque,
con quale coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando
il Figlio di Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua
potenza, afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire
gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti essi
inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la
radice della leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si
provvede prima un luogo solido in cui porre le fondamenta. Pertanto, se prima
non si provvede a togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza
del pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho
forse usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me ci
siano il si e il no? (2 Cor. 1, 17). Come
se dicesse apertamente:
Non sono mosso dal vento
della instabilità
perché non soggiaccio
al vizio
della leggerezza.
19
— Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i parchi
Diverso
è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il vizio è
accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla
lussuria; agli altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia.
Infatti, se la loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si
dice che banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più
gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a
bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo alla mia
lingua, perché sono tormentato in questa fiamma (Lc.
16, 24).
Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva
peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava
refrigerio soprattutto per essa. E ancora l’autorità della Sacra Scrittura
attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il
popolo si sedette per mangiare e bere,
e si alzò per divertirsi (Es.
32, 6). E
spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria, perché quando il ventre si
distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della libidine. Perciò all’astuto
nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la
strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul
petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14),
come se gli venisse detto apertamente: dominerai suoi
cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga
dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è
manifesto denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi
distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il principe dei
cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da parte dei cuochi, perché
possa riempirsi di cibi nel piacere. Le mura di Gerusalemme poi, sono le virtù
dell’anima innalzate verso il desiderio della pace celeste. Pertanto il
principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si
distende per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla lussuria.
Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse le menti dei temperanti
dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe: Sforzatevi di unire la virtù
alla vostra fede, e alla virtù
la scienza e alla scienza la temperanza; per aggiungere
subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza (2
Pt. 1, 5). Ammoni
cioè i temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro. E ancora:
se la colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non
avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia (Rom. 14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei
precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse: Tutte
cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità umiltà
e austerità del corpo, ma non
hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col. 2, 23). In ciò va notato che nella
sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un certo aspetto
di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza,
si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si insuperbisce
gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio
per la virtù dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente
presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno due
volte la settimana (Lc.
18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre
sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della
lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li insidiano la
loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza
il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi. Infatti, tanto
più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso
smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario,
bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il
vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora
peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza.
Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si
lascia vincere dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a
trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il
bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali.
Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni
si manifestano le vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX).
E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is.
58, 4). La volontà si
riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano dunque si prostra il corpo con
l’astinenza, se il cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi.
E ancora, bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre
intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il
Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito,
il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò infatti è detto per mezzo del
profeta: È forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane
a chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is. 58, 5.7). In
ciò dunque bisogna considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza,
che non si raccomanda se non per la presenza di altre virtù. Perciò Gioele
dice: Santificate il digiuno (Gioe. 1, 14). Infatti,
santificare il digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa
degna per l’aggiunta di altre virtù. Bisogna ammonire i temperanti a tenere
presente che essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che
sottraggono al proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna sapientemente
ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo: Quando
digiunavate e piangevate, il
quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse facevate
un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non avete mangiato
forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac. 7, 5 s.). Infatti
non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al
ventre, non lo si distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo
di nuovo al ventre in altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia
decadere gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne non faccia inciampare gli
altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca della Verità: Badate a
voi stessi, che i vostri cuori
non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni
di questo mondo (Lc.
21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E
sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono
sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35).
E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo
(Mt. 15, 11). Ascoltino
i golosi: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma Dio distruggerà questi e quello (1 Cor.
6, 13). E
ancora: Non in gozzoviglie e ubriachezze (Rom. 13, 13).
E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio (1
Cor. 8, 8).
Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i
puri; ma per i corrotti e gli
infedeli niente è puro (Tit.
1, 15). Ascoltino
i golosi: Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro
vergogna (Fil. 3,
19). Ascoltino
i temperanti: Alcuni si allontaneranno dalla fede (1 Tim. 4, 1); e
poco dopo: Alcuni proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato
perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno
conosciuto la verità (1 Tim. 4, 3). Ascoltino
i golosi: È bene non mangiare carne e non bere vino, né ciò, per cui il tuo fratello
si scandalizza (Rom.
14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino
per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze (1 Tim. 5, 23).
Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della
carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è
stato creato da Dio.
20
— Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i propri beni e coloro
che rapiscono quelli altrui
Diverso
è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con misericordia,
e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri. I primi
infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con pensiero superbo su coloro a cui
elargiscono i beni terreni, e non si stimino migliori perché vedono gli altri
sostenuti coi loro mezzi. Infatti il padrone di una casa terrena, nel
distribuire i ruoli e i servizi dei servi, stabilisce questi a governare e
quelli a essere governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il
necessario ai secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli.
E tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di casa, e
restano invece nella sua grazia coloro che sono governati. Coloro che sono
dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli altri, che sottostanno alla
distribuzione fatta dai primi, restano senza ricevere danno. Dunque, bisogna
ammonire coloro che già dispensano con misericordia ciò che possiedono, a
riconoscersi come posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a
offrirli tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è
roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel servizio di
coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non esalti il loro animo,
ma lo trattenga invece il timore. Perciò è necessario che badino con grande
cura a non distribuire in modo indegno i beni che gli sono stati affidati, e a
darne così a chi non devono darne, o a non darne affatto a chi devono
qualcosa; a dare molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar
molto; a disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o a
tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole. Non si
insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il desiderio di una lode
passeggera non estingua lo splendore del donare. L’offerta del dono non sia
accompagnata da una opprimente tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si
rallegri più del conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non
attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in una volta,
quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire a sé la virtù della
propria liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Se qualcuno esercita un
ufficio, lo faccia secondo la
capacità che Dio gli comunica (1 Pt. 4, 11). Per
non gioire smodatamente delle proprie beneficenze, ascoltino ciò che è scritto:
Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili,
abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc. 17, 10). E
perché la tristezza non guasti la liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Dio
ama chi dà con gioia (2 Cor. 9, 7). Affinché
non cerchino una lode passeggera in cambio del dono, ascoltino ciò che è
scritto: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt. 6, 3),
cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la gloria della vita
presente, e il desiderio della lode non tocchi un’azione giusta. Affinché non
cerchino il contraccambio della grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando
fai un pranzo o una cena, non
invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini ricchi,
perché non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il compenso;
invece, quando fai un pranzo, invita i poveri, i malati,
gli zoppi, i ciechi; e sarai beato perché loro non hanno da restituirti
(Lc. 14, 12 ss.). E
affinché non si tardi a dare ciò che va dato in fretta, ascoltino ciò che è
scritto: Non dire al tuo amico:
Va’ e ritorna e domani ti darò, quando puoi dare subito (Prov.
3, 28).
Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino inutilmente ciò che
possiedono, ascoltino ciò che è scritto: Sudi, l’elemosina nella tua mano[1]. E
perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò che è scritto: Chi
semina con parsimonia, mieterà
pure con parsimonia (2 Cor. 9, 6). Affinché,
dove basta poco non offrano molto, e poi loro stessi, non potendo in alcun modo
sopportare l’indigenza, erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non
perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma perché nell’uguaglianza, la
vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e la loro abbondanza
venga a supplire la vostra indigenza (2 Cor. 8, 13-14). Infatti,
quando l’animo di chi dà non sa sopportare l’indigenza, se si priva di molto
cerca un’occasione di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna
predisporre l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche
tutto, perché non vada perduta la mercede della liberalità prestata; e la
mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia perire più gravemente l’anima
per il fatto che non si riesce a sopportare in pace l’improvviso bisogno.
Affinché non avvenga che non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche
poco, bisogna dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’ a chiunque ti chiede (Lc. 6, 30). Ma
affinché non diano, anche poco, a chi non debbono assolutamente nulla,
ascoltino ciò che è scritto: Da’ al buono e non accogliere il peccatore: fa’ il bene all’umile e non dare all’empio
(Sir. 12, 5-6). E
ancora: Poni il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e non mangiarne né berne insieme con i
peccatori (Tob.
4, 18). Infatti offre ai peccatori
il suo pane e il suo vino colui che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui;
perciò anche parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono
afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni. Chi invece
dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché è peccatore ma perché è
uomo, evidentemente non mantiene un peccatore ma un povero giusto, poiché in
lui non ama la colpa ma la. natura. Bisogna ammonire coloro che già
distribuiscono i propri beni con misericordia, ad attendere con gran cura,
mentre le elemosine redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri;
e non stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare
impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i peccati.
Infatti l’anima vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt. 6, 25); chi
allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia con l’iniquità dell’anima o
del corpo, ha offerto ciò che vale di meno alla giustizia e ciò che vale di più
al peccato; infatti, a Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al
contrario, bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i
beni degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore venendo al
giudizio. Infatti dice: Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da
bere; ero pellegrino e non mi avete accolto, nudo e non mi avete
coperto, infermo e in carcere e non mi avete visitato (Mt. 25, 42-43). E
ad essi, subito prima dice: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il
diavolo e i suoi angeli (Mt.
25, 41). Ecco,
quelli non ascoltano affatto questa sentenza perché abbiano commesso rapine e
ogni genere di violenze, ma tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna
geenna. Da ciò bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro
che rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto grande
coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i propri. Valutino con
quale peccato li avvince il bene rapito se quello che non è stato semplicemente
partecipato sottopone a una tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia
inferta, se è degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà.
Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è scritto: Guai
a colui che moltiplica i beni non propri: fino a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab. 2,
6). Per
un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango significa accumulare guadagni
terrestri col peso del peccato. Quando bramano di dilatare sempre più l’ampiezza
della loro abitazione, ascoltino ciò che è scritto: Guai a voi che
aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del paese. Forse abitate solo voi in mezzo alla
terra? (Is.
5, 8). Come
se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi, voi che, in questo mondo
che è di tutti, non potete avere altri partecipi della vostra fortuna? In
effetti voi opprimete i vostri vicini, ma trovate sempre contro chi farvi
valere per estendervi. Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò
che è scritto: L’avaro non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non
trarrà frutto da esse (Qo.
5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle
bene senza amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente
senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze insieme,
ascoltino ciò che è scritto: Chi ha fretta di arricchirsi non sarà senza
colpa (Prov. 28, 20); infatti
è certo, che chi aspira ad aumentare le sue ricchezze, trascura di evitare il
peccato e, catturato come un uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni
terreni, non si accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando
desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e ignorano i danni
che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò che è scritto: L’eredità
per la quale ci si affretta in principio, alla fine non avrà benedizione (Prov. 20, 21). Cioè,
da questa vita noi traiamo inizio per giungere a ottenere benedizione alla
fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare in principio, taglia via da sé la
sorte della benedizione alla fine. Poiché, mentre per il peccato di avarizia
bramano di moltiplicare qui i loro beni, là resteranno diseredati del
patrimonio eterno. Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto
quanto hanno ambito, ascoltino ciò che è scritto: Che cosa giova all’uomo se
guadagna tutto il mondo ma reca danno alla sua anima? (Mt. 16, 26). È
come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa giova all’uomo raccogliere
tutto quello che esiste fuori di lui, se danna questa sola cosa che è lui
stesso? Tuttavia spesso si corregge più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci,
se nelle parole di chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita
presente; se si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di
arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a godere
delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di colpo e tutto in una
volta, ha portato via tutto ciò che, non di colpo né tutto in una volta, la
loro iniquità aveva messo insieme; ed essi non solamente lasciarono qui le
ricchezze rubate, ma condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina.
Ascoltino dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi
condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna rientrano nel
loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che giudicano.
21
— Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur
distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli altri
Diverso
è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i
propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e tuttavia non desistono
di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire coloro che né bramano i beni altrui né
elargiscono i propri, a sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è
comune a tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a
tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti coloro che
rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali, quando non
distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche modo l’assassinio del
prossimo; perché quasi ogni giorno ne uccidono tanti, quanti sono i poveri che
muoiono mentre essi nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro.
Infatti, quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba
nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo piuttosto a
un debito di giustizia più che compiere opere di misericordia. Perciò la Verità
stessa parlando di nome non bisogna ostentare la misericordia, dice: Badate
di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt. 6, 1). E
a ciò si accorda pure il salmista che dice: Disperse, diede ai poveri, la sua
giustizia rimane in eterno (Sal. 111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata
verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia, poiché è
certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune Signore, chiunque ne
riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche Salomone dice: Chi è giusto
darà e non cesserà (Prov.
21, 26). Bisogna anche
ammonirli a stare molto attenti che l’agricoltore esigente si lamenta contro il
fico che non dà frutto perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico,
cioè, tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari
conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico occupa
senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra della pigrizia un
luogo che un altro sarebbe stato in grado di sfruttare col sole delle buone
opere. Costoro tuttavia spesso sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e
non cerchiamo la roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa
di misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così perché
evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole celesti; infatti
neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di porpora e di bisso e banchettava
splendidamente ogni giorno (cf. Lc.
16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è
dimostrato che egli aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo
accolse la geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito,
ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato. Bisogna ammonire
questi avari a rendersi conto che la prima offesa la fanno a Dio, poiché a
colui che dà loro tutto, essi non rendono alcun sacrificio di misericordia.
Perciò il salmista dice: Non darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del
riscatto della sua anima (Sal. 48, 8-9). Infatti
dare il prezzo del riscatto è rendere una buona opera alla grazia che ci
previene. Perciò Giovanni esclama: La scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni albero che non fa buon frutto sarà
tagliato e gettato nel fuoco (Lc. 3, 9).
Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non
rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure vicina e a
rigettare il torpore di una improvvida sicurezza, affinché, mentre trascurano
di portare il frutto di buone opere, non vengano tagliati via del tutto dalla
presente vita, come da una rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire
coloro che distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni
altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così divenire peggiori
sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti, distribuendo senza discrezione i
propri beni, non solo, come abbiamo già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza,
ma poi, costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è dunque
di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia nasce dalla
liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo seme nella virtù? Così
bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere conservare con raziocinio i propri
beni e quindi a non ambire a quelli degli altri; se infatti la colpa non viene
bruciata alla radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia,
diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie l’occasione di
rubare, se in precedenza si stabiliscono con chiarezza i limiti del diritto di
possedere. Allora solo, coloro che sono stati così ammoniti, ascoltino in che
modo devono distribuire, secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando
avranno imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia del
furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che hanno elargito con
la misericordia. Ma altra cosa è fare misericordia per i peccati e altra
peccare per fare misericordia; che, fra l’altro, non si può nemmeno più
chiamare misericordia, poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene
amaro per il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo
del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici dicendo: Io, il Signore,
che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is. 61, 8). Perciò
ancora disse: Abominevoli sono i sacrifici degli empi, che vengono offerti dal delitto (Prov.
21, 27). Poiché essi
spesso sottraggono anche ai poveri ciò che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo
li rifiuti, il Signore lo dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi
offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola un figlio
alla vista di suo padre (Sir.
34, 24). Infatti, che
cosa può esserci di pila
insopportabile che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si
manifesta così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene
paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia spesso pesano
quel che danno, ma omettono di considerare quel che rubano. Contano quel che
danno come fosse una paga, ma rifiutano di pesare attentamente le colpe.
Ascoltino pertanto ciò che è scritto: Chi ha raccolto le paghe le ha messe
in un sacchetto bucato (Ag.
1, 6), poiché si vede,
quando si mette il denaro in un sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si
perde. Pertanto, coloro che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano
quanto rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché certamente le
accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si affidano; ma senza
guardare le perdono.
22
— Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici
Diverso
è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi bisogna ammonirli
a sapere con assoluta certezza che, per quanto grandi siano le virtù di cui
abbondano, non di meno non possono diventare spirituali, se trascurano di
restare uniti al prossimo nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello spirito è carità,
gioia, pace (Gal. 5, 22).
Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta di portare il
frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal momento che ci sono fra voi
gelosie e contese, non siete
carnali? (1 Cor. 3, 3). Perciò
di nuovo dice pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la
quale nessuno vedrà Dio (Ebr.
12, 14). Perciò ancora
ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello spirito: nel vincolo della pace: un solo
corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza
della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque, non si giunge all’unica speranza della
chiamata se non si corre verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso
ci sono alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto più
insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della concordia; come
sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli altri, frenando
la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro a cui è superiore nell’astinenza.
Ma chi separa l’astinenza dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo
col timpano e il coro (Sal.
150, 4). Infatti il
timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro le voci
concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma abbandona la
concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda col coro. Spesso, poi,
una maggiore scienza, mentre innalza certuni, li divide dalla comunione con gli
altri, e in un certo senso, quanto più sanno, tanto più diventano incapaci
della virtù della concordia.
Dunque,
costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate sale in voi e
abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). La sapienza,
cioè, non è un dono di virtù, ma causa di condanna. Infatti, quanto più uno è
sapiente, tanto più gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza
possibilità di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe
potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo di Giacomo: Che
se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non gloriatevi e non dite menzogne
contro la verità. Questa non è sapienza che scende dall’alto, ma è
sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la
sapienza che è dall’alto, innanzitutto è pudica, quindi pacifica (Giac.
3, 14-15.17). Pudica,
cioè, perché è casta nell’intendere, e pacifica perché non si separa affatto
con l’esaltazione dalla comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a
conoscere che non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il
tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è scritto: Se
mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello ha qualche
cosa contro di te, lascia là il
tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi vieni a offrire il
tuo dono (Mt. 5, 23-24).
Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la offerta che
viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che viene così indicata.
Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati per il bene compiuto in seguito,
consideriamo quanto sia grande il peccato della discordia, che se non viene
distrutto radicalmente non permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i
litigiosi, se distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi
del cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più bassi; come gli uccelli di
una stessa specie, volando tutti insieme non si lasciano, gli uni con gli
altri; e come gli animali, che pure sono senza intelligenza, pascolano a
gruppi. Poiché, se guardiamo con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo
con se stessa indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale
commette con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione, ha
perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna, al contrario,
ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la pace che possiedono, così
da non aspirare a raggiungere quella eterna. Spesso infatti la tranquillità
esteriore tenta più gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno
moleste sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili divengono
quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le presenti, tanto meno si
ricercano le eterne. Per cui, la Verità stessa, distinguendo la pace terrena da
quella celeste e volendo eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella
eterna, dice: Lascio a voi la pace,
vi do la mia pace (Gv. 14, 27).
Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella durevole. Se dunque il
cuore si fissa in quella pace che è stata lasciata, non perviene mai a quella
che deve essere data. Pertanto bisogna conservare la pace presente in modo da
amarla e insieme disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo
dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche ammonire i pacifici,
a non rinunciare a rimproverare i cattivi costumi degli uomini, per un
eccessivo desiderio di assicurarsi una pace umana, così che, consentendo ai
peccatori, non si distacchino dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno
gli improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza
interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non un’impronta della pace
eterna? Che cosa ci può essere di più stolto che amare delle impronte sulla
polvere e non amare la persona che ve le ha impresse? Perciò David,
stringendosi tutto alla alleanza della pace interiore, afferma di non
conservare la concordia coi malvagi dicendo: Non odio forse, Dio, quelli che ti odiano,
e non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono
divenuti miei nemici (Sal.
138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio
perfetto significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno;
perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna dunque
considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi, se ci si acquieta
nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un profeta così grande offre come
un sacrificio a Dio il fatto di avere eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia
degli empi. Perciò si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade,
percorrendo tutto l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che
meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es.
32, 27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di
uomini peccatori, colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira
placò l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9).
Perciò la Verità stessa dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace
sulla terra. Non sono venuto a
portare la pace ma la spada (Mt. 10, 34). Infatti,
quando incautamente stringiamo amicizia coi malvagi, ci leghiamo alle loro
colpe. Perciò Giosafat che è esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita
passata, quasi in punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re
Achab; a lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai portato
aiuto all’empio e ti sei unito,
per l’amicizia, con coloro che odiano il Signore; perciò
meriteresti l’ira del Signore, ma in te sono state trovate opere buone
perché hai tolto i boschi sacri dalla terra di Giuda (2 Cr. 19, 2-3). Quanto
più la nostra vita concorda per l’amicizia coi perversi tanto phi, solo per
questo, essa si distingue ormai da colui che è sommamente giusto. Bisogna
ammonire i pacifici di non temere di turbare la propria pace temporale, se
ricorrono a parole di correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare
interiormente con intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per
la voce alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato
ambedue quando dice: Con coloro che odiano la pace ero pacifico, quando parlavo con loro mi facevano
guerra senza motivo (Sal.
119, 7). Ecco,
quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia anche così era pacifico, perché
né cessava di rimproverare coloro che infuriavano né tralasciava di amare
coloro che rimproverava. Perciò anche Paolo dice: Se è possibile, per quanto sta in voi, abbiate
pace con tutti gli uomini (Rom. 12, 18). Volendo
esortare i discepoli ad avere pace con tutti, premise: Se è possibile, e aggiunse: per quanto
sta in voi. Poiché
era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero dovuto
rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro rimprovero, la pace
esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è necessario che essa si
conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò dice giustamente: per quanto sta
in voi, come se
dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se essa viene
cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata tuttavia integra nel
cuore di voi che rimproverate. Perciò lo stesso,
di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se qualcuno non ubbidisce a quanto
diciamo con questa lettera,
notatelo, e non mescolatevi con lui, affinché resti confuso (2 Tess. 3, 14). E
subito aggiunge: E non consideratelo come nemico ma correggetelo come un
fratello (2 Tess. 3, 15); come
se dicesse: Sciogliete la pace esterna con lui, ma quella interiore riguardo a
lui custoditela nel fondo del cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il
cuore del peccatore in modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la
pace che non avrete rinnegato.
23
— Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace
Diverso
è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace. I
primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci, poiché è dell’angelo
apostata che sta scritto, quando fu seminata la zizzania tra il buon seme: Un
nemico ha fatto questo (Mt. 13, 28). E
di un suo membro è anche detto, per mezzo di Salomone: L’apostata, uomo inutile, avanza con volto
maligno, fa cenno con gli occhi, stropiccia col piede,
parla col dito, con cuore malvagio concepisce il male, e in ogni
tempo semina discordie (Prov.
6, 12).
Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare seminatore di discordie,
perché, se per la perversione del cuore non fosse caduto prima, interiormente,
dal cospetto del Creatore — allo stesso modo dell’angelo insuperbito — non
sarebbe poi uscito a seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto
come chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede. Poiché
è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato comportamento esterno delle
membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio dell’animo si abbandona, al di fuori, a
movimenti scomposti, e con la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo
tenga saldo interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è
scritto: Beati gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt. 5, 9), e traggano da ciò,
inversamente, la conclusione che, se saranno chiamati figli di Dio coloro che
operano la pace, sono senza dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma
tutti coloro che, a causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore,
inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle loro
azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non nascono dall’unità
della carità. Perciò considerino, i seminatori di discordie, in quanti
molteplici modi peccano, loro che, nel commettere una sola azione malvagia, di
fatto sradicano dai cuori umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla è più
prezioso per Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal diavolo
che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando discordie uccide l’amore
del prossimo, serve come familiare al nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori
feriti la virtù, per la cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi
spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a non trarre
con leggerezza il peso di un’azione così importante, quando non conoscano le
persone tra cui debbono stabilire la pace. Infatti, come è molto dannoso che
non ci sia pace tra i buoni, cos’
è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la malizia dei malvagi
li unisce nella pace, certo la loro forza si accresce di cattive azioni, perché
quanto più concordano nel male tanto
più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni.
Perciò infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato,
cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato Giobbe: Le membra
della sua carne congiunte fra loro (Giob.
41, 14). Perciò
dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine delle squame: Una si congiunge
all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob. 41, 7). Poiché
i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra di loro dall’ostilità, frutto
della discordia, tanto più gravemente si uniscono per la strage dei buoni.
Dunque, colui che unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze all’iniquità,
poiché perseguitando i buoni unanimemente, li affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio
predicatore, prigioniero per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei,
vedendoli pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro,
quando gridò dicendo: Fratelli,
io sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla speranza
nella risurrezione dei morti (Atti,
23, 6). E
poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti e la speranza in essa,
mentre i Farisei ci credevano, secondo i precetti della parola divina, si creò
una divisione nell’unanimità dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da
quella turba che prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna
ammonire coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere
innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore, perché poi la
pace esteriore possa giovare a loro, così che il riceverla, mentre il loro
cuore è intento alla esperienza della pace intima, valga a non trascinarli al
male; e mentre guardano avanti, verso la pace celeste non si servano in alcun
modo di quella terrena per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che
non sono capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra
costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano in grado
di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia della propria
empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano mansueti almeno per l’amore
del prossimo; e passino, come partendo da ciò che è vicino, a qualcosa di
migliore, cioè ascendano a quella pace del Creatore che è loro lontana.
24
— Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina sacra e i dotti che
però non sono umili
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole della legge
sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non ne parlano umilmente. I
primi vanno ammoniti a considerare che essi mutano, per sé, un sanissimo
bicchiere di vino in un bicchiere di veleno, e con un ferro da chirurgo, si
feriscono con una ferita mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è
sano, mentre avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a
considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta nella notte
della vita presente (cf. Sal.
118, 105), ma se essi non intendono rettamente le sue parole
è come se quelle si oscurassero perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un
errore intenzionale a trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li
avesse gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli altri,
rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore comprensione, e
per estorcere, all’autorità dell’opinione del volgo, il nome di scienza per il
proprio insegnamento, si danno un gran daffare a demolire le rette
interpretazioni di altri e a rafforzare i propri errori.
Perciò
giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono le donne incinte in
Galaad per allargare i loro territori (Am. 1, 13). Infatti
con Galaad si intende il «cumulo della testimonianza», e poiché tutta insieme,
la congregazione della Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri],
serve alla testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si
intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che è vero
riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime che in virtù dell’amore
divino, concepiscono la comprensione della Parola e giungono al compimento del
tempo sono pronte a partorire, con la manifestazione delle opere, quella
comprensione che avevano concepita. E dilatare il proprio territorio significa
estendere la fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte
in Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli eretici
uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli che già avevano
concepito una qualche comprensione della verità, e diffondono la fama di una
loro scienza. Con la spada dell’errore squarciano i cuori dei piccoli, già
gravidi della concezione della Parola, e creano, per il proprio errore, la
opinione di dottrina. Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché
non errino col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una
gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di conseguenza
i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna ammonirli anche che, col
generare errori e discordie, non mutino in sacrificio a Satana proprio quella
legge di Dio data precisamente per impedire sacrifici a Satana. Perciò
attraverso il profeta il Signore si lamenta dicendo: Ho dato loro frumento, vino e olio, e per loro ho
moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os. 2, 8).
Dunque,
riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la copertura
della lettera, attraverso il midollo dello spirito, cogliamo l’intimo della
legge. Il Signore poi ci offre il suo vino quando ci inebria con l’alta
predicazione della sua Scrittura. E ci dà pure il suo olio quando, con precetti
più aperti, dispone con dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento,
quando ci amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce
pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del sommo fulgore.
Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal, poiché, con la comprensione
corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori dei loro ascoltatori. E col frumento
di Dio, col vino e l’olio e ugualmente l’argento e l’oro, immolano un
sacrificio a Satana, poiché piegano parole di pace all’errore che genera
discordia. Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo
perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro stessi a
morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
intendono, certo rettamente, le parole della legge, ma non ne parlano
umilmente, ad esaminare se stessi alla luce dei discorsi sacri, prima di
proporli agli altri, perché non accada che nel perseguire le azioni altrui,
trascurino se stessi; e mentre intendono rettamente ogni cosa della Sacra
Scrittura non tralascino di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice
contro coloro che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che
desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso soffre.
Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di Dio, bisogna
certamente ammonirli — quando si applicano a medicare i malati — a esaminare
anzitutto il veleno della peste che portano addosso, affinché mentre curano gli
altri non muoiano loro. Bisogna ammonirli a considerare che lo spirito con cui
parlano non contrasti con la santità della Parola, e non accada che nella loro
predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino dunque ciò che è
scritto: Se uno parla, siano
come discorsi di Dio (1
Pt. 4,11). Pertanto
perché coloro che pronunciano parole che non sono loro proprie, se ne vantano
come se fossero loro? Ascoltino ciò che sta scritto: Parliamo come da Dio, di fronte a Dio, in Cristo (2 Cor.
2, 17). Infatti parla da Dio, di
fronte a Dio, colui che capisce di avere ricevuto da Dio la parola della
predicazione e cerca, con essa, di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino
ciò che è scritto: È abominazione del Signore ogni arrogante (Prov. 16, 5). Poiché, evidentemente,
mentre cerca la propria gloria nella parola di Dio, usurpa il diritto di colui
che la dà, e non teme di posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto
proprio ciò che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per
mezzo di Salomone: Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal
tuo pozzo; le tue sorgenti
scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze. Abbile tu solo e
non vi siano stranieri partecipi con te (Prov. 5, 15-17). Dunque,
il predicatore beve acqua dalla sua cisterna, quando rientrando nel suo cuore
ascolta, lui per primo, ciò che dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se
viene irrigato dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le tue
sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze (Prov. 5, 16);
poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando faccia rifluire sugli
altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di fuori significa infondere
esteriormente agli altri la forza della predicazione. Dividere poi le acque
nelle piazze corrisponde a dispensare il divino discorso ad un grande numero di
ascoltatori a seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la
parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua il
desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi le acque sulle
piazze, giustamente
si soggiunge: abbila tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama cioè stranieri gli
spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta si dice, con la voce di un
uomo nella tentazione: Stranieri sono insorti contro di me e dei forti hanno
cercato la mia vita (Sal.
53, 5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e
tuttavia abbile tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva
esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso l’esaltazione,
agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel ministero della parola divina, i
tuoi nemici coane tuoi partecipi. Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e
tuttavia la possediamo da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la
predicazione e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini
attraverso di essa.
25
— Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio della predicazione
per eccessiva umiltà e coloro che se ne impadroniscono con fretta precipitosa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare degnamente,
temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui sarebbe proibito da qualche
difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che
potrebbero predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna
ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel che essi
trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi nascondessero, a
dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso, ne faciliterebbero senz’altro
la rovina. Vedano allora con quale colpa si legano, dal momento che, sottraendo
a dei fratelli peccatori la parola della predicazione, nascondono medicine di
vita ad anime che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza
nascosta e tesoro non visto,
quale utilità in ambedue? (Sir. 20, 32). Se
la fame sfinisse la popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento,
sarebbero senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena
meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame della
Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta. Perciò bene è detto
per mezzo di Salomone: Chi nasconde il grano sarà maledetto tra i popoli (Prov. 11, 26); poiché
nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole della
predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i popoli perché per la
‘sola colpa del silenzio, viene condannata in proporzione a quella che sarà la
pena di molti, che avrebbe potuto correggere.
Se
ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da incidere e
tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come responsabile della
morte del fratello solo per pigrizia. Vedano dunque quanto sia grande la colpa
in cui si avvolgono, coloro che mentre riconoscono le ferite dei cuori
trascurano di curarle col taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per
mezzo del profeta: Maledetto chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger. 48, 10), poiché tener lontano la
spada dal sangue corrisponde a trattenere la parola della predicazione dall’uccidere
la vita carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E la mia spada mangerà
le carni (Deut. 32, 42).
Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola della predicazione,
ascoltino con terrore le divine.
sentenze pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle
commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di condanna (cf. Mt. 25, 24 ss.).
Ascoltino come Paolo tanto più si considerò puro del sangue dei suoi prossimi,
quanto più non li risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo davanti
a voi, oggi, che sono
puro del sangue di tutti: infatti non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni
consigliò di Dio (Atti, 20,
26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce
angelica, quando è detto: Chi ascolta dica: Vieni (Ap.
22, 17);
certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore chiami altri e
trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché non trovi le porte chiuse,
nonostante sia stato invitato, se si avvicina a mani vuote a colui che lo
chiama. Ascoltino Isaia, il quale, poiché aveva taciuto dal ministero della
parola, illuminato dalla luce celeste, con grande voce di pentimento,
rimprovera se stesso dicendo: Guai a me, perché ho taciuto (Is.
5, 5).
Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè che sarà moltiplicata
la scienza della predicazione in colui che avendola già ottenuta non si
trattiene da essa per il vizio della indolenza. Dice infatti: L’anima che
benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure inebriato (Prov. 11, 25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando,
accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa di
inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola, cresce a sua volta
inebriato dalla bevanda del dono così moltiplicato. Ascoltino ciò che David
offri in dono a Dio, poiché non nascose la grazia della predicazione che aveva
ricevuto, dicendo: Ecco, non
terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu lo sai: non ho
nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la tua verità e la tua salvezza
ho proclamato (Sal. 39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel
colloquio dello sposo con la sposa: Tu che abiti nei giardini, gli amici [ti] ascoltano;
fammi udire la tua voce (Cant. 8, 13). È la Chiesa
che abita nei giardini, e conserva le pianticelle ben coltivate delle virtù per
un rigoglio interiore. E gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e
coloro che desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo
desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua predicazione
attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come Mosè, vedendo che Dio era
adirato col popolo e ordinando di dare il via alla vendetta, con la spada,
dichiarò che erano dalla parte di Dio coloro che senza esitazione avrebbero
colpito il delitto dei peccatori, dicendo: Se uno è del Signore, si unisca a me; ponga ogni uomo
la spada sulla sua coscia: andate e tornate da porta a porta
attraversando l’accampamento nel mezzo e ciascuno uccida il fratello e l’amico
e il suo prossimo (Es. 32, 27). Porre
la spada sulla coscia è anteporre l’amore della predicazione ai piaceri della
carne, poiché, quando uno desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia
cura di sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta all’altra
è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché da essi entra la morte
per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo significa vivere nella Chiesa con
tanto disinteresse che colui il quale rimprovera le colpe dei peccatori non si
deve piegare a favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo forte
uccida il fratello, l’amico e
il suo prossimo. Cioè, uccide il fratello, l’amico, il prossimo,
colui che quando scopre qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada
del rimprovero neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è
detto appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore divino a
colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro che rifiutano di
rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini carnali. Al contrario,
coloro ai quali, o una imperfezione naturale o l’età proibisce l’ufficio della
predicazione e tuttavia vi sono spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non
tagliarsi la via di un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro
irruenza, il peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che
avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto, coll’impadronirsi,
fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e quindi di non mostrare di avere
giustamente perduto questa scienza della predicazione, perché si sono sforzati
a ostentarla impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli
degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal luogo che
abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel profondo. Bisogna
ammonirli a considerare che, se si pone il peso di una travatura sopra
strutture recenti e non ancora consolidate, non si fabbrica una abitazione ma
un crollo. Bisogna ammonirli a considerare che se le donne partorissero i figli
concepiti prima che fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma
le tombe. È perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare
subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli che
sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione di predicare
quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere pienamente istruito i
discepoli sulla virtù della predicazione, aggiunse immediatamente: Voi però
rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù dall’alto (Lc. 24, 49). Dunque
noi restiamo in città se ci chiudiamo nel chiostro del nostro animo per non
andare vagando coi discorsi all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi
per istruire anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente
della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un sapiente: Giovane, parla solo se ti è proprio necessario,
e se sei interrogato due volte, allora incomincia a parlare (Sir. 32, 10). È perciò che il medesimo
nostro Redentore, pur essendo creatore e sempre, nella manifestazione della sua
potenza, dottore degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro
degli uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei
precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli stesso che non
avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una vita perfetta se non dopo
avere compiuto l’età; poiché sta scritto: Quando ebbe dodici anni, il bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc. 2, 42), e
poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato ricercato dai genitori: Lo
trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li ascoltava e interrogava (Lc. 2, 46).
Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla di Gesù dodicenne
che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene trovato a interrogare, non a
insegnare. Con questi esempi, evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno,
che non ne abbia la forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue
domande, volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità
aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma quando per
mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina queste cose e insegna; nessuno disprezzi la tua adolescenza (1 Tim. 4, 11-12), dobbiamo intendere che, nel
discorso sacro, talvolta la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si
dimostra subito citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci giovane, nella tua adolescenza (Qo. 11, 9). Infatti
se non avesse inteso l’una e l’altra come una cosa sola, non avrebbe chiamato
giovane colui che ammoniva nella sua adolescenza.
26
— Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà
Diverso
è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in tutto quanto
desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano
la fatica di una pesante fortuna avversa. Infatti, i primi bisogna ammonirli a
non trascurare di cercare colui che dà, dal momento che hanno tutto quanto
basta al loro desiderio; e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono
loro date, così da amare il cammino verso la patria, invece che la patria
stessa; a non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al
raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della luna, a non
rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna ammonirli a non credere
che tutti quanti i beni che conseguono in questo mondo siano il premio di quel
che hanno meritato, e non, invece, sollievo dalla sventura; levino la mente
contro i favori del mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal
loro diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non reprime
la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore vita, rende i vantaggi di
una vita che passa occasione di una morte perpetua. È perciò infatti che coloro
i quali si rallegrano dei successi di questo mondo vengono rimproverati, in
persona degli Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è
detto: Si presero la mia terra in eredità con gioia, con tutto il cuore, con tutta l’anima
(Ez. 36, 5).
E da queste parole si può considerare che non è solamente perché godono, ma è
perché godono con tutto il cuore e con tutta l’anima che vengono colpiti con un
severo rimprovero. Perciò dice Salomone: Il rifiuto dei piccoli li ucciderà
e la prosperità degli stolti li perderà (Prov. 1, 32). Perciò Paolo ammonisce
dicendo: Chi compra come se non possedesse, chi usa di questo mondo come se non ne usasse (1 Cor. 7, 30). Ciò,
per dire che quanto abbiamo in abbondanza deve servirci esteriormente così da
non distoglierci l’animo dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono
un aiuto, finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto dell’intimo
stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice, di beni passeggeri, noi
che ora ci vediamo infelici, lontano da quelli eterni. È perciò infatti che la
Chiesa dice, con la voce degli eletti: La sua sinistra è sotto il mio capo e
la sua destra mi abbraccia (Cant.
2, 6). Dio
ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della vita presente, sotto il
capo, e la preme la tensione verso l’amore sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia
poiché la Chiesa nella offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna
beatitudine. Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza di
giorni nella sua destra, e
nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov.
3, 16).
E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria che egli pone nella
mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua destra mi fa salvo (Sal.
107, 7). Infatti non dice mano, ma destra, evidentemente
per indicare, dicendo destra, che era la salvezza eterna che egli cercava.
Perciò ancora è scritto: La tua destra Signore ha infranto i nemici (Es.
15, 6. LXX); infatti
i nemici di Dio, quantunque nella sua sinistra si avvantaggino, dalla destra
sono infranti, poiché per lo pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento
della felicità eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della
prosperità in questo mondo, a considerare accortamente che la prosperità di questa vita talvolta è
data proprio per incitare ad una vita migliore e altra volta invece per una più
piena dannazione eterna. È perciò infatti che viene
promessa al popolo israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia
incitato alle speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe
creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse ricevuto,
da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente. Dunque, per dare una
più solida certezza alla [sua] fede nei beni eterni, non è solo con la speranza
che lo si attira a quei beni, ma è pure coi beni temporali che lo si conduce a
sperare. E ciò è chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede ad essi
i territori delle genti e possedettero il frutto delle fatiche di quei popoli, perché custodissero i suoi decreti e
ricercassero la sua legge (Sal. 104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo
non corrisponde con le buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a
causa di quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più
giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo del salmista:
Li hai abbattuti mentre si consolavano (Sal.
72, 18).
Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio con opere di
giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in questa vita e si
lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere, ciò per cui esteriormente
hanno successo è la causa della loro caduta spirituale. Ed è perciò che al
ricco tormentato nell’inferno si dice: Hai ricevuto beni nella tua vita (Lc. 16, 25).
Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio per questo, cioè
per ricevere più pienamente il male nell’altra; poiché qui non si è convertito
neppure per mezzo di quei beni. Al contrario, coloro che pure accesi di
desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa,
bisogna ammonirli ad apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia
il Creatore, che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si
lascino andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di
guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma chi si
crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli sente voglia.
Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali pure riserviamo tutto
intero il patrimonio in quanto ne sono eredi. Perciò dunque, gioiscano della
speranza della eredità eterna, coloro che sono umiliati dall’avversità della
vita temporale, perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come
fatti per la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della
disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal desiderio di beni
temporali, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, a considerare con
premura che spesso anche i giusti, quando la potenza mondana li esalta, sono
afferrati come in un laccio dalla colpa. Così, come abbiamo già detto nella
prima parte di quest’opera (I, par. 3),
David amato da Dio fu più giusto nel periodo del suo servizio che quando giunse
al regno. Infatti, da servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire
l’avversario che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18);
da re, invece, indotto dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata
frode (cf. 2 Sam. 11, 7).
Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze, potere e gloria se queste
cose furono dannose perfino a colui che le ebbe senza averle cercate? Chi, in
mezzo ad esse, potrà salvarsi senza correre la fatica di un grande pericolo, se
colui che era stato preparato ad esse dalla scelta
di Dio rimase turbato dalla colpa che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a
considerare come non si ricorda che Salomone — il quale viene descritto come
chi cadde nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4 ss.)
— avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di cadere, ma dopo che gli
fu concessa la sapienza, lasciò andare completamente il suo cuore, che nessuna
tribolazione, neppure la più piccola, aveva custodito con la sua disciplina.
27
— Come si devono ammonire i coniugati e i celibi
Diverso
è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che
sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i primi, quando pensano
vicendevolmente l’uno all’altro, a studiarsi di piacere al coniuge in modo da
non dispiacere al Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non
tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni presenti così
da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali eterni; e piangano i mali
presenti in modo dà fissare però, con intatta consolazione, la loro speranza
nei beni eterni, dal momento che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui
aspirano resta; né i mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza
dei beni eterni lo conforta;
né i beni della vita presente lo ingannino, poiché lo rattrista il timore dei
mali del giudizio futuro. E così, l’animo degli sposi cristiani è insieme
debole e fedele, tale che non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni
temporali, e tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e
quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce con l’alimento
della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa delle cose del mondo, spera
in quelle di Dio come frutto della meta raggiunta; e non si consegni
interamente a ciò che fa per non cadere del tutto da ciò che avrebbe dovuto
sperare con forza. Paolo esprime bene e brevemente ciò, dicendo: Chi ha moglie
sia come se non l’avesse; e chi
piange come se non piangesse; e chi gode come se non godesse (1 Cor.
7, 29-30). Poiché ha moglie come se
non l’avesse, colui che con lei usa della consolazione della carne, in modo che
mai, tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della migliore
intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non l’avesse, colui che,
vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura
della carne, ma lo spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne.
Piangere non piangendo è piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia
godere della consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è
innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di temere le
realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo aggiunge pure: Passa, infatti, la figura di questo
mondo (1
Cor. 7, 31).
Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente
il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere; vanamente
fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre fugge colui stesso
che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare a vicenda, con pazienza, ciò
in cui talvolta l’uno dispiace all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda.
Infatti è scritto: Portate a vicenda i vostri pesi e così adempirete la
legge di Cristo (Gal. 6, 2). E la legge di Cristo è la
carità; poiché per essa egli ci ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha
portato i nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi imitatori
quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo con spirito di pietà i
mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli pure a badare, ciascuno di essi,
non tanto a ciò che l’uno deve sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro
deve sopportare di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa
portare, porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere.
Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo scopo di avere
figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata, mutano il momento della
propagazione in pratica del piacere, considerino che, anche se ciò non avviene
al di fuori dell’unione matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi
oltrepassano i diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti
orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia la
bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo, esperto di
medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto mostrò i rimedi ai malati
dicendo: Quanto a ciò che mi avete scritto: È bene per l’uomo non toccare donna; ma per rimedio alla
fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna abbia il proprio
marito (1
Cor. 7, 1-2). Ma
se mise avanti il timore della fornicazione, certo non stabili il precetto per
quelli che stanno saldi in piedi, bensì mostrò un letto a coloro che cadono
perché non rovinassero in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il
marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al marito (1 Cor. 7, 3);
ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al
piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma questo lo dico
per indulgenza, non per comando
(1 Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché
parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più presto è
condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di illecito in sé, ma
piuttosto non si contiene, in un ambito di moderazione, ciò che di per sé è
lecito. Ed è ciò che Lot esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in
fiamme e tuttavia, trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30).
Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti della
carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone continenti. Ora, sono
certamente come chi sta sul monte perfino coloro che, pur aderendo all’unione
carnale, tuttavia non si abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori
di quell’atto compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non
cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul monte
significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci sono molti che
rinunciano ai peccati della carne
e tuttavia, posti nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i
diritti del suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse
subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita degna di
condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però ancora raggiunta in
tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la città di Segor, per salvare il
debole che fugge, poiché naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa
dell’incontinenza, fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per
condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li difende dal
fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo mirabile per la virtù e
tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il medesimo Lot dice
all’angelo: C’è qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi
salverò in essa. Non è forse
modesta, e la mia anima vivrà in essa? (Gen.
19, 20).
Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura per la salvezza, poiché
la vita coniugale non è separata di molto dal mondo e tuttavia non è estranea
alla gioia della salvezza. I coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro
vita come in una piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche
assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo dell’angelo: Ecco, ho ascoltato le tue preghiere anche in
questo: non distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gen.
19, 21); poiché
è chiaro che non è condannata quella vita matrimoniale in cui i coniugi si
rivolgono a Dio con la supplica, riguardo alla quale anche Paolo ammonisce
dicendo: Non privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo
stabilito, per essere liberi
per la preghiera (1 Cor. 7, 5). Al
contrario, coloro che non sono legati nel matrimonio bisogna ammonirli a
servire tanto pin rettamente i comandamenti divini quanto meno li inclina alle
cure del mondo il giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso
lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della
preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più pronti quanto più
leggeri; e poiché, liberi come sono, possono compiere opere tanto più
meritorie, non le trascurino così da meritare, per questo, supplizi tanto più
gravi. Ascoltino l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del
celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane che nascono
da esso dicendo: Ciò lo dico per vostra utilità, non per gettarvi un laccio; ma per indicarvi
ciò che è onesto e offre la possibilità di servire Dio senza impedimento (1
Cor. 7, 35).
Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni terrene, e perciò il
maestro delle genti volle persuadere i suoi ascoltatori a cose migliori perché
non si legassero alla preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto
dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è sottoposto al
matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi. Bisogna ammonire i celibi a
non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel
giudizio di condanna. Infatti, quando Paolo inserì il vizio della fornicazione
fra tanti peccati esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né i
fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né gli
omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i maldicenti né i rapaci
possiederanno il regno di Dio (1 Cor. 6, 9-10). E
ancora: I fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (Ebr. 13, 4).
Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni
con pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del matrimonio, infatti è
scritto: È meglio sposarsi che ardere (1
Cor. 7, 9). Non
è colpa se si sposano, purché in precedenza non si siano impegnati con voti a
uno stato di vita più perfetto.
Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene minore
che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è scritto: Nessuno che mette la
mano all’aratro e si volta a guardare indietro è adatto al regno dei cieli (Lc. 9, 62).
Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è
convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega sui
minimi.
28
— Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne
e quelli che non l’hanno
Diverso
è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che
ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il
mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della
loro perdizione che già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà
di Dio dopo avere commesso il male, non debbano morire ripetendolo
malvagiamente. Così, all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei
divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger. 3, 3).
Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto
conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno
quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono
quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e
convertono gli altri dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre
altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo
avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti
conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al
Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad
evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti
corrotte in questo mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse,
affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno
fornicato in Egitto, hanno
fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e furono
violati i loro seni verginali (Ez. 23, 3).
In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al
turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali,
quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla
corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno
esperienza di peccati della carne
a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno
della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per
mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene
prenderà un altro marito, forse
egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella
donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me,
dice il Signore (Ger. 3, 1).
Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta
come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene
offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande
la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui
ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza
per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa
misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando si dice
all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue
orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is. 30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano,
quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero
arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le
spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia
il Signore non l’abbandonò nella superbia, lui che
diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad esortarlo e apparve egli stesso
nella nostra carne
mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche
disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto
al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in
particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà
di Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo
ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non
disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza, l’uomo
brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E tuttavia
ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole
persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto
indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua misericordia
a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se, almeno dopo
il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo temere la
giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è tanto più
grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli
non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non
hanno esperienza di peccati della carne,
a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto
stanno. Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui
sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li
assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da
cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede
combattergli contro gli integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli
a non cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza dubbio,
calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che devono sopportare. Se
infatti si mira alla felicità a cui si attinge eternamente, diviene lieve ciò
che si fatica ed è però passeggero. Ascoltino ciò che è detto per mezzo del
profeta: Queste cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei
sabati, che hanno scelto ciò
che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò loro nella mia casa e
nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie (Is.
56, 4-5). Sono
eunuchi coloro che, trattenuti i moti della carne, tagliano in se stessi l’amore
dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi hanno presso il Padre, è
manifesto, poiché nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono
preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di Giovanni: Questi
sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap. 14, 4).
E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei
centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere
con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E
che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo
pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di
quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei
peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non
tutti comprendono questa parola (Mt.
19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di
tutti; e avvertendo che difficilmente
è compresa, fa intendere a chi ascolta con quanta
cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata. Bisogna dunque
ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a sapere che
la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a non esaltarsi nei
confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e posponendosi agli
altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi
vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle persone
continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di chi vive nel secolo,
quando questi operano oltre ciò che è richiesto dalla loro situazione, e quelli
non eccitano il loro cuore in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto
per mezzo del profeta: Arrossisci,
Sidone, dice il mare (Is. 23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso
e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi
vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse
indotta alla vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver
commesso peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più
ardore nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive.
E d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di
avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a
loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con
alcuno stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più
gradita a Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza
giacente nel torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del
Giudice: Le saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc. 7, 47);
e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove
giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc. 15, 7).
E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come
giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra
che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di
quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe
sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli
altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto
siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del
giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi
infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme
il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del
giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è
inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e
questo, che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità
del colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore,
sono peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché
questi, vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre
quelli diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le
corrispondono con i costumi.
29
— Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che
piangono peccati solo di pensiero
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che
piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto
perfetto i peccati compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito
dell’azione commessa, ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è
scritto: Ci ha dato da bere lacrime in misura (Sal. 79, 6), per
dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di
compunzione, quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe.
Bisogna ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i
peccati commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più
essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo: Distogli
i tuoi occhi dai miei peccati (Sal.
50, 11),
poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti (Sal.
50, 5);
come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non
cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E
non mi ricorderò dei tuoi peccati,
ma tu ricordateli (Is. 43, 25-26. LXX). Bisogna
ammonirli a considerare i peccati uno per uno, e mentre per ciascuno piangono
la sozzura del loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli,
interamente. Perciò è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli
peccati della Giudea: Il mio occhio ha fatto scendere acque divise
(Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli
occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua
parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento
per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora
dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si
purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli a confidare con certezza nella
misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva
afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli
occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi
colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo
giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua
misericordia. Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con
la confessione (Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci
giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1 Cor.
11, 31).
E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella fiducia che viene
dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso,
infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col
peccato, afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una
pestifera sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di
Dina. È scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione; ma quando la vide Sichem, figlio
di Emor eveo, principe
di quel paese,
si innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità e la sua
anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua tristezza (Gen.
34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione
straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore
e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua
condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la
viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe; e
la sua anima si uni con lei, poiché
la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata in sé dalla
colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato commesso, allora il corruttore
richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla alla
utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: e alleviò con le carezze la
sua tristezza. Ora,
infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che quanto ha
fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le promette che ci sarà
in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima condotta
attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché,
ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia, allora,
più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei peccati.
Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a
considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato
solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato
e trae piacere dalla malizia della carne,
e tuttavia contrasta con la ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del
pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo
viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle
affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; e
così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto a consumare gli intimi
desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce
la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché
quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente
il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso. Nel
progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la
malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si
compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo
spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al piacere e,
all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In effetti, il serpente suggerì
il male, Eva, come carne,
si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal
piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla
suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo col consenso. Pertanto,
bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare con
cura l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto
corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi e valga a
risollevarli, e non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi
pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in
loro, non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso
Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non
permette che essi sfocino nelle opere; e il male solamente pensato è più
rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto dell’opera.
Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai
rimesso l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha
sottoposto l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i
peccati di pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, e subito aggiunse: E tu hai
rimesso, mostra
quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di
chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto,
la penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del
pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato.
30
— Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli
commessi ma non li piangono
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se
ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono. Infatti,
bisogna ammonire i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano
piangendo, coloro che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le
lacrime per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è scritto: Il
cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango (2
Pt. 2, 22). Il
cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo
stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si
appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i peccati commessi, certamente
rigettano, confessandola, la malizia con cui si erano malamente saziati e che
opprimeva l’intimo dell’animo, ma la riprendono su di sé
quando la ripetono dopo averla confessata. E la scrofa, con l’arrotolarsi nel
fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati,
e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore,
poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le lacrime, ed è
come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché, mentre sottrae al suo pianto
la purezza della vita [ottenuta con esso], davanti agli occhi di Dio rende
sordide perfino quelle lacrime. Perciò ancora è scritto: Non dire due volte
una parola nella preghiera (Sir.
7, 15); infatti,
dire due volte una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il
pianto, ciò che è necessario tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di
Isaia: Lavatevi, siate puri (Is.
1, 16);
infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di
conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri,
coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a
commettere azioni degne di pianto. Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se
uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che cosa serve che si sia lavato? (Sir.
34, 30). Si lava, cioè,
dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto dal peccato; ma tocca il
morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna
ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano,
a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli che si
presentano di fronte
a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma
allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con effetti
atroci. Che cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà
della propria devozione? E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto
il peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato?
Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo, si costituisce nemico di Dio (Giac. 4, 4). Bisogna
ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a
considerare attentamente che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono
a compunzione per la giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male
senza danno. Avviene cioè che, per una mirabile misura della loro disposizione
interiore, corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono
che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia, perfino
mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando vengono tentati dal
male cui per altro non consentono — quanto più la loro debolezza li fa
esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà, puntano i passi del loro cuore, con
fermezza e verità, alla giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti
dei giusti dice: Muoia la mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi
momenti siano simili a quelli di costoro (Num.
23, 10); ma
quando si fu allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio
contro la vita di coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella
morte. E quando trovò un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito
dimenticò tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap.
2, 14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle
genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e
condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra (Rom. 7, 23). Egli
certamente viene tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel
bene dalla consapevolezza della propria infermità. Com’è dunque che quello è
portato alla compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia;
mentre questi è tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come
apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male
non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna ammonire coloro che
si staccano dal peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle
colpe che essi non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro
agire.
Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di
non aggiungervi altri scritti. Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie
taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole
di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia. Né un
debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie
quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non
diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire
anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in
questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa
nostra innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra
sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con
quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è
testimone a se stesso di non essere innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce
delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti
contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei
piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci
andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e
il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza
salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato dall’abiezione
di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli iniqui: non agite iniquamente, e ai
peccatori: non alzate la testa (Sal. 74, 5). E i peccatori alzano la
testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione della propria iniquità.
Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal. 50, 19). Infatti,
chi piange i peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura
di umiliarlo; chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il
cuore, ma tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi foste tutte
queste cose, ma siete stati
lavati, ma siete stati santificati (1 Cor. 6, 11); perché,
cioè, una vita più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime,
lavandoli, rende puri. Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla
considerazione dei loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza: ciascuno di voi sia battezzato (Atti,
2, 38). Volendo
parlare del Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima,
versassero su di sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero
col sacramento del Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono,
coloro che trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo
Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al
sacramento che principalmente estingue i peccati?
31
— Come bisogna ammonire coloro che lodano le azioni illecite di cui sono
consapevoli; e coloro che,
pur condannandole, tuttavia non se ne guardano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni illecite che
compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano. Bisogna
ammonire i primi, infatti, a considerare che spesso peccano più con le parole
che con le opere. Infatti, con le opere compiono il male solo per se stessi; ma
con la bocca offrono il male a tante persone quante sono le menti di coloro che
ascoltano e che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli a
temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di sradicare. Bisogna
ammonirli ad accontentarsi della loro personale perdizione. E ancora — se non temono di essere
malvagi —, bisogna ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono.
Spesso, infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo
arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere, avviene talvolta
che arrossisca di essere ciò che evita di apparire. Ma quando il peccatore si
fa notare con impudenza, quanto più liberamente compie qualsiasi mala azione,
tanto più la considera anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza
dubbio affonda in essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno reso pubblico
il loro peccato, come Sodoma,
e non l’hanno nascosto (Is. 3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato,
avrebbe peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del
timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la colpa. Perciò
di nuovo è scritto: Il grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato (Gen.
18, 20); poiché
il peccato è detto voce quando è azione colpevole, ma è detto anche grido
quando è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare prudentemente
che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo giudizio di Dio, essi che,
secondo il loro stesso giudizio, sono inescusabili riguardo alle loro colpe. Così,
che altro sono costoro, se non accusatori di se stessi? Parlano contro le colpe, e con le loro opere
trascinano se stessi come rei.
Bisogna ammonirli a vedere che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio
che la loro mente è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non
cerca di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina perché
riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre dell’agire
depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza ricevuta in aiuto, la voltano
in testimonianza contro di sé; e con quella luce di intelligenza, che certo
avevano ricevuto per poter cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro
malizia, cioè, quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui
il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il castigo eterno,
neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso esame; e tanto più gravi
tormenti dovrà ricevere là, quanto più, qui, non abbandona il male anche quando
essa stessa lo condanna.
Perciò, infatti, la Verità
dice: Il servo, che
conosceva la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo la
sua volontà, riceverà molte percosse (Lc. 12, 47). Perciò dice il salmista: Discendano
vivi nell’inferno (Sal. 54, 16). Perché vivi sanno e sentono le cose che si
compiono intorno a loro, i morti invece non possono sentire nulla. Così
scenderebbero morti nell’inferno se commettessero il male senza conoscerlo, ma
quando conoscono il male, e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di
iniquità, viventi, miseri e consapevoli.
32
— Come bisogna ammonire coloro che peccano per impulso e coloro che peccano
deliberatamente
Diverso
è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e
coloro che restano prigionieri della colpa con deliberazione. Bisogna ammonire
i primi a badare a se stessi, dovendo affrontare quotidianamente la guerra
della vita presente, e a proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore
che non è in grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande
terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un combattimento tanto
oscuro si trincerino negli accampamenti del cuore, con una attenzione continua.
Infatti, se il cuore è abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle
ferite, poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente, quanto
più lo sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna ammonire coloro
che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a distogliersi dalla eccessiva
cura delle cose terrene, poiché mentre si coinvolgono
smodatamente in realtà transitorie, ignorano da quali dardi di colpe restano
trafitti. Perciò, la voce di chi è colpito mentre dorme viene anche espressa
per mezzo di Salomone, il quale dice: Mi colpirono, ma non sentii dolore; mi
trascinarono e non me ne accorsi. Quando veglierò e ritroverò ancora il
vino? (Prov. 23, 35). La
mente che dorme dimentica della sua sollecitudine viene colpita e non sente
dolore, perché, come non vede i mali incombenti, così non riconosce neppure
quelli che ha commesso; viene trascinata e non se ne accorge, perché è condotta
attraverso le seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa,
in verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché quantunque
sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di se stessa, si sforza
tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per essere sempre ebbra dai
piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per cui avrebbe dovuto prudentemente
vegliare, desidera di essere sveglia per altre cose per le quali avrebbe potuto
lodevolmente dormire. Perciò più sopra, sta scritto: E sarai come chi dorme
in mezzo al mare e come un pilota assopito che ha lasciato il timone (Prov.
23, 34). Infatti
dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle tentazioni di questo mondo,
trascura di prevedere i moti erompenti dei vizi, come cumuli di onde
sovrastanti; ed è come un pilota che perde il timone, la mente che perde la
tensione sollecita a governare la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in
mare il non mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo
secolo. Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora dirige la
nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei venti. Così, quando
la mente governa l’anima con vigilanza, ora calpesta e vince alcune passioni
ora, con previdenza, ne aggira altre, e così., con fatica sottomette quelle
presenti, e con la previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò
ancora si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La spada di
ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni (Cant. 3, 8). Si
pone la spada sulla coscia, quando con la punta della santa predicazione si
doma la malvagia suggestione della carne. Con la notte, poi, si esprime la
cecità della nostra debolezza, poiché di notte non si vede nulla di ciò che può
sovrastare ostilmente. E la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori
notturni, poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le
tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione del
combattimento. Perciò, ancora, si dice della sposa: Il tuo naso come torre
che è nel Libano (Cant.
7, 4); infatti,
ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo prevediamo dall’odore. Col naso,
poi, distinguiamo anche gli odori buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si
designa con naso della Chiesa, se non la previdente discrezione dei santi? E il
naso è anche detto simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza
discreta dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni
prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa. Infatti, le
lotte future che vengono previste, quando si sono fatte presenti hanno minor
forza, poiché quando uno si fa sempre più preparato contro i colpi, il nemico
che si crede inatteso viene reso impotente proprio perché è stato previsto. Al
contrario, bisogna ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con
deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere il male
deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più severo, così che li
colpisce una sentenza tanto più
dura, quanto più strettamente li legano alla colpa i vincoli della
deliberazione. Forse laverebbero più
in fretta i loro peccati col pentimento, se vi fossero caduti solamente per
precipitazione; infatti il peccato indurito dal consiglio è anche più duro da
assolvere, e se la mente non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non
perirebbe cadendo nella colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la
precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione differiscono in ciò,
che questi ultimi, quando peccando cadono dalla condizione di giustizia, per lo
più cadono insieme anche nel laccio della disperazione. Perciò, per mezzo del
profeta, il Signore rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto
quelli dovuti a una passione coltivata, dicendo: Che non erompa come fuoco
il mio sdegno e si accenda, e
non ci sia chi lo spegne, per la malizia delle vostre passioni. Quindi,
una seconda volta irato, dice: Vi visiterò secondo il frutto delle vostre
passioni (Ger.
4, 4; 23, 2). Dunque,
i peccati commessi con deliberazione differiscono dagli altri, perché il
Signore non persegue tanto il fatto del peccato, quanto la premeditazione del
peccato; giacché, nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per
negligenza; ma nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa.
Al contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo beato:
Non siede nella cattedra di pestilenza (Sal. 1, 1). Cattedra
suole essere il seggio del giudice o del presidente, e sedere nella cattedra di
pestilenza corrisponde a compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere
nella cattedra di pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e
tuttavia commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di
consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto grande da
tentare di compiere il male perfino attraverso il consiglio. E come coloro che,
sostenuti dall’autorità della cattedra, sono superiori alle folle che li
assistono, così i peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di
coloro che rovinano per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega
alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale sarà la
vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro che ora si fanno
non compagni ma principi dei peccatori.
33
— Come bisogna ammonire coloro che cadono in peccati minimi ma frequenti, e coloro che guardandosi dai minimi
restano talvolta sommersi da quelli gravi
Diverso
è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur minimi, e
coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta affondano nei gravi.
Bisogna ammonire coloro che cadono frequentemente in colpe sia pur piccole, a
non considerare quali, ma quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano
le loro azioni disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano.
Poiché sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le
gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce nascostamente
produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria palesemente. E sono
piccolissime le ferite che si aprono nelle membra per la scabbia,
ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole, si estende, uccide la vita
del corpo come una grave ferita inflitta nel petto. Perciò è scritto: Chi
disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno (Sir. 19, 1). Infatti,
chi trascura di piangere e di evitare i peccati minimi cade dalla condizione di
giustizia, non di colpo, ma, poco alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro
che frequentemente cadono in cose minime, a considerare con cura che spesso si
pecca più rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché,
la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più rapidamente
viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla, ha effetti tanto
peggiori, quanto più tranquillamente continua a essere praticata. Per cui
avviene spesso che il cuore avvezzo a peccati leggeri non ha in orrore neppure
quelli gravi e, nutrito dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e
tanto disdegna di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha
imparato a peccare senza timore. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si
guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano nelle gravi, ad aprire
gli occhi su se stessi con sollecitudine, giacché, mentre il loro cuore si esalta
perché si custodisce dalle piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso
baratro della loro esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e,
mentre al di fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di
vanagloria, finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi, l’animo
che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia. Pertanto bisogna
ammonire coloro che si custodiscono dai peccati piccoli ma talvolta sprofondano
nei gravi, a non cadere, interiormente, là dove, esteriormente, stimano di
stare in piedi; e, nella retribuzione del Giudice
severo, l’esaltazione non divenga una via di minore giustizia, che trascini
alla fossa della colpa più grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente,
attribuiscono alle proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente
abbandonati, si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro
stare in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino il
cuore che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare che, con colpe più
gravi si caricano di una grossa responsabilità, e tuttavia spesso nelle piccole
buone azioni che custodiscono, peccano più rovinosamente perché, con le prime
compiono cose inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la
loro iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i peccati
maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono piccole buone azioni
davanti agli uomini, è santità simulata. Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano
il moscerino e inghiottiscono il cammello (Mt.
23, 24); come
se dicesse apertamente: lasciate da parte i peccati piccoli e divorate quelli
grandi. È perciò che ancora si sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate la decima
della menta, dell’aneto,
e del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la
giustizia, la misericordia, la fedeltà (Mt. 23, 23). E
occorre ascoltare con attenzione, perché quando parla delle decime più piccole,
ricorda intenzionalmente, fra le erbe, le ultime ma profumate; certo per
mostrare che i simulatori, quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano
di spandere l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino
di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a giudizio umano,
spandono profumo in lungo e in largo.
34
— Come bisogna ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene, e coloro che dopo averlo incominciato
non lo portano a termine
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene e
coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a termine. Quanto ai
primi, non bisogna far loro presente, innanzitutto, ciò che devono sanamente
amare, ma distruggere ciò a cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno
dietro a ciò di cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non
comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché non
desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere caduto; e colui
che non sente il dolore della ferita, non ricerca il rimedio per sanarla.
Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano ciò che amano, e poi con molta
cautela bisogna insinuare quanto sia utile quello che tralasciano. Vedano,
prima, che quel che amano è da fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno
conto che è amabile ciò che fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non
hanno esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato su ciò
che conoscono per esperienza. Allora, dunque, imparano con pieno desiderio a
cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano compreso con giudizio sicuro
di essere stati vanamente attaccati a cose false. Ascoltino quindi, che il
piacere dei beni presenti è destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro
causa permarrà per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro,
contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore, sarà loro
riservato come supplizio, ancora contro voglia. E così abbiano un salutare
terrore delle medesime cose da cui traggono un piacere che li danna, affinché l’animo,
che resta colpito alla vista dei danni profondi della sua propria rovina e si
accorge di essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi
passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò che
disprezzava. Perciò viene detto a Geremia, mandato a predicare: Ecco, oggi ti ho costituito sopra le genti e
sopra i regni, perché tu sradichi e distrugga, disperda e dissipi,
ed edifichi e pianti (Ger.
1, 10); perché,
se prima non avesse distrutto ciò che era perverso, non avrebbe potuto
edificare utilmente ciò che era retto; se non avesse sradicato dai cuori dei
suoi ascoltatori le spine di un amore vano, è certo che, invano, avrebbe
piantato in loro le parole della santa predicazione. Perciò Pietro, prima
abbatte per poi costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che
ormai avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto,
dicendo: Gesù Nazareno, uomo
approvato da Dio tra voi, per i miracoli, i prodigi, i
segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso lui, come voi
sapete: quest’uomo, consegnato per un disegno prestabilito dalla
prescienza di Dio, lo avete ucciso inchiodandolo per mano di empi,
ma Dio lo ha risuscitato, avendo sciolto le doglie dell’inferno (Atti,
2, 22-24). Disse
così,
evidentemente, affinché, abbattuti dalla consapevolezza della propria crudeltà,
con quanta maggior tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa
predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero.
E quindi, subito rispondono: Che cosa dobbiamo fare, allora, fratelli? E
ad essi viene detto: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 37-38). Essi non avrebbero
certamente fatto alcun conto di queste parole di edificazione, se prima non
avessero trovato la salutare rovina della loro propria distruzione. Perciò
Paolo, quando risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che
avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male. Infatti, quando
prostrato chiedeva: Chi sei,
Signore? Gli fu subito risposto: Io sono Gesù Nazareno che tu
perseguiti. E alla
sua seconda immediata richiesta: Signore, che cosa ordini che faccia? Viene aggiunto subito: Alzati
ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu faccia (Atti, 9, 24 ss.; 22, 8 ss.). Ecco, il Signore, parlando
dal cielo, rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra
immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare. Ecco, ormai tutto l’edificio del
suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la sua rovina, cercava di
essere riedificato. Ma la superbia viene distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione
vengono ancora trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia
a lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene, quanto più,
prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal primitivo errore.
Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato a compiere alcun bene
devono, prima, essere rovesciati dalla loro rigida perversità, dalla mano della
correzione; per essere, poi, rialzati alla condizione di chi agisce rettamente.
Poiché è come quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di
un edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella costruzione, perché
prima si secchi il suo umore nocivo; e quanto più questo si asciuga nel suo
interno, tanto più solidamente può essere sollevato in alto. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che non portano a termine il bene iniziato, a
considerare con molta attenzione che, col non adempiere quanto si sono
proposti, strappano via anche ciò a cui avevano dato inizio. Se, infatti, ciò
che sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione, diminuisce
anche ciò che era stato ben compiuto. Poiché, in questo mondo, la vita umana è
come una nave che sale contro la corrente di un fiume: non le è permesso di
stare ferma in un luogo, perché scivola di nuovo verso il basso, se non si
sforza di salire verso l’alto. Dunque, se la forte mano di chi opera non
conduce a perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare
lotta contro quanto è già stato compiuto. Ed è ciò che è detto per mezzo di
Salomone: Chi è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa
il proprio lavoro (Prov. 18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue
rigorosamente quanto ha iniziato di buono, la trascuratezza della sua
negligenza è come la mano di un distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa
di Sardi: Sii vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti non trovo complete le tue opere
davanti al mio Dio (Ap. 3, 2). Dunque, poiché le sue opere non erano
state trovate complete davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche
quelle altre che erano state compiute. Infatti, se ciò che in noi è morto non si riaccende a vita, si
estingue anche ciò che, in un certo senso, si conserva ancora vivo. Bisogna
ammonirli a considerare che avrebbe potuto essere più tollerabile non
intraprendere la via del giusto, piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa;
infatti, se non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel
torpore, dopo l’attività iniziata. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Sarebbe
stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi indietro dopo
averla conosciuta (2 Pt. 2, 21). Ascoltino
ciò che è scritto: Magari fossi freddo o caldo; ma poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò a
vomitarti dalla mia bocca (Ap. 3, 15-16). Caldo
è chi intraprende attivamente il bene e lo porta a termine; freddo è chi non
incomincia neppure ciò che dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la
tiepidezza, si passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si
ritorna al freddo. Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della incredulità
ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore così da ardere; mentre
permane nella nociva tiepidezza, senza più nessuna speranza di quel calore, non
fa altro che tornare freddo. Ma, come prima di diventare tiepido l’essere
freddo conservava la speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato
freddo, è senza speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la
fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido, si è
sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore. Si richiede,
dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere vomitato essendo tiepido,
affinché, se non è ancora convertito, lasci una speranza di conversione
riguardo a sé o, se è già
convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non sia vomitato
come tiepido per essere ritornato a causa della sua inerzia, dal calore che si
era proposto, al freddo dannoso.
35
— Come bisogna ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene
apertamente; e quelli che
agiscono viceversa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene in
pubblico, e coloro che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si
pensi pubblicamente male di loro per certe loro azioni pubbliche. Infatti,
bisogna ammonire i primi a valutare la rapidità con cui i giudizi umani volano
via, e come, invece, restano stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere
gli occhi della mente fissi al
termine delle cose, poiché l’attestazione delle lodi umane
passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è nascosto, si rafforza fino
alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre pongono i loro peccati davanti al
giudizio divino, e le loro azioni giuste davanti agli occhi degli uomini, il
bene che compiono pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone
eterno rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo agli
uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre nascondono ciò per cui
avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo svelano; e svelando ciò per cui
avrebbero potuto essere premiati, di fatto lo nascondono. Giustamente la Verità
li chiama sepolcri imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf. Mt.
23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma
con la dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con la
sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna ammonirli a non
disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad attribuire ad esse un più grande
merito; infatti, condannano gravemente ciò che fanno di buono, coloro che
stimano un compenso sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per
una azione retta si cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo una cosa
degna di un compenso eterno. Ed è di un tale prezzo che la Verità dice: In
verità vi dico, hanno ricevuto
la loro mercede (Mt. 6, 2). Bisogna
ammonirli a considerare che mentre si mostrano malvagi nelle azioni nascoste e
tuttavia offrono di sé pubblicamente esempi di buone opere, indicano che
bisogna seguire ciò che essi fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano
e, da ultimo, vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al
contrario, bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia
per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di loro, a non
uccidere in sé altri, con l’esempio di una cattiva stima, mentre vivificano sé
stessi, con la potenza di un retto agire; a non amare il prossimo meno che sé
stessi, e a non versare veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione
del loro esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo
caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano molto;
applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di nascosto, e [dall’altro]
a seminare, per certe loro azioni, una cattiva opinione di sé come esempio per
gli altri. Infatti, chi è già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della
lode, opera a danno dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui
che non mostra l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver gettato il
seme che deve germinare ne strappasse le radici. Perciò infatti, la Verità
disse, nell’Evangelo: Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre
vostro che è nei cieli (Mt.
5, 16).
Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra comandare tutto il
contrario dicendo: Guardate di non compiere la vostra giustizia di fronte
agli uomini per essere visti da loro (Mt.
6, 1). Che
cosa significa allora che il nostro operare deve essere compiuto in modo da non
essere visto, e tuttavia, secondo il precetto, deve essere visto, se non che
tutto ciò che facciamo deve essere nascosto perché non siamo noi a riceverne
lode, e deve essere manifestato perché accresciamo così la lode del Padre
celeste? Infatti, quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra giustizia
davanti agli uomini, subito aggiunse: Per essere visti da loro. E quando comandava che le
nostre opere buone dovevano essere viste dagli uomini, subito aggiunse: Affinché
glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, alla fine delle sentenze mostrò in che senso
non devono essere viste e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi
la compie non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non
la nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo più un’opera
buona possa essere nascosta anche se avviene pubblicamente e, ancora, sia come
pubblica pur compiendosi di nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in
pubblico, non cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò
che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui si è
preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di essere scoperto e
lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha veduto ciò che egli ha
compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti agli uomini, poiché ha condotto
con sé, nella sua buona opera, tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha
ricercato nel suo cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non
nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la considera, per
l’esempio che essa rappresenta è come una colpa offerta all’imitazione di tutti
quelli che vi prestano fede. Perciò spesso accade che coloro i quali, con
negligenza, permettono che si pensi male di loro, non compiono per se stessi alcuna
iniquità e tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati, peccano
ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza contaminarsi,
quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo di cibarsi, inducendoli
in tentazione, Paolo dice: Guardate che la vostra libertà non diventi
inciampo per i deboli (1 Cor.
8, 9). E
ancora: E per la tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo
è morto. E così,
peccando contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza, peccate
contro Cristo
(1 Cor.
8, 11-12). Perciò
Mosè, dopo aver detto: Non dirai male di un sordo, aggiunse: Né porrai un inciampo davanti a un cieco (Lev. 19, 14). Dire
male di un sordo equivale a criticare un assente che non può ascoltare; e porre
un inciampo davanti a un cieco corrisponde ad agire con discernimento e
tuttavia offrire occasione di scandalo a chi non ha la luce della discrezione.
36
— Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non
aumentino i vizi contrari a quelle virtù
Queste
sono le avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella diversità della
predicazione, per contrapporre con sollecitudine medicine adatte alle ferite
dei singoli. Ma se è di grande impegno il servire alle
situazioni individuali, nell’esortazione dei singoli, se è molto faticoso
istruire ciascuno, in quanto lo può direttamente riguardare, con la dovuta
considerazione, tuttavia è di gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo
e con il medesimo discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti
a passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte da
adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme da non
contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo tracciato, ma come
una spada a due tagli, incidendo i tumori dei pensieri carnali da parti
opposte, così che si predichi l’umiltà ai superbi in modo che però ai timidi
non aumenti il timore; ai timidi si infonda sicurezza, in modo che però non cresca la sfrenatezza
dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la sollecitudine del bene
operare in modo che però non si accresca la licenza di una attività smodata
negli inquieti. Si ponga una misura agli inquieti in modo che però il torpore
degli oziosi non si senta sicuro. Si spenga l’ira degli impazienti in modo che
però, ai remissivi e ai tranquilli non aumenti la negligenza. I tranquilli
siano eccitati allo zelo, in modo che però non si aggiunga fuoco agli iracondi.
Si infonda spirito di larghezza nel dare agli avari in modo che però non si
allentino i freni della liberalità smodata ai prodighi; e si predichi ai prodighi
la parsimonia in modo che però negli avari non aumenti la custodia dei beni
destinati a perire. Si lodi il matrimonio agli incontinenti, in modo che però
coloro che già sono continenti non siano richiamati alla lussuria. Ai
continenti poi si lodi la verginità del corpo in modo che però i coniugi non
siano indotti a disprezzare la fecondità della carne. Bisogna predicare i beni
in modo che d’altro canto non ne traggano giovamento i mali. Bisogna lodare i
beni più alti in modo che non restino disprezzati i minori; e bisogna
alimentare i minori perché se si pensa che siano per sé sufficienti, non si sia
trattenuti dall’aspirare ai sommi.
37 — Dell’esortazione che si deve
a una persona soggetta a passioni contrarie
È
certo grave fatica per un predicatore essere attento, in un discorso rivolto a
pin persone, ai moti nascosti dei singoli e alle loro cause e, come avviene
negli esercizi in palestra, destreggiarsi nell’arte di volgersi in diverse
direzioni; tuttavia egli si sottopone a una fatica molto maggiore quando è
costretto a predicare a una sola persona soggetta a vizi opposti. Spesso
infatti si dà il caso di qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime
terribilmente per il sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore
deve allora fare si che venga tolta la tristezza improvvisa ma in modo che non
cresca la gaiezza prodotta dal temperamento; e sia frenata la gaiezza del
temperamento in modo che però non aumenti la tristezza che viene all’improvviso.
Uno è gravato da una abituale smodata precipitazione, però, ogni tanto, la
forza di una improvvisa paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con
fretta. Un altro è gravato da una abituale smisurata paura, però ogni tanto è
spinto da una precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E allora, nel
primo, bisogna reprimere la paura sorta improvvisamente in modo che però non
aumenti la precipitazione coltivata a lungo; e nel secondo bisogna reprimere la
precipitazione improvvisa, in modo che però non si rafforzi la paura dovuta al
temperamento. Quale meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di
queste cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una
discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia opprime un
debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi vigorosi, ma tuttavia
il corpo debole non sostiene il rimedio forte; allora il medico deve studiare
in che modo togliere la malattia sopravvenuta senza aumentare la sottostante debolezza
del corpo, perché insieme con la malattia non venga meno la vita. Perciò mette
insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e nello
stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del corpo, applicata in
modo unitario, può agire in sensi opposti (la medicina infatti è veramente tale
quando con essa si rimedia alla malattia sopravvenuta e si viene in aiuto anche
al temperamento che vi è sottoposto), perché la medicina dell’animo applicata
da una sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in grado di ovviare a
malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più sottilmente praticata,
in quanto si tratta di condizioni spirituali?
38 — Talvolta occorre lasciare
sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più gravi
Ma
poiché spesso irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi, dei quali
forse uno preme in modo più grave dell’altro, più leggero; è senza subbio più
giusto venire in fretta in aiuto contro quel vizio per cui si corre rapidamente
alla morte. E se per evitare una morte prossima, non si può contenere questo,
senza che cresca il coesistente vizio contrario, occorre
che il predicatore tolleri che attraverso la sua esortazione, questo ultimo,
per un artificioso accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere
l’altro dalla vicina morte.
Ciò che egli opera non aumenta la malattia del suo ferito, cui egli applica il
rimedio, ma gli conserva la vita finché trovi il momento adatto per ricercare
la sua salvezza. Spesso avviene che qualcuno, per non sapersi affatto
trattenere dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della
lussuria che ormai sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di soccombere
in questa lotta, mentre si sforza di contenersi con l’astinenza, è travagliato
dalla tentazione della vanagloria. In questa situazione non è possibile che si
estingua un vizio senza che se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste
occorre combattere con più ardore se non quella che preme con maggiore
pericolo? Allora bisogna tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la
virtù dell’astinenza cresca un po’ di orgoglio purché egli viva, piuttosto che
lo uccida del tutto la lussuria generata dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando
il suo debole ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora
perverso o di compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo
agire retto, dice: Vuoi non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode
da essa (Rom. 13, 3). Infatti, né il bene va
fatto per non dovere temere chi ha il potere in questo mondo né per ricever con
esso la gloria di una lode passeggera. Ma considerando che un cuore debole non
può giungere a tanta fortezza da voler sfuggire insieme al male e alla lode, il
gran dottore, nella sua ammonizione, mentre gli toglie una cosa gli concede l’altra;
infatti, concedendogli ciò che è più leggero, gli tolse il più grave, in modo
che non essendo in grado di abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva
lasciato alla consuetudine di un certo suo vizio per essere liberato senza
fatica da un certo altro.
39
— Non bisogna assolutamente predicare cose troppo alte alle menti deboli
Occorre
che il predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là delle sue
forze, affinché la corda della mente non si spezzi mentre viene tesa, per cosa
dire, oltre il suo potere. Infatti, quando sono molti ad ascoltare, i discorsi
troppo elevati si devono contenere e riservare solo per pochi. Perciò la Verità
in persona dice: Chi credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il
padrone ha stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la
misura di grano? (Lc.
12, 42). E la misura di grano esprime lo stile del discorso
perché non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può
contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non ho potuto
parlarvi come a spirituali, ma
come a carnali. Come a bambini in Cristo, vi ho dato da bere
latte e non cibo solido (1
Cor. 3, 1). Perciò
Mosè, uscendo dall’intimità con Dio, vela, davanti al popolo, il volto ancora
raggiante (cf. Es. 34, 31);
certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce interiore.
Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola divina che se qualcuno
ha scavato una cisterna e ha trascurato di ricoprirla, deve pagare il prezzo di
un bue o di un asino che vi sia caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34).
Poiché, se i rozzi cuori dei suoi ascoltatori non possono contenere le acque
correnti della profonda dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo
meritevole di pena qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura,
resta presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi ha dato
l’intelligenza al gallo? (Giob.
38, 36). Infatti,
il predicatore santo che grida in questo tempo oscuro è come il gallo che canta
nella notte, quando dice: È ormai ora di sorgere dal sonno (Rom.
13, 11); e
ancora: Vegliate, giusti,
e non peccate (1 Cor.
15, 34).
Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore più profonde della notte, e
invece, quando l’ora del mattino è più vicina, produce suoni più tenui e
leggeri, poiché chi predica opportunamente grida in modo chiaro ai cuori ancora
ottenebrati e non fa alcun accenno ai misteri nascosti, affinché siano in grado
di ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti quando si avvicinano alla
luce della verità.
40
— La predicazione nelle opere e nelle parole
Ma
ritorniamo soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già detto sopra,
che cioè ogni predicatore si faccia sentire più con i fatti che con le
parole, e imprima le sue orme per chi lo segue, attraverso una buona vita,
piuttosto che mostrare con le parole la mèta verso cui essi devono camminare.
Poiché anche questo gallo, che il Signore prende come esempio nelle sue parole,
per indicare il tipo del buon predicatore, quando già si prepara a cantare,
prima scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più sveglio; chiaramente perché
è necessario che coloro, i quali si accingono alla santa predicazione, siano
prima vigilanti e dediti al bene operare, perché non pretendano di scuotere gli
altri con le parole, mentre in se stessi dormono nell’inerzia: scuotano se
stessi, prima, con azioni elevate, e solo allora rendano gli altri solleciti
del ben vivere; prima colpiscano sé con le ali della meditazione e con attento
esame colgano ciò che in loro giace nell’inutile torpore e lo correggano con
severa riprensione; e solo allora regolino con le parole la vita degli altri.
Prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto e poi denuncino ciò
che è degno di punizione negli altri; e prima di fare risuonare parole di
esortazione, gridino con le opere tutto ciò che hanno intenzione di dire.
PARTE
QUARTA
COME IL PREDICATORE,
COMPIUTA OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,
DEVE RITORNARE IN SE STESSO,
PERCHÉ LA VITA O LA PREDICAZIONE
NON LO ESALTI
Ma
poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi convenienti,
l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la gioia nascosta di questa
dimostrazione di sé, è necessaria una grande cura perché esso si lasci ferire
dai morsi del timore e non accada che colui il quale, curando le loro ferite,
richiama gli altri alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della
salvezza sua propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada,
mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della virtù fu
occasione di perdizione per alcuni, perché per la confidenza nelle proprie
forze acquistano una disordinata sicurezza, così che poi, per negligenza, in
modo imprevisto muoiono. Infatti, quando la virtù resiste ai vizi, per un certo
piacere di essa, l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera
bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi sicura nella
confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore, l’astuto seduttore le
enumera tutte le sue buone opere e la esalta nel pensiero orgoglioso di essere
superiore agli altri. Quindi, agli occhi del giusto Giudice, il ricordo della
virtù diviene una fossa per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto,
mentre si innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà.
Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto pia sei bella, scendi e dormi con gli incirconcisi (Ez. 32, 9); come
se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la bellezza della virtù, dalla tua
stessa bellezza sei spinta a cadere. Perciò, l’anima che insuperbisce per la
virtù, viene riprovata — personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri
perfetta nella mia bellezza,
che io avevo posto su di te, dice il Signore; ma fidando nella
tua bellezza, hai fornicato nel tuo nome (Ez. 16, 14-15). Giacché l’animo si esalta,
per la fiducia nella propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù,
si gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa medesima
fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi stessi pensieri
illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la corrompono, seducendola
attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è detto: Hai fornicato nel tuo
nome, perché quando
il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca subito una lode
personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che ha ricevuto per servire
all’annuncio di colui che gliel’ha donato; desidera dilatare la gloria della
sua fama; fa di tutto per apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto
fornica in suo nome, colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo
spirito corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha consegnato
alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano al nemico (Sal. 77, 61). Giacché
la virtù è consegnata alla prigionia e la bellezza in mano all’avversario,
quando l’antico nemico domina un cuore illuso dall’esaltazione per una buona
opera; e tuttavia questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca
completamente, tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando,
dopo essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore. Perciò
David ancora dice: lo dissi nel mio benessere: Non sarò scosso in eterno (Sal.
29, 7). Ma
poiché si gonfiò nella confidenza nella propria virtù, poco dopo aggiunge che
cosa dovette sopportare: Hai distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal.
29, 8); come
se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra le mie virtù, ma abbandonato,
ho riconosciuto quanto è grande la mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho
giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal.
118, 106). Ma
poiché non era in potere della sua forza rimanere fermo nella custodia che
aveva giurato, subito scopri la propria debolezza, per cui immediatamente si
buttò nella preghiera dicendo: Sono stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi vita secondo la
tua parola (Sal. 118, 107). Poiché
spesso la guida celeste prima di fare progredire coi doni richiama alla mente
il ricordo della debolezza, perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò
il profeta Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti,
viene chiamato prima figlio dell’uomo, come se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo:
perché tu non innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò
che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di essere uomo; e
mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato sollecitamente a te stesso
dal freno della tua debolezza. Perciò è necessario che quando l’abbondanza
delle virtù ci lusinga, l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si
costringa a voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma
ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della debolezza, il
cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso l’autore dell’umiltà. Poiché
spesso Dio onnipotente, quantunque in gran parte renda perfette le menti delle
guide delle anime, tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette,
affinché, quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il
fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è in loro di
grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo contro difetti minimi; ma
poiché non sono capaci di vincere questi ultimi resti di imperfezione, non
osino insuperbire per i loro atti eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto
dalla necessità di accusare me stesso e tutto attento a mostrare quale debba
essere il Pastore, ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora
sbattuto dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della
perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico, sostienimi con la
tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso mi fa affondare, sollevami con
la mano dei tuoi meriti.
[1] Uno dei detti
del Signore
di cui
si ignora la fonte. Si ritrova
in sant’Agostino
(Enarr. in Ps. 102, 12; e in Ps. 146, 17) e in altri
autori medievali.