Giovanni Crisostomo
LA VERGINITÀ
I. La verginità praticata dagli eretici non comporta ricompense.
1.
I Giudei non riconoscono la bellezza della verginità: non c’è da
meravigliarsene, giacché non hanno rispettato neppure Cristo, nato da
una vergine. I Greci, invece, l’ammirano e la venerano, ma solo la
Chiesa di Dio la imita con zelo. Quanto alle vergini degli eretici, io
non le chiamerei vergini, soprattutto perché non sono pure: non vengono
riservate ad un unico sposo, così come vuole il beato apostolo che
prepara le nozze di Cristo là dove dice: «Vi ho destinati ad un unico
uomo, per presentarvi a Cristo come una vergine pura». Queste parole,
anche se si riferiscono a tutta la Chiesa nella sua pienezza, riguardano
purtuttavia anche le vergini. Le donne che non amano un unico marito e
se ne sposano un secondo, come possono essere caste?
2.
Innanzitutto, in base a questo ragionamento, non sono vergini. In
secondo luogo, si astengono dal matrimonio perché lo disprezzano. Avendo
stabilito in linea di principio che esso è una cosa cattiva, si privano
fin dal primo momento dei premi della verginità. Vuole la giustizia che
coloro che non commettono azioni delittuose restino solo esenti da
pene, senza per questo essere premiati, come si può vedere non solo
nelle prescrizioni delle nostre leggi, ma anche in quelle delle leggi
pagane. La legge dice: «Chi uccide venga mandato a morte», ma non
aggiunge «chi non uccide venga onorato». «Il ladro venga punito»: ma non
è prescritto che chi non danneggia le cose altrui riceva un dono. Così
pure, le leggi che condannano a morte l’adultero non ritengono degno di
un’onorificenza colui che non rovina il matrimonio altrui. In questo
hanno perfettamente ragione, giacché la lode e l’ammirazione devono
andare a chi realizza il bene, non a chi non commette il male: per
questi ultimi, un premio sufficiente è rappresentato dal non subire
alcuna punizione.
3. Per
questo anche nostro Signore ha minacciato la Geenna a chi si adira
contro il proprio fratello a capriccio e senza motivo e lo chiama
sciocco. Purtuttavia, non ha promesso il regno dei cieli a coloro che
non si adirano senza ragione e che non muovono dei rimproveri: dicendo
«Amate i vostri nemici», Egli ha preteso qualcosa di più importante e di
più grande. Nell’intento di mostrare come il non adirarsi con i propri
fratelli sia una cosa infima, di poco conto ed indegna di una qualsiasi
ricompensa, ha detto che neanche l’amore per loro – che pure vale già
molto di più dell’altro atteggiamento – è sufficiente per essere
ritenuti degni di un premio. E come potrebbe esserlo, se comportandoci
così non abbiamo nulla in più dei pagani? Per poter chiedere un premio,
occorre fare in aggiunta un’altra cosa molto più importante. «Non
ritenerti degno di una corona – dice il Signore – solo perché non ti
condanno alla Geenna perché non hai rimproverato e non ti sei adirato.
Io non mi limito a pretendere questa piccola misura di bontà: anche se
dici che non solo non biasimi tuo fratello ma lo ami, resti ancora in
basso e stai in compagnia dei pubblicani. Se invece vuoi essere perfetto
e diventare degno dei cieli, non fermarti a questo ma sali più in alto,
e pensa ad una cosa che oltrepassa la natura stessa: si tratta
dell’amore per i nemici.
4.
Una volta ammessa l’assoluta verità di queste parole, cessino gli
eretici di mortificarsi senza ragione: tanto, non riceveranno alcuna
ricompensa. Non è che il Signore sia ingiusto – lungi da me quest’idea!
Al contrario, sono essi a comportarsi da stolti e da malvagi. Come mai?
Abbiamo mostrato che nessun premio tocca a chi si limita a non compiere
azioni cattive. Gli eretici evitano il matrimonio, perché lo ritengono
una cosa cattiva. Come potranno dunque richiedere un premio, per essersi
tenuti lontani da una cosa cattiva? Come noi non riteniamo degno di una
ricompensa chi non è stato adultero, così essi dovrebbero comportarsi
verso chi non si sposa. Chi in quel giorno li giudicherà dirà loro: «Io
non ho riservato gli onori a chi si è limitato soltanto a non commettere
azioni cattive – questo è per me troppo poco – ma conduco all’eredità
dei cieli che non invecchia mai coloro che hanno percorso tutta quanta
la strada della virtù». Come mai allora voi, che ritenete il matrimonio
una cosa impura ed abominevole, solo perché lo evitate pretendete i
premi riservati a chi compie delle buone azioni?
5.
Per questo Cristo mette alla sua destra le pecore, le benedice e le
conduce nel regno dei cieli: esse non si sono limitate a non rubare le
cose altrui, ma hanno distribuito agli altri i loro averi. Parimenti,
Egli accoglie colui al quale erano stati affidati cinque talenti non
perché non ha fatto diminuire quanto gli era stato dato, ma perché l’ha
accresciuto, ed ha restituito in misura doppia il danaro depositato.
Quando cesserete dunque di correre a vuoto, di stancarvi senza ragione,
di dare pugni a caso e di percuotere l’aria? E se si trattasse solo di
un capriccio! Dopo avere tanto faticato ed avere atteso una ricompensa
maggiore delle fatiche sopportate, non è un piccolo castigo vedersi
messi, al momento della premiazione, tra coloro che rimangono senza
premio.
II. Gli eretici vengono puniti perché praticano la verginità.
1.
Ma ciò che essi devono temere non consiste solo in questo, e le loro
pene non si limitano alla mancanza di ricompensa: altre molto più gravi
li attendono, quali il fuoco inestinguibile, i vermi che non muoiono, la
tenebra esterna, i tormenti, i gemiti. Ci occorrerebbero infinite
lingue e la potenza degli angeli per ringraziare in modo degno Dio della
sua sollecitudine nei nostri riguardi. Ma neanche in tali condizioni
questo sarebbe possibile. E come potrebbe esserlo? Noi e gli eretici
dobbiamo compiere un uguale sforzo per realizzare la verginità: anzi,
può darsi che le loro fatiche siano molto più aspre delle nostre. Il
frutto degli sforzi non è però lo stesso: per loro sono riservate le
catene, le lacrime, i gemiti e le punizioni eterne; per noi, la
condizione degli angeli, le luci risplendenti, e l’intimità con lo
sposo, che è come la somma di tutti i beni.
2.
Come mai allora gli stessi sforzi portano a ricompense contrarie? Ciò
accade perché essi hanno scelto la verginità per violare la legge di
Dio, mentre noi la pratichiamo per osservare i suoi voleri. Che Dio
vuole che tutti gli uomini si astengano dal matrimonio, lo testimonia
colui che fa parlare Cristo in se stesso: «Voglio – egli dice – che
tutti gli uomini siano come me», vale a dire continenti. Purtuttavia il
Signore, volendoci risparmiare e sapendo bene che «lo spirito è pronto,
ma la carne è debole» non ha fatto della continenza un precetto
obbligatorio, ma ha concesso alla nostra anima la facoltà di sceglierla.
Se si trattasse di un comandamento e di una legge, chi la pratica non
godrebbe di un’onorificenza, ma si sentirebbe dire «Avete fatto ciò che
dovevate fare», ed i peccatori non otterrebbero il perdono, ma sarebbero
soggetti alla punizione assegnata ai trasgressori. Con le parole «Chi è
in grado di comprendere comprenda», il Signore non ha condannato chi
non è capace di praticare la verginità, ma ha voluto mostrare
l’importanza e la sublimità della lotta che deve sostenere chi ha la
forza di realizzarla. Per questo anche Paolo, seguendo le tracce del
maestro, dice: «Non ho con me un ordine del Signore, esprimo solo il mio
parere».
III. L’orrore per il matrimonio è proprio di una satanica mancanza di umanità.
Né
Marcione né Valentino né Mani si sono attenuti a tale moderazione. Non
parlava in loro Cristo che aveva riguardo per le sue pecore e che
offriva la propria vita per loro, ma il padre della menzogna, il
distruttore degli uomini. Per questo essi mandano alla perdizione tutti i
loro seguaci: in questo mondo, li caricano di fatiche sterili ed
insopportabili; nell’al di là, li trascinano con sé nel fuoco preparato
per loro.
IV. Gli eretici, praticando la verginità, vanno incontro ad un destino più penoso di quello dei Greci.
1.
Quanto siete più sfortunati dei Greci! I Greci infatti, anche se gli
orrori della geenna li attendono, riescono purtuttavia a godere in
questo mondo, giacché si sposano e traggono profitto dalle ricchezze e
dagli altri piaceri della vita. Per voi ci sono invece soltanto i
tormenti e i dolori sia in questa che nell’altra vita: in questa vita
siete voi a sopportarli volontariamente, nell’altra li dovrete
sopportare pur non volendoli. I Greci non verranno né ricompensati né
puniti per i loro digiuni e per la loro verginità; voi, invece, subirete
l’estremo castigo per la condotta dalla quale vi aspettavate infinite
lodi, e mischiati agli altri rei sentirete le parole: «Andatevene via da
me nel fuoco preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché avete
digiunato e siete rimasti vergini.
2.
Il digiuno e la verginità non rappresentano in se stessi né un bene né
un male, ma diventano l’una o l’altra cosa a seconda della disposizione
di coloro che li praticano. Per i Greci tale virtù è sterile: ricevono
la ricompensa che meritano, giacché non l’hanno praticata nel timore di
Dio. Voi invece, che combattete Dio e calunniate le sue creature, non
solo non riceverete alcuna ricompensa, ma sarete anche puniti. Per
quanto riguarda la vostra dottrina, sarete messi insieme a loro perché
come loro avete rinnegato il Dio esistente ed introdotto il politeismo;
per quanto riguarda invece la vostra condotta di vita, essi staranno
meglio di voi: mentre infatti la loro pena consiste soltanto nel non
ricevere alcun bene, per voi consiste nel patire in aggiunta dei mali; e
mentre essi possono godere di tutto in questa vita, voi siete privi sia
dei beni presenti che dei futuri.
3.
C’è forse un castigo maggiore di quello che consiste nel ricevere una
punizione come ricompensa delle proprie fatiche e dei propri sudori?
L’adultero, l’avido, colui che si approfitta dei beni altrui e che si
prende quelli del suo prossimo hanno una consolazione, sia pure piccola:
per lo meno, sono puniti a causa di quelle cose di cui hanno goduto in
questa vita. Nel caso invece di colui che accetta di buon grado di
sopportare la povertà per essere ricco nell’altra vita e di sostenere le
fatiche della verginità per far parte dei cori degli angeli nell’al di
là, e che invece, improvvisamente e contro ogni sua aspettativa, è
punito per quella condotta grazie alla quale sperava di godere di
un’infinità di beni, non è possibile esprimere con le parole il suo
dolore, dovuto al fatto che deve soffrire in questo modo contro tutte le
sue speranze. A mio parere, egli è tormentato ugualmente dal fuoco e
dalla sua coscienza, giacché deve fare questa constatazione: mentre
coloro che hanno faticato come lui si trovano assieme a Cristo, egli è
sottoposto al castigo estremo per quella condotta che fa godere agli
altri i beni ineffabili; e, pur avendo vissuto in modo austero, è
costretto a soffrire più dei dissoluti e dei lussuriosi.
V. La verginità degli eretici è più impura dell’adulterio.
1.
In effetti, la temperanza degli eretici è peggiore di ogni tipo di
dissolutezza. Mentre l’ingiustizia di quest’ultimo si ferma agli uomini,
la prima combatte Dio ed offende la sua infinita sapienza. Tali
trappole i1 diavolo tende a coloro che lo venerano. Che la verginità
degli eretici sia proprio un ritrovato della sua malvagità non sono io a
dirlo, ma colui che non ignora i suoi pensieri.
2.
Che cosa soggiunge dunque costui? «Lo spirito dice apertamente che
negli ultimi momenti alcuni si allontaneranno dalla fede per seguire gli
spiriti ingannatori e gl’insegnamenti dei demoni che, come ipocriti
mentitori, marchiano la propria coscienza, che vietano di sposarsi e che
impongono l’astinenza dei cibi creati da Dio per essere presi». Come fa
dunque ad essere vergine colei che abbandona la fede, che segue
l’errore, che ascolta i demoni e che onora la menzogna? Come può essere
vergine colei che marchia la propria coscienza? La vergine che vuole
ricevere il santo sposo deve essere pura non solo nel corpo ma anche
nell’anima. Ma tale vergine come fa ad essere pura, se ha dei marchi
così forti? Come può preservare la bellezza della verginità quando un
pensiero empio si agita in lei, se deve scacciare dalla camera nuziale
anche i pensieri temporali perché non può rimanere composta se li fa
albergare in sé?
VI. Gli eretici quando praticano la verginità contaminano non solo la loro anima ma anche i loro corpi.
1.
In effetti, anche se il suo corpo rimane puro, si corrompe sempre la
parte migliore della sua anima, vale a dire i suoi pensieri. Che utilità
c’è nel far restare in piedi il recinto, quando il tempio è andato
distrutto? O quale guadagno si ricava dal fatto che la sede del trono
resta pulita, quando il trono è stato sporcato? Ma neanche in tal caso
il corpo resta esente dalla contaminazione. Le parole blasfeme e cattive
nascono dentro l’anima, ma non vi rimangono: quando vengono fuori,
tramite la bocca che le proferisce contaminano sia la lingua che
l’orecchio che le riceve, e dopo essersi riversate nell’anima come dei
farmaci deleteri ne corrodono la radice in modo più grave di qualsiasi
verme, finendo con il distruggere assieme ad essa tutto quanto il corpo.
Se dunque la verginità consiste nella santità di corpo e di spirito, e
se una donna simile è empia e contaminata in entrambi questi elementi,
come può essa dirsi vergine? Ma mi mostra un viso pallido, delle membra
consunte, una veste semplice ed uno sguardo mite. Ma che utilità c’è in
queste cose, se lo sguardo interiore è sfrontato? Quale sguardo è più
sfrontato di quello che induce gli occhi esterni a considerare cattive
le creature di Dio?
2.
«Tutta la gloria della figlia del re viene dal di dentro». Costei ha
invertito l’ordine illustrato da tale frase: all’esterno si riveste di
gloria, mentre dentro ospita ogni infamia. Il brutto consiste proprio in
questo: di fronte agli uomini, essa fa mostra di una grande mitezza,
mentre nei riguardi di Dio suo creatore dà prova di un’enorme follia, e
pur non sopportando di guardare in viso un uomo – ammettiamo pure che
tra le loro vergini ce ne siano alcune di tal fatta – guarda il signore
degli uomini con occhi sfrontati e fa salire in alto i suoi discorsi
ingiusti. Il loro volto è giallo come il legno di bosso, e simile a
quello di un cadavere. Per questo sono degne di essere molto compiante e
commiserate: lo stato miserando che hanno accettato non solo è inutile,
ma le rovina e ricade sulla loro testa.
VII. Bisogna giudicare la verginità non dalle vesti, ma dall’anima.
1.
La veste è modesta. La verginità non risiede però nelle vesti né nel
colore della pelle, ma nell’anima e nel corpo. Se il filosofo non si
giudica né dai capelli né dal bastone né dalla bisaccia ma dal suo modo
di fare e dall’anima, e se il soldato non si valuta in base al mantello o
alla cintura, ma in base alla forza ed al coraggio, non sarebbe assurdo
attribuire ad una giovane la virtù della verginità – una cosa così
mirabile, che trascende ogni qualità umana – servendosi di criteri così
semplici e secondari come i capelli sudici, il volto dimesso e la veste
lugubre, senza mettere a nudo la sua anima ed esaminare quindi per bene
la sua disposizione?
2.
Questo non è consentito da colui che ha stabilito le regole di tale
gara. Egli ci ordina di giudicare coloro che vi s’impegnano non dalle
loro vesti, ma dalle loro convinzioni e dalla loro anima. «Chi compete –
dice – è temperante in tutto», vale a dire in tutto ciò che pregiudica
la salute dell’anima, ed aggiunge: «Nessuno può essere incoronato, se
non gareggia secondo le regole». Quali sono dunque le regole di questa
gara? Ascolta di nuovo le sue parole, o piuttosto Cristo stesso,
l’istitutore della gara: «Affinché la vergine sia pura nel corpo e nello
spirito», « prezioso è il matrimonio, ed il letto nuziale è
incontaminato».
VIII. È dannoso per la vergine mostrarsi altera nei confronti delle persone sposate.
1.
La vergine potrebbe rispondermi: «Che cosa m’importa di queste cose,
una volta che ho detto addio al matrimonio?». Ma è proprio la
convinzione di non avere niente a che fare con la dottrina del
matrimonio a perderti, o misera. Disprezzando senza misura
quest’istituzione, rechi offesa alla sapienza di Dio e calunni tutta la
creazione. Se infatti il matrimonio è una cosa impura, tutti gli esseri
viventi che vengono generati tramite esso sono impuri, ed impure siete
anche voi, per non parlare della natura umana. Come può dunque una donna
impura essere vergine? Avete escogitato un secondo, o piuttosto un
terzo modo di contaminare e di sporcare: quando rifuggite dal matrimonio
come da una cosa impura, proprio perché ne rifuggite diventate le donne
più impure e rendete la verginità più abominevole della fornicazione.
2.
Con chi vi metteremo allora? Assieme agli Ebrei? Ma essi non lo
consentirebbero, perché onorano il matrimonio ed ammirano l’opera
creatrice di Dio. Oppure insieme a noi? Ma non volete ascoltare Cristo,
quando dice per bocca di Paolo: «Il matrimonio è onorato da tutti, ed il
letto nuziale è incontaminato». Vi resta un posto vicino ai Greci.
Anche questi però vi respingeranno come empi. Dice infatti Platone: «Chi
ha formato quest’universo è buono». Nessuna invidia tocca una cosa
buona in nessun caso. Tu invece consideri Dio cattivo, ed autore di
opere cattive. Ma non temere: il tuo insegnamento è condiviso dal
diavolo e dai suoi angeli; ma no, neanche essi sono d’accordo: non
credere che la pensino così solo perché t’inducono a nutrire dei
pensieri così stolti. Che si rendono conto della bontà di Dio, puoi
sentire dalle loro grida: ora dicono «Sappiamo chi sei, il santo di
Dio», ora invece «Gli uomini che annunziano la strada della salvezza
sono i servi del Dio altissimo».
3.
Continuerete dunque a parlare di verginità e a vantarvene? Non andrete
piuttosto a rinchiudervi ed a piangere sulla vostra stoltezza,
servendosi della quale il diavolo vi ha legate come prigioniere per
gettarvi nel fuoco della Geenna? Non ti sei sposata? Ma non per questo
sei vergine. Io chiamo vergine colei che pur essendo padrona di sposarsi
non ha scelto il matrimonio. Se invece tu dici che il matrimonio è una
cosa proibita, la tua azione non dipende più da una scelta ma dalla
costrizione della legge. Per questo noi ammiriamo i Persiani che non
commettono l’incesto, ma non i Romani. Questi ultimi lo considerano una
cosa assolutamente abominevole, mentre nel caso dei primi l’impunità di
cui gode chi osa praticarlo attira le lodi su coloro che si astengono da
tali accoppiamenti.
4.
Secondo lo stesso criterio va esaminato il matrimonio. Poiché esso è
consentito tra noi, abbiamo tutte le ragioni per ammirare chi non si
sposa. Voi invece, respingendolo ad un livello inferiore, non potete
reclamare le lodi dovute all’astinenza: l’astenersi dalle cose proibite
non si addice ad un’anima nobile e generosa. La virtù perfetta non
consiste nel non commettere azioni che, se vengono commesse, ci fanno
sembrare a tutti cattivi, ma nel distinguersi in pratiche che non
mettono in cattiva luce coloro che non le abbracciano e che non solo
allontanano da una reputazione cattiva, ma fanno entrare nella schiera
dei buoni coloro che le scelgono e le seguono.
5.
Come nessuno sarebbe disposto a lodare la verginità degli eunuchi per
il fatto che non si sposano, così nessuno loda voi. Ciò che per loro è
dettato dalla necessità naturale, diventa in voi un pregiudizio della
vostra coscienza perversa. E come la mutilazione corporea priva gli
eunuchi della gloria derivante dall’astinenza, così, nel vostro caso,
anche se il fisico resta integro, il diavolo distrugge ogni retto
pensiero, vi mette nella condizione di non sposarvi, vi sforza con delle
fatiche e vi priva di ogni onore. Tu vieti il matrimonio? Per questo
dalla tua rinunzia non ti verranno premi, ma solo supplizi e castighi.
IX. Esortare alla verginità non significa vietare il matrimonio.
1.
«E tu – mi si dice – non proibisci il matrimonio?». Non sia mai! Mi
auguro di non essere mai pazzo come te. «E come mai allora – si continua
a dirmi – esorti le persone a non sposarsi?». Io lo faccio perché sono
convinto che la verginità è molto più pregevole del matrimonio, ma non
per questo considero il matrimonio una cosa cattiva: anzi, lo lodo
molto. Per coloro che intendono farne un buon uso, esso è il porto della
continenza, giacché impedisce alla natura d’inferocirsi. Presentando
l’accoppiamento legittimo come una diga e ricevendo così i flutti del
desiderio, introduce in noi una grande calma e ci custodisce. Ci sono
però alcuni che non hanno bisogno di questa protezione: invece di
ricorrere ad essa, placano le follie della natura con i digiuni, con le
veglie, con il dormire per terra e con altri duri esercizi. Pur non
vietando il matrimonio, io esorto questi ultimi a non sposarsi.
2.
C’è una grande differenza tra una cosa e l’altra, tra la costrizione e
la libera scelta. Chi consiglia lascia l’ascoltatore padrone della
scelta tra le cose sulle quali consiglia, chi invece pone dei divieti
priva l’altro di questa facoltà. Inoltre, quando esorto, io non
considero cattivo il matrimonio, né accuso chi non mi ubbidisce. Tu
invece, calunniandolo e dichiarandolo cattivo, usurpi la funzione del
legislatore senza essere un consigliere, e non puoi non odiare chi non
ti ascolta. Io non mi comporto così: ammiro chi si iscrive a tale gara,
ma non condanno coloro che rimangono fuori della competizione.
3.
L’accusa sarebbe giusta se si propendesse per qualcosa che è cattiva
per comune ammissione. Chi però ha un bene minore e non può raggiungere
il maggiore, anche se resta privo delle lodi e dell’ammirazione che
quest’ultimo comporta, non merita di essere condannato. Come posso
dunque vietare il matrimonio, se non condanno chi si sposa? Io vieto la
fornicazione e l’adulterio, non il matrimonio. Punisco coloro che osano
praticare le prime due cose e li bandisco dal corpo della chiesa, ma
continuo a lodare coloro che contraggono il matrimonio, se sono
continenti. Ci sono così due vantaggi: da una parte, non si calunnia
l’opera creatrice di Dio, dall’altra non solo non si distrugge la
dignità della verginità, ma la si rende ancora più venerabile.
X. Chi denigra il matrimonio reca un torto alla verginità.
1.
Chi denigra il matrimonio reca anche un torto alla verginità; chi
invece lo loda, eleva e fa risplendere ancora di più la natura
straordinaria dello stato verginale. Ciò che sembra bello solo in
rapporto a ciò che è brutto non può essere molto bello; quella che è
invece la migliore delle cose considerate buone, è la cosa più bella in
senso assoluto: è sotto questa luce che vogliamo mostrare la verginità.
Come coloro che denigrano il matrimonio nuocciono anche alle lodi della
verginità, così chi lo tiene lontano dalle critiche fa le lodi non tanto
di esso quanto della verginità. Anche nel caso dei corpi, noi chiamiamo
belli non quelli che sono migliori dei corpi mutilati, ma quelli che
sono migliori dei corpi ben fatti e privi di difetti.
2.
Il matrimonio è una bella cosa? Allora la verginità è una cosa
straordinaria perché è superiore ad una cosa che è già bella; e le è
superiore nella misura in cui il pilota è superiore ai marinai, o i1
generale è superiore ai soldati. Ma come, nel caso della nave, se si
eliminano i rematori si fa affondare l’imbarcazione, e come in guerra se
si allontanano i soldati si consegna il generale prigioniero al nemico,
così anche nel caso che stiamo trattando, se si priva il matrimonio del
suo rango elevato si tradisce la gloria della verginità e la si fa
cadere al livello più basso.
3.
La verginità è bella? Son d’accordo anch’io. È superiore al matrimonio?
Ammetto anche questo. Se vuoi, per dare un’idea della misura della sua
superiorità, posso citare come esempi la superiorità del cielo sulla
terra, o quella degli angeli sugli uomini; se poi dovessi esprimermi in
modo più ardito, direi che si tratta di una superiorità ancora maggiore.
È vero infatti che gli angeli non sposano né vengono sposati: ma essi
non sono strettamente uniti alla carne ed al sangue, non soggiornano
sulla terra, non devono sopportare una moltitudine di desideri, non
hanno bisogno di cibi e bevande, non possono essere blanditi da un dolce
canto né impressionati da una visione stupenda o da altre simili cose;
come si può osservare la purezza del cielo nel pieno pomeriggio, quando
non è offuscata da nessuna nuvola, così le loro nature non possono non
rimanere trasparenti e luminose quando nessun desiderio le ottenebra.
XI. La verginità trasforma in angeli gli uomini che l’abbracciano veramente.
1.
Il genere umano, per natura inferiore agli angeli beati, fa violenza
alle proprie facoltà e cerca con il suo impegno di uguagliarli per
quanto è possibile. Come può avvenire questo? Gli angeli non sposano né
vengono sposati: ma neanche la vergine lo fa; gli angeli rimangono
ininterrottamente vicini a Dio e lo servono: ma così si comporta anche
la vergine. Anche Paolo vuole che le vergini restino lontane da ogni
preoccupazione, perché possano essere assidue senza distrarsi. E se, a
differenza degli angeli, non possono salire al cielo perché sono
trascinate in basso dalla carne, purtuttavia anche in questo mondo
godono di una grande consolazione: se rimangono sante nel corpo e nello
spirito, possono ricevere il padrone dei cieli in persona.
2.
Comprendi la dignità della verginità, e come essa renda la vita di
coloro che vivono sulla terra simile a quella di coloro che stanno in
cielo? Essa impedisce a chi ha un corpo di restare inferiore alle
potenze incorporee, e porta gli uomini ad emulare gli angeli. Ma nulla
di tutto ciò riguarda voi eretici, che danneggiate un simile stato, che
calunniate il Signore e che lo chiamate cattivo. Vi attende il castigo
riservato al servo cattivo; alle vergini della chiesa si presenteranno
invece molti e grandi beni, superiori agli occhi, alle orecchie ed ai
pensieri umani. Lasciamo quindi gli eretici – ne abbiamo già parlato
abbastanza – e rivolgiamoci d’ora in poi ai figli della chiesa.
XII. Paolo, quando disse: «Agli altri sono io a parlare non il Signore», non diede un consiglio umano.
1.
Da dove è bene far cominciare il nostro discorso? Dalle parole stesse
che il Signore pronunziò per bocca del beato Paolo. Paolo infatti,
quando dice «Agli sposati non sono io a parlare, ma il Signore» non
intende dire che le sue parole sono una cosa, e quelle del Signore
un’altra. Colui che fa parlare Cristo in sé, che non si preoccupa
neppure di vivere in modo che Cristo possa vivere in lui, che pospone
all’amore per lui i regni, la vita, gli angeli, le potenze, ogni altra
creatura ed in una parola ogni cosa, come potrebbe di buon grado –
specie quando dà dei precetti – dire o pensare qualcosa che non piace al
Signore?
2. Che cosa
significano le sue parole «Io» e «Non io»? Cristo ci ha dato le leggi e
gl’insegnamenti in parte direttamente, in parte tramite gli apostoli.
Che egli non stabilì tutto direttamente, lo puoi sentire dalle sue
stesse parole: «Avrei molte cose da dirvi, ma non potete ancora
sopportarne il peso». Il precetto «La donna non si separi dall’uomo»
Egli l’aveva dato già prima, quando si trovava ancora su questa terra
rivestito di carne. Per questo Paolo dice: «Agli sposati non sono io a
parlare, ma il Signore». Agl’infedeli invece Egli non parlò
direttamente, ma diede delle prescrizioni, ispirando a tal fine l’anima
di Paolo e facendogli dire: «Chi ha una moglie non credente che desidera
abitare con lui, non la ripudi; e la moglie che ha un marito non
credente che desidera abitare con lei non lo ripudi».
3.
Per questa ragione, quando disse «Non è il Signore a parlare, ma sono
io», non volle affermare che le sue parole erano umane – e come
avrebbero potuto esserlo? – ma che il Signore ha dato questo
comandamento non quando si trovava assieme agli apostoli, ma adesso,
tramite lui. Come dunque le parole «Il Signore, non io» non indicano una
contrapposizione nei confronti dei comandamenti di Cristo, cosí le
parole «Io, non il Signore», non sono state pronunziate da chi vuol dire
qualcosa di personale e di diverso da ciò che piace a Dio, rna da chi
vuol far vedere soltanto che il comandamento viene dato ora per suo
tramite.
4. Parlando della
vedova, Paolo dice «A mio parere, è più beata se resta cosí». E perché
nessuno, sentendo le parole «A mio parere», pensasse che il suo fosse un
pensiero umano, eliminò ogni sospetto aggiungendo: «Penso di avere
anch’io lo spirito di Dio». Come dunque noi non possiamo dire che le sue
siano affermazioni umane, solo perché colui che parla in nome dello
spirito dice «A mio parere», cosí anche nel nostro caso, quando dice
«Sono io a parlare, non il Signore», non bisogna credere che la frase
sia di Paolo. Egli faceva parlare Cristo in sé e non avrebbe osato
fissare tale insegnamento in una sua affermazione, se non ci avesse
portato questa legge da lassù.
5.
Qualcuno avrebbe potuto dirgli: «Io che ho la fede e che sono puro non
sopporto di stare assieme ad una donna che non possiede nessuna fede e
che è impura. Tu stesso hai detto prima che sei un, e non il Signore, a
dire queste cose. Quale sicurezza e certezza posso avere?». Ma Paolo gli
avrebbe risposto: «Non temere. Ho detto che faccio parlare Cristo in me
e che credo di possedere lo spirito di Dio proprio perché non ti
venisse il sospetto che le mie parole fossero umane. Se esse lo fossero,
non avrei mai dato ai miei pensieri tanta autorità. I calcoli degli
uomini sono vili, i loro pensieri ingannevoli. Anche la chiesa
universale mostra la forza di questa legge custodendola severamente: non
la custodirebbe cosí, se non fosse fermamente convinta che queste
parole rappresentano un comandamento di Cristo».
6.
Che cosa dice dunque Paolo, ricevendo l’eco delle parole di Cristo?
«Per quanto riguarda ciò su cui mi avete scritto, è bene per un uomo non
toccare una donna». A tal proposito ci si potrebbe rallegrare con
Corinzi, che pur non avendo ricevuto alcun consiglio dal maestro sulla
verginità, lo prevengono interrogandolo e facendo mostra cosí dei
progressi compiuti sotto l’azione della grazia. Nel Vecchio Testamento
non sussistevano dubbi sul matrimonio: non solo tutto il popolo, ma
anche i Leviti, i sacerdoti e lo stesso gran sacerdote gli attribuivano
una grande importanza.
XIII.
Perché i Corinzi scrissero a Paolo sulla verginità, e perché egli prima
di allora non aveva rivolto loro alcuna esortazione.
1.
Come mai dunque i Corinzi giunsero a rivolger questa domanda? Data la
loro perspicacia, sapevano bene di avere bisogno di un più alto grado di
virtù, giacché erano stati ritenuti degni di un dono più grande. Vale
anche la pena di chiedersi come mai Paolo non avesse mai rivolto loro
quest’esortazione: se avessero sentito qualcosa in proposito, essi non
gli avrebbero scritto di nuovo facendogli domande su questo argomento.
Anche in questo caso ci si può rendere conto della profondità della
sapienza di Paolo. Non rivolse senza motivo né a caso un’esortazione su
di un tema cosí importante, ma aspettò che in loro nascessero prima il
desiderio ed il pensiero di quest’ideale: se si fosse trovato di fronte
ad anime già preparate alla verginità, avrebbe potuto gettare con più
efficacia i suoi semi, giacché la disposizione d’animo degli ascoltatori
nei riguardi dell’argomento avrebbe facilitato di molto l’accoglimento
dei suoi consigli. D’altra parte, l’apostolo volle anche far notare
l’importanza e la grande solennità dell’impresa.
2.
In caso contrario, non avrebbe aspettato la loro buona disposizione
d’animo, ma avrebbe subito spiegato i termini del problema,
presentandolo, se non come un’ingiunzione o un comandamento, per lo meno
come un’esortazione o un consiglio. Non avendo osato fare neppure
questo, ci ha fatto vedere che la verginità richiede molto sudore e
grandi lotte. Anche in questo caso si comportò cosí perché volle imitare
nostro Signore. Anche nostro Signore parlò infatti della verginità
soltanto quando i suoi discepoli gli fecero domande in proposito.
3.
Quando essi dissero: «Se questa è la condizione dell’uomo quando si
trova in compagnia della donna, conviene non sposarsi», rispose: «Vi
sono degli eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli». Quando
la virtù da realizzare è molto alta e per questo non può essere
rinchiusa nella costrizione di un comandamento, bisogna attendere la
buona disposizione di coloro che intendono realizzarla, infondendo in
loro la volontà necessaria in un altro modo e senza destare sospetti:
cosí fece appunto Cristo. Non li portò a desiderare la verginità
parlando di essa: discorrendo solo sul matrimonio, mostrando il peso di
questo stato e limitando il suo discorso a quest’argomento, con la sua
accortezza fece in modo che essi, pur non avendo sentito parlare della
verginità, dicessero di propria iniziativa: «È meglio non sposarsi».
4.
Per questa ragione Paolo, l’imitatore di Cristo, disse «Riguardo a ciò
su cui mi avete scritto», quasi volesse scusarsi con loro parlando cosí,
e dire «Io non osavo condurvi ad un cosí alto ideale, data la
difficoltà dell’impresa, ma poiché voi mi avete scritto di vostra
iniziativa, ho trovato il coraggio di darvi questo consiglio: è una
buona cosa per l’uomo non toccare una donna». Come mai, pur avendo i
Corinzi scritto su molti argomenti, egli non aveva mai aggiunto
quest’esortazione? Solo per il motivo che ho spiegato adesso: per
evitare che qualcuno accogliesse male il suo consiglio, ricordò la
lettera da loro inviata. Ma neanche allora, pur avendo avuto tale
spunto, rivolse un’esortazione veemente: usò invece un tono dimesso,
imitando anche in questo Cristo. Il Salvatore infatti, concluso il
discorso sulla verginità, aggiunse: «Chi è in grado d’intendere,
intenda». E l’apostolo cosa disse? «Riguardo a ciò su cui mi avete
scritto, è una buona cosa per l’uomo non toccare una donna».
XIV. Obiezione di coloro che rifiutano la verginità e sua confutazione
1.
Ma qualcuno potrebbe forse obiettare: «Se è bene non toccare la donna, a
che scopo il matrimonio si è introdotto nella vita? Quale altro uso
potremo fare della donna, se non ci può essere utile né per il
matrimonio né per la procreazione? Che cosa potrà impedire la
distruzione del genere umano, se ogni giorno la morte si pascola di esso
e lo falcia, mentre tale ragionamento vieta di far sorgere altri al
posto di quelli caduti? Se tutti volessimo realizzare questo bell’ideale
e non toccassimo la donna, tutto andrebbe distrutto: le città, le case,
i campi, le arti, gli animali, le piante. Come infatti quando cade il
generale l’esercito perde necessariamente il suo ordine, cosí una volta
eliminato con l’astinenza dal matrimonio l’uomo, il re della terra,
nessun’altra cosa potrà conservare la sua sicurezza ed il suo ordine, e
questo bel consiglio riempirà la terra d’infiniti mali».
2.
Se queste parole fossero pronunziate soltanto dai nostri nemici e
dagl’infedeli, non me ne curerei molto. Poiché però parlano cosí anche
molti presunti membri della chiesa, che per debolezza di volontà non
riescono a sobbarcarsi alle fatiche richieste dalla verginità e che
cercano di nascondere la propria pigrizia denigrando questa pratica e
mostrandone l’inutilità, in modo da dare l’impressione di essere rimasti
indietro non per trascuratezza ma per un retto modo di ragionare,
lasciamo pure da parte i nemici – «l’uomo psichico non comprende infatti
le cose dello spirito, che per lui sono sciocchezze» – ed insegniamo
due cose a coloro che fingono di stare dalla nostra parte: da un lato,
la pratica della verginità non è superflua, ma al contrario di grande
utilità e necessaria; dall’altro, l’accusa rivolta contro di essa non
può restare impunita, ma attira sui detrattori dei pericoli pari ai
premi ed alle lodi che toccano a chi riesce a realizzare lo stato
verginale.
3. Dopo che tutto
l’universo fu creato e tutto fu approntato per il nostro riposo ed il
nostro uso, Dio formò l’uomo, per il quale aveva creato il mondo.
L’uomo, una volta formato, rimase nel paradiso: del matrimonio non si
faceva parola. Aveva bisogno di un aiuto; l’aiuto gli venne, e neanche
allora il matrimonio sembrava necessario. Non s’intravedeva neppure:
essi vivevano ignorandolo, soggiornando nel paradiso come in cielo e
rallegrandosi della familiarità con Dio. Il desiderio di unione, il
concepimento, i dolori del parto, le generazioni e qualsiasi tipo di
corruzione erano banditi dalla loro anima. Simili ad un corso d’acqua
trasparente che sgorga da una fonte pura, se ne stavano in quel luogo
adorni della verginità.
4.
Allora tutta la terra era priva di uomini: c’era proprio quello che ora
temono certe persone, che si preoccupano del mondo abitato, che si danno
gran pensiero delle cose altrui ma che non sopportano neppure il
ricordo delle proprie, che temono la scomparsa di tutto il genere umano
ma che trascurano la propria anima come se fosse una cosa estranea;
eppure, per quanto riguarda quest’ultima, dovranno rendere conto
esattamente anche delle mancanze più piccole, mentre non dovranno
fornire neanche la più piccola spiegazione sulla nascita degli uomini.
5.
Non c’erano allora né città, né arti, né case, di cui voi tanto vi
preoccupate: tutto questo non esisteva, e purtuttavia nulla ostacolava o
impediva quella vita beata, tanto migliore della presente. Ma dopo
avere disobbedito a Dio ed essere divenuti terra e cenere, persero
insieme a quell’esistenza beata anche la bellezza della verginità, che
li abbandonò per ritirarsi con Dio. Finché rimasero insensibili al
diavolo e riverirono il loro padrone, anche la verginità rimase ad
adornarli più di quanto i diademi o le vesti d’oro facciano con i re. Ma
quando, divenuti prigionieri del diavolo, dovettero deporre questa
veste regale e l’ornamento celeste, attirando su di sé la corruzione
propria della morte, la maledizione, i dolori e le fatiche della vita,
allora assieme a tutti questi mali sopraggiunse anche il matrimonio, un
abito mortale e degno di uno schiavo.
6.
«Chi infatti si sposa – dice l’apostolo – si preoccupa delle cose del
mondo». Vedi qual è l’origine del matrimonio? Perché sembrò necessario?
Esso deriva dalla disobbedienza, dalla maledizione, dalla morte. Dove
c’è la morte, lì c’è anche il matrimonio: se la morte non c’è, neanche
il matrimonio sopravviene. La verginità, invece, non fa parte di questa
catena, ma è sempre utile, sempre bella e sempre beata, ed esiste sia
prima che dopo la morte, sia prima del matrimonio che dopo di esso.
Quale matrimonio, dimmi, ha fatto nascere Adamo? Quali dolori hanno
generato Eva? Non puoi rispondermi. Perché allora, senz’alcun motivo,
temi tanto che, cessando il matrimonio, scompaia anche il genere umano?
Un’infinità di angeli serve Dio, migliaia e migliaia di arcangeli gli
sono vicini, e nessuno di loro è nato dalla generazione, dal parto, dai
dolori e dal concepimento. Non avrebbe dunque potuto Dio, a maggior
ragione, creare gli uomini prescindendo dal matrimonio? Cosí creò i
primi progenitori, dai quali discendono tutti gli uomini.
XV. Non è il matrimonio ad accrescere il genere umano
1.
La nostra razza è conservata non dalla forza del matrimonio, ma dalla
parola del Signore, che disse all’inizio: «Crescete, moltiplicatevi e
riempite la terra». Che cosa infatti, dimmi, ha spinto Abramo alla
procreazione? Non è forse vero che, dopo avere usufruito per tanti anni
del matrimonio, pronunziò infine questa frase: «O Signore, che cosa mi
dirai? Dovrò morire senza figli?» Come allora Dio fece di corpi consunti
il principio e la radice di tante miriadi di persone, cosí anche
all’inizio, se Adamo e la sua compagna avessero obbedito al suo ordine e
saputo dominare il piacere acceso dall’albero proibito, non gli sarebbe
mancato il modo di accrescere la razza umana. In effetti, né il
matrimonio è in grado di moltiplicare uomini esistenti se Dio non lo
vuole, né la verginità di diminuirne il numero, se Egli vuole che siano
molti. Egli cosí dispose – dice la Scrittura – per colpa nostra e della
nostra disobbedienza.
2.
Perché infatti il matrimonio non comparve prima della trasgressione?
Perché nel paradiso non vi furono congiungimenti? Perché i dolori del
parto non esistevano prima della maledizione? Perché allora tutto questo
era superfluo, mentre divenne poi necessario a causa della nostra
debolezza; mi riferisco sia a ciò di cui ho parlato, sia a tutto il
resto: alle città, alle arti, alla necessità d’indossare gli abiti, e a
tutti gli altri innumerevoli bisogni. È stata la morte ad introdurre
tutto questo, trascinandoselo con sé. Non devi quindi onorare più della
verginità ciò che ti fu concesso a causa della tua debolezza, e non devi
neppure mettere le due cose sullo stesso piano: procedendo secondo
questo ragionamento, giungerai a dire che è meglio avere due mogli
piuttosto che contentarsi di una sola, giacché anche questo fu
consentito dalla legge di Mosè; allo stesso modo, preferirai le
ricchezze alla povertà volontaria, il lusso alla vita temperante, e la
vendetta alla nobile sopportazione delle offese.
XVI. II matrimonio è una concessione
1.
«Ma tu denigri tutto questo», mi si obietta. Io non denigro affatto:
Dio l’ha concesso, ed a suo tempo si è rivelato utile. Quello che però
dico, è che si tratta di ben poca cosa, di una virtù propria più dei
bambini che degli uomini. Per questo Cristo, nell’intento di renderci
perfetti, ci ha comandato di spogliarci di esso come se fosse un vestito
per bambini che non può ricoprire un uomo perfetto né essere un
ornamento adatto «all’età della pienezza di Cristo», e d’indossare altri
abiti più convenienti e più perfetti dei primi, senza contraddirsi
nelle sue prescrizioni ma rimanendo in perfetto accordo con se stesso.
2.
Infatti, anche se questi comandamenti sono più severi di quelli
antichi, lo scopo del legislatore resta identico. Di che cosa si tratta?
Si tratta di eliminare il vizio della nostra anima e di ricondurla alla
virtù perfetta. Se si fosse preoccupato non di dare comandamenti più
severi dei precedenti, ma di lasciare le cose sempre nello stesso stato e
di non elevarle mai al di sopra della loro mediocrità, allora veramente
sarebbe stato in contraddizione con se stesso. Se all’inizio, quando il
genere umano era più infantile, avesse prescritto questa rigida norma
di vita, noi non avremmo ricevuto un comandamento proporzionato alle
nostre possibilità, e tutta la nostra salvezza sarebbe stata compromessa
da tale mancanza di proporzioni. Allo stesso modo, se dopo tanto tempo
ed il tirocinio fatto sotto la legge ci avesse fatto rimanere sulla
terra mentre il momento ci chiamava a questa celeste filosofia, non
avremmo tratto nessun giovamento apprezzabile dalla sua concessione,
giacché non avremmo realizzato quello stato perfetto al quale la
concessione mirava.
XVII. Della condiscendenza divina
1.
Ora questo caso è simile a quello dei piccoli uccelli. La madre, dopo
averli nutriti, li spinge fuori dal nido. Se però vede che sono ancora
deboli, che cadono e che hanno ancora bisogno di rimanere dentro il
nido, li lascia lì ancora per vari giorni non perché vi rimangano per
sempre, ma perché possano volare con tutta sicurezza una volta che le
loro ali si sono ben fissate e che essi sono divenuti abbastanza forti.
Cosí anche nostro Signore fin dall’inizio ci ha trascinati verso il
cielo e ci ha indicato la strada che conduce ad esso; non ignorava, ma
sapeva bene che non eravamo capaci di volare, e voleva mostrarci che la
caduta si verificava non per suo volere, ma per la nostra debolezza.
Dopo avercelo mostrato, ci lasciò crescere per molto tempo in questo
mondo e nel matrimonio, come in un nido.
2.
Ma quando, dopo un lungo intervallo di tempo, ci crebbero le ali della
virtù, ritornò, e con delicatezza e piano piano ci portò fuori da questa
dimora insegnandoci a volare più in alto Chi è ancora pigro e dorme in
un sonno profondo, ama trattenersi nel nido, rimanendo inchiodato alle
cose del mondo. Chi invece è veramente nobile ed ama la luce, abbandona
il nido con grande disinvoltura, vola verso l’alto e tocca il cielo,
lasciando tutte le cose terrene: il matrimonio, le ricchezze, i pensieri
e tutto ciò che è solito trascinarci sulla terra.
3.
Non dobbiamo dunque scambiare il permesso del matrimonio, concesso
all’inizio, per un obbligo che c’impedisce di rinunziare ad esso. Il
Signore vuole che vi rinunciamo: ascolta le sue parole «Chi è in grado
d’intendere, intenda». Non meravigliarti del fatto che non abbia
prescritto questo fin dall’inizio. Neanche il medico, infatti, prescrive
ai malati tutte le cure insieme e nello stesso momento: quando sono in
preda alla febbre, proibisce loro i cibi solidi, mentre quando non ci
sono più né la febbre né la debolezza fisica da essa prodotta, sopprime i
cibi sgradevoli e li riporta alla dieta consueta. Come gli elementi dei
corpi, scontrandosi tra loro e rimanendo in eccesso o in difetto,
provocano una malattia, cosí anche nel caso dell’anima la mancanza di
misura nelle passioni distrugge la sua salute. Bisogna avere una
prescrizione per queste passioni soprattutto nel momento più adatto:
senza questi due fattori, la legge da sola non basta a correggere il
disordine che si forma nell’anima. Cosí pure, neanche le medicine
possono eliminare la piaga: quello che le medicine fanno per le ferite,
lo fanno le leggi per i peccati.
4.
Tu non importuni il medico quando, intervenendo sulle stesse ferite,
taglia, o brucia, o spesso non fa nessuna di queste due cose, anche se
di sovente non riesce nel suo intento; quando invece si tratta di Dio
che non sbaglia mai e che regola tutto in modo degno della sua sapienza
tu, pur essendo uomo, pretendi d’immischiarti, gli chiedi ragione dei
suoi comandamenti, e non ti sottometti alla sua infinita sapienza? Non è
questo il segno di un’estrema stoltezza? Dio disse: «Crescete e
moltiplicatevi». Allora il momento richiedeva questo, giacché la natura
umana era come impazzita, non poteva sopportare lo stimolo delle
passioni e non poteva rifugiarsi in un alto porto trovandosi in mezzo a
quella tempesta.
5. Che cosa
avrebbe dovuto comandare Dio? Di vivere nella continenza e nella
verginità? Ma quest’ordine avrebbe prodotto una caduta ancora più grave
ed avrebbe reso più violenta la fiamma. Se ai bambini che hanno bisogno
soltanto del latte si togliesse questo nutrimento e li si costringesse a
prendere il cibo degli adulti, nulla potrebbe impedire la loro rapida
morte: tanto grande è il male dell’inopportunità. Per questo la
verginità non fu concessa all’inizio. Per meglio dire, ci apparve
all’inizio prima ancora del matrimonio, ma quest’ultimo sopraggiunse
successivamente e fu ritenuto necessario per le ragioni prima spiegate;
se Adamo avesse continuato ad obbedire, non ne avrebbe avuto bisogno. E
come – mi si obietta – avrebbero potuto nascere tante moltitudini di
uomini? Ed io, giacché questa paura continua ad agitarti tanto, ti
chiedo di nuovo: «Com’è nato Adamo, com’è nata Eva, se non c’era il
mezzo del matrimonio?». «E che? – mi si chiederebbe –. Tutti gli nomini
avrebbero dovuto nascere così?». Se fossero nati così o in un altro
modo, non sono in grado di dirlo. Ciò che ora c’importa di stabilire, è
che Dio non aveva bisogno del matrimonio per moltiplicare gli uomini
sulla terra.
XVIII. Non la verginità, ma il peccato riduce il genere umano
Che
non la verginità, ma il peccato e gli accoppiamenti fuori luogo sono la
causa dell’estinzione del genere umano, lo mostra l’annientamento degli
uomini, delle bestie ed in una parola di tutti gli esseri che
respiravano sulla terra verificatosi ai tempi di Noè. Se i figli di Dio
avessero allora resistito a quell’innaturale desiderio ed onorato la
verginità, se non avessero gettato degli sguardi peccaminosi sulle
figlie degli uomini, tale calamità non li avrebbe colpiti. Non si creda
che io intenda addossare sul matrimonio la colpa della loro rovina; non
sto dicendo questo: dico che la rovina e la distruzione della nostra
razza dipendono non dalla verginità, ma dal peccato.
XIX. Anticamente il matrimonio aveva due ragioni, ora ne ha una sola
1.
Certo, il matrimonio fu concesso per la procreazione; ma ancora di più
fu concesso per spegnere il fuoco della nostra natura. Lo testimonia
Paolo, là dove dice «per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la
propria moglie»: della procreazione non fa parola. Inoltre, egli non
invita la coppia a restare unita perché procrei molti figli; per quale
ragione allora raccomanda questo? «Perché Satana non vi tenti»: sono le
sue parole. Più avanti, non dice «si sposino se desiderano i figli» ma
«si sposino, se non riescono a rimanere continenti». All’inizio, come ho
detto, il matrimonio aveva queste due funzioni; successivamente invece,
dopo che la terra, il mare e tutte le regioni abitabili furono
popolate, rimase solo un motivo per contrarlo, l’eliminazione della
sfrenatezza e della scostumatezza.
2.
In effetti, coloro che anche adesso si rotolano in queste passioni, che
desiderano vivere come i porci e corrompersi nei lupanari, vengono non
poco aiutati dal matrimonio, che li allontana dall’impurità e dalla
schiavitù e li conserva nella santità e nel decoro. Ma fino a quando
dovrò continuare a combattere contro ombre? Anche voi che parlate così
conoscete quanto me l’eccellenza della verginità: tutte le cose da voi
dette non sono che delle scuse e dei pretesti che mirano a velare
l’incontinenza.
XX.
Anche ammettendo che coloro che disprezzano la verginità non corrano
alcun pericolo, nondimeno tale denigrazione non è esente da rischi
Ma
anche se non si corresse alcun pericolo parlando così, bisognerebbe ora
porre fine alle calunnie. Chi infatti assume un atteggiamento ostile di
fronte alle cose belle, pronunziando un giudizio così depravato ed
ingiusto, oltre a danneggiare se stesso dà anche di fronte a tutti una
non piccola prova della propria malvagità. Dovreste quindi tenere a
posto la lingua, se non per altre ragioni, per lo meno per evitare di
attirarvi una reputazione così cattiva: dovete ricordare che, mentre chi
ammira coloro che si distinguono nelle gare più impegnative può trovare
presso tutti comprensione se non riesce a raggiungere gli stessi
risultati, chi invece non solo non riesce, ma denigra le imprese degne
di molte corone, è giustamente odiato da tutti come un acerrimo nemico
della virtù e come più miserabile degli stolti; questi ultimi infatti
non sanno cosa fanno, né sopportano volontariamente la propria sorte.
Perciò, anche se oltraggiano i potenti, non solo non vengono puniti, ma
sono oggetto di commiserazione da parte di coloro che hanno offeso. Ma
se qualcuno osasse fare consapevolmente ciò che essi fanno senza
volerlo, sarebbe giustamente condannato con giudizio unanime come nemico
della nostra natura.
XXI. Coloro che disprezzano la verginità corrono un grave pericolo
1.
Come ho detto, anche se tale accusa non facesse correre dei pericoli,
bisognerebbe abbandonarla: ne ho spiegato le ragioni. In realtà però il
fatto comporta un grave pericolo: sarà punito non solo «chi siede
parlando male del proprio fratello e sollevando scandali contro il
figlio di sua madre», ma anche chi cerca di calunniare le cose che
sembrano belle a Dio. Ascolta le parole di un altro profeta, là dove
parla di quest’argomento: «Guai a chi chiama buono il cattivo ed il
cattivo buono, a chi trasforma la tenebra in luce e la luce in tenebra,
il dolce nell’amaro e l’amaro nel dolce». E che cosa c’è di più dolce,
di più bello e di più risplendente della verginità? Essa emette degli
splendori più luminosi dei raggi del sole, e mentre ci allontana da
tutte le cose materiali, ci mette in condizione di guardare fissi, con
occhi puri, a sole della giustizia. Queste grida lanciava Isaia contro
coloro che ospitavano in sé tali idee distorte.
2.
Ascolta che cosa dice un altro profeta su coloro che pronunziano contro
altri queste parole pestifere; egli comincia con la stessa
esclamazione: «Guai a chi versa al vicino una sporca bevanda». La parola
«guai» non è un semplice modo di dire, ma una minaccia che ci annunzia
una punizione indicibile, che non conosce perdono; nelle Scritture, tale
avverbio è usato a proposito di coloro che non possono sfuggire alla
punizione imminente.
3. E un
altro profeta, accusando gli Ebrei, disse da parte sua: «Avete dato da
bere il vino ai santi». Se chi fa bere il vino ai Nazirei dovrà
sopportare una punizione così grande, chi versa una bevanda sudicia
nelle anime dei semplici di quale punizione non sarà degno? Se chi
elimina una piccola parte dell’ascesi prevista dalla legge subisce un
castigo inesorabile, chi dileggia tutta quanta la santità, quale
condanna subirà? «Se – dice il Signore – qualcuno scandalizzerà uno di
questi piccoli, sarà meglio per lui attaccarsi al collo una macina da
mulino e gettarsi in mare». Che cosa potranno dire allora coloro che con
queste parole scandalizzano non solo un piccolo, ma molte persone? Se
chi chiama sciocco il proprio fratello sarà condotto direttamente al
fuoco della Geenna, chi calunnia questo modo di vita uguale a quello
degli angeli quanta ira non attirerà sul suo capo?
4.
Una volta Miriam parlò contro Mosè non con il tono che voi usate contro
la verginità, ma in modo molto meno grave ed in termini più moderati.
Non schernì l’uomo, né derise la virtù di quel beato, che anzi ammirava
molto: si limitò a dire che anche lei godeva dei suoi stessi privilegi.
Purtuttavia, attirò su di sé l’ira divina a tal punto, che neanche le
molte preghiere del presunto offeso valsero ad ottenere qualcosa per
lei: anzi, il suo castigo andò molto al di là di quello che Mosè stesso
aveva pensato.
XXII. La morte dei fanciulli al tempo di Eliseo fu utile
1.
Ma perché parlare di Miriam? Alcuni fanciulli che giocavano vicino a
Betlemme, solo per aver detto ad Eliseo «Sali, calvo», provocarono a tal
punto Dio, che questi fece piombare su di loro degli orsi proprio
mentre parlavano; erano quarantadue, e tutti furono dilaniati fino
all’ultimo da quelle bestie. Né la giovane età, né il numero, né il
fatto che scherzassero valse a proteggere quei bambini: ed era giusto.
Se coloro che si sobbarcano a così grandi fatiche dovessero essere
dileggiati dai bambini e dagli uomini, quale persona più debole
accetterebbe mai di sopportare fatiche che attirano le risa e gli
scherni? Quale uomo ordinario cercherà più d’imitare la virtù, vedendo
che è così ridicola?
2. Ora
la virtù è universalmente ammirata non solo da coloro che la praticano,
ma anche da coloro che, in seguito a delle cadute, se ne allontanano;
eppure, molti esitano ed indietreggiano di fronte a queste fatiche: chi
sarebbe allora più disposto ad abbracciarla subito, se vedesse che non
solo non è ammirata, ma è calunniata da tutti gli uomini? Le persone
molto forti, che si sono già trasferite in cielo, non hanno bisogno
della consolazione della gente ordinaria, perché a consolarle basta la
lode di Dio. Chi invece è più debole e solo da poco si fa guidare m tale
pratica, riceve un non piccolo aiuto anche dalla spinta prodotta
dall’opinione del volgo: solo m seguito, quando sarà completamente
educato, potrà mettersi piano piano in condizione di non aver più
bisogno di tale aiuto.
3.
Questi eventi si verificano non solo per costoro, ma anche per la
salvezza degli schernitori, i quali procederebbero oltre nella loro
malvagità, se vedessero impuniti i loro misfatti precedenti. Ma mentre
parlavo, mi sono tornati in mente certi episodi della storia di Elia. La
sorte che gli orsi fecero subire a quei fanciulli a causa di Eliseo,
toccò anche, a causa del suo maestro, a cinquantadue uomini ed ai loro
capi, quando il fuoco si accese in cielo. Allorché essi, con un fare
molto ironico, vennero a chiamare il giusto invitandolo a scendere tra
loro, in sua vece scese un fuoco, che li divorò tutti cosi come fecero
quelle bestie.
4. Voi tutti,
o nemici della verginità, riflettete dunque su questo e mettete sulla
vostra bocca una porta ed una sbarra, per non dover dire il giorno del
giudizio, vedendo rifulgere in quel luogo le persone vergini: «Questi
sono coloro che deridevamo ed a cui lanciavamo oltraggi; e noi stolti
ritenevamo pazza la loro vita, ed ignominiosa la loro morte. Come
possono essere stati annoverati tra i figli di Dio ed avere la sorte dei
santi? Ci siamo dunque allontanati dalla strada della verità, e la luce
della giustizia non ha brillato per noi». Ma a che cosa gioveranno
queste parole, se il pentimento non sarà più efficace in quel frangente?
XXIII. Come mai coloro che commettono gli stessi peccati non vengono puniti allo stesso modo
Ma
forse qualcuno di voi chiederà: «Nessuno dunque dopo quei tempi insultò
i santi?» Molti, ed in molti punti della terra, l’hanno fatto. «Come
mai allora non sono stati puniti allo stesso modo?». Sappiamo che molti
di loro lo sono stati. Se poi alcuni sono sfuggiti al castigo, non
sfuggiranno ad esso per sempre. Secondo il beato Paolo «i peccati di
alcuni sono evidenti e portano al giudizio, mentre per altri si rivelano
successivamente». Come i legislatori mettono per iscritto le pene dei
trasgressori, così anche nostro Signore Gesù Cristo, quando punisce uno o
due peccatori e scrive per così dire i loro castighi su di una colonna
di bronzo, si serve della loro sorte per parlare a tutti; Egli dice che
coloro che osano commettere gli stessi peccati di chi è stato punito,
anche se per il momento non vengono puniti, in futuro subiranno un
castigo più severo.
XXIV. Coloro che peccano e non sono puniti non devono rassicurarsi, ma piuttosto temere
1.
Di conseguenza, se non soffriamo alcun male pur avendo peccato oltre
misura, non dobbiamo rassicurarci, ma piuttosto temere. Se infatti qui
non siamo giudicati da Dio, lì saremo condannati assieme al mondo. Anche
in questo caso, le parole non sono mie, ma di Cristo che parla in
Paolo. Parlando a coloro che prendono i sacramenti senza esserne degni,
egli dice: «Per questo tra voi ce ne sono molti che sono deboli e
malati, mentre un buon numero dorme. Se ci giudicassimo, non saremmo
giudicati; ora invece, se siamo giudicati, veniamo educati dal Signore
per non essere condannati assieme al mondo». Vi sono alcuni che hanno
bisogno soltanto di una condanna su questa terra, quando nei loro
peccati non oltrepassano una certa misura e quando, dopo essere stati
puniti, non corrono più verso di essi, imitando il cane che si volge
verso ciò che ha vomitato; vi sono poi altri che per l’enormità delle
loro colpe sono puniti sia qui che lì; altri, infine, saranno puniti
solo lì per avere commesso le colpe più gravi, non essendo stati
ritenuti degni di essere sferzati assieme agli uomini. «Non saranno
sferzati assieme agli uomini» – è detto –, in quanto sono destinati ad
essere puniti con i demoni. «Andate via da me – dice il Signore – verso
la tenebra eterna, preparata per il diavolo ed i suoi seguaci».
2.
Molti sono riusciti ad ottenere il sacerdozio pagando, senza essere
rimproverati da nessuno e senza ascoltare le parole che Simone udì a suo
tempo da Pietro. Non per questo però sfuggono al castigo: ne subiranno
uno molto peggiore di quello che avrebbero dovuto subire qui, giacché
neanche l’esempio è valso a renderli più saggi. Molti hanno osato fare
quello che fece Core; non hanno subito la sua sorte, ma soffriranno in
seguito una pena più grave. Molti che hanno imitato l’empietà del
Faraone non sono annegati come lui, ma sono attesi dall’oceano della
Geenna. Neanche coloro che chiamano sciocchi i propri fratelli sono
stati puniti, ma il castigo è riservato per loro nell’al di là.
3.
Non pensate dunque che le minacce di Dio siano solo parole. Egli ha
dato esecuzione ad alcune di esse come nel caso di Saffira, di suo
marito, di Carmi, di Aaron e di molti altri, perché chi non crede alle
sue parole, convinto dall’evidenza dei fatti, in futuro non s’illuda più
di sfuggire alla punizione ed impari che la bontà di Dio consiste non
nel non punire affatto chi persevera nei suoi peccati, ma nel concedere
una proroga ai peccatori.
4.
Si potrebbe parlare anche più a lungo, per dare un’idea di tutto il
fuoco che si preparano coloro che disprezzano la bellezza della
verginità. Ma queste parole sono sufficienti ai saggi, mentre neanche un
discorso più lungo del presente potrebbe allontanare gl’incorreggibili
ed i pazzi dalla loro mania. Chiudiamo quindi questa parte, e rivolgiamo
il nostro discorso ai saggi, ritornando al beato Paolo. «Riguardo a ciò
su cui mi avete scritto – dice – è bene per l’uomo non toccare la
donna». Si vergognino ora entrambe le categorie di persone, sia quelli
che denigrano il matrimonio, sia quelli che lo esaltano oltre il dovuto.
Ad entrambi il beato Paolo chiude la bocca sia con queste parole che
con quelle che seguono.
XXV. Il matrimonio è necessario ai deboli
Il
matrimonio è una bella cosa, perché conserva l’uomo nella temperanza e
gl’impedisce di rotolare nella fornicazione e di morirvi. Non va quindi
calunniato. È in effetti di grande utilità, giacché non consente alle
membra di Cristo di diventare membra di una prostituta, e vieta che il
sacro tempio venga profanato ed insozzato. È bello perché sostiene e
rimette in piedi chi sta per cadere. Ma di quale utilità può essere per
colui che sta già in piedi e che non ha bisogno del suo aiuto? In tal
caso, esso non è né utile né necessario, ma è solo d’impedimento alla
virtù, non solo perché le frappone molti ostacoli, ma anche perché la
priva della maggior parte degli elogi.
XXVI. Chi si sposa pur essendo in grado di restare vergine, reca un gravissimo torto a se stesso
Chi
ricopre di armi un uomo che può combattere nudo e vincere, non solo non
gli giova, ma gli fa il più grande torto, privandolo dell’ammirazione e
delle più grandi corone: impedisce alla sua forza di rivelarsi in modo
completo, e fa perdere al suo trofeo molta fama. Nel caso del
matrimonio, il danno è ancora più grave: si priva l’uomo non solo della
grande considerazione della gente ordinaria, ma anche dei premi
riservati alla vergine. Per questo vien detto: «È bene per l’uomo non
toccare donna». Perché allora permetti di toccarla? «A causa della
fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie». «Esito – dice
l’apostolo – a condurti fino all’altezza della verginità, nel timore che
tu possa precipitare nel baratro della fornicazione. Le tue ali non
sono ancora abbastanza leggere, perché io possa sollevarti fino a quella
vetta». Eppure, essi hanno deciso di cimentarsi e si sono slanciati
verso la bellezza della verginità. Perché allora hai paura e tremi, o
beato Paolo? «Perché – risponderebbe forse – mostrano tanta voglia in
quanto ignorano di che cosa si tratta; io invece, avendo esperienza e
conoscendo già questa battaglia, esito a consigliarla agli altri».
XXVII. La verginità è un gran bene e dispensa grandi beni
1.
Conosco le difficoltà di quest’impresa, l’asprezza di questo
combattimento, la pesantezza di questa guerra. Bisogna avere un’anima
combattiva, violenta, disperatamente decisa nella sua lotta contro i
desideri, giacché si deve camminare sui carboni senza bruciarsi e sulle
spade senza farsi colpire. La forza del desiderio è infatti pari a
quella del fuoco e del ferro; e l’anima, se non impara a non voltarsi
verso questi dolori, ben presto perisce. Ci occorrono un pensiero di
diamante, un occhio che non si addormenta mai, molta pazienza, delle
mura robuste, [dei muri esterni] e delle sbarre, delle guardie vigili e
prodi, e prima di ogni altra cosa, l’intervento superiore: «Se il
Signore non custodisce la città, invano vegliano i suoi custodi».
2.
Come potremo dunque far giungere a noi quest’aiuto? L’otterremo solo
dopo che avremo dato tutto il nostro contributo: mi riferisco ai
pensieri sani, alla forte intensità dei digiuni e delle veglie, alla
scrupolosa osservanza della legge, al rispetto dei comandamenti, e
soprattutto alla sfiducia in noi stessi. Anche se riusciamo a realizzare
grandi cose, dobbiamo infatti dire sempre: «Se non è il Signore a
costruire la casa, invano hanno lavorato i suoi costruttori. «Noi non
lottiamo contro il sangue e la carne, ma contro le dominazioni, contro
le potestà, contro i capi delle tenebre di questo mondo, contro gli
spiriti maligni che si trovano negli spazi celesti». Restando armati di
giorno e di notte, dobbiamo tener desti i nostri pensieri e mettere
paura ai desideri impudenti. Basta che i pensieri si rilassino un po’,
che compare il diavolo con in mano il fuoco, che scaglia per incendiare
il tempio di Dio. Dobbiamo dunque essere fortificati da ogni parte. La
nostra è una battaglia contro le necessità naturali; cerchiamo d’imitare
il modo di vita degli angeli e di correre assieme alle potenze
incorporee. Noi, terra e cenere, facciamo di tutto per renderci uguali
agli esseri che vivono in cielo: la corruzione vuole gareggiare con
l’incorruttibilità.
3.
Dimmi: qualcuno oserà ancora paragonare il piacere del matrimonio a tale
stato? Come non sarebbe oltremodo sciocco? Paolo, sapendo bene tutto
questo, disse: «Ognuno abbia la propria moglie». Per questo si mostrava
ritroso, per questo non osava parlare loro subito della verginità, ma si
soffermava a discorrere sul matrimonio, nell’intento di distaccarli da
esso a poco a poco; le poche parole che diceva sulla continenza le
mescolava ai suoi lunghi discorsi sul matrimonio, in modo che l’udito
non fosse colpito dalla severità dell’esortazione. Chi infatti intreccia
in tutto il suo discorso argomenti troppo severi si rende molesto
all’ascoltatore, e costringe spesso alla ribellione l’anima che non
sopporta il peso di ciò che vien detto. Chi invece lo varia, e vi
mescola più argomenti piacevoli che argomenti spiacevoli, evita di
renderlo pesante, e facendo riposare l’ascoltatore riesce meglio a
persuaderlo e ad attirarlo, come fece appunto Paolo.
4.
Subito dopo aver detto «È bene per l’uomo non toccare la donna», passò
al matrimonio con le parole: «Ognuno abbia la propria moglie». Benedisse
la verginità e la mise da parte limitandosi a dire: «È bene per l’uomo
non toccare la donna». Per quanto riguarda invece il matrimonio, dà dei
consigli e degli ordini e ne spiega il motivo: «A causa della
fornicazione»; sembra così voler giustificare il permesso che dà di
sposarsi. In verità egli, parlando del matrimonio, fa nascostamente
l’elogio della continenza: non lo svela apertamente, ma lo lascia alla
coscienza degli ascoltatori. Chi infatti si rende conto che Paolo
l’esorta al matrimonio non perché lo consideri il sommo della virtù ma
perché gli rimprovera una sensualità troppo forte, che non può essere
scacciata senza di esso, pieno di rossore e di vergogna cerca di
abbracciare subito la verginità e di allontanare da sé tale reputazione.
XXVIII. Ciò che viene detto sul matrimonio è un’esortazione alla verginità
1.
Perché Paolo dice quindi «Il marito dia alla moglie l’affetto dovuto, e
similmente si comporti la moglie con il marito»? Per spiegare queste
parole e renderle più chiare, aggiunge: «La moglie non è padrona del
proprio corpo, ma solo il marito lo è; similmente, il marito non è
padrone del proprio corpo, ma solo la moglie lo è». Queste parole
sembrano dette in favore del matrimonio. In realtà però Paolo riveste un
amo con l’esca consueta, e lo getta nelle orecchie dei suoi discepoli
nell’intento di distoglierli dal matrimonio parlando di esso. Chi
infatti sente che dopo il matrimonio non sarà più padrone di sé ma
dipenderà dalla volontà della moglie, cerca di liberarsi subito da
questa schiavitù così amara, o piuttosto non vuole neanche cominciare a
sottomettersi a questo giogo, perché una volta che vi si è sottomesso
deve restare schiavo finché lo vuole la moglie.
2.
Che io non faccio delle semplici congetture sul pensiero di Paolo lo si
può capire facilmente, se si pensa ai discepoli del Signore: costoro
non ritennero il matrimonio una cosa pesante e molesta finché non si
avvidero che il Signore voleva rinserrarli nello stesso obbligo in cui
Paolo avrebbe poi rinchiuso i Corinzi. Le frasi «Chi ripudia la propria
moglie quando non ricorre il motivo della fornicazione la spinge
all’adulterio» e «il marito non è padrone del proprio corpo» esprimono
lo stesso pensiero, anche se con parole diverse.
3.
Se si esaminano più attentamente le parole di Paolo, si vede che esse
accrescono la tirannide del matrimonio e ne rendono più pesante la
schiavitù. Se infatti il Signore non consente al marito di scacciare la
propria moglie dalla sua casa, Paolo lo priva perfino della facoltà di
disporre del proprio corpo, dando tutto il potere alla moglie e
mettendolo al di sotto di un servo comprato. Quest’ultimo può spesso
ottenere la completa libertà se, divenuto ricco, riesce a pagare il
prezzo al padrone. Il marito invece, anche se ha la moglie più
terribile, si vede costretto a fare buon viso alla sua schiavitù, non
potendo trovare il modo di liberarsi da tale dominio o di sfuggirne.
XXIX. Le parole «Non negatevi l’uno all’altro» sono un’esortazione alla verginità
1.
Paolo, dopo aver detto «La moglie non è padrona del proprio corpo»,
aggiunge: «Non negatevi l’uno all’altro se non quando siete d’accordo,
nel momento più opportuno, in modo che possiate attendere alla preghiera
ed al digiuno; dopo di che, ritornate a stare insieme». Penso ora che
molti di coloro che hanno abbracciato la verginità arrossiscano e si
vergognino della grande indulgenza di Paolo. Ma non abbiate timore, e
non siate sciocchi. Queste parole sembrano essere state dette da chi
vuole compiacere gli sposati, ma chi le esamina attentamente si accorge
che sono animate dallo stesso pensiero delle frasi precedenti. Se
infatti le si ascoltassero staccandole dalla questione che precede,
sembrerebbero degne più di una pronuba che di un apostolo, ma una volta
spiegato il significato di tutto il contesto, si vedrebbe che anche
quest’esortazione è conforme alla dignità dell’apostolo.
Perché
Paolo si dilunga su questo discorso? Una volta indicato il suo pensiero
in modo più dignitoso con le parole precedenti, non avrebbe potuto
contentarsi di limitare ad esse la sua esortazione? Che cosa dice in più
la frase «Non negatevi l’uno all’altro se non quando siete d’accordo,
nel momento più opportuno» delle altre «Il marito dia alla moglie
l’affetto dovuto» e «il marito non è padrone del proprio corpo»? Certo,
non dice nulla di più; ma qui l’apostolo, usando più parole, ha reso più
chiaro ciò che prima aveva detto più brevemente ed in modo più oscuro.
2.
Agendo così, egli ha voluto imitare Samuele, il santo di Dio. Come
questi spiegò al popolo con la maggiore esattezza possibile le leggi di
chi regna non perché accettasse un re ma perché lo rifiutasse (il suo
discorso sembrava un insegnamento, ma in realtà mirava a distogliere il
popolo da un desiderio inopportuno), così anche Paolo dibatte con
maggiore continuità e chiarezza la questione della tirannia del
matrimonio nell’intento di distogliere da esso gli ascoltatori con le
sue parole. Dopo aver detto «la moglie non è padrona del proprio corpo»,
aggiunge «Non negatevi l’uno all’altro se non quando siete d’accordo,
in modo che possiate attendere al digiuno ed alle preghiere». Vedi come
conduce alla pratica della continenza le persone sposate, senza destare
sospetti e senza rendersi molesto? All’inizio si limitò a lodare la
continenza, dicendo: «È bene per l’uomo non toccare la donna». Ora,
invece, aggiunge un’esortazione: «Non negatevi l’uno all’altro, se non
quando siete d’accordo». Tale discorso è più gentile, e rivela il
pensiero del maestro, che non accampa pretese con veemenza, soprattutto
quando il mettere in pratica i suoi consigli richiede una grande bontà.
Egli non cerca di consolare l’ascoltatore soltanto così: trattato con
poche parole l’aspetto più austero, prima ancora che l’ascoltatore si
addolori, passa all’aspetto più piacevole e vi si sofferma più a lungo.
XXX.
Come mai Paolo, pur ritenendo il matrimonio una cosa pregevole,
raccomanda a chi digiuna di astenersi dai rapporti coniugali
1.
Vale la pena di esaminare come mai, «se il matrimonio è una cosa
pregevole e se il letto coniugale è esente da contaminazione», Paolo non
consente il rapporto coniugale nel periodo del digiuno e della
preghiera. Sarebbe del tutto assurdo che mentre gli Ebrei – nei quali
tutti i bisogni corporei sono profondamente impressi, e che hanno il
permesso di avere due mogli, di ripudiarle e di sposarne altre al loro
posto – si preoccupano della continenza fino al punto di astenersi dal
rapporto legittimo non per un giorno o due soltanto ma per più giorni
quando devono ascoltare la parola di Dio, noi invece – che godiamo di
una grazia così grande, che abbiamo ricevuto lo spirito, che siamo morti
e siamo stati sepolti assieme a Cristo, che siamo stati ritenuti degni
di essere figli adottivi di Dio, che siamo stati elevati ad una dignità
così grande e che abbiamo goduto di tanti e così grandi beni – non
dobbiamo avere neppure la stessa preoccupazione di quei piccoli.
2.
Se qualcuno poi insistesse a ricercare il motivo per cui Mosè proibì
agli Ebrei questi rapporti, direi che, anche se il matrimonio è una cosa
pregevole, può soltanto giungere a non contaminare chi ne fa uso;
mettere in mostra i santi, rientra però non nelle sue possibilità, ma in
quelle della verginità. Mosè e Paolo non sono stati i soli a dare tali
precetti: ascolta le parole di Ioel: «Santificate il digiuno, annunziate
la guarigione, radunate l’assemblea, fate venire gli anziani». Ma
cerchi forse il passo in cui ha ordinato di tenersi lontani dalle mogli?
«Lo sposo esca dal suo letto e la sposa esca dalla sua camera nuziale».
Quest’ordine va al di là di quello di Mosè. Se lo sposo e la sposa, in
cui il desiderio è al culmine, in cui la giovinezza è piena di vigore,
in cui il desiderio è indomabile, non devono avere rapporti nel periodo
del digiuno e della preghiera, non devono comportarsi così a maggior
ragione gli altri, che non sono sottoposti ad una costrizione così
grave? Chi vuol pregare e digiunare nel modo giusto deve eliminare ogni
desiderio terreno, ogni pensiero ed ogni motivo di dispersione, e
presentarsi a Dio dopo essersi ben raccolto in sé sotto ogni rispetto.
Il digiuno è bello perché recide le preoccupazioni dell’anima, perché
allontana la pigrizia che circonda la mente, perché fa sì che il
pensiero si raccolga tutto in se stesso. Alludendo a tutto questo, Paolo
vieta il rapporto e fa uso di parole ben appropriate. Non dice infatti
«Perché non veniate contaminati», ma «perché possiate attendere al
digiuno ed alla preghiera», come se il rapporto con la propria moglie
fosse causa non d’impurità, ma di una perdita di tempo.
XXXI. Paolo era obbligato a vietare i rapporti a coloro che intendevano attendere alla preghiera
Se
anche ora, nonostante la grande sicurezza di cui godiamo, il diavolo
cerca di ostacolarci nel momento della preghiera, ammesso che trovi
un’arsura dissoluta e rammollita dalla passione per una donna, che cosa
non è capace di fare, quando svia in un senso o nell’altro gli occhi del
pensiero? Per non metterci in condizione di subire questa sorte e di
offendere Dio con una preghiera così inutile proprio quando cerchiamo di
rendercelo propizio, egli ci ordina di astenerci dai rapporti.
XXXII. Quando preghiamo con negligenza non solo non ci propiziamo Dio, ma l’irritiamo
1.
Se coloro che avvicinano i re – ma perché parlare dei re? basta pensare
ai più bassi magistrati; se gli schiavi che avvicinano i padroni o
perché hanno subito un torto da altri, o perché hanno bisogno di un
favore, o perché cercano di mitigare l’ira che si è levata contro di
loro, incontrano questi potenti solo dopo avere concentrato su di loro
tutti i loro sguardi ed i loro pensieri, ed alla minima negligenza non
solo non ottengono ciò di cui hanno bisogno, ma ricevono in aggiunta una
punizione e vengono cacciati via; se coloro che cercano di fermare
l’ira degli uomini stanno così attenti, quali pene non dobbiamo soffrire
noi miseri, quando ci accostiamo con tanta negligenza a Dio, il padrone
universale, e ci rendiamo meritevoli di una collera tanto più grande?
Né il servo né il suddito irritano tanto il padrone o il re quanto noi
irritiamo Dio ogni giorno.
2.
Alludendo a questo, Cristo chiama «cento denari» i peccati verso il
prossimo e «diecimila talenti» i peccati verso Dio. Poiché dunque ci
accostiamo alla preghiera per spegnere la sua ira e per riconciliarci
con colui che combattiamo ogni giorno, a ragione l’apostolo cerca di
tenerci lontani dal piacere, come se dicesse: «O miei diletti, è
dell’anima che si parla; corriamo i più gravi pericoli: dobbiamo
tremare, avere paura e mostrarci contriti; ci accostiamo ad un padrone
terribile, che abbiamo molto offeso e che ha da muoverci gravi accuse
per gravi mancanze. Non è il momento delle carezze e dei piaceri, ma
delle lacrime, degli amari lamenti, delle prostrazioni, delle
confessioni scrupolose, delle suppliche ferventi, delle preghiere
assidue. Sarà già una buona cosa se potremo mitigare la sua ira
accostandoci a lui con tanto riguardo, non perché nostro Signore sia
insensibile o crudele – al contrario, è assai mite e pieno di amore per
gli uomini – ma perché l’enormità dei nostri peccati non permette
neanche a chi è così buono, ben disposto e misericordioso di perdonarci
tanto presto. Per questo egli dice: «In modo che possiate attendere al
digiuno ed alla preghiera». Che cosa c’è di più amaro di questa
schiavitù? «Vuoi – ci chiede – progredire verso la virtù, volare verso
il cielo, togliere la sporcizia dalla tua anima insistendo senza
interruzione nei digiuni e nelle preghiere?». Ma se la moglie non vuole
acconsentire a questo tuo progetto, devi rimanere schiavo della sua
sensualità. Per questo all’inizio l’apostolo disse: «È bene per l’uomo
non toccare la donna»; e per questo i discepoli dissero al Signore: «Se
questa è la condizione dell’uomo quando sta con la moglie, non conviene
sposarsi». Pronunciarono tali parole, perché pensarono agl’inconvenienti
che necessariamente si verificano nell’uno o nell’altro caso, e perché
furono messi in imbarazzo da tali riflessioni.
XXXIII. Quando si parla due volte dello stesso argomento si imita Cristo
Anche
Paolo tratta continuamente lo stesso tema per indurre i Corinzi a fare
questa riflessione. «Ognuno abbia la propria moglie, il marito dia alla
moglie l’affetto dovuto, la moglie non è padrona del proprio corpo, non
negatevi l’uno all’altro, tornate a stare insieme». Questi beati
ascoltatori non rimasero colpiti dalle sue prime parole; solo dopo
averle sentite una seconda volta, si resero conto dell’obbligo contenuto
in quel comandamento. Anche Cristo, quando si sedette sul monte, parlò
di questo e tornò a parlarne dopo avere toccato molti altri argomenti;
in tal modo, poté condurre i suoi ascoltatori all’amore per la
continenza. Le stesse cose ripetute continuamente hanno maggiore
efficacia. Il discepolo quindi, imitando anche in questo il maestro,
parla continuamente delle stesse cose, e non dà il permesso di sposarsi
senza dire altro, ma ne spiega il motivo: «a causa della fornicazione,
delle tentazioni sataniche e dell’incontinenza»; così, senza destare
sospetti, mentre parla del matrimonio tesse l’elogio della verginità.
XXXIV. La verginità è ammirevole, e degna di molte corone
1.
Se Paolo ha paura di separare per molto tempo coloro che vivono nel
matrimonio, nel timore che il diavolo trovi il modo d’introdursi, di
quante corone non sono degne le donne che non hanno bisogno di questa
consolazione neanche all’inizio, e che rimangono invitte fino alla fine?
Eppure il diavolo non ricorre ad uguali mezzi contro queste due
categorie di persone. A mio avviso, egli non molesta le persone sposate,
sapendo bene che hanno a portata di mano un rifugio: se si accorgono di
essere oggetto di un attacco più forte, quest’ultime possono subito
rifugiarsi nel porto, giacché il beato Paolo non permette loro di
spingersi troppo lontano nella navigazione, ma le esorta a tornare
indietro se sono stanche, invitandole a stare di nuovo insieme. La
vergine è invece costretta a restare sempre in alto mare, e a navigare
su di un oceano senza porti; anche se si leva una tempesta più violenta,
non può fare ondeggiare la sua nave e concedersi un riposo.
2.
I pirati non attaccano i naviganti quando si trovano vicini ad una
città, ad una rada o ad un porto: sarebbe un rischio vano. Se invece
riescono ad intercettare la nave in alto mare, incoraggiati nella loro
audacia dalla mancanza di aiuto, tutto muovono e sconvolgono, e non
desistono, finché non fanno affondare i naviganti o non subiscono essi
stessi questa sorte. Allo stesso modo il terribile tentatore suscita
contro la vergine una grande tempesta, un violento uragano ed enormi,
irresistibili ondate, tutto sconvolgendo, in modo da sommergere la nave
con la sua violenza ed impetuosità. Ha sentito dire infatti che la
vergine non può «tornare a stare insieme» ma è obbligata a lottare e a
combattere sempre contro gli spiriti del male, finché non approda nel
porto veramente tranquillo.
3.
Paolo chiude la vergine fuori delle mura come se fosse un soldato
valoroso, e non permette che le si aprano le porte, anche se il nemico
si accanisce molto contro di lei, anche se diventa più violento perché
l’avversario non può godere di nessuna tregua. Non solo il diavolo, ma
anche il pungolo del desiderio molesta maggiormente i non sposati. E
questo è chiaro a tutti. Noi non diveniamo facilmente preda del
desiderio di quelle cose di cui possiamo godere, giacché la sicurezza
consente all’anima di starsene tranquilla. Ce lo testimonia un
proverbio, popolare ma pur sempre vero: ciò di cui si dispone – esso
dice – non suscita violenti desideri. Se però ci viene vietato l’uso di
ciò di cui eravamo padroni da tempo, si produce l’effetto contrario, e
ciò che prima disprezzavamo, quando sfugge al nostro potere risveglia un
desiderio più violento.
4.
Questa è la prima ragione per cui gli sposati godono di una più grande
serenità; la seconda è dovuta al fatto che la fiamma, anche se cerca di
alzarsi, è subito soffocata dall’unione che sopravviene. La vergine
invece, non sapendo come spegnere il fuoco, lo vede allungarsi ed
alzarsi, e non riuscendo ad estinguerlo si preoccupa unicamente di
combatterlo per non lasciarsi bruciare. C’è forse qualcosa di più
paradossale del fatto che essa sopporti dentro di sé tutto il peso del
fuoco e non si bruci? O del fatto che covi la fiamma nelle parti più
riposte della sua anima e che conservi il pensiero intatto? Nessuno le
permette di liberarsi di questi carboni gettandoli fuori, e lei si vede
costretta a sopportare nella sua anima ciò che l’autore dei proverbi
considera impossibile se riferito ai colpi. Che cosa dice costui? «Potrà
qualcuno camminare sui carboni ardenti senza bruciarsi i piedi?». Ma
guarda: la vergine vi cammina, e sopporta il tormento. «Qualcuno metterà
il fuoco nel seno, e non si brucerà le vesti»?. La vergine ha un fuoco
rabbioso e rimbombante non nelle vesti ma dentro di sé, eppure sopporta
la fiamma e la ripara.
5.
Dimmi, qualcuno oserà ancora paragonare il matrimonio alla verginità?
Oserà ancora guardarlo in faccia? Non lo permette il beato Paolo, che ha
posto una grande distanza tra le due cose. «La donna vergine – dice –
si preoccupa delle cose del Signore, quella sposata delle cose del
mondo». Ascolta come rimprovera le persone sposate, dopo averle
ricongiunte ed avere concesso loro questo favore: «Tornate a stare
insieme – dice loro – perché Satana non vi tenti». Allo scopo di
dimostrare che tutto non dipende tanto dalla tentazione quanto dalla
nostra debolezza, egli adduce il motivo principale con le parole: «A
causa della vostra intemperanza».
6.
Chi non arrossirebbe, sentendo queste parole? chi non cercherebbe di
sfuggire alla taccia d’intemperanza? Quest’esortazione non riguarda
tutti, ma quelli che cadono troppo in basso. «Se sei così schiavo dei
piaceri – dice Paolo –, se sei così molle da disperderti sempre
nell’accoppiamento e da desiderarlo, sta’ pure con tua moglie». Dando
questo permesso egli non approva né loda, ma deride e condanna. Se non
avesse voluto colpire veramente l’anima delle persone libidinose, non
avrebbe usato la parola «intemperanza», che è così espressiva e così
pregna di rimprovero. Perché non ha detto «A causa della vostra
debolezza»? Perché con quest’ultima frase avrebbe mostrato piuttosto di
perdonare, mentre usando parola «intemperanza» ha voluto far rilevare
l’enormità del loro rilassamento. È dunque proprio dell’intemperanza il
non potersi tenere lontani dalla fornicazione, se non si sta sempre
attaccati alla moglie e non si gode dell’unione coniugale.
7.
Che cosa potrebbero dire ora coloro che ritengono superflua la
verginità? Mentre quest’ultima merita lodi tanto più grandi quanto
maggiore è il suo impegno, il matrimonio invece, proprio quando lo si
usa a sazietà, viene a perdere ogni merito. «Quello che io dico –
afferma Paolo – è una concessione, non un ordine». Dove c’è la
concessione, non c’è posto per la lode. Ma anche quando parla delle
vergini, egli dice: «Non ho un ordine del Signore, ma esprimo un
parere». Ha forse voluto respingere la verginità? Niente affatto. Nel
caso della vergine esprime un parere, nell’altro caso invece fa una
concessione. In nessuno dei due casi dà un ordine, ma non per lo stesso
motivo: nel caso del matrimonio, onde evitare che qualcuno che voglia
liberarsi dell’intemperanza riceva un divieto perché vincolato
dall’obbligo di un comandamento; nel caso delle vergini, per evitare che
qualcuno, non riuscendo ad elevarsi fino alla verginità, venga
condannato come trasgressore di un precetto. «Non comando di restare
vergini – egli dice – perché temo la difficoltà dell’impresa. Non
comando di avere continui rapporti con la moglie, perché non voglio
legittimare l’intemperanza. Ho detto «state insieme» perché voglio
impedirvi di precipitare, non perché voglio ostacolare il desiderio di
salire in alto».
8. Paolo
non vuole dunque in primo luogo che si abbiano sempre rapporti con la
moglie: è stata l’intemperanza dei pigri a prescrivere questo. Se vuoi
sapere qual è il desiderio di Paolo, ascolta: «Voglio – egli dice – che
tutti siano come me», vale a dire continenti. Se vuoi che tutti siano
continenti, vuoi che nessuno si sposi. «Non per questo però vieto il
matrimonio a chi lo desidera né accuso, ma faccio voti e desidero che
tutti siano come me; d’altra parte, permetto il matrimonio a causa della
fornicazione. Per questo all’inizio dissi: «è bene per l’uomo non
toccare la donna».
XXXV. Era necessario che Paolo s’indicasse come esempio di continenza
1.
Perché mai Paolo parla qui di sé dicendo «voglio che tutti gli uomini
siano come me»? Non certo per esaltarsi: egli era colui che, pur
essendosi distinto tra gli apostoli nella fatica della predicazione, si
riteneva indegno perfino di essere chiamato apostolo. Dopo avere detto
infatti «Sono il più piccolo degli apostoli», nel timore di avere
pronunziato una parola che oltrepassava i suoi meriti, si riprese subito
aggiungendo: «Non sono degno di essere chiamato apostolo». Come mai
allora qui si aggiunge come esempio alla sua esortazione? Non l’ha fatto
senza motivo o a caso, ma perché sapeva bene che i discepoli si
lasciano condurre all’imitazione delle cose belle soprattutto quando
ricevono l’esempio dai maestri. Come colui che è saggio solo nelle
parole e non nelle opere non è di grande aiuto all’ascoltatore, così
colui che è in grado di mostrare di avere messo in pratica i consigli
che dà riesce a trascinare meglio l’uditorio. Inoltre, Paolo si mostra
libero dall’invidia e dall’orgoglio: vuole che i suoi discepoli siamo
partecipi di questo privilegio, non cerca di avere nulla in più di loro e
desidera che essi l’eguaglino in tutto.
2.
Devo ricordare anche il terzo motivo. Di che cosa si tratta? La cosa
sembrava difficile, e non alla portata dei più. Nell’intento di mostrare
che era invece molto facile, egli cita come esempio colui che l’aveva
realizzata, perché i discepoli non credessero che costasse molta fatica e
perché, guardando la loro guida, potessero anch’essi incamminarsi
fiduciosi per la stessa strada. Così si comporta anche in un’altra
occasione. Parlando ai Galati, e cercando di dissipare la paura che
avevano della legge, e che li faceva ricadere nelle vecchie usanze e li
costringeva ad osservare molti di quei precetti, che cosa dice?
«Diventate come me, perché anch’io sono come voi». Ciò che vuol dire è
questo: «Non potete affermare che io, convertitomi ora dal paganesimo
senza conoscere la paura prodotta dalla trasgressione della legge, vi
voglio insegnare impunemente tutte queste cose. Anch’io sono stato una
volta asservito a questa schiavitù come voi: mi sottomettevo alle
prescrizioni della legge, ne osservavo i precetti, ma una volta
illuminato dalla grazia ho trasferito tutto me stesso a quest’ultima,
abbandonando la prima. Questo non rappresenta più una trasgressione «se
ci sottomettiamo ad un altro uomo»: di conseguenza, nessuno di voi può
dire che io agisco in un modo ed esorto in un altro, né che, badando
alla mia sicurezza, vi caccio in un pericolo. Se la cosa fosse stata
pericolosa, non avrei tradito me stesso trascurando la mia salvezza».
Come in quest’altro caso dissipò la loro paura citandosi come esempio,
così anche nel nostro, mettendosi in mezzo, intende eliminare la loro
angoscia.
XXXVI. L’apostolo chiama «grazia» la verginità perché vuole essere umile
1.
«Ma ciascuno — dice Paolo — ha la propria grazia, chi in un modo, chi
in un altro. Osserva come i tratti caratteristici dell’umiltà
dell’apostolo non svaniscano mai, ma risplendano sempre in modo
distinto. Egli chiama grazia di Dio la propria azione virtuosa, ed
attribuisce al Signore tutto il frutto delle sue grandi fatiche. Ma
perché ci si dovrebbe meravigliare se si comporta così a proposito della
continenza, quando assume lo stesso atteggiamento nei riguardi della
predicazione, per la quale sopportò infinite fatiche, tormenti continui,
sofferenze indicibili, ed andò incontro a quotidiani pericoli di morte?
Che cosa dice in proposito? «Mi sono affaticato più di tutti loro: non
io però, ma la grazia di Dio che è in me». Non attribuisce una parte del
merito a sé ed un’altra a Dio, ma fa risalire tutto a Dio. È proprio di
un buon servo credere che nulla gli appartenga e che tutto sia del
padrone [e ritenere che nulla sia suo ma tutto del Signore].
2.
Paolo si comporta così anche altrove. Dopo avere detto «Riceviamo dei
favori differenti, secondo la grazia che ci è stata concessa «, un poco
più avanti annovera tra questi favori le cariche, le opere di
misericordia e le elargizioni. A tutti è chiaro che queste cose sono
azioni virtuose, e non favori. Ho voluto ricordarlo, perché quando gli
senti dire «Ognuno ha la propria grazia» tu non ti scoraggi e non dica a
te stesso: «La cosa non richiede il mio impegno, se Paolo l’ha chiamata
grazia». Egli parla così per umiltà, non perché voglia annoverare la
temperanza tra le grazie. Non era infatti sua intenzione contraddire in
tal modo se stesso e Cristo; Cristo aveva detto: «Ci sono degli eunuchi
che si sono resi eunuchi per il regno dei cieli», ed aveva aggiunto:
«Chi è in grado d’intendere, intenda»; ed egli stesso aveva condannato
le donne che dopo avere scelto la vedovanza non avevano voluto tener
fede a questo proposito. Se si tratta di una grazia, perché le minacci
dicendo «Vengono giudicate, perché hanno rinnegato la fede primitiva»?
Cristo non ha mai punito coloro che non avevano la grazia, ma ha
condannato sempre coloro che non davano prova di una vita retta: le cose
che soprattutto cercava, erano la perfetta condotta di vita e le azioni
irreprensibili. La distribuzione delle grazie non dipende dalla scelta
di chi le riceve, ma dal giudizio di chi le offre. Per questo Cristo non
loda mai gli autori dei miracoli, e toglie ai discepoli che se ne
vantano questa soddisfazione, dicendo: «Non rallegratevi perché i demoni
vi ubbidiscono». Coloro che vengono sempre considerati beati sono gli
umili, i miti, i puri di cuore, i pacifici, coloro che hanno tutte
queste qualità ed altre simili.
3.
Lo stesso Paolo, enumerando i propri atti virtuosi, ricorda tra essi
anche la continenza. Dopo aver detto «Nella grande perseveranza, nei
tormenti, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle oppressioni, nei
colpi, nelle prigionie, nelle sofferenze, nei tumulti, nelle veglie, nei
digiuni. aggiunge: «nella purezza»: non l’avrebbe fatto, se si fosse
trattato di una grazia. Egli deride coloro che non la possiedono,
chiamandoli intemperanti Perché colui che non dà in sposa la propria
figlia vergine si comporta meglio? Perché la vedova che resta tale è più
felice? Come ho detto prima, le beatitudini ed i castighi dipendono non
dai miracoli, ma dalle opere. Perché mai Paolo dovrebbe insistere
ancora sulle stesse raccomandazioni se la cosa non ci riguardasse ed
oltre all’intervento di Dio non fosse necessario il nostro impegno? Dopo
aver detto «Voglio che tutti gli uomini siano come me», vale a dire
continenti, aggiunge: «Dico ai celibi ed alle vedove che è meglio
restare come me». Di nuovo, e per lo stesso motivo, si cita come
esempio: a suo parere, i suoi ascoltatori, avendo un esempio così vicino
e diretto, avrebbero affrontato con più impegno le fatiche della
verginità. Non meravigliarti se, dopo aver detto prima «Voglio che tutti
siano come me», e dopo avere aggiunto qui «È bene per loro restare come
me», non ne spiega affatto il motivo. Non fa questo per vanagloria, ma
perché pensa che sia sufficiente la sua convinzione personale, con la
quale realizzò questa virtù.
XXXVII. Nelle seconde nozze accadono molte cose spiacevoli
1.
Chi vuole ascoltare anche dei ragionamenti, esamini in primo luogo
l’opinione comune, e poi ciò che si verifica in tali frangenti. Anche se
i legislatori non puniscono le seconde nozze ma le consentono e le
autorizzano, molte persone, sia in privato che in pubblico, ne parlano
spesso male, dileggiandole, biasimandole e rifiutandole. Tutti
respingono coloro che le contraggono come se fossero, per così dire,
degli spergiuri; nessuno se la sente di farseli amici, o di stringere
accordi con loro, o di concedere loro la benché minima fiducia. Le
persone infatti, quando vedono che costoro scacciano dalla loro mente
con tanta disinvoltura il ricordo di una familiarità, di un amore, di
un’intimità, di una vita comune, sono vittime di una sorta di paralisi;
non possono avvicinarli con animo del tutto sincero, perché li
considerano volubili ed instabili, e li allontanano non solo per questi
motivi, ma anche per le cose spiacevoli che si verificano.
2.
Dimmi: che cosa c’è di più spiacevole del fatto che ai molti gemiti, ai
lamenti, alle lacrime, ai capelli in disordine, alle vesti nere,
subentrino improvvisamente gli applausi, le camere nuziali, e delle
agitazioni opposte alle precedenti, come se degli attori recitassero
sulla scena e diventassero ora l’uno, ora l’altro personaggio? Sulla
scena, si può vedere lo stesso attore nelle vesti ora di un re, ora del
più povero degli uomini; nel nostro caso, colui che prima si rotolava
vicino alla tomba, diventa improvvisamente sposo; colui che si strappava
i capelli, porta di nuovo sullo stesso capo la corona; colui che era
abbattuto e cupo, che spesso pronunziava piangendo molti elogi della
sposa defunta di fronte a coloro che cercavano di consolarlo, che diceva
che la vita gli era divenuta impossibile, che s’irritava contro chi
cercava di distoglierlo dai suoi lamenti, spesso, proprio nel mezzo del
suo lutto, si abbellisce e si adorna di nuovo, sorride alle stesse
persone con gli stessi occhi con cui prima piangeva, si mostra affabile
ed accoglie tutti con la stessa bocca con cui prima pronunciava degli
scongiuri contro tutto.
3.
Ma la cosa più pietosa è la guerra condotta contro i figli, provocata
dalla leonessa che abita assieme alle figlie: tale veste assume sempre
la matrigna. Da lei si originano i disordini ed i litigi quotidiani, e
l’animosità strana ed insolita contro la defunta che non le dà alcun
fastidio. I vivi colpiscono con l’invidia e ne sono colpiti, ma con i
morti anche i nemici si rappacificano. Ciò non avviene però in questo
caso: la polvere e la cenere sono oggetto d’invidia, la sepolta è
bersaglio di un odio indicibile, colei che è divenuta terra riceve
biasimi, motteggi ed accuse; un’inimicizia implacabile si accende contro
colei che non ha fatto alcun male. Che cosa c’è di peggiore o di più
crudele di questa follia? La nuova sposa, che non ha ricevuto alcun
torto dalla defunta — ma perché usare quest’espressione? La nuova sposa,
che trae profitto dalle sue fatiche e che gode dei suoi beni, non cessa
di combattere contro la sua ombra; ogni giorno colpisce con infiniti
motteggi colei che spesso non ha neppure visto, si vendica di colei che
non è più, facendo del male ai suoi figli, e spesso, quando non riesce
nel suo intento, aizza il marito contro di loro. Eppure, gli uomini
trovano tutto questo facile e sopportabile, pur di non essere costretti a
sottomettersi alla tirannia della concupiscenza.
4.
La vergine, al contrario, non prova le vertigini di fronte a questo
combattimento, e non fugge lo scontro che sembra cosí insostenibile ai
più, ma, grazie alla sua nobiltà d’animo, rimane ferma ed accetta la
battaglia voluta dalla natura. Come la si può ammirare secondo i suoi
meriti? Mentre infatti gli altri per non bruciare hanno bisogno di nuove
nozze, lei, che non si è sposata neanche una volta, resta sempre santa
ed incolume. Per questo motivo, ed ancora di più perché pensava ai premi
riservati nei cieli alla vedovanza, colui che fa parlare Cristo in sé
disse: «È bene per loro se rimangono come me». Non hai avuto la forza di
salire fino alla cima più alta? Raggiungi almeno quella che si trova
subito dopo di essa: la vergine ti sia superiore solo in questo, nel non
essersi lasciata vincere dal desiderio neanche una volta; nel tuo caso,
invece, la concupiscenza, dopo averti vinto in un primo tempo, non è
riuscita a tenerti sempre in suo potere. Tu hai vinto dopo una
sconfitta, lei gode di una vittoria che non conosce sconfitte: solo
all’inizio ti supera, mentre alla fine ti è pari.
XXXVIII. Perché Paolo consola tanto le persone sposate, mentre non concede tregua alle fatiche della vergine
1.
Come mai dunque Paolo consola le persone sposate fino al punto da non
farle separare se una delle due non vuole, e da non prolungare il
distacco avvenuto di comune accordo? Inoltre, se vogliono, concede un
secondo matrimonio, perché non brucino. Verso le persone vergini,
invece, non si mostra affatto cosí indulgente: mentre, dopo un breve
intervallo, lascia di nuovo libere le persone sposate, alla vergine che
non ha un attimo di respiro e che combatte continuamente, ingiunge di
stare sempre al suo posto e di farsi bersagliare dai desideri, senza
concederle neanche una piccola pausa. Perché mai non ha detto anche a
proposito di lei: «Se non è continente, si sposi»? Perché neanche
all’atleta si potrebbe dire, dopo che ha gettato via la veste, che si è
unto, che è entrato nell’arena e che si è cosparso di polvere: «Ritirati
e fuggi via dall’avversario»; al contrario, non può non verificarsi una
di queste due eventualità: l’atleta se ne andrà o con la corona della
vittoria, o pieno di vergogna, dopo essere caduto. Nel ginnasio e nella
palestra, quando si esercita con altri che conosce bene, quando affronta
gli amici come se fossero avversari, l’atleta è padrone d’impegnarsi o
no; quando è invece iscritto alla gara, quando la folla si raduna nel
teatro, quando l’arbitro è presente, quando gli spettatori sono seduti e
l’avversario gli si trova di fronte, la legge della gara non gli lascia
scelta.
2. Anche per la
vergine, prima che decida se sposarsi o no, il matrimonio non presenta
alcun pericolo. Ma dopo che ha preso la decisione e si è iscritta,
allora fa il suo ingresso nello stadio. Quando il teatro è affollato,
quando gli angeli la guardano dall’alto, quando Cristo fa da arbitro,
quando il diavolo s’infuria, digrigna i denti, è stretto nella lotta ed è
afferrato alla vita, chi oserebbe farsi avanti e dirle: «Fuggi via dal
nemico, rinunzia alle tue fatiche, lascia la presa, non abbattere
l’avversario, non fargli lo sgambetto, e lasciagli la vittoria»?
3.
Ma perché parlare delle vergini? Neanche alle vedove qualcuno oserebbe
fare tale discorso, ma pronuncerebbe al loro indirizzo queste terribili
parole: «Se mettono da parte Cristo e vogliono sposarsi, saranno
giudicate, perché sono venute meno al primo impegno». Eppure, Paolo
stesso dice: «Dico ai non sposati ed alle vedove che è megho se
rimangono come me; se però non riescono ad essere continenti, si
sposino». E ancora: «Se suo marito muore, è libera di sposare chi vuole,
purché lo faccia nel Signore».
XXXIX. A quali vedove ed a quali vergini Paolo permette di sposarsi
1.
Come mai dunque Paolo condanna colei che lascia libera, e giudica
illegittimo il matrimonio che dice «essere nel Signore»? Non temere: non
si tratta dello stesso matrimonio, ma di due matrimoni diversi. Come,
quando dice «Se la vergine si sposa, non pecca», intende parlare non di
colei che ha rinunziato al matrimonio (è evidente a tutti che costei
commette un peccato, ed un peccato intollerabile), ma di colei che, non
ancora sposata, non ha preso ancora nessuna decisione in merito, ma
resta indecisa tra le due soluzioni, cosí, per quanto riguarda la
vedova, nel secondo caso intende parlare di quella che, non avendo più
il marito, non è ancora legata alla decisione presa liberamente e che è
ancora libera di scegliere l’una o l’altra soluzione, mentre nel primo
caso si riferisce a quella che non è più padrona di stare con un altro
sposo, e che si è impegnata nelle lotte della continenza.
2.
La vedova, se non ha ancora accettato di rimanere tale, può infatti,
pur essendo vedova, non essere ammessa alla dignità di questo stato. Per
questo Paolo dice: «Venga ammessa alla dignità di vedova colei che ha
non meno di sessant’anni e che è stata la moglie di un unico marito.
Alla semplice vedova consente, se vuole, di risposarsi, mentre condanna
aspramente la vedova che, dopo avere promesso a Dio di rimanere tale,
poi si risposa calpestando il patto stretto con Dio. Non parla a
quest’ultima, ma alla prima quando dice: «Se non sono continenti, si
sposino; è meglio sposarsi che bruciare». Non vedi che il matrimonio non
è mai ammirato di per sé, ma solo in rapporto alla fornicazione, alle
tentazioni ed all’incontinenza? In precedenza aveva impiegato questi
termini; ora invece, dopo averli fatti segno di violenti rimproveri, usa
per la stessa cosa parole più benevole, chiamandola incendio e fuoco.
3.
Neanche qui però è riuscito a passare oltre senza rimproverare
l’ascoltatore. Non ha detto infatti «Se subiscono violenze da parte dei
desideri, se vengono sconvolti, se non possono». Non ha usato nessuna di
queste espressioni, che si addicono a chi soffre ed è degno di perdono.
Che cosa ha detto invece? «Se non sono continenti», frase che si
riferisce a coloro che per pigrizia non vogliono impegnarsi: in tal
modo, egli fa vedere che costoro, pur potendo riuscire, non riescono
perché non vogliono faticare. Ciò nonostante, non li punisce né li
condanna alla pena, ma si imita a non lodarli ed a mostrarsi severo solo
con rimproveri verbali; non ricorda la procreazione, il motivo più
bello e più nobile del matrimonio, ma solo il fuoco, l’intemperanza, la
fornicazione e le tentazioni sataniche, consentendo le nozze solo per
evitare quei mali.
4. «E che
importanza ha questo? — mi si potrebbe obiettare —. Finché il
matrimonio tiene lontana la punizione, sopporteremo di buon grado ogni
condanna ed ogni offesa: basta che ci sia consentito di godere dei
piaceri e di soddisfare sempre i nostri desideri». E che cosa
succederebbe, o caro, se, non potendo più godere dei piaceri, ci
attirassimo solo il biasimo? «Come? — mi si direbbe — non si può godere,
dopo che Paolo ha detto «Se non sono continenti, si sposino»?».
5.
Ascolta però anche le parole che vengono dopo di queste. Hai sentito
che è meglio sposarsi che bruciare; hai accolto di buon grado il
piacere, hai lodato la concessione, hai ammirato la condiscendenza
dell’apostolo; ma non fermarti a questo: accetta anche quello che viene
dopo, giacché l’una e l’altra prescrizione provengono dalla stessa
persona. Che cosa dice dunque dopo? «Agli sposati prescrivo — non io, ma
il Signore — che la moglie non si separi dal marito; se si separa, la
moglie non si risposi, o si riconcili con il marito; ed il marito non
ripudi la propria moglie.
XL. Aspra ed inevitabile è la schiavitù del matrimonio
1.
Che cosa succede quando il marito è affabile, mentre la moglie è
cattiva, incline al biasimo, ciarliera, prodiga — malattia quest’ultima
che è comune a tutte le donne — e piena di molti vizi? Come farà il
poveretto a sopportare questo tormento quotidiano, quest’orgoglio e
quest’impudenza? E che cosa succede, se al contrario la moglie è modesta
e mite, mentre il marito è insolente, portato al disprezzo, irascibile e
gonfio di orgoglio per le sue ricchezze e la sua potenza, e tratta la
consorte — che pure è libera — come una schiava, senza amarla più delle
ancelle? Come farà la sposa a sopportare tale costrizione e violenza? E
che cosa succede, se il marito non fa che allontanarla, e continua a
comportarsi cosí per tutta la vita? «Sopporta — dice l’apostolo — tutta
questa schiavitù: sarai libera solo quando morirà; finché vivi, delle
due l’una: o dovrai impegnarti molto per educarlo e renderlo migliore,
oppure, se questo è impossibile, dovrai sopportare nobilmente questa
guerra implacabile e questa battaglia senza tregua».
2.
Prima aveva detto: «Non separatevi se non di comune accordo». Qui,
ingiunge alla sposa che si è separata di restare d’ora in poi continente
anche contro la sua volontà. Dice infatti: «Non si risposi, oppure si
riconcili con il marito». Vedi com’è presa tra due fuochi? O deve
sopportare la violenza del desiderio, o, se non vuole farlo, adulare chi
l’offende e consegnarsi a lui perché faccia di lei ciò che vuole: egli
può infierire con le percosse, sommergerla di rimproveri, consegnarla al
disprezzo dei servi o fare altre simili cose.
3.
Molti mezzi sanno escogitare i mariti, quando vogliono punire le loro
mogli. Se la sposa non sopporta tutto questo, deve praticare una
continenza sterile: dico sterile perché le manca il presupposto adatto,
in quanto è prodotta non dal desiderio di santità, ma dall’ira verso il
marito «Non si risposi — dice l’apostolo — o si riconcili con il
marito». «Che cosa accade, se non vuole più riconciliarsi?» ci si
potrebbe chiedere. Hai un’altra soluzione ed un’altra via di uscita.
Quale? Attendi la sua morte.
4.
Come infatti la vergine non può mai sposarsi perché il suo sposo vive
sempre ed è immortale, cosí alla donna sposata è consentito di
risposarsi solo quando muore il marito. Se infatti, mentre vive, potesse
passare da lui ad un altro uomo, e poi da quest’ultimo ad un altro
ancora, a che cosa servirebbe più il matrimonio? In tal caso, gli uomini
si prenderebbero gli uni le mogli degli altri senza più distinzioni, e
tutti si unirebbero con tutte le donne. E come non si deteriorerebbero i
nostri rapporti con coloro che coabitano con noi, se ora l’uno, ora
l’altro, ora altri ancora, convivessero con la stessa donna? Giustamente
il Signore ha chiamato tale condotta adulterio.
XLI. Perché Dio consentì ai Giudei il ripudio
1.
Come ha potuto dunque Dio permettere questo ai Giudei? È chiaro che
l’ha fatto a causa della durezza dei loro cuori, perché non riempissero
le loro case del sangue dei congiunti. Dimmi, cos’è meglio, scacciare la
sposa odiata o trucidarla in casa? Avrebbero fatto questo, se non
avessero avuto il permesso di scacciarla. Per questo è detto: «Se la
odi, ripudiala». Quando invece parla con le persone più miti e con
quelle alle quali non permette neppure di adirarsi, che cosa dice
l’apostolo? «Se si separa, non si risposi». Vedi la costrizione, la
schiavitù inevitabile, il legame che stringe entrambi? Un vero e proprio
legame è infatti il matrimonio, non solo a causa del gran numero di
preoccupazioni e di angustie quotidiane, ma anche perché costringe i
coniugi a sottostare l’uno all’altro, in un modo più severo di quello
usato con i servi.
2. È
detto: «Il marito abbia autorità sulla moglie». Ma quale guadagno ricava
da tale signoria? Dio infatti, rendendolo a sua volta schiavo di colei
che gli è sottoposta, ha escogitato un nuovo e strano scambio di
schiavitù. Come i servi che hanno cercato di fuggire, quando vengono
legati dai padroni sia uno per uno che l’uno all’altro e fissati da
entrambe le parti ai ceppi con una breve catena, non possono camminare
liberamente perché l’uno è costretto a seguire l’altro; cosí anche le
anime delle persone sposate, pur avendo dei pensieri propri, subiscono
la costrizione dovuta al legame che le stringe l’una all’altra: si
tratta di una costrizione più pesante di qualsiasi catena, perché le
soffoca, le priva entrambe di ogni libertà, non dà mai il comando a
nessuna delle due, ed insegna ad entrambe la facoltà di decidere. Dove
sono coloro che sono pronti a sopportare tutte le condanne pur di essere
consolati dal piacere?
3.
In effetti, quando le liti e gli odi reciproci portano via molto tempo,
una non piccola parte del piacere viene spesso annullata. La schiavitù
dovuta al fatto che l’uno è costretto a sopportare suo malgrado la
cattiveria dell’altro, basta a gettare un’ombra su ogni godimento. Per
questo quel beato apostolo cercò in un primo tempo di frenare con le
esortazioni l’impulso del desiderio, ricordando la fornicazione,
l’intemperanza ed il fuoco. Accortosi però che queste parole di
rimprovero non avevano molta presa sui più, per distoglierli ricorse ad
un argomento molto più forte, quello che aveva fatto dire ai discepoli
«Non conviene sposarsi»: si tratta del fatto che nessuna delle persone
sposate è più padrona di sé. Egli non l’introduce sotto forma di
esortazione, ma dà ad esso la costrizione del precetto e del
comandamento. Mentre dipende da noi lo sposarsi o no, non dipende più da
noi sopportare la schiavitù non volontariamente, ma nostro malgrado.
4.
E perché mai? Perché quando all’inizio la scegliemmo, non l’ignoravamo,
ma conoscevamo bene le sue prescrizioni e le sue leggi, e ci
sottomettemmo spontaneamente al suo giogo. Dopo avere parlato di coloro
che coabitano con mogli non credenti, avere passato in rassegna
minutamente tutte le leggi del matrimonio, avere fatto un discorso su
servi ed avere consolato questi ultimi in misura sufficiente,
esortandoli a non degradare con lo stato di schiavitù la loro nobiltà
spirituale, Paolo passa quindi a parlare della verginità: già da tempo
teneva dentro di sé queste parole e desiderava spargerle come semi, ma
solo ora le fa venire alla luce; neanche durante il discorso sul
matrimonio era però riuscito a tacere del tutto.
5.
Nella sua esortazione al matrimonio ne aveva infatti parlato, sia pure
in modo breve e frammentario: esercitate le orecchie e disposte bene le
menti degli ascoltatori con quest’ottimo metodo, preparò per le sue
parole il migliore ingresso. Dopo avere rivolto un’esortazione ai servi —
«siete stati comprati ad un certo prezzo, non diventate schiavi degli
uomini» –, dopo avere ricordato i benefici del Signore; dopo avere cosí
innalzato ed elevato al cielo i pensieri di tutti, pronunziò il discorso
sulla verginità dicendo: «Per quanto riguarda le vergini, non ho un
ordine del Signore, ma esprimo un parere, giacché se sono credente, lo
devo alla sua misericordia». Eppure, pur non avendo degli ordini, quando
parlavi dei credenti sposati alle non credenti legiferavi con grande
autorità e prescrivevi: «Agli altri parlo io, non il Signore: un
fratello che ha una moglie non credente, se costei desidera vivere con
lui, non la scacci».
6.
Perché allora non ti esprimi allo stesso modo a proposito delle vergini?
Perché su quest’argomento Cristo ha chiaramente manifestato il suo
volere, vietando che la cosa assumesse la costrizione propria di un
ordine. La frase «chi è in grado d’intendere, intenda» lascia
l’ascoltatore libero di scegliere. Parlando della continenza, l’apostolo
dice: «Voglio che tutti gli uomini siano come me», vale a dire
continenti. E ancora: «Dico ai non sposati ed alle vedove: è una buona
cosa se rimangono come me». Parlando invece della verginità, non si cita
mai come esempio, ma si esprime con molta riservatezza e circospezione,
perché egli stesso non era riuscito a realizzare questa virtù: «Non ho
un’ordine, dice.
7. Egli dà
il suo consiglio solo dopo avere lasciata libera la scelta ed essersi
conquistato il favore dell’ascoltatore. Poiché infatti la parola
«verginità», non appena profferita, fa subito pensare ad un gran numero
di fatiche, non dà subito inizio alla sua esortazione, ma predispone
prima il discepolo, lasciandolo libero di vedere o no nelle sue parole
un ordine e rendendo la sua anima docile e malleabile: solo dopo aver
fatto questo si spiega meglio. Hai sentito parlare di verginità, parola
che comporta fatiche e sudori. Non temere: non hai a che fare con un
ordine, né con la costrizione di un comandamento; la verginità concede
in cambio i propri beni a coloro che l’abbracciano spontaneamente, di
loro libera scelta, mettendo sul loro capo una corona splendida e
fiorente, mentre non punisce né forza contro il suo volere chi la
rifiuta e non la vuole avvicinare.
8.
L’apostolo ha saputo eliminare dal suo discorso ogni aspetto sgradevole
e renderlo piacevole non solo cosí, ma anche dicendo che non era lui,
ma Cristo, a concedere questo favore. Non ha detto infatti: per quanto
riguarda le vergini non comando, ma «non ho un comando». È come se
avesse detto: se avessi rivolto quest’esortazione mosso dai miei
pensieri umani, non avrei meritato alcuna fiducia; ma poiché essa
corrisponde ai voleri di Dio, il pegno della fiducia è sicuro. Sono
privo della facoltà di dare un simile ordine, ma se volete ascoltare uno
che come voi è schiavo di Cristo, ricordatevi che «esprimo un parere,
come un uomo che deve alla misericordia del Signore la sua fede in lui».
9.
È giusto ammirare, in questo contesto, la grande abilità ed
intelligenza del beato apostolo: preso tra due esigenze contrarie,
raccomandare la sua persona in modo che il suo consiglio trovasse una
buona accoglienza e non vantarsi troppo giacché non aveva saputo
raggiungere questa virtù, riuscì subito in entrambi gl’intenti. Dicendo
«Come un uomo che deve alla misericordia del Signore», raccomanda in un
certo senso se stesso; d’altra parte, non mettendosi troppo in luce nel
momento in cui agisce cosí, si umilia e si abbassa.
XLII. Dell’umiltà di Paolo
1.
Egli non ha detto infatti: esprimo un parere perché mi è stato affidato
il messaggio evangelico, perché sono stato ritenuto degno di essere il
predicatore dei popoli, perché sono stato incaricato di dirigervi,
perché sono il vostro maestro e la vostra guida. Che cosa dice invece?
«Perché devo alla misericordia del Signore la mia fede in lui»: in tal
modo, adduce un motivo meno importante. L’essere semplicemente un fedele
è infatti meno importante dell’essere il maestro dei fedeli. Ma anche
ad un altro modo di umiliarsi egli ha pensato. A quale? Non ha detto:
perché sono divenuto un fedele di Cristo, ma perché «devo alla
misericordia del Signore la mia fede». Non ritenere doni di Dio solo
l’apostolato, la predicazione e l’insegnamento: anche la mia fede in lui
viene dalla sua misericordia. Sono stato ritenuto degno della fede non
perché ne fossi degno, ma solo perché sono stato commiserato; e la
misericordia è frutto della grazia, non del merito.
2.
Di conseguenza, se Dio non fosse stato tanto misericordioso, non avrei
potuto essere chiamato non solo «apostolo», ma neanche «fedele». Hai
notato la buona disposizione d’animo del servitore, e la contrizione del
suo cuore? Non si attribuisce nulla in più degli altri, e quello che ha
in comune con i suoi discepoli deriva, a suo dire, non da lui stesso ma
dalla misericordia e dalla grazia di Dio usando queste parole, come se
volesse dire: non rifiutatevi di accogliere il mio consiglio, giacché
Dio non mi ha rifiutato la sua misericordia. Non rifiutatevi, anche
perché si tratta di un parere, non di un ordine: dò un consiglio, non
una legge. Nessuna legge ci proibisce di rivelare le cose utili che
vengono in mente ad ognuno di noi, specie poi quando ciò avviene in
seguito ad una richiesta degli ascoltatori, come nel vostro caso. «Penso
— dice — che questa sia una buona cosa. Non vedi che il suo discorso si
fa di nuovo umile, e si priva di ogni autorità? Avrebbe anche potuto
dire: poiché il Signore non ha comandato la verginità, neanch’io la
comando; visto che sono il vostro apostolo, mi limito a consigliarla e
vi esorto ad imitarla.
3.
Più avanti, infatti, rivolgendosi a loro, dice: «Se per gli altri non
sono l’apostolo, lo sono però per voi». Qui, invece, non dice nulla di
tutto questo, ma usa le sue parole con molta circospezione: invece di
«consiglio» dice «esprimo un parere», invece di «come maestro» dice
«perché devo alla misericordia del Signore la mia fede in lui». E come
se tutto ciò non bastasse a rendere dimesso il suo discorso, nel momento
in cui comincia a dare i consigli ne diminuisce ancor più l’autorità,
in quanto non si limita ad enunciarli, ma ne spiega il motivo. «Penso
che ciò sia una buona cosa — dice — a causa delle necessità presenti».
Eppure, parlando della continenza, non aveva detto «penso», né aveva
fornito spiegazioni, ma aveva detto soltanto «per loro è bene rimanere
come me»; qui, invece, dice: «Penso che sia una buona cosa, a causa
delle necessità presenti». Dicendo questo, non nutre dubbi
sull’argomento — non sia mai! — ma intende rimettere tutto al giudizio
degli ascoltatori. Il consigliere non pronunzia il verdetto con le sue
parole, ma lascia dipendere tutto dalla decisione dell’uditorio.
XLIII. Quali sono le necessità presenti di cui parla Paolo
Quali
sono le necessità presenti di cui parla qui? I bisogni naturali? Niente
affatto. Innanzitutto, se avesse voluto alludere a questi, ricordandoli
avrebbe prodotto un effetto contrario alle sue intenzioni, giacché chi
vuole sposarsi intende soddisfarli sempre. In secondo luogo, non li
avrebbe chiamati «presenti», giacché sono stati piantati nel genere
umano non ora, ma da molto tempo; e mentre prima erano molto forti ed
indomabili, ora invece, dopo la venuta del Signore e la crescita della
virtù, possono essere vinti più facilmente. Di conseguenza, non di essi
parla l’apostolo, ma di un altro bisogno, che assume molte forme e molti
aspetti. Di quale si tratta? Della perversione che regna nelle vicende
della vita. Tale è la confusione, tale è la tirannia esercitata dalle
preoccupazioni, tale è il numero delle difficoltà, che spesso chi si
sposa è costretto anche suo malgrado a commettere peccati ed azioni
cattive.
XLIV. È più facile raggiungere il regno dei cieli con la verginità che con il matrimonio
1.
Anticamente, in effetti, non ci veniva proposto un così alto grado di
virtù: potevamo difenderci dalle offese, rispondere a chi ci biasimava,
preoccuparci delle ricchezze, impegnarci con un giuramento, applicare la
norma «occhio per occhio», odiare i nemici: non ci era proibito né
vivere nel lusso, né adirarci, né scacciare una moglie e prenderne
un’altra. Non solo, ma la legge ci consentiva di avere due mogli nello
stesso tempo, e mostrava una grande indulgenza sia in queste cose che in
tutte le altre. Dopo la venuta di Cristo, la strada si è fatta invece
molto più stretta: non solo è stata sottratta al nostro potere
l’indescrivibile, enorme licenza che regnava in tutte le cose che ho
enumerato, ma dobbiamo anche tenerci in casa la moglie, che spesso
c’induce e ci costringe a peccare nostro malgrado; nel caso in cui
volessimo scacciarla saremmo infatti rei di adulterio.
2.
Non solo per questo motivo ci è difficile raggiungere la virtù, ma
anche perché, pur ammettendo che la donna che abita con noi abbia un
carattere sopportabile, il gran numero di pensieri che ci circonda,
causato da lei e dai suoi figli, non ci lascia alzare lo sguardo verso
il cielo neanche un momento: a guisa di un turbine, scuote da ogni parte
la nostra anima e la sommerge. L’uomo, anche se vuole condurre una vita
senza rischi e quieta come un privato cittadino, quando si vede intorno
i figli e la moglie che ha bisogno di molto danaro, suo malgrado si
tuffa nell’onda degli affari pubblici. Una volta cadutovi, non si
possono descrivere i peccati che è costretto a commettere adirandosi,
usando modi violenti, giurando, rimproverando, comportandosi da ipocrita
e compiendo molte azioni per compiacere o perché spinto dall’odio.
Quando è sbattuto da tale tempesta e vuole diventare famoso, come può
evitare di tirarsi addosso la grande sporcizia dei peccati? Se poi si
considerano le faccende domestiche, si vede che il marito, a causa della
moglie, è sommerso dalle stesse difficoltà, e anche da altre maggiori,
giacché deve preoccuparsi di tante cose di cui non avrebbe bisogno se
fosse solo. Questo succede quando la moglie è buona e mite. Se invece è
cattiva, odiosa ed insopportabile, non si può più parlare di bisogni, ma
di supplizi e punizioni. Come potrà percorrere la strada che porta in
cielo, che richiede piedi liberi e leggeri ed un’anima agile e spedita,
se su di lui incombe il peso di tante faccende, se è legato a ceppi cosí
forti, se è sempre trascinato verso il basso da tale catena,
rappresentata dalla malvagità della moglie?
XLV. Per coloro che escogitano delle difficoltà superflue non c’è nessuna ricompensa
1.
Ma qual è il saggio discorso che la gente comune fa per rispondere a
tutte le difficoltà che abbiamo enumerato? Si dice: «Chi realizza la
virtù pur tra così grandi costrizioni, non merita forse un onore
maggiore?». «Per quale motivo, o mio caro?». «Perché sposandosi si è
sobbarcato ad una fatica più forte». E chi l’ha costretto a portare un
tale carico? Se, sposandosi, avesse ubbidito ad un comandamento e non
sposandosi avesse trasgredito la legge, questo discorso sarebbe
accettabile. Ma se, pur essendo libero di non sottoporsi al giogo del
matrimonio, preferisce mettersi in mezzo a così gravi difficoltà senza
esservi costretto da nessuno, in modo da rendersi più aspra la lotta per
la virtù, tutto questo non riguarda l’arbitro della gara. Quest’ultimo,
infatti, ha comandato una cosa sola: di condurre una guerra contro il
diavolo fino al conseguimento della vittoria sulla malvagità. A lui non
interessa affatto se questo fine viene raggiunto con il matrimonio, con i
piaceri e con le molte preoccupazioni, oppure con l’ascesi, la
mortificazione e la noncuranza per tutto il resto. Egli dice che il
mezzo per ottenere la vittoria e la strada che conduce al trofeo sono
rappresentati dal distacco da tutte le cose mondane.
2.
Poiché tu, pur avendo la moglie, i figli e le preoccupazioni che questi
si trascinano dietro, vuoi fare una campagna e combattere per
raggiungere gli stessi risultati conseguiti da coloro che non si trovano
impigliati in nessuna di queste cose e per conquistarti quindi una più
grande ammirazione, forse ci tacceresti ora di presunzione, se ti
dicessimo che non puoi arrivare alla loro vetta. Alla fine però il
momento della premiazione ti farà capire che la sicurezza è di gran
lunga preferibile alla vuota ambizione, e che è meglio ubbidire a Cristo
che alla vanità dei propri pensieri. Cristo dice infatti che per
raggiungere la virtù non basta che ci stacchiamo dalle nostre cose, se
non odiamo noi stessi. Tu invece, pur essendo sporcato da esse, dici di
poterle superare. Ma, come ho detto, in quel momento capirai bene quale
ostacolo rappresentino per la virtù la moglie e le preoccupazioni
relative.
XLVI. Come mai la Scrittura chiama la donna «aiuto dell’uomo» se gli è di ostacolo nella vita perfetta
1.
«Come mai dunque — si dirà — la Scrittura chiama aiuto colei che è di
ostacolo? È detto infatti: facciamo un aiuto simile a lui». Ed io ti
chiederò: come può essere un aiuto colei che ha privato l’uomo di tanta
sicurezza, e che l’ha scacciato da quel meraviglioso soggiorno nel
paradiso, gettandolo nel tumulto della vita presente? Tutto ciò può fare
non chi aiuta, ma chi insidia. «La donna — è detto — è il principio del
peccato, ed a causa sua noi tutti moriamo». Ed il beato Paolo dice:
«Adamo non fu ingannato; fu la donna che, ingannata, commise la
trasgressione.
2. Come può
dunque essere un aiuto colei che ha messo l’uomo in balia della morte?
Come può essere un aiuto colei a causa della quale i figli di Dio, o per
meglio dire tutti gli abitanti della terra, morirono sommersi assieme
alle bestie, agli uccelli ed a tutti gli altri animali? Non sarebbe
stata la donna la causa della perdizione del giusto Giobbe, se questi
non fosse stato veramente uomo. Non fu la donna a provocare la rovina di
Sansone? Non fece la donna del suo meglio, perché tutto il popolo Ebreo
fosse iniziato al culto di Beelfegor e venisse trucidato per mano dei
suoi fratelli? E chi più di ogni altro consegnò al diavolo Acaab, e
prima di lui Salomone, nonostante la sua grande sapienza e fama? Anche
ora, non inducono spesso le donne i loro mariti ad offendere Dio? Non ha
forse detto per questo il saggio «Qualsiasi cattiveria è piccola, se
paragonata alla cattiveria della donna»?
3
«Come mai dunque — mi si chiede — Dio ha detto: «Facciamogli un aiuto
simile a lui»? Dio non mente». Neanch’io lo dico — non sia mai! la donna
fu fatta a tale scopo e per questo motivo, ma, al pari del suo
compagno, non volle rimanere nella dignità che le era propria. L’uomo
era stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza: «Facciamo — disse
infatti Dio — l’uomo a nostra immagine e somiglianza», cosí come disse
«facciamogli un aiuto». Una volta creato però l’uomo perse subito
entrambe queste prerogative. Non seppe conservare né l’immagine né la
somiglianza — e come avrebbe potuto, se si consegnò all’assurdo
desiderio, se divenne preda dell’inganno, e se non riuscí a vincere il
piacere? L’immagine, suo malgrado, gli fu tolta per tutto il tempo
successivo.
4. Dio lo privò
di una non piccola parte del suo potere, del privilegio cioè di essere
temuto da tutti come un padrone: allo stesso modo, il padrone fa sì che
il servo ingrato che l’ha offeso venga disprezzato dagli altri servi.
All’inizio, infatti, l’uomo incuteva paura a tutti gli animali. Dio li
aveva condotti tutti da lui, e nessuno osava fargli del male o
insidiarlo, perché si vedeva risplendere in lui l’immagine regale. Ma
dopo che oscurò con il suo peccato questo carattere, Dio lo privò del
potere.
5. Il fatto che egli
non comanda su tutti gli animali della terra, ma trema di fronte ad
alcuni di essi e li teme, non fa apparire falsa l’affermazione di Dio
«Comandino sugli animali della terra»: la mutilazione del potere dipese
non da chi l’aveva concesso, ma da chi l’aveva ricevuto. Allo stesso
modo, le insidie che le donne tendono agli uomini non rendono vana la
frase «Facciamogli un aiuto simile a lui». La donna fu fatta a tale
scopo, ma non vi restò fedele. A parte questo, si può anche obiettare
che la donna dà il suo aiuto nel tipo di vita presente, per quanto
riguarda la procreazione dei figli ed il desiderio fisico; ma quando
questa vita era fuori questione e non esistevano né la procreazione né
il desiderio, perché si parla di «aiuto» senza ragione? L’uomo, se nelle
cose importanti ricorre all’aiuto di colei che è capace di assisterlo
solo in quelle di pochissimo conto si accorge che non solo non gli è
utile, ma l’incatena con le sue preoccupazioni.
XLVII. Come può la donna essere di aiuto nelle cose spirituali
1.
Mi si obietterà: «Come potremo allora rispondere a Paolo, quando dice:
«Come puoi sapere, o donna, se salverai tuo marito?» e quando dimostra
che il suo aiuto è necessario nelle cose spirituali?». Io pure sono
d’accordo. Non escludo affatto la donna dalla collaborazione nelle cose
spirituali — non sia mai! Dico solo che vi riesce, quando non si occupa
del matrimonio ma, pur rimanendo donna nella sua natura, si eleva alla
virtù degli uomini beati. Non quando si adorna, non quando si dà ai
piaceri, non quando chiede al marito sempre più danaro, non quando è
prodiga e portata a spendere, è in grado di conquistarlo: al contrario,
può farlo solo quando, elevatasi al di sopra di tutte le cose
contingenti, imprime in sé il carattere della vita apostolica; quando fa
mostra di una grande mitezza, di una grande modestia, di un grande
disprezzo per le ricchezze e di una grande rassegnazione; quando dice:
«Se abbiamo di che nutrirci e di che coprirci, ci contentiamo», quando
con il suo comportamento fa vedere di praticare tale filosofia e,
disprezzando la morte del corpo, non attribuisce nessun valore alla vita
presente; quando, secondo il detto del profeta, ritiene la gloria di
questa vita un fiore di campo.
2.
La moglie, infatti, non è in grado di salvare il marito unendosi a lui
nella sua qualità di sposa, ma soltanto facendo mostra di una vita
condotta secondo il vangelo; molte donne sono riuscite in quest’intento
anche al di fuori del matrimonio. Si racconta che Priscilla, accolto
presso di sé Apollo, gli fece da guida per tutta la strada della verità.
Anche se ora questo non è più possibile, le spose possono sempre
mostrare lo stesso impegno e raccogliere gli stessi frutti. Come ho
detto prima, la sposa non trascina con sé il marito per il fatto di
essere sposa, giacché nessun marito che ha la moglie credente rimarrebbe
non credente, se i rapporti coniugali e la coabitazione realizzassero
veramente questo. Ma ciò non si verifica affatto: solo il far mostra di
una grande filosofia e di una grande pazienza, il deridere le difficoltà
del matrimonio, e l’adozione continua di una tale condotta giovano alla
salvezza del coniuge; se invece la sposa insiste nella ricerca dei suoi
diritti, non solo non aiuta il marito, ma lo danneggia. Per capire che
anche cosí si tratta di un’impresa molto difficile, devi ascoltare ciò
che dice l’apostolo: «Come puoi sapere, o donna, se salverai tuo
marito?». Siamo soliti far uso di questo tipo di domanda, quando
parliamo di eventi inverosimili.
3.
Che cosa dice dopo? «Sei legato ad una donna? Non cercare di
liberartene. Sei libero dal legame con una donna? Non cercarne una».
Vedi come passa di frequente da un argomento al suo opposto e come
mescola bene le due esortazioni dopo un breve intervallo? Come nel
discorso sul matrimonio aveva speso alcune parole sulla continenza per
risvegliare l’ascoltatore, cosí anche qui pronunzia delle parole sul
matrimonio per farlo riposare. Comincia a parlare della verginità, ma
prima di dire qualcosa sul suo conto si rifugia subito nel discorso sul
matrimonio. La frase «Non ho un ordine» è di chi consente ed introduce
il matrimonio. Dopo essere passato alla verginità ed avere detto «Penso
che sia una cosa buona», accortosi che la frequente ripetizione del suo
nome disturbava molto le orecchie delicate, non usa spesso questo
termine: pur avendo fornito una ragione che da sola bastava ad
incoraggiare le fatiche necessarie a realizzarla — si trattava dei
bisogni presenti — non ha il coraggio di parlare di nuovo di
«verginità». Che cosa dice invece? «È bene per l’uomo restare cosí». Non
procede nel suo discorso, ma dopo averlo troncato prima che sembrasse
troppo severo, spende di nuovo delle parole sul matrimonio dicendo: «Sei
legato ad una donna? Non cercare di liberartene». Se questo non fosse
stato il suo scopo, se qui non avesse voluto incoraggiare, non avrebbe
avuto alcun motivo di fare della filosofia sul matrimonio mentre dava
dei consigli sulla verginità. Ritorna quindi a parlare della verginità,
ma neanche ora la chiama con il suo vero nome. Che cosa dice? «Sei
libero dal legame con una donna? Non cercarne una».
4.
Ma non temere. Paolo non ha svelato tutto il suo pensiero, né ha
legiferato. Il discorso sul matrimonio ritorna subito, dissipando i
timori e dicendo «Se però ti sposi, non pecchi». Non devi però
scoraggiarti: ti trascina di nuovo alla verginità. Questo è infatti
proprio l’intento delle sue parole, là dove ci fa sapere che chi si
sposa deve sopportare un forte tormento carnale. Come i medici più
valenti e più gentili quando devono somministrare una medicina amara o
fare un taglio o una cauterizzazione o qualcun’altra di queste cose non
fanno tutto insieme ma ad intervalli, e solo dopo avere fatto respirare
un po’ l’ammalato applicano quello che c’è ancora da applicare, allo
stesso modo anche il beato Paolo non intesse nel suo discorso i consigli
sulla verginità tutti insieme, senz’interruzione e continuamente, ma
l’interrompe spesso parlando del matrimonio: nascondendo così la loro
asprezza, rende le sue parole più piacevoli e più accette. Questo è il
motivo per cui il suo discorso è cosí vario.
5.
Vale ora la pena di esaminare le parole «Sei legato ad una donna? Non
cercare di liberartene. Questa è una frase non di chi consiglia il
matrimonio, ma di chi vuol mostrare la natura inesorabile del suo
legame, che non offre scampo. Perché non ha detto «Hai una moglie? Non
la lasciare. Convivi con lei, non allontanarti», ma ha chiamato «legame»
quest’unione? Qui ha voluto mostrare la pesantezza di tale condizione.
Poiché infatti tutti corrono al matrimonio come se si trattasse di una
cosa piacevole, egli fa vedere come gli sposati non differiscano in
nulla da prigionieri legati. Anche nel matrimonio se uno dei due tira
anche l’altro deve seguirlo, e se uno dei due si ribella anche l’altro
deve perire con lui.
Che
cosa accade dunque, se mio marito è portato a cadere in basso ed io
voglio essere continente? Devi seguirlo. La catena che il matrimonio ti
ha messo intorno ti trascina e ti tira tuo malgrado verso colui che fin
dall’inizio è legato assieme a te; se opponi resistenza e cerchi di
romperla, non solo non ti liberi dai suoi legami, ma vai incontro alla
più grave punizione.
XLVIII.
La moglie che pratica la continenza contro il volere del marito sarà
punita più di quest’ultimo, che pure si dà alla fornicazione.
1.
La moglie che intende praticare la continenza contro il volere del
marito non solo si priva dei beni che spettano alla continenza, ma si
rende anche responsabile della sua fornicazione e viene accusata ancora
più di lui. Come mai? Perché, privandolo dell’unione legittima, lo
spinge nel baratro della lussuria. Se non le è permesso di essere
continente neanche per un breve periodo contro il volere del marito,
quale perdono può trovare, quando lo priva costantemente di tale
consolazione? Si potrà dire: «Che cosa c’è di più grave di questa
costrizione e di quest’insolenza?». Anch’io sono d’accordo. Perché
dunque ti ci sei sottoposta? Avresti dovuto fare questo ragionamento non
dopo il matrimonio, ma prima.
2.
Per questo anche Paolo ricorda in un secondo tempo la costrizione
derivante dal legame matrimoniale e passa quindi a parlare dell’assenza
di tale legame. Dopo aver detto «Sei legato ad una donna? Non cercare di
liberartene» aggiunge «Sei libero dal legame con una donna? Non
cercarla». Si comporta così perché tu, una volta esaminata bene e
compresa la forza del giogo, sia più disposto ad accettare il discorso
sul celibato. «Se ti sposi – egli dice – non pecchi; se la vergine si
sposa, non pecca». Ecco dove finisce la grande virtù del matrimonio: nel
non essere accusati, non nell’essere ammirati. L’ammirazione è infatti
una prerogativa della verginità, mentre chi si sposa deve contentarsi di
sentirsi dire che non ha peccato. «Perché dunque – mi si dice – esorti a
non cercare una moglie?». «Perché una volta legati non ci si può più
liberare, perché la cosa comporta molti tormenti». «Dimmi – mi si
ribatte –, l’unico guadagno che ricaviamo dalla verginità è la fuga dai
tormenti di questa vita? E chi potrà sopportare la verginità per questo
premio? Chi oserà impegnarsi in tale gara per prendere solo questa
ricompensa dopo tanti sudori?».
XLIX. Perché Paolo c’indirizza verso la verginità partendo dai piaceri di questa vita.
1.
Che cosa dici? Mentre mi esorti a combattere contro i demoni – «la
nostra lotta non si svolge contro il sangue e la carne» – mentre mi
spingi a resistere alle follie della natura, mentre chiedi a me, fatto
di carne e di sangue, di realizzare la stessa virtù delle potenze
incorporee ricordi solo i beni della terra, e ti limiti a dire che non
avremo i tormenti derivanti dal matrimonio? Perché mai non ha detto «La
vergine, se si sposa, non pecca, ma si priva dei beni della verginità,
dei doni grandi ed ineffabili»? Perché non ha passato in rassegna i beni
riservati alle vergini assieme all’immortalità? Perché non ha ricordato
che esse, prese le lampade per andare incontro allo sposo, entreranno
assieme al re nella camera nuziale coperte di gloria e fiduciose, e cne
risplenderanno più di ogni altro restando vicine a1 suo trono ed agli
appartamenti regali? Di tutto ciò non fa la benché minima menzione,
mentre dal principio alla fine del suo discorso ricorda la liberazione
dai dispiaceri della vita. «Credo — egli dice — che questo sia una cosa
buona». Tralasciando di aggiungere «a causa dei beni futuri», dice
invece «a causa delle necessità presenti». Quindi, dopo aver detto «La
vergine se si sposa non pecca», tace sull’argomento dei doni celesti di
cui si priva, ed aggiunge soltanto «Costoro avranno i tormenti della
carne».
2. Egli mantiene
quest’atteggiamento non solo fino a questo punto, ma fino alla fine. Non
mette avanti la verginità parlando dei beni futuri, ma si rifugia
sempre nello stesso motivo, dicendo «Il tempo è breve». Invece di dire
«Voglio che voi nei cieli brilliate e che siate molto più splendenti
delle persone sposate», si trattiene sulle cose di quaggiù dicendo
«Voglio che non abbiate preoccupazioni». Non si comporta cosí solo qui.
Anche quando parla della sopportazione, batte nei suoi consigli la
stessa strada. Dopo aver detto «Se il tuo nemico ha fame dagli da
mangiare, se ha sete dagli da bere», dopo avere dato un tale ordine,
dopo avere comandato di fare violenza ai bisogni naturali e di
schierarsi in battaglia contro un fuoco cosí insopportabile, dopo avere
evitato di parlare del cielo e dei beni celesti nel suo discorso sui
premi, fa consistere la ricompensa nel danno subito da chi ha commesso
il male: «Facendo cosí. accumulerai dei carboni ardenti sul suo capo».
3.
Perché dunque ricorre a questo tipo di esortazione? Non per errore, o
perché ignori il modo di trascinare e convincere l’ascoltatore, ma
perché possiede più di tutti gli uomini la facoltà di persuadere. E
questo da che cosa risulta? Dalle sue parole. In che modo? Parliamo
innanzitutto di ciò che disse sulla verginità: si rivolgeva ai Corinzi,
presso i quali giudicava opportuno di non dover conoscere nulla oltre a
Cristo crocifisso, ai quali non poteva parlare come avrebbe parlato a
persone spirituali, ai quali dava da bere il latte perché erano ancora
carnali, ed ai quali, quando scriveva, muoveva questi rimproveri: «Vi ho
fatto bere il latte, non vi ho dato un cibo solido. Non eravate in
grado di prenderlo; neanche ora lo siete: siete ancora carnali, e
camminate come gli uomini».
4.
Per questo, quando li esorta alla verginità e cerca di distoglierli dal
matrimonio, prende le mosse dalle cose di questa terra, vale a dire
dalle cose visibili e sensibili. Sapeva bene che, partendo dalle cose
terrene, avrebbe potuto trascinare meglio questi miseri, ancora
attaccati alla terra ed attratti da essa. Perché mai infatti, dimmi,
molti uomini ancora più rozzi e materiali nelle piccole e grandi cose
giurano su Dio e non hanno paura di spergiurare, mentre non sarebbero
mai disposti a giurare sulla testa dei loro figli? Eppure, lo spergiuro e
la punizione sono molto più gravi nel primo che nel secondo caso;
purtuttavia, tali uomini sono trattenuti più dal secondo che dal primo
giuramento.
5. Anche per
quanto riguarda l’aiuto ai poveri, costoro non vengono stimolati tanto
dai discorsi sul regno dei cieli, anche se ripetuti più volte, quanto
dalla speranza in qualcosa di utile per i loro figli e per loro stessi
in questa vita. Diventano zelanti in tali aiuti soprattutto quando
guariscono da una lunga malattia, quando riescono a scampare ad un
pericolo, quando ottengono una carica od una magistratura; per farla
breve, si può constatare che la maggior parte degli uomini viene spinta
dalle cose che si trovano a portata di mano. Queste infatti, proprio
perché si fanno maggiormente sentire data la loro vicinanza, nei momenti
buoni rappresentano il più forte incentivo, mentre in quelli dolorosi
incutono maggiore paura. Per questo Paolo prese le mosse dalle cose più
vicine quando parlò ai Corinzi e cercò di abituare i Romani alla
sopportazione.
6. In effetti
l’anima debole, quando riceve un torto, non si libera tanto facilmente
dal veleno dell’ira, se sente fare dei discorsi sul regno dei cieli e le
vengono offerte delle speranze a lungo termine; questo invece si
verifica, quando attende il momento di vendicarsi dell’offensore. Paolo,
volendo distruggere il rancore alla radice e svuotare l’ira, ricorda
ciò che riesce maggiormente a consolare l’offeso: senza privarlo
dell’onore a lui riservato nella vita futura, per il momento cerca di
farlo incamminare in qualche modo per la strada della filosofia e di
aprirgli la porta della riconciliazione. La cosa più difiicile è
incominciare a realizzare la virtù: dopo quest’inizio, la fatica non è
più tanta.
7. Non si
comporta però cosí nostro Signore Gesù Cristo quando parla della
verginità o della tolleranza. Nel primo caso, ricorda il regno dei
cieli: «Vi sono degli eunuchi — dice — che si sono resi tali per il
regno dei cieli». E quando esorta a pregare per i nemici, non parla del
danno che l’offensore deve ricevere, né ricorda i carboni ardenti:
lascia che tutte queste cose vengano dette alle persone piccole e
meschine, e nelle sue esortazioni prende le mosse da pensieri più
elevati. Di quali si tratta? «Affinché diveniate — dice — simili al
padre vostro che è nei cieli». Guarda quant’è grande il premio. Coloro
che ascoltavano queste parole erano Pietro, Giacomo, Giovanni e la
rimanente schiera degli apostoli: per questo li attirava ricordando i
premi spirituali. Paolo avrebbe fatto lo stesso, se il suo discorso si
fosse rivolto a simili persone. Poiché però parla ai Corinzi, ancora
imperfetti, concede loro subito il frutto delle loro fatiche, affinché
si mettano a praticare la virtù con maggiore impegno.
8.
Per questo anche Dio rinunziò ad annunziare agli Ebrei il regno dei
cieli, ed accordò loro solo i beni terreni. Per le cattive azioni
minacciò non la geenna ma le disgrazie di questa vita, quali la fame, la
pestilenza, le malattie, le guerre, le prigionie ed altre simili. Da
questi mali infatti vengono più trattenuti gli uomini materiali, e
questi mali temono maggiormente, mentre non tengono in nessun conto le
cose che non si vedono e che non sono vicine. Per questo anche Paolo si
dilunga di più sugli argomenti che sono maggiormente in grado di far
presa sulla loro rozzezza. Voleva inoltre mostrare che mentre alcuni
degli altri beni ci caricano di fatiche in questa vita e riservano tutti
i premi alla vita futura, la verginità invece, nel momento in cui viene
realizzata, concede una non piccola ricompensa, liberandoci da tante
fatiche e preoccupazioni. Assieme a questi due scopi egli ne raggiunse
anche un terzo. Quale? Il far ritenere la verginità non impossibile, ma
ben possibile. A tale scopo, egli mostra che il matrimonio procura molte
più difficoltà. È come se dicesse a qualcuno: «La verginità ti sembra
fonte di pene e di fatiche? Io ti dico invece che la devi praticare: è
cosí facile, che ci procura un numero di gran lunga inferiore di
preoccupazioni rispetto al matrimonio». «Proprio perché desidero
risparmiarvi — egli dice — e non voglio che subiate tormenti, preferisco
che non vi sposiate».
9.
«Ma di quali tonnenti si tratta? — mi si potrebbe forse obiettare —. Al
contrario, vediamo che il matrimonio procura un grande rilassamento e
molti piaceri. Innanzitutto, il potere di soddisfare i propri desideri
con tutta tranquillità senza dovere sopportare i violenti assalti della
natura contribuisce non poco alla serenità della vita. In secondo luogo,
il resto della vita non conosce più né abbattimenti né squallore, ed è
pieno di allegria, di risa e di gioia. La tavola è sontuosa, le vesti
sono molli, il letto ancora più molle, i bagni sono continui, i profumi
ed i vini non inferiori ai profumi sono a disposizione, al pari di tante
altre cose dispendiose, di diverso genere: in tal modo essi servono la
carne, procurandole molti piaceri.
L. Il piacere è considerato illegittimo sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
1.
Innanzitutto, queste cose non sono consentite nel matrimonio, che è
solito procurare soltanto la libertà degli accoppiamenti, e non quella
di godere i piaceri. Ne è testimone il beato Paolo quando dice: «La
donna che vive nella dissolutezza è morta». E se si obietta che queste
parole sono state pronunziate a proposito delle vedove, ascolta ciò che
dice alle donne sposate: «Analogamente, le donne devono essere vestite
in modo decente, e adornarsi con ritegno e temperanza, non con trecce,
ori, perle e vesti sfarzose, ma cosí come si addice alle donne che
manifestano la loro religiosità attraverso le buone opere». Non solo in
questo passo, ma anche in altri si può notare la sua grande insistenza
sulla necessità di non ricercare tali cose.
2.
Dice infatti: «Se abbiamo di che nutrirci e coprirci, ci contentiamo.
Chi vuole essere ricco, diviene preda di desideri stolti e dannosi, che
fanno precipitare gli uomini nella rovina e nella perdizione». Ma perché
parlare di Paolo, che pronunziava tali parole all’epoca della somma
filosofia e dell’abbondante grazia dello spirito? Ascolta come il
profeta Amos attacca aspramente coloro che si danno ai piaceri: eppure,
parlava agli Ebrei ancora bambini, in un tempo in cui erano consentiti
il lusso, lo sfarzo e per così dire tutte le cose superflue. Dice: «Guai
a coloro che vanno verso il giorno cattivo, che si avvicinano ai falsi
sabati fino a toccarli, che dormono su letti di avorio, che sono
dissoluti sui loro giacigli, che mangiano i capretti del gregge ed i
vitelli da latte presi dalle mandrie; che battono le mani al suono degli
strumenti, che bevono il vino filtrato e che si ungono con i profuni
più preziosi: pensano che questi beni siano stabili e non caduchi».
LI. Anche se il piacere fosse permesso, i dolori prodotti dal matrimonio basterebbero a distruggerlo.
Come
ho detto, in primo luogo i piaceri non erano consentiti; ma anche se
non fossero stati vietati e se tutto fosse stato permesso, va ricordato
che altri fattori opposti sono causa di tristezza e di dolore; anzi,
sono tanto più numerosi e più forti dei piaceri, che non è possibile
provare questi ultimi neanche un poco: essi si dileguano completamente.
LII. Del grande male rappresentato dalla gelosia.
1.
Dimmi: se un uomo è per natura geloso, o se un pretesto infondato lo fa
divenire preda di questo male, che cosa è più pietoso di quest’anima?
Quale guerra, quale tempesta possiamo paragonare alla sua casa, per
ottenere un’immagine fedele? Tutto gronda di dolori, di sospetti, di
discordia e di confusione. Chi è colpito da tale pazzia non sta meglio
degl’indemoniati o di coloro che sono vittime di una malattia mentale:
continuamente scatta e si slancia, odia tutti e sfoga la sua ira sui
presenti anche se non hanno colpa, si tratti dei servi, dei figli o di
qualsiasi altro. Ogni gioia è scacciata, e tutto è pieno di tristezza,
di dolore e di avversione. Rimanga a casa, vada in piazza o intraprenda
un viaggio, fa sempre nascere questo terribile male, che è peggiore
della morte e che eccita ed irrita la sua anima senza lasciarla mai
tranquilla. In effetti, tale malattia è solita produrre non solo la
tristezza, ma anche un’ira intollerabile. Ciascuno di questi mali è
sufficiente da solo a rovinare la sua vittima; quando però tutti insieme
la cingono d’assedio e la stringono continuamente senza permetterle di
respirare neanche per un breve momento, quante morti sarebbero peggiori?
Neanche l’estrema povertà, neanche una malattia inguaribile, neanche il
fuoco o il ferro possono essere definiti mali uguali: soltanto coloro
che l’hanno sperimentata lo sanno bene. Quando il marito si vede
costretto a sospettare sempre della donna che ama più di ogni altra
persona, e per la quale darebbe volentieri la propria vita, che cosa è
più in grado di consolarlo?
2.
Se deve mangiare e bere, l’uomo geloso pensa che la tavola sia piena di
veleni mortali piuttosto che di vivande; e quando si corica e giace sul
letto, non riesce a stare quieto neanche un momento, ma si agita e si
rivolta come se avesse sotto di sé dei carboni: né la compagnia degli
amici, né il pensiero degli affari, né la paura dei pericoli, né lo
smodato piacere né alcun’altra cosa è in grado di allontanarlo da tale
tempesta, che s’impadronisce della sua anima più di qualsiasi gioia e
dolore. Tenendo presente questo, Salomone disse: «Dura come la morte è
la gelosia», e «l’animo di suo marito è pieno di gelosia; nel giorno del
giudizio non la risparmierà: nessuna ricompensa muterà il suo odio, ed i
molti doni non varranno a dissolverlo».
3.
Cosí forte è la pazzia prodotta da questa malattia, che neanche il
castigo del colpevole riesce ad eliminare il dolore. Spesso molti
mariti, pur avendo ucciso l’adultero, non riescono ad estirpare l’ira e
lo scoraggiamento. Ci sono amche uomini che, dopo avere ucciso le
proprie mogli, si lasciano consumare dal fuoco della gelosia in misura
simile o anche maggiore. Il marito vive in preda a questi mali, anche
quando non c’è nulla di vero; e la moglie misera e sfortunata deve
sopportare dolori ancora più forti di quelli del coniuge. Quando infatti
vede imbestialirsi e diventare nemico più di ogni altro l’uomo che
avrebbe dovuto consolarla da tutti i dolori e da cui avrebbe dovuto
attendersi ogni assistenza, dove potrà più guardare? Dove dovrà fuggire?
Dove potrà trovare la liberazione dai suoi mali, se il porto è coperto e
pieno di un’infinità di scogli?
4.
Allora i servi e le serve la trattano in modo più oltraggioso di suo
marito. Questa razza di persone è sempre infida ed ingrata, ma quando
può prendersi una maggiore libertà e vede padroni in discordia tra loro,
considera tale guerra un ottimo pretesto per oltraggiare. In questi
momenti, possono infatti inventare ed immaginare tutto ciò che piace
loro senza alcun timore, e con le loro calunnie accrescono i sospetti.
L’anima del marito, una volta divenuta preda di tale funesta malattia,
crede volentieri a tutto, ed aprendo le orecchie a tutti
indifferentemente, non riesce a distinguere i calunniatori da coloro che
non lo sono. Anzi, sembrano dire la verità più coloro che accrescono i
sospetti che coloro che cercano di dissiparli.
5.
La moglie deve quindi temere non meno del marito gli schiavi pronti a
fuggire che vivono nella sua casa e le loro mogli, e prendere il loro
posto abbandonando il rango che le è proprio. Quando potrà vivere senza
piangere? In quale notte? In quale giorno? In quale festa? Quando potrà
evitare i sospiri, i lamenti, i gemiti? Continuamente la colpiscono le
minacce, le offese e gli oltraggi sia del marito che ha ricevuto una
ferita inunaginaria sia dei servi miserabili; custodi e spie la
sorvegliano, e tutto è pieno di paura e di tremito. Non solo vengono
sorvegliate le sue entrate e le sue uscite, ma vengono esaminate con
molta attenzione anche le sue parole, i suoi sguardi, i suoi sospiri: in
tal caso, o deve rimanere più immobile di una pietra, sopportare tutto
in silenzio e restare sempre inchiodata alla camera nuziale peggio di un
prigioniero; o, se vuole parlare, lamentarsi ed uscire, deve rendere
conto di tutto a questi giudici corrotti — parlo delle ancelle e della
folla dei domestici.
6. Se
vuoi, in mezzo a tutte queste disgrazie metti pure le ricchezze
indescrivibili, la sontuosità della mensa, le schiere dei servi, lo
splendore della stirpe, la grande potenza, la grande fama, il lustro
degli antenati; non lasciare nessuna delle cose che sembrano rendere
invidiabile questa vita; metti tutto insieme con attenzione, e
raffrontalo con questi tormenti: vedrai che il piacere prodotto da tali
cose non è neanche una parvenza, e si dilegua com’è naturale che si
spenga una scintilla che cade in un vasto mare. Ciò succede quando è il
marito ad essere geloso; quando invece la malattia si trasferisce alla
moglie — e questo accade non di rado — il marito si trova in migliori
condizioni di lei, mentre la maggior parte del dolore si riversa di
nuovo sulla poveretta, che non può fare uso delle stesse armi nei
confronti del marito di cui sospetta. Quale marito potrebbe infatti mai
accettare l’ordine della moglie di rimanere sempre in casa?
7.
Quale servo può d’altra parte avere il coraggio di sorvegliare il
padrone, senza essere subito gettato da un precipizio? La moglie non può
consolarsi con questi mezzi, né dare sfogo alla propria ira con le
parole: il marito può forse sopportare questo suo malumore una o due
volte, ma se lei continua sempre ad accusarlo le insegna subito che è
meglio sopportare tutto in silenzio e consumarsi. Questo accade quando
c’è un semplice sospetto. Quando invece il male è reale, nessuno può
sottrarre la moglie alle mani del marito offeso, che, invocando in suo
soccorso le leggi, conduce in tribunale la persona a lei più cara e la
fa uccidere. Il marito, al contrario, può sfuggire alla pena della
legge, anche se gli è riservata la condanna celeste, quella di Dio. Ciò
non basta però a consolare la misera, che va necessariamente incontro ad
una morte lenta e pietosa, prodotta dagl’incantesimi e dalle pozioni
approntate dalle adultere. Vi sono poi delle adultere che non hanno
bisogno di ricorrere a questi mezzi insidiosi nei confronti delle loro
vittime, perché queste vengono rapite prima dalla morte, data la
veemenza della loro disperazione. Di conseguenza, anche se tutti gli
uomini corrono al matrimonio, le donne non devono inseguirlo. Non
possono dire che la tirannia del desiderio è troppo forte; d’altra
parte, come il nostro discorso ha dimostrato, sono esse a raccogliere il
maggior numero dei mali del matrimonio.
8.
«E che? — mi si obietta —. Questa disgrazia tocca a tutti i
matrimoni?». Essa però non resta lontana da ogni matrimonio, mentre si
tiene ben lontana da ogni persona vergine. La donna sposata, anche se
non ne è vittima, è sempre vittima della paura che essa produce: colei
che intende convivere con un uomo non può non soppesare e temere le cose
brutte collegate con tale convivenza. La vergine, al contrario, resta
esente non solo dalle disgrazie, ma anche dai sospetti. «Questo però non
si verifica in tutti i matrimoni». Neanch’io lo dico; ma anche se non
capita un male, ce ne sono molti altri, e se si sfugge ad uno, non è
possibile sfuggire a tutti quanti: come, nel caso delle spine che si
attaccano alle vesti quando si attraversa una siepe, se ci si volta per
toglierne una si è punti da molte altre, così nella vita matrimoniale
chi sfugge ad un male è trafitto da un altro, e chi ne evita uno
inciampa in un altro; in una parola non si può trovare un matrimonio in
cui manchino completamente i dispiaceri.
LIII. Il matrimonio con una donna ricca non è invidiabile, e provoca più dolori del matrimonio con una donna povera.
Ma,
se vuoi, lasciamo da parte tutti gli aspetti spiacevoli, e prendiamo
ora in esame più da vicino la cosa che nel matrimonio sembra
rappresentare la somma felicità e che spesso molti, anzi tutti si
augurano di ottenere. Di che cosa si tratta? Del prendere in sposa,
quando si è poveri, semplici e modesti, una moglie discendente da una
famiglia importante, potente e molto ricca. Ma questa cosa così
invidiabile si rivela in realtà foriera di disgrazie non minori di
quelle dell’altro matrimonio tanto detestato. Le donne sono una razza
portata più di ogni altra all’alterigia ed alla debolezza, e divengono
più facilmente preda di queste malattie. Quando poi hanno a portata di
mano un gran numero di pretesti per manifestare la loro alterigia, nulla
più le trattiene: come la fiamma che si attacca ad una materia, si
gonfiano in un modo indicibile, e sconvolgono ogni ordine, mettendo
tutto sottosopra. In tal caso infatti la moglie non consente al marito
di rimanere il capo, ma, spinta dalla sua presunzione e demenza, lo
scaccia da questo posto e lo relega in una posizione subordinata, che
invece spetterebbe a lei: così, è lei a diventare il capo. Che cosa c’è
di peggio di quest’anomalia? Non parlo poi dei rimproveri, delle offese,
dei dispiaceri, cose più insopportabili di ogni altra.
LIV. Se si riesce a sottomettere la moglie ricca, i dispiaceri si fanno ancora più grandi.
E
se si dicesse — l’ho sentito dire a molti, quando capita di fare questi
discorsi: «Mi basta che sia molto ricca; per me, non è un problema
sottometterla ed umiliare la sua presunzione»; se si dicesse questo,
innanzitutto si mostrerebbe d’ignorare che si tratta di un’impresa molto
difficile. In secondo luogo, anche se si riuscisse, il danno non
sarebbe lieve. Il fatto che la moglie viene sottomessa al marito con la
costrizione, il timore e la violenza è molto più penoso e doloroso
dell’esercizio di un pieno potere su di lui. Come mai? Perché questa
violenza scaccia ogni amore ed ogni piacere; e quando non c’è né l’amore
né il desiderio amoroso, ed al loro posto subentrano la paura e la
costrizione, che cosa vale più un simile matrimonio?
LV. Sposare un uomo più ricco è un male insopportabile.
Questo
accade quando è la moglie ad essere ricca. Se invece la moglie non ha
nulla mentre il marito è ricco, la moglie, invece di essere sposa,
diventa serva, e da donna libera che era si trasforma in schiava:
perduta la sicurezza propria del suo rango, non si trova in una
situazione migliore di quella degli schiavi comprati; e se il marito
vuol fare lo sregolato o ubriacarsi o portare nel suo letto una folla di
cortigiane, deve o sopportare tutto e fare buon viso, o abbandonare la
casa. E questa non è la sola cosa brutta: quando il marito è così, la
moglie non è in grado di comandare liberamente né i servi né le ancelle;
vivendo come un’estranea, godendo di cose che non le appartengono, e
coabitando con un padrone più che con un marito, è costretta a fare
tutto ed a soffrire. Qualora poi un uomo volesse sposare una donna di
condizione simile alla sua, la legge della sottomissione rovina ogni
uguaglianza, anche se l’entità del patrimonio spinge la moglie a
considerarsi uguale al marito. Che cosa si può fare di fronte a
difficoltà così grandi, che insorgono ad ogni passo? Non citarmi come
esempio i matrimoni — molto pochi e facili a contarsi — che sfuggono a
questi mali: è bene definire le cose non in base alle eccezioni, ma in
base a ciò che capita di regola.
LVI. La donna sposata è costretta a soffrire molti dolori
1.
È ben difficile, anzi è impossibile che questi mali si presentino
durante lo stato verginale, mentre è difficile che non capitino durante
il matrimonio. E se nei matrimoni che sembrano felici insorgono così
forti dispiaceri e così gravi disgrazie, che cosa si dovrebbe dire e a
proposito dei matrimoni che, per comune ammissione, sono fonte di
dolori? È fatale che la donna, anche se deve morire una volta sola, non
tema la morte di una sola persona e che non si preoccupi di un’unica
vita, pur possedendone una sola: grande è la sua trepidazione per il
marito, per i figli, per le loro mogli e per i loro figli, e quanto più
la radice si divide nei vari rami, tanto più si moltiplicano le sue
ansie. Se a qualcuna di queste persone capita o un danno economico o una
malattia fisica o qualche altro male non voluto, essa deve affliggersi e
lamentarsi non meno delle vittime dirette. Quando tutti i congiunti
muoiono prima di lei, il dolore le diventa insopportabile; quando invece
alcuni restano in vita, mentre altri sono rapiti da morti premature,
neanche in questo si può trovare una vera e propria consolazione.
2.
L’ansia per le persone vive che continua a scuotere l’anima non è
inferiore al dolore che prova per i morti ma lo supera, per quanto
strano ciò possa sembrare. Il tempo suole infatti mitigare la tristezza
prodotta dalle morti, mentre le preoccupazioni per i vivi sono destinate
a continuare sempre, e a cessare solo con la morte. Quale vita
conduciamo se, non contentandoci dei nostri dolori, siamo costretti a
piangere sulle disgrazie altrui? Spesso molte donne discendono da
genitori illustri, vengono allevate nei più grandi agi e vengono fatte
sposare ad uomini molto potenti; eppure all’improvviso, prima ancora di
potere assaporare questa felicità, al sopraggiungere di una calamità
simile ad una tempesta o ad una burrasca, vanno a fondo e sperimentano
gli orrori del naufragio; dopo aver goduto di un’infinità di beni prima
del matrimonio, una volta sposatesi piombano nell’estrema disgrazia. «Ma
questo — mi si obietta — non suole accadere in tutti i matrimoni né si
verifica sempre». Ed io torno a ripetere: non si può però neanche dire
che tutti i matrimoni ne siano esenti: da una parte, alcune persone
fanno diretta esperienza di tali disgrazie; dall’altra, quelle che sono
riuscite ad evitare la prova sono angustiate dall’attesa. Ogni vergine,
invece, rimane al di sopra di ogni prova e di ogni attesa.
LVII. Dei dolori che colpiscono ogni matrimonio.
1.
Ma se vuoi lasciamo stare tutto questo ed esaminiamo ora i mali che la
natura assegna al matrimonio ed ai quali nessuno può sfuggire, lo voglia
o no. Quali sono? I dolori del parto, la generazione ed i figli. Ma
riprendiamo il discorso da un punto più alto, e cerchiamo di capire ciò
che avviene prima del matrimonio, per quanto ci è possibile (queste cose
le conosce infatti con esattezza soltanto chi le ha sperimentate). È
giunto il tempo del fidanzamento, e subito preoccupazioni di vario tipo
si affollano nella mente della donna: l’uomo che sta per sposare può
avere dei bassi natali o una cattiva reputazione, o può essere
arrogante, ingannatore, millantatore, insolente, geloso, meschino,
sciocco, malvagio, duro, effeminato. Certo, non è detto che tutti questi
mali debbano colpire tutte le donne che si sposano; ma è fatale che
tutte se ne preoccupino molto. Quando non si conosce ancora l’uomo
assegnato e le speranze sono incerte, l’anima della donna trema piena di
timore di fronte a tutto e pensa a tutti i mali possibili. Chi poi
dicesse che essa potrebbe rallegrarsi pensando ai beni contrari, sappia
che la speranza dei beni non ci consola nella stessa misura in cui ci
addolora il timore dei mali. I beni producono la gioia solo quando
poggiano su speranze sicure, mentre i mali, anche quando vengono
soltanto sospettati, subito scompigliano e sconvolgono l’anima.
2.
Come nel caso degli schiavi l’incertezza sui futuri padroni non dà
tregua alle loro anime, così l’anima delle vergini, per tutto il periodo
del fidanzamento, assomiglia ad una nave sbattuta dalla tempesta. Ogni
giorno i loro genitori accolgono o scacciano i pretendenti; il
pretendente che ieri ha vinto può essere oggi vinto da un altro, il
quale può a sua volta essere scacciato da un altro ancora. Accade anche
che alla vigilia stessa del matrimonio quello che era ritenuto lo sposo
se ne vada a mani vuote, mentre un altro a cui non si pensava affatto
riceve in sposa la ragazza dai genitori. E non solo le donne, ma anche
gli uomini hanno forti preoccupazioni: mentre sul conto degli uomini ci
si può informare, come ci si può informare sul carattere o sull’aspetto
di una donna che rimane sempre chiusa in casa? Questo accade all’epoca
dell’innamoramento. Quando poi si giunge al matrimonio, l’angoscia
cresce e le paure soverchiano le gioie; la sposa teme di sembrare già
dalla prima sera poco attraente e di gran lunga inferiore alle
aspettative del marito. Essa può sopportare un disprezzo successivo, che
subentra all’ammirazione iniziale; ma se, per così dire, suscita
repulsione fin dal punto di partenza, quando potrà mai essere ammirata?
3.
E non dire: «Che cosa succede invece se è bella?». Neanche in questo
caso si libera dalle sue preoccupazioni. Molte donne splendenti nella
loro bellezza fisica non riescono a catturare i loro mariti, che
abbandonano per darsi ad altre inferiori a loro. E anche quando questa
preoccupazione svanisce, ne sopraggiunge un’altra: nuovi dispiaceri
insorgono al pagamento della dote, quando il suocero non la dà
volentieri perché sa di dare un deposito a fondo perduto, e quando lo
sposo, pur essendo ansioso di prenderla, si vede costretto ad essere
cauto nelle sue richieste di riscossione; la sposa si vergogna del
ritardo ed arrossisce di fronte al marito, perché ha un padre che è il
peggiore debitore. Ma ora tralascio tutto questo.
4.
Anche se questa preoccupazione svanisce, subito subentrano la paura
della sterilità e, in aggiunta, quella di una prole molto numerosa; se
nessuna di queste due eventualità è ancora chiara, le spose fin
dall’inizio del matrimonio sono agitate da entrambi i pensieri. Se la
sposa diventa subito incinta, la gioia si mescola alla paura, perché da
quest’ultima nulla nel matrimonio è disgiunto; si teme che il feto
concepito vada distrutto in un aborto, e che la donna incinta corra
l’estremo pericolo. Se invece prima del concepimento intercorre un lungo
periodo di tempo, la donna si perde d’animo, come se il generare
dipendesse da lei. Quando poi giunge il momento del parto, il ventre,
già messo a dura prova per tanto tempo, è colpito e tirato dai dolori,
che da soli bastano ad oscurare tutte le gioie del matrimonio. Oltre a
questo, altri pensieri la turbano. La povera e sfortunata ragazza, pur
essendo torturata da così forti dolori, teme non meno di questi di dare
alla luce un figlio mutilato e storpio in luogo di un figlio integro e
sano, o di avere una femmina invece di un maschio. Quest’angoscia, in
effetti, non tormenta in quel momento le partorienti meno dei dolori del
parto: hanno paura dei mariti non solo nelle cose di cui sono
responsabili, ma anche — e in misura non minore — in quelle in cui sono
esenti da qualsiasi responsabilità. Trascurando la propria sicurezza in
un momento di così grave pericolo, si preoccupano di non far succedere
nulla che sia sgradito al marito. E dopo che il bambino è caduto a terra
ed ha emesso il primo vagito, si affacciano altre preoccupazioni,
quelle relative alla sua incolumità ed al suo allevamento.
5.
Ed anche se il bambino generato ha una buona natura ed è portato alla
virtù, i genitori temono che gli capiti qualcosa di male, che sia
vittima di una morte prematura, che si lasci prendere da qualche vizio.
Non è vero soltanto che da cattivi si può diventare buoni: anche da
buoni si può diventare vili e cattivi. E se si verifica qualcuno di
questi eventi esecrabili, il dolore che ne deriva è più insopportabile
di quello che si sarebbe provato se la stessa cosa fosse avvenuta
all’inizio. Se poi tutte le qualità buone restano salde, la paura di un
cambiamento continua sempre a scuotere l’animo dei genitori e ad
eliminare una buona parte del piacere. «Ma non a tutte le persone
sposate capita di avere figli». Ammetti dunque un altro motivo di
tristezza? Quando gli sposi sono presi da differenti dolori e
preoccupazioni, ci siano o no i figli, o siano essi buoni o cattivi,
come possiamo chiamare piacevole la vita matrimoniale?
6.
Se poi gli sposi vivono d’amore e d’accordo, si affaccia il timore che
la morte venga a recidere il piacere. È più esatto dire che in tal caso
non si ha a che fare con una semplice paura: il male non consiste
soltanto nella sua attesa, ma fatalmente si realizza modo concreto.
Nessuno è stato mai in grado d’indicare due persone sposate che siano
morte entrambe nello stesso giorno: non essendo ciò possibile, resta
solo l’obbligo di sopportare una vita molto più dolorosa della morte, si
sia vissuti insieme per molto tempo o per poco. Chi ha infatti
sperimentato una lunga convivenza, riceve un dolore in proporzione più
grande, giacché la lunga dimestichezza rende insopportabile la
separazione e chi, quando il suo desiderio è ancora veemente, si vede
privato dell’amore che non ha potuto gustare e di cui non ha ancora
potuto saziarsi, piange per questo ancora più dell’altro: per cause
opposte, entrambi sono vittime di uguali dolori.
7.
E perché ricordare le separazioni che nel frattempo si verificano, le
lunghe assenze, le ansie che le accompagnano, e le malattie? «Ma che
cosa ha a che fare questo con il matrimonio?» mi si obietta. Spesso,
molte donne si ammalano soprattutto per colpa sua. Quando sono vittime
di violenza e d’ira, si produce in loro una febbre dovuta ora alla
rabbia, ora allo scoraggiamento. Se invece, quando il marito è presente,
non solo non soffrono nulla di tutto questo, ma godono delle sue
continue gentilezze, quando egli si allontana incappano negli stessi
dolori. Ma anche se lasciassimo andare tutto questo e non muovessimo più
accuse al matrimonio, non potremmo scagionarlo anche di un’altra colpa.
Di quale? Il matrimonio non permette all’uomo sano di stare meglio del
malato, ma lo fa piombare nello stesso scoraggiamento che prova l’uomo
allettato,
LVIII. Il matrimonio, anche se sfugge ad ogni dolore, non ha in sé nulla di grande
Vuoi
che, prescindendo da tutto ciò, supponiamo nel nostro ragionamento
l’impossibile ed ammettiamo l’esistenza di un matrimonio in cui sono
presenti tutti i beni, vale a dire la prole numerosa e buona, la
ricchezza, una moglie saggia, bella ed intelligente, la concordia ed una
lunga vecchiaia? Aggiungiamo pure il lustro della stirpe e la grande
potenza, e supponiamo che un matrimonio simile non venga disturbato dal
timore di un cambiamento, la malattia che è propria della nostra natura;
sia bandito ogni motivo di tristezza, ogni pretesto che possa dar adito
a preoccupazioni ed angustie; nessuna ragione, nessuna morte prematura
sciolga tale matrimonio; tutti e due i coniugi muoiano nello stesso
giorno; oppure — e questa sembra la più grande felicità — i figli
restino gli eredi, ed accompagnino alla tomba i genitori morti dopo una
lunga vecchiaia. Ma qual è la conclusione? Quale guadagno traggono i
coniugi da questo piacere, nel momento in cui partono per l’altra vita?
Il lasciare molti figli, l’avere goduto di una bella moglie, delle
ricchezze e di tutte le altre cose che ho appena enumerato, l’avere
trascorso una lunga vecchiaia, di quale aiuto potranno mai essere di
fronte a quel tribunale, nella sfera delle cose eterne e vere? Di nessun
aiuto. Tutto questo non è forse un’ombra ed un sogno? Che cosa accade
dunque, se mio marito è portato a cadere in basso ed io voglio essere
continente? Devi seguirlo. La catena che il matrimonio ti ha messo
intorno ti trascina e ti tira tuo malgrado verso colui che fin
dall’inizio è legato assieme a te; se opponi resistenza e cerchi di
romperla, non solo non ti liberi dai suoi legami, ma vai incontro alla
più grave punizione.
LIX. La verginità è una cosa facile
La
vergine non è costretta a prendere informazioni sul suo sposo, né teme
d’essere vittima di un inganno. Lo sposo è infatti Dio, non un uomo; e
il Signore, non un compagno di schiavitù: tanto grande è la differenza
tra i due sposi. Esamina anche le condizioni dell’unione. I doni nuziali
offerti a tale fidanzata non sono rappresentati dagli schiavi, dalle
misure di terreno e da un certo numero di talenti d’oro, ma dai cieli e
dai beni celesti. Per di più, la donna sposata teme la morte oltre che
per altri motivi anche perché la separa dal consorte. La vergine,
invece, desidera la morte e considera la vita come un peso, ansiosa
com’è di vedere il suo sposo «faccia a faccia» e di godere della sua
gloria.
LX. La verginità non ha bisogno di nessuna delle cose che non dipendono da noi
1.
Neanche una vita da miseria può danneggiare la vergine, come accade
invece nel matrimonio; anzi, essa rende ancora più gradita allo sposo
colei che la sopporta di buon grado. Lo stesso vale per i bassi natali,
per l’assenza di una bellezza fisica risplendente e per le altre cose
dello stesso genere. Ma perché parlarne? Neanche il non essere libera
nuoce al suo fidanzamento: le basta mostrare un’anima bella e
raggiungere il primo posto. In tale stato, non c’è motivo di temere la
gelosia o di provare una dolorosa invidia nei confronti di un’altra
donna che si è unita ad un uomo più illustre. Nessun uomo è infatti
simile o uguale al suo sposo, nessuno gli si avvicina neanche un po’;
nel matrimonio, invece, la donna sposata, anche se ha un marito molto
ricco e potente, può sempre trovarne un’altra con un marito di
condizione molto più alta.
2.
L’essere superati da persone più importanti non diminuisce in lieve
misura il piacere che si prova quando si superano gl’inferiori. Ma il
grande sfarzo negli ori, nelle vesti, nella tavola e nelle altre
comodità basta da solo ad incantare l’anima e ad attrarla. Ma quante
donne ne godono? La maggior parte uomini vive nella povertà, nelle
ristrettezze e nelle fatiche. Se ci sono donne che possono godere di
tali beni, sono molto poche, e si possono facilmente contare; esse
agiscono però contro il volere di Dio. Come abbiamo mostrato in
precedenza nel nostro discorso, a nessuno è consentito vivere in questi
piaceri.
LXI. Il portare addosso gli ori produce più paura che piacere
Ma
supponiamo pure nel nostro ragionamento che questo lusso sia permesso, e
che né il profeta né Paolo si dichiarino contrari alle donne che amano
troppo lo sfarzo. Ma di quale utilità sono i molti ori? Non producono
altro che invidie, preoccupazioni e timori non indifferenti. Le donne
che li possiedono si agitano non solo quando li ripongono nello scrigno
al sopraggiungere della notte, ma anche quando li indossano: quando è
giorno, provano la stessa ansia, o piuttosto un’ansia ancora più forte,
giacché i bagni e le chiese sono frequentate da donne che li rubano. Ma
anche non tenendo conto di queste ultime, accade spesso che le donne che
portano gli ori, spinte e premute dalla folla, non si accorgono che
qualche oggetto d’oro è caduto. Così pure, molte perdono non solo questi
ori, ma collane di valore ancora maggiore, fatte di pietre preziose
che, strappate, finiscono con il cadere. Ma ammettiamo pure che non
sussista neanche questa paura, e che tale preoccupazione venga bandita.
LXII. Il portare addosso gli ori nuoce alla bellezza e mette in risalto la bruttezza
1.
Si dice: «Altri vedono ed ammirano». Ammirano però non la donna che
indossa gli ori, ma gli oggetti indossati, e spesso la disprezzano per
colpa loro, come se se ne fosse adornata senza esserne degna. Se infatti
la donna è bella, gli ori danneggiano la bellezza naturale, perché i
molti ornamenti non le permettono di mostrarsi così com’è, e ne
eliminano la maggior parte; se invece è brutta e di aspetto sgradevole,
essi la fanno apparire ancora più repellente: la bruttezza, quando
appare da sola, si rivela unicamente per quello che è; ma quando si
riveste di pietre risplendenti e di altri materiali belli, il suo
aspetto sgradevole risalta ancora di più.
2.
Il colore nero di un corpo è fatto risaltare maggiormente dalla luce di
una perla posta su di esso, che risplende come nell’oscurità; allo
stesso modo, gli ornamenti delle vesti, non permettendo all’impressione
visiva di affrontare da sola il giudizio degli spettatori, peggiorano la
deformità dell’aspetto: di fronte a quella bellezza artificiale e
straordinaria, la sconfitta diviene ancora più netta. L’oro disseminato
sulle vesti, la varietà dei lavori eseguiti in questo campo, e tutti gli
altri ornamenti – al pari di un atleta valente, in buone condizioni e
vigoroso, che respinge un avversario coperto di scabbia, brutto ed
affamato – annullano lo splendore del viso di colei che l’indossa ed
attirano su di sé l’attenzione degli spettatori: di conseguenza, mentre
la donna viene derisa, essi vengono ammirati oltre misura.
LXIII. Quali sono gli ornamenti e qual è la bellezza della verginità
1.
Gli ornamenti della verginità non sono però di tale natura. Non
danneggiano colei che l’indossa, giacché non sono corporei, ma
appartengono interamente all’anima. Per questo, anche se la vergine è
brutta, subito ne trasformano la bruttezza, rivestendola di una bellezza
straordinaria; se invece essa è bella e risplendente, ne accrescono lo
splendore. Le anime delle vergini non sono infatti adornate dalle
pietre, dagli ori, dalle vesti sfarzose, dai vari e ricchi ricami
colorati, o da qualcun’altra di queste cose caduche, ma, in loro vece,
dai digiuni, dalle veglie sacre, dalla mitezza, dalla bontà, dalla
povertà, dal coraggio, dall’umiltà, dalla perseveranza – in una parola,
dal disprezzo di tutte le cose della vita presente.
2.
L’occhio della vergine è così bello ed incantevole che fa innamorare,
in luogo degli uomini, le potenze incorporee ed il loro padrone; è così
puro e limpido, che è in grado di vedere in luogo delle bellezze
corporee quelle incorporee, e così mite e tranquillo che non si adira
mai e non si rivolta neppure contro chi le fa del male e le procura
continuamente dei dolori; al contrario, guarda costoro in modo dolce e
soave. Tale modestia la riveste, che anche gl’intemperanti, guardandola
bene, si vergognano, arrossiscono e mitigano la propria follia. Come
l’ancella che serve una padrona modesta deve assumere anch’essa questo
carattere anche se non lo vuole, così anche la carne della persona che
pratica tale filosofia deve uniformarsi ai suoi movimenti ed impulsi. Lo
sguardo, la lingua, l’aspetto, l’andatura ed in una parola tutto
ricevono un’impronta dall’ordine interiore. Come un profumo prezioso,
anche se è racchiuso in un vaso, impregna l’aria della propria fragranza
ed inebria non solo quelli che si trovano in casa o che sono vicini, ma
anche quelli che sono fuori; allo stesso modo la fragranza dell’anima
della vergine, diffondendosi nei sensi, rivela la virtù interiore, mette
a tutti i cavalli le auree redini dell’ordine ed assicura il perfetto
ritmo di ciascuno di loro; non permette alla lingua di pronunziare
nessuna parola stonata e disarmonica, né all’occhio di guardare senza
pudore e con sospetto, né all’orecchio di ascoltare qualche canto
sconveniente. La vergine bada anche ai piedi, in modo da avere non
un’andatura disordinata e molle, ma un passo privo di affettazione e di
ricercatezza. Eliminato ogni ornamento dalle vesti, raccomanda
continuamente al volto di non distendersi nelle risa, di non sorridere
neanche di nascosto, di mostrare al contrario sempre una fronte
vereconda e seria, e di essere sempre pronto al pianto e mai al riso.
LXIV. Ciò che soffriamo per Cristo, anche se è fastidioso, è fonte di piacere
Quando
senti parlare di pianto, non nutrire dei cupi sospetti: queste lacrime
procurano un piacere che neanche il riso di questo mondo riesce a
procurare. Se non ci credi, ascolta le parole di Luca: «Frustati, gli
apostoli si ritirarono dal cospetto del sinedrio pieni di gioia».
Eppure, non è questa la natura della frusta: di solito, essa non procura
né piacere né gioia, ma dolore e sofferenza. Ma se la natura della
frusta non riesce a procurare gioia, la fede in Cristo è invece così
forte, che domina la natura delle cose. Se è vero che le fruste
producono piacere a causa di Cristo, perché ti meravigli, quando le
lacrime producono lo stesso effetto, sempre a causa di Cristo? Per
questo Egli chiama «giogo soave e carico leggero» quella che prima aveva
chiamato «strada stretta e piena di tormenti». Per sua natura, la cosa è
dolorosa ma diventa leggera grazie alla scelta compiuta da chi realizza
la virtù ed alla buona speranza. Per questo è possibile vedere che chi
ha scelto la strada stretta e piena di tormenti in luogo di quella larga
e pianeggiante vi cammina con maggiore impegno, non perché non venga
tormentato, ma perché è superiore ai tormenti e non ne risente, com’è
invece naturale che risentano gli altri. Anche la vita verginale ha i
suoi tormenti; ma quando li paragoniamo a quelli del matrimonio, non
possiamo più dare loro questo appellativo.
LXV. Tutte le fatiche richieste dalla verginità non equivalgono ai soli dolori del parto, conseguenza del matrimonio
Dimmi:
la vergine, in tutta la sua vita, sopporta forse quello che si può dire
ogni anno deve sopportare la donna sposata, vittima dei dolori e dei
gemiti causati dal parto? Così forte è la tirannia di questo dolore, che
anche la Scrittura divina, quando vuole alludere alla prigionia, alla
fame, alla pestilenza ed ai mali più insopportabili, chiama tutto questo
«dolori del parto». Anche Dio li ha imposti alla donna come un castigo
ed una maledizione: non parlo della generazione pura e semplice, ma
della generazione in queste condizioni, di quella cioè accompagnata da
fatiche e da dolori. «Nei dolori – è detto infatti – genererai i tuoi
figli». La vergine, invece, si trova al di sopra di questi dolori e di
questa maledizione. Chi ha abolito la maledizione della legge, assieme
ad essa ha abolito anche quest’altra maledizione.
LXVI. È più piacevole camminare che lasciarsi portare in giro dai muli
1.
«Ma è piacevole farsi portare in giro dai muli per la piazza». Si
tratta soltanto di un lusso inutile, privo di qualsiasi piacere. Come la
tenebra non è migliore della luce, come l’essere rinchiusi non è
preferibile all’essere liberi, come l’aver bisogno di molte cose non si
può anteporre al non aver bisogno di niente, così non si trova meglio
neanche colei che non usa i propri piedi. Tralascio tutti i fastidi che
quest’abitudine costringe a sopportare. Questa donna non può uscire da
casa quando vuole, ma spesso è costretta a rimanervi, anche se una
ragione seria la spinge ad andar fuori: si trova nello stesso stato dei
mendicanti che, avendo i piedi mutilati, non hanno modo di spostarsi. Se
per caso il marito tiene impegnati i muli, ecco affacciarsi i meschini
egoismi, le liti, i lunghi silenzi; se invece è lei ad agire così senza
pensare alle conseguenze, finisce con il rivolgere la propria rabbia
contro se stessa per aver trascurato il marito, e con l’essere
continuamente rosa dal rimorso prodotto dalla sua insolenza. Come
sarebbe stato meglio per lei se avesse usato i piedi – per questo Dio ce
li ha fatti – evitando tutti questi fastidi, piuttosto che esporsi
agl’inevitabili effetti di così forti crucci ed egoismi per amore della
comodità! Non sono però solo questi i motivi che la trattengono in casa:
accade la stessa cosa se i muli hanno male ai piedi – si tratti di uno
solo di essi o di tutti e due. Anche quando vengono condotti al pascolo –
e questo capita ogni anno e per più giorni – è costretta a rimanere a
casa come una prigioniera: non può uscire neanche se la chiama fuori un
bisogno impellente.
2. Chi
poi dicesse che in tal modo essa evita gl’incontri con la folla e non è
costretta a subire gli sguardi di ogni suo conoscente e ad arrossire,
mostra d’ignorare totalmente ciò che difende la natura femminile e ciò
che invece la ricopre di vergogna. A queste due cose sono estranee sia
il mostrarsi che il nascondersi, giacché il secondo effetto è prodotto
dalla sfacciataggine interiore che non è in grado di tenere a freno
l’anima, mentre il primo è prodotto dalla saggezza e dal pudore. Per
questo molte donne che pure non conoscono la prigionia di cui si è
parlato e che camminano in piazza in mezzo alla folla non solo non si
attirano il biasimo dei detrattori, ma grazie alla loro saggezza
finiscono con l’avere molti ammiratori: attraverso il loro aspetto, il
loro incedere, le loro vesti poco ricercate, fanno trapelare il raggio
risplendente della loro compostezza interiore. Al contrario, non poche
di quelle che se ne stanno sedute in casa si fanno una cattiva fama. La
donna che rimane chiusa, più di quella che appare in pubblico, può
infatti mostrarsi a chi vuole vederla in tutta la sua sfacciataggine e
sfrontatezza.
LXVII. È fastidioso avere molte serve
«Ma
forse il gran numero di ancelle fa piacere». Questo è il piacere
peggiore, giacché comporta un numero di preoccupazioni uguale a quello
delle serve: quando una di loro si ammala e muore, l’agitazione e lo
scoraggiamento sono inevitabili. Ma forse sono sopportabili questi
inconvenienti ed altri ancora, come ad esempio il darsi ogni giorno da
fare per reprimere la pigrizia, eliminare le frodi, far cessare ogni
forma d’inciviltà, correggere tutti gli altri vizi. Ma la cosa più
brutta – suole capitare specialmente nel caso in cui le serve sono molte
– si verifica quando nella loro schiera se ne trova una bella. È
inevitabile che questo si verifichi quando se ne ha un gran numero,
giacché i ricchi vogliono che le ancelle di loro proprietà siano non
solo numerose, ma anche belle. Quando una di loro risplende tra le
altre, sia che catturi il padrone con un incantesimo, sia che non riesca
a produrre nulla in più di un’ammirazione nei propri riguardi, la
padrona si addolora ugualmente, vedendosi superata, se non sul piano
dell’amore, per lo meno su quello della bellezza fisica e
dell’ammirazione. Quando le cose che nel matrimonio sembrano splendide
ed invidiabili comportano tanti tormenti, che cosa si può dire a
proposito di quelle dolorose?
LXVIII. Della tranquillità offerta dalla verginità
1.
La vergine, al contrario, non sopporta nulla di tutto ciò. La sua
modesta casa non conosce agitazione, ogni grido è bandito da essa: come
in un porto calmo il silenzio domina su tutto ciò che vi si trova
dentro. Un’altra tranquillità, superiore allo stesso silenzio, permea
poi la sua anima, giacché essa non ha a che fare con nessuna cosa umana,
ma discorre continuamente con Dio e tiene sempre fisso il suo sguardo
su di Lui. Chi potrebbe misurare questo piacere? Quale discorso sarebbe
mai in grado di esprimere la gioia dell’anima che si trova in questo
stato? Nessuno. Coloro che gioiscono del Signore sono i soli a conoscere
la grandezza di tale gioia e a rendersi conto di come essa superi di
gran lunga ogni possibile raffronto.
2.
«Ma la vista di una gran quantità d’argento procura sempre un gran
piacere agli occhi». Quant’è meglio invece guardare il cielo e
raccogliere da esso un piacere molto più grande! Come l’oro è molto più
risplendente e luccicante dello stagno e del piombo, così lo è il cielo
rispetto all’oro, all’argento e ad ogni altra materia. E mentre la
contemplazione del cielo non causa preoccupazioni, l’altra
contemplazione è legata a molte ansie, che guastano sempre i nostri
desideri. Non vuoi guardare il cielo? Almeno, potresti guardare
l’argento esposto in piazza. Come dice il beato Paolo, «vi parlo per
farvi vergognare», giacché vi mostrate così sensibili all’amore per le
ricchezze. Non so che cosa dire. A tal proposito, mi prende un grande
imbarazzo: non riesco a capire come mai quasi tutto il genere umano non
consideri fonte di piacere la possibilità di un godimento facile e
rilassato, e provi al contrario piacere soprattutto nelle
preoccupazioni, nelle tensioni e nelle inquietudini.
3.
Come mai l’argento esposto in piazza non li rallegra come quello che si
trova in casa? Eppure il primo è più risplendente e lascia l’anima
libera da ogni inquietudine. «Perché – si risponde – il primo non è mio,
mentre il secondo lo è». Ciò che produce il piacere è dunque la
cupidigia, non la natura dell’argento: se così fosse, anche l’argento
esposto in piazza dovrebbe procurare un piacere simile. Se poi tu
volessi richiamarti all’uso, allora ti farei notare che il vetro è molto
migliore: potrebbero dirtelo gli stessi ricchi, che fanno fabbricare
per lo più i loro bicchieri con quest’altro materiale. Se poi il loro
orgoglio li costringe a far fare anche dei bicchieri d’argento, fanno
prima mettere dentro il vetro, e poi fanno rivestire d’argento la parte
esterna, mostrando in tal modo che, quando si beve, il vetro è più
gradevole e più adatto, mentre l’argento serve solo all’orgoglio ed alla
millanteria. E che cosa significa la frase «Mio e non mio»? Se
l’esamino bene, vedo che si tratta solo di semplici parole.
4.
Molti durante la loro vita non riescono ad impedire che l’argento
sfugga loro di mano. Chi riesce a conservarlo fino alla fine, al momento
della morte non ne è più padrone, lo voglia o no. Si può constatare che
non solo nel caso dell’argento e dell’oro, ma anche nel caso dei bagni,
dei giardini e di tutto ciò che riguarda la casa l’idea del «mio e non
mio» non è che una semplice parola. Mentre tutti possono usare gli
oggetti preziosi, i loro presenti proprietari hanno in più di chi non li
possiede soltanto le preoccupazioni che essi producono. Gli uni si
limitano a goderseli; gli altri, pur preoccupandosi tanto, raccolgono
gli stessi frutti che i primi raccolgono senza darsi alcuna pena.
LXIX. Le mense sontuose sono fonti di molti disturbi
1.
Chi poi ammira il gran lusso della tavola, di cui sono prova la
moltitudine delle carni tagliate, i vini troppo dispendiosi, i
manicaretti ricercati, le arti dei camerieri, dei pasticcieri e dei
cuochi, e la folla dei parassiti e dei convitati, sappia che i ricchi,
in tali circostanze, non stanno meglio dei loro cuochi. Come infatti
questi ultimi hanno paura dei loro padroni, così essi hanno paura
degl’invitati, nel timore che qualcuno di essi critichi le cose che sono
state preparate per loro con tanta fatica e tante spese. In questo i
padroni sono uguali ai servi; sotto un altro punto di vista, però, i
servi si trovano avvantaggiati rispetto a loro: i padroni devono infatti
temere non solo i critici, ma anche gl’invidiosi. Da tali banchetti
nascono spesso delle invidie che cessano solo dopo aver fatto correre i
pericoli più gravi. «Ma il potersi cibare spesso di molte cose è
piacevole». Per carità!
2.
Quale piacere possiamo mai provare, quando da questi lussi spuntano il
mal di testa, le dilatazioni del ventre, le depressioni psichiche, i
capogiri, le vertigini, gli annebbiamenti della vista ed altri disturbi
ancora più strani? Sarebbe augurabile che i danni prodotti da queste
sregolatezze si fermassero ai disturbi di un solo giorno. Invece,
proprio da tali mense si originano per lo più le malattie più
incurabili: la gotta, la tisi, l’epilessia, la paralisi, le convulsioni,
assediano il corpo fino all’ultimo respiro. Potremmo indicare un
piacere capace di controbilanciare questi mali? E quale regime austero
non saremmo disposti a seguire, pur di liberarci da essi?
LXX. La semplicità è più utile e più piacevole del lusso
1.
La semplicità, invece, è ben diversa: estranea a tutti questi
inconvenienti, produce solo salute e benessere. Che essa è preferibile
al lusso, lo puoi constatare tu stesso: innanzitutto, resti sano e non
sei disturbato da quelle malattie, ciascuna delle quali basta da sola a
spegnere e a distruggere le fondamenta di ogni piacere; in secondo
luogo, puoi gustare meglio gli stessi cibi. Come mai? Perché il piacere è
prodotto dal desiderio, e a sua volta il desiderio è prodotto non dalla
sazietà e dalla pienezza, ma dal bisogno e dall’indigenza. Queste due
cose non si trovano mai nei banchetti dei ricchi, mentre compaiono
sempre nei pasti dei poveri: meglio di qualsiasi cameriere e cuoco,
fanno gocciolare in abbondanza il miele sui cibi messi sulla tavola. I
ricchi mangiano senza aver fame, bevono senza aver sete, e si mettono a
dormire prima che sopravvenga un forte bisogno di sonno. I poveri,
invece, prima devono aver bisogno di tutte le varie cose, e solo
successivamente le possono gustare: è proprio questo, più di ogni altra
cosa, ad accrescere il piacere.
2.
Perché mai, dimmi, Salomone chiama dolce il sonno del servo, dicendo:
«Dolce è il sonno per il servo, sia che mangi molto sia che mangi poco»?
Forse perché il suo letto è molle? Ma per lo più dormono su di un
pavimento o su di un pagliericcio. Forse per la libertà di cui godono?
Ma non possono disporre neanche di un istante. Forse per la loro vita
facile? Non c’è un momento in cui non siano battuti dalle pene e dalle
miserie. Che cosa rende allora dolce il loro sonno? Le fatiche, ed il
poter prendere sonno solo dopo averne sentito il bisogno. I ricchi
invece, se la notte non li sorprende immersi nell’ubriachezza, sono
condannati a rimanere sempre svegli, e a rivoltarsi e ad agitarsi sui
loro molli letti.
LXXI. Il lusso guasta anche l’anima
Si
potrebbe fare anche un’altra descrizione dei fastidi, dei danni e
dell’indecenza del lusso, enumerando le malattie che imprime sull’anima,
di gran lunga più numerose e pericolose di quelle corporee. Esso, in
effetti, rende molli, deboli, insolenti, millantatori, lascivi,
violenti, intemperanti, irascibili, crudeli, ignobili, cupidi, servili,
inetti in quasi tutte le cose utili e necessarie; tutti gli effetti
opposti sono invece prodotti dalla frugalità. Ma ora dobbiamo passare ad
un altro argomento: fatta questa semplice aggiunta, ritorniamo alle
parole dell’apostolo. Se le cose che sembrano invidiabili sono così
piene di mali e fanno cadere sull’anima e sul corpo una così fitta
pioggia di malattie, come possiamo parlare delle cose dolorose? Mi
riferisco alla paura dei magistrati, ai movimenti popolari, alle insidie
dei delatori e degl’invidiosi, mali tutti che assediano soprattutto i
ricchi e che anche le donne sono destinate a sperimentare in maggior
misura, data la loro incapacità di sopportare virilmente le relative
vicissitudini.
LXXII. Il lusso, oltre a causare gli altri mali di cui si è parlato, rende intollerabili le vicissitudini della vita
Ma
perché parlare delle donne? Anche gli uomini diventano infatti infelice
preda di tali vicissitudini. Chi vive nella semplicità non teme i
cambiamenti; chi invece si consuma nella vita molle e dissoluta, se per
caso o per fatalità piomba nell’indigenza, muore prima ancora di poter
sopportare tale cambiamento, non essendovi né abituato né preparato. Per
questo il beato Paolo dice «Costoro soffriranno i tormenti della carne;
io cerco di risparmiarvi», ed aggiunge subito dopo «Il tempo che resta è
breve».
LXXIII. Il momento presente non si addice al matrimonio
1.
«Ma cos’ha a che fare tutto questo con il matrimonio?» qualcuno
potrebbe forse chiedere. Ha molto a che fare. Se infatti il matrimonio è
richiuso nella vita presente, mentre in quella futura gli uomini «né
sposano né vengono sposati»; se il tempo presente volge al termine e la
resurrezione è alle porte, questo non è il momento dei matrimoni e dei
beni materiali, ma dell’indigenza e di tutta quella rimanente saggezza
che ci può giovare nell’al di là. La vergine, finché resta a casa con la
madre, si dà molto pensiero dei suoi giuochi infantili; una volta messo
lo scrigno nella sua stanza, tiene con sè la chiave che racchiude tutti
i giocattoli che vi sono riposti, e ne può disporre pienamente: si
preoccupa di custodire quei piccoli e stupidi oggetti nella stessa
misura in cui i sovrintendenti delle grandi case si preoccupano di
amministrarle. Quando però si fidanza ed il momento delle nozze la
costringe a lasciare la casa paterna, allora, staccatasi da quei vili ed
umili balocchi, non può non pensare al governo della casa, al gran
numero dei beni e degli schiavi, alla cura del marito, ed a tutte le
altre incombenze più gravi ancora di queste, che pure sono numerose.
Così dobbiamo fare anche noi: quando siamo condotti alla vita perfetta,
degna degli uomini adulti, dobbiamo lasciare tutte le cose di questa
terra – veri e propri giocattoli infantili – e pensare al cielo, ed allo
splendore e alla gloria della vita celeste.
2.
In effetti, siamo uniti ad uno sposo che esige di essere amato da noi a
tal punto, che non dobbiamo esitare a separarci per amor suo non solo
dalle cose di questa terra, piccola e di scarso valore, ma anche dalla
vita stessa, qualora fosse necessario. Poiché dunque dobbiamo passare
all’altra vita, stacchiamoci dai pensieri meschini. Se dovessimo
lasciare una povera casa per trasferirci in una reggia, non penseremmo
agli oggetti d’argilla, ai mobili, ed alle altre povere suppellettili
domestiche. Neanche ora dobbiamo quindi preoccuparci delle cose terrene;
il momento presente ci chiama ormai in cielo, come dice Paolo scrivendo
ai Romani: «La salvezza è adesso più vicina di quanto non lo fosse nel
momento in cui ricevemmo la fede: la notte è avanzata, il giorno è
prossimo». Altrove dice: «Il tempo che ci resta qui è breve: chi ha la
moglie si comporti come se non l’avesse «.
3.
Perché dunque dovrebbero aver bisogno del matrimonio coloro che non ne
usufruiranno più e che si troveranno nelle stesse condizioni di chi non è
sposato? E perché dovrebbero pensare alle ricchezze, ai beni, alle cose
della vita materiale, se il loro io è ormai fuori stagione ed
inopportuno? Se chi è in procinto di presentarsi ad un tribunale terreno
per rendere conto dei suoi misfatti, quando il giorno fatidico si
avvicina non pensa più non solo alla moglie ma neppure a mangiare ed a
bere e concentra il proprio pensiero unicamente sulla propria difesa, a
maggior ragione noi, quando siamo sul punto di presentarci non ad un
tribunale terreno, ma alla tribuna celeste per rendere conto delle
nostre parole, delle nostre azioni e dei nostri pensieri, dobbiamo
staccarci da tutte le gioie e da tutti i dolori relativi alle cose
presenti e preoccuparci solo di quel terribile giorno. «Chi viene da me –
dice il Signore – ma non è capace di odiare il padre, la madre, la
moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e la propria anima, non può
essere mio discepolo. E non può essere mio discepolo neanche chi non
carica su di sè la propria croce e non mi segue».
4.
E tu continui a perdere il tuo tempo desiderando tua moglie e pensando
alle risa, alla dissolutezza ed al lusso? «Il Signore è vicino». Tu ti
preoccupi e ti assilli per le ricchezze? «Il regno dei cieli è
prossimo». Tu badi alla casa, al lusso ed agli altri piaceri? «Passa
l’aspetto di questo mondo». Perché allora ti tormenti per le cose di
quaggiù che non rimangono ma si consumano, e trascuri invece quelle che
restano e sono durature? Non ci saranno più né matrimoni, né parti, né
piaceri, né accoppiamenti, né ricchezze abbondanti, né cure dei beni
materiali, né nutrimenti, né vesti, né coltivazioni, né viaggi per mare,
né arti, né costruzioni, né città, né case: ci saranno invece un’altra
condizione ed un altro modo di vivere. Tutte le cose di quaggiù
scompariranno tra breve. Questo significa la frase: «Passa l’aspetto di
questo mondo». Perché dunque mostriamo tanto zelo nel preoccuparci di
cose da cui spesso ci separiamo prima di sera, come se dovessimo
rimanere quaggiù per tutta l’eternità? Perché scegliamo questa vita
penosa, mentre Cristo ci chiama a una vita tranquilla? «Voglio – dice
infatti l’apostolo – che non abbiate preoccupazioni. Chi non è sposato
pensa alle cose del Signore».
LXXIV. Come mai Paolo, pur volendoci liberi da ansie, ci comanda di preoccuparci
1.
Come puoi allora volerci liberi da ansie, se poi ci getti in un’altra
preoccupazione? Perché questa non è una vera preoccupazione, così come
il provare tormenti per amore di Cristo non è un vero tormento: non
perché la natura delle cose cambi, ma perché la volontà di chi sopporta
con gioia questi dolori riesce a dominare anche la natura. È giusto dire
che prova ansie chi si preoccupa di cose di cui non potrà godere a
lungo, e spesso neanche per poco tempo; ma è anche del tutto logico
mettere nella schiera di coloro che se ne restano tranquilli chi dalle
proprie preoccupazioni raccoglie dei frutti maggiori. Ma a parte questo,
la differenza tra la prima e la seconda preoccupazione è così grande,
che la seconda, paragonata alla prima, non può più essere ritenuta tale:
tanto più leggera e sopportabile è rispetto all’altra. Tutto questo
l’abbiamo dimostrato nel nostro discorso precedente. «L’uomo celibe si
preoccupa delle cose del Signore, l’uomo sposato di quelle del mondo»;
ma quest’ultimo passa, mentre il Signore resta.
2.
Non basta forse questo a dimostrare il valore della verginità? La
differenza che c’è tra Dio ed il mondo corrisponde alla superiorità
della seconda preoccupazione rispetto alla prima. Come puoi dunque
permettere il matrimonio, se esso c’inchioda alle preoccupazioni e ci
allontana dalle cose dello spirito? «Per questo – risponde l’apostolo –
ho detto «chi ha la moglie si comporti come se non l’avesse»; chi è già
legato o sta per legarsi renda più lento questo legame in un altro
modo». Giacché non puoi romperlo una volta che te ne sei cinto, rendilo
almeno più sopportabile. Se vogliamo, possiamo eliminare tutte le cose
superflue ed evitare di aggiungere alle preoccupazioni insite nella
natura del matrimonio altre maggiori, prodotte dalla nostra indolenza.
LXXV. Com’è possibile non avere la moglie pur avendola
1.
Chi poi volesse sapere con maggiore chiarezza che cosa significa la
frase «Non avere la moglie pur avendola», pensi allo stato in cui si
trovano i «crocifissi» che non l’hanno. Qual à la loro condizione? Non
sono costretti a comprare un gran numero di ancelle, di oggetti d’oro e
di collane, case splendide e grandi, e tante misure di terreno: lasciate
tutte queste cose, si preoccupano di un’unica veste e del nutrimento.
Si può giungere a praticare questa filosofia anche se si ha una moglie.
Le parole dette prima «Non negatevi l’uno all’altro» riguardano solo
l’unione carnale: in questo caso specifico l’apostolo prescrive che
l’uno deve seguire l’altro, e non lascia nessuno dei due sposi padrone
di sè; ma quando si tratta della pratica della filosofia riguardante le
vesti, il modo di vita e tutte le altre cose, i coniugi non sono più
soggetti l’uno all’altro. I mariti possono, anche se le mogli non
vogliono, eliminare ogni lusso e scacciare la folla delle preoccupazioni
che li sommerge; ed analogamente le mogli, da parte loro, se non
vogliono non possono essere costrette a truccarsi, ad essere
vanagloriose ed a preoccuparsi delle cose superflue. È giusto che sia
così. Il desiderio carnale è infatti naturale: per questo è degno di
molta commiserazione, e per questo nessuno dei due sposi può negarsi
all’altro contro la sua volontà. Al contrario, il desiderio del lusso,
della servitù superflua, delle preoccupazioni inutili non proviene dalla
natura, ma nasce dall’indolenza e dalla grande tracotanza. Per questo
l’apostolo non costringe le persone sposate ad essere soggette l’una
all’altra in tali casi, come avviene invece nell’altro.
2.
Non abbiamo la moglie pur avendola quando non diamo ascolto ai pensieri
superflui delle donne, dettati dalla loro leziosità e dalla loro
mollezza, e quando ci limitiamo ad accogliere solo quella preoccupazione
aggiuntiva che riguarda l’anima della donna che ci è stata affidata e
che ha scelto una vita basata sulla saggezza e la semplicità. Che
intende dire proprio questo, l’apostolo lo mostra nelle parole seguenti:
«Chi piange si comporti come chi non piange, chi gioisce dei beni come
chi non gioisce». Chi non gioisce non si preoccupa dei beni, e chi non
piange non sopporta a malincuore la povertà né respinge la frugalità.
Questo significa «non avere la moglie pur avendola», questo significa
fare uso del mondo senza abusarne.
3.
«Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo». Se dunque in
entrambi i casi ci sono le preoccupazioni – nel primo però sono vane ed
inutili, anzi dolorose, giacché, come dice l’apostolo, «costoro
soffriranno i tormenti nella carne», mentre nel secondo producono dei
beni ineffabili – perché non scegliamo questo secondo tipo di ansie, che
non solo ci procurano così belle e numerose ricompense, ma sono anche
meno forti delle altre? A che cosa pensa la donna non sposata? Forse
alle ricchezze, ai servi, agli amministratori, ai terreni ed al resto?
Deve forse sorvegliare i cuochi, i tessitori e la rimanente servitù? Per
carità! Non pensa a nulla di tutto ciò ma soltanto ad edificare la
propria anima e ad adornare il suo santo tempio non con trecce, ori o
perle, non con cosmetici e belletti, non con altre cose fastidiose e
misere, ma con la santità di corpo e di spirito.
4.
«La donna sposata – dice Paolo – si preoccupa invece di piacere al
marito». Sagace com’è, non si mette ad esaminare i particolari, e non
ricorda le sofferenze fisiche e psichiche a cui vanno incontro le mogli
per piacere ai mariti – il loro corpo è torturato, imbellettato e
tormentato con altre punizioni, mentre la loro anima è riempita di
bassezze, adulazioni, ipocrisie, meschinità e pensieri superflui ed
inutili. Alludendo a tutto ciò con una sola parola, lascia riflettere
sull’argomento la coscienza degli ascoltatori; e dopo aver mostrato in
tal modo l’eccellenza della verginità ed averla sollevata fimo al cielo,
passa di nuovo a parlare della liceità del matrimonio, sempre nel
timore che qualcuno scambi la verginità per un precetto. Non si contenta
quindi delle esortazioni fatte in precedenza: dopo aver detto «Non ho
un ordine del Signore» e «La vergine se si sposa non pecca», aggiunge
qui «Non perché voglia gettare su di voi un laccio».
LXXVI. Il «laccio» non è rappresentato dalla verginità, ma dalla nostra mancanza di entusiasmo
1.
A tal proposito, ci si potrebbe chiedere a buon diritto come mai
l’apostolo dica qui «Non perché voglia gettare su di voi un laccio»:
eppure, in precedenza aveva chiamato la verginità «liberazione dai
legami», aveva detto che ci consigliava per il nostro bene per evitarci
tormenti e preoccupazioni e per risparmiarci, ed aveva in tal modo
mostrato che questa pratica era leggera e sopportabile. Di che cosa si
tratta? A dire il vero egli ha chiamato «laccio» non la verginità – non
sia mai! – ma la scelta di questo bene compiuta sotto la spinta della
violenza e della costrizione. In effetti, le cose stanno proprio così.
Tutto ciò che si accetta sotto la spinta della violenza e contro la
propria volontà, anche se è molto leggero, diventa la cosa più
insopportabile e soffoca la nostra anima più di un laccio. Per questo
Paolo ha detto «Non perché voglia gettare su di voi un laccio». Queste
parole significano: vi ho enumerato e mostrato tutti i beni della
verginità; pur tuttavia, dopo aver fatto questo, lascio a voi la scelta e
non voglio condurvi alla virtù contro la vostra volontà. Vi ho dato
questi consigli non perché volessi tormentarvi, ma perché la vostra
bella assiduità non venisse distrutta dalle occupazioni materiali.
2.
Osserva anche qui la sagacia di Paolo: alla preghiera aggiunge di nuovo
l’esortazione, e attraverso la concessione fa trapelare il consiglio.
Le sue parole «Non vi costringo ma vi esorto», e le altre che ha
aggiunto «A causa del decoro e dell’assiduità», mostrano il carattere
meraviglioso della verginità, ed i grandi vantaggi che da essa si
ricavano nella vita conforme ai voleri di Dio. La donna non può essere
assidua se è prigioniera di preoccupazioni materiali e se si lascia
trascinare da ogni parte, perché in tal caso il suo impegno ed il suo
tempo libero si disperdono in più direzioni: verso il marito, verso la
cura della casa e verso tutte le cose che il matrimonio è solito
trascinare con sè.
LXXVII. La donna che si affanna per le cose materiali non può essere vergine
Che
cosa dice dunque Paolo quando scaccia dal coro delle vergini quella
vergine che – non sia mai! – ha varie occupazioni ed è alle prese con i
problemi materiali? Per essere vergini non basta infatti non sposarsi:
occorre anche la purezza dell’anima, e per purezza io intendo non solo
la lontananza dai desideri cattivi e turpi, dai belletti e dalle
occupazioni, ma anche l’assenza di pensieri relativi a cose materiali.
Se ciò non si verifica, di quale utilità può essere la purezza fisica?
Come non c’è nulla di più vergognoso di un soldato che getta le armi e
passa il suo tempo nelle bettole, cosi non c’è nulla di più indecoroso
delle vergini prigioniere di preoccupazioni materiali. Anche le cinque
vergini avevano le lampade, ed avevano praticato la verginità, ma non ne
avevano ricavato alcun frutto: le porte si chiusero, ed esse rimasero
fuori e perirono. La verginità è bella proprio perché elimina ogni
motivo di preoccupazioni superflue e perché permette di consacrare tutto
il tempo libero alle opere gradite a Dio: se questo non si verifica,
diventa di gran lunga peggiore del matrimonio, giacché ricopre di spine
l’anima e soffoca tutti i semi puri e celesti,
LXXVIII.
Perché Paolo non condanna aspramente colui che pensa di comportarsi in
modo sconveniente nei riguardi della figlia vergine
1.
«Chi – dice Paolo – pensa di comportarsi in modo non conveniente nei
riguardi della figlia vergine se lascia passare l’età giusta per il
matrimonio, faccia pure ciò che vuole, se così deve essere; non pecca:
ci si sposi pure». Perché dici «faccia pure ciò che vuole»? Perché non
correggi quest’opinione sbagliata, ma autorizzi il matrimonio? Perché
non hai detto «Se pensa di comportarsi in modo sconveniente nei riguardi
della figlia vergine è un povero ed un infelice, giacché ritiene
biasimevole una cosa degna di ammirazione»? Perché – risponderebbe Paolo
– si tratta di anime di uomini molto deboli, che ancora si trascinano
per terra: non è possibile fare accostare subito al discorso sulla
verginità le anime che si trovano in questo stato. Chi infatti è
attaccato in modo così passionale alle cose del mondo ed ammira la vita
presente a tal punto da ritenere vergognoso, nonostante tali
esortazioni, ciò che invece è degno dei cieli e vicino al tipo di vita
degli angeli, come potrebbe tollerare un consiglio in tal senso? E
perché ci si deve meravigliare del fatto che Paolo si comporta così a
proposito di una cosa consentita, quando adotta lo stesso atteggiamento
nei confronti di cose proibite e contrarie alla legge?
2.
Faccio un esempio: la scrupolosa osservanza dell’alimentazione, in base
alla quale alcuni cibi si possono accettare, mentre altri vanno
respinti, era una debolezza giudaica. Pur tuttavia, c’era tra i Romani
chi ne era ancora vittima. Eppure, Paolo non solo non rimprovera
severamente costoro, ma fa di più: lasciati andare i peccatori, critica
chi vuole reprimere questa pratica, dicendo: «Perché giudichi il tuo
fratello?». Non si comporta però così quando scrive ai Colossesi: con
molta libertà li rimprovera e li istruisce, dicendo «Che nessuno vi
giudichi in base ai cibi ed alle bevande». Ed aggiunge: «Se siete morti
in Cristo per quanto riguarda gli elementi del mondo, perché decretate
ancora, come se foste ancora vivi nel mondo: non prendere, non gustare,
non toccare? Tutto ciò è destinato a distruggersi con l’uso».
3.
Perché dunque si comporta così? Perché i Colossesi erano già forti,
mentre i Romani avevano bisogno di molta comprensione. Egli aspettava
che la fede si rafforzasse nelle loro anime: temeva che, se fosse andato
a strappare il loglio prima del momento giusto, anche le piante del
retto insegnamento sarebbero state estirpate dalla radice. Per questo
non li riprende aspramente, anche se non li lascia andare senza
avvertirli: li rimprovera, ma in modo velato e nascosto, nel momento in
cui critica altri. Le parole «Il fatto che stia in piedi o cada,
riguarda il suo Signore « sembrano infatti chiudere la bocca ai
detrattori, ma in realtà mordono l’anima dell’interessato, giacché
mostrano che così si comportano non le persone sicure che stanno bene in
piedi, ma quelle che ancora vacillano, che non sanno stare dritte e che
rischiano di cadere.
4.
Anche nel nostro caso Paolo osserva la stessa regola a causa della
grande debolezza di colui che si vergogna della verginità. Non gli si
rivolge apertamente, ma lodando chi sa conservare vergine la propria
figlia gli assesta un forte colpo. Che cosa dice? «Chi resta saldo nel
suo cuore «. Queste parole sono state dette per porre in risalto il
contrasto con colui che si lascia portare in giro con troppa facilità ed
a caso, e che non sa camminare con passo sicuro né rimanere fermo
coraggiosamente. Osserva quindi come Paolo, accortosi che le sue parole
riescono a far presa sull’anima dell’interlocutore, cerchi di temperarle
adducendo un motivo che non merita biasimo. Dopo aver detto «Chi resta
saldo nel suo cuore», aggiunge «non essendo sottoposto a costrizioni ed
avendo piena libertà». Eppure, sarebbe stato più logico dire: «Chi resta
saldo e non considera la verità una vergogna». Ma queste parole
sarebbero state troppo forti. Per questo ne usa al loro posto altre,
cercando di consolare l’interlocutore e dandogli la possibilità di
ricorrere a quest’altro motivo. Impedire la verginità quando si è sotto
costrizione non è così grave come impedirla per un senso di vergogna: la
prima eventualità dipende da un’anima debole e misera, la seconda da
un’anima depravata, che non è in grado di giudicare rettamente la natura
delle cose.
5. Ma non era
ancora giusto il momento di usare parole troppo severe, che pure
sarebbero state giuste, giacché neanche quando si è sottoposti ad una
costrizione è lecito frapporre ostacoli alla figlia che ha deciso di
rimanere vergine: occorre, al contrario, opporsi nobilmente a tutto ciò
che mira ad annullare questo bell’impulso. Ascolta ciò che dice a tal
proposito Cristo: «Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di
me». Quando facciamo una cosa gradita a Dio, chi ci vuole ostacolare va
considerato un nemico, sia egli il padre, la madre o chiunque altro. Ma
Paolo, che doveva ancora sostenere il peso dell’imperfezione degli
ascoltatori, ha scritto le parole: «Chi resta saldo senza essere
sottoposto a costrizioni». Non si è però fermato ad esse, anche se le
frasi «senza essere sottoposto a costrizioni» ed «avendo piena libertà»
significano la stessa cosa. Allungando il discorso ed abbondando nelle
concessioni, cerca di consolare le anime semplici e mediocri; per di
più, aggiunge un’altra condizione: «Chi giura nel suo cuore». Non è
infatti sufficiente essere soltanto liberi, né si è pienamente
responsabili solo grazie a questa libertà: la buona azione si verifica
quando si decide e si giudica. Quindi, per fugare il rispetto che la sua
grande condiscendenza annulli la differenza tra i due stati, egli la
ricorda di nuovo, anche se timidamente: Di conseguenza, chi fa sposare
la figlia agisce bene, e chi non la fa sposare agisce ancora meglio.
Qui, sempre per lo stesso motivo, non indica la misura di questo è
meglio; ma se vuoi rendertene conto, ascolta le parole di Cristo: «Non
sposano né vengono sposati, ma sono come gli angeli in cielo». Vedi qual
è la differenza, e come la verginità, quand’è vera, eleva l’essere
mortale?
LXXIX. I seguaci di Elia non differivano in nulla dagli angeli; fu la verginità a renderli tali
1.
In che cosa, dimmi, differivamo dagli angeli Elia, Eliseo e Giovanni,
questi sinceri amanti della verginità? In nulla, a parte il fatto di
essere legati alla natura mortale. Se però si esaminano bene gli altri
aspetti, si vede che non erano affatto inferiori a loro; e quello che
sembra uno svantaggio, torna a loro grande lode. Considera infatti
quanto coraggio e quanta saggezza abbia richiesto loro – che pure
vivevano sulla terra ed erano soggetti alle necessità della natura
mortale – il raggiungimento della virtù angelica. Che fu proprio la
verginità a renderli tali, risulta evidente dalla loro vita: se avessero
avuto moglie e figli non avrebbero potuto abitare con tanta facilità
nel deserto, né disprezzare le loro case e le altre comodità della vita.
Staccati da tutti questi legami, vivevamo sulla terra come se si
trovassero in cielo. Non avevano bisogno di muri, di tetti, di letti, di
tavole, e di nessun’altra di queste cose: il loro tetto era il cielo,
il loro letto la terra, la loro tavola il deserto.
2.
La sterilità del deserto, che agli altri uomini sembra causa di fame,
per questi santi era fonte di una grande abbondanza: non avevano bisogno
né di viti, né di torchi, né di campi coltivati, né di campi mietuti.
Abbondanti e dolci bevande erano fornite dalle fonti, dai fiumi e dagli
stagni; per quanto riguardava poi la tavola, al primo di loro un angelo
ne apparecchiò una meravigliosa, straordinaria e più sontuosa di quelle a
cui sono abituati gli uomini: «Un unico pane – è detto – è sufficiente
per una carestia di quaranta giorni. Il secondo fu spesso nutrito,
mentre operava dei miracoli, dalla grazia dello spirito, che non nutrì
solo lui, ma anche altri tramite lui. E Giovanni, che era più di un
profeta ed il più grande degli uomini nati da una donna, non aveva
neppure e bisogno di un nutrimento umano: non il grano, o il vino, o
l’olio, ma le cavallette ed il miele selvatico conservavano la vita del
suo corpo. Vedi la forza della verginità? Essa ha messo in condizione di
comportarsi come se non avessero più il corpo, come se avessero già
raggiunto il cielo, come se fossero già immortali, degli uomini che
erano ancora legati al sangue ed alla carne, che camminavano ancora per
terra, e che erano ancora soggetti alle necessità della natura mortale.
LXXX. In che cosa consistono il decoro e assiduità
1.
Tutto era superfluo per loro: non solo le cose veramente superflue
quali il lusso, le ricchezze, la potenza, la gloria e tutta la schiera
delle chimere, ma anche le cose che sembrano necessarie, quali le case,
le città e le arti. In questo consiste l’essere «decorosi ed assidui»,
in questo consiste la virtù della verginità. Sono certo cose ammirevoli e
degne di molte corone l’avere la meglio sulla furia dei desideri ed il
saper frenare l’anima impazzita; ma la verginità diventa veramente
ammirevole quando le si accompagna una vita di questo tipo, perché da
sola essa è debole e non basta a salvare chi la possiede. Lo potrebbero
testimoniare le donne che, pur praticando ancor oggi la verginità, sono
così lontane da Elia, Eliseo e Giovanni quanto lo è la terra dal cielo.
2.
Come, se si eliminano il decoro e l’assiduità, si recidono anche i
nervi della verginità, allo stesso modo, se la si possiede insieme alla
migliore condotta di vita, si possiedono anche la radice e la fonte dei
beni. Come la terra grassa e feconda nutre la radice, così la migliore
condotta di vita nutre i frutti della verginità: per meglio dire, la
vita «crocifissa» è la radice ed il frutto della verginità. Fu essa
infatti ad ungere per la corsa meravigliosa quelle persone generose,
recidendo tutti i loro legami e mettendole in condizione di volare verso
il cielo con piedi agili e leggeri, come se fossero degli esseri alati.
Se non si deve pensare né alla moglie né ai figli, la povertà è molto
facile; essa avvicina al cielo e libera non solo dalle paure, dalle
preoccupazioni e dai pericoli, ma anche da tutte le altre difficoltà
LXXXI. Della grande bellezza della povertà
1.
Chi non ha nulla disprezza tutto come se possedesse tutto, ed ostenta
una grande sicurezza nei confronti dei magistrati, dei principi ed anche
di colui che è cinto di un diadema. Chi disprezza le ricchezze,
proseguendo per la sua strada, giunge facilmente a disprezzare anche la
morte. Elevatosi al di sopra di queste cose, parla a tutti con grande
sicurezza, senza aver paura di nessuno e senza tremare. Chi invece si
occupa delle ricchezze, è schiavo non solo di esse, ma anche della
gloria, degli onori, della vita presente ed in una parola di tutte le
cose materiali. Per questo Paolo chiama l’amore per le ricchezze «radice
di tutti i mali». La verginità è pero in grado di essiccare questa
radice e di piantarne in noi un’altra – la migliore – che fa germogliare
tutti i beni: la libertà, la sicurezza, il coraggio, lo zelo ardente,
il caldo amore per le cose celesti, il disprezzo per tutte le cose
terrene. Così si realizzano «il decoro e assiduità».
LXXXII. Critiche mosse a coloro che affermano che chi pratica la verginità si augura di poter andare nel seno di Abramo
1.
Ma qual è il sapiente discorso che fanno molti? «Il patriarca Abramo –
si dice – aveva moglie, figli, beni, greggi e mandrie; ciò nonostante,
sia Giovanni battista che Giovanni evangelista – che erano entrambi
vergini –, sia Paolo che Pietro – che rifulgevano per la loro continenza
– si auguravano di poter andare nel suo seno». Ma chi ti ha detto
questo, o mio caro? Quale profeta? Quale evangelista? «Cristo in persona
– mi si risponde –. Vista infatti la grande fede del centurione, Cristo
disse: «E molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e si
sdraieranno con Abramo, Isacco e Giacobbe». Anche Lazzaro è visto dal
ricco nell’atto di godere assieme a lui». Ma cos’ha a che fare tutto
questo con Paolo, Pietro e Giovanni? Paolo e Giovanni non erano Lazzaro,
né «i molti che verranno dall’oriente e dall’occidente» rappresentano
il coro degli apostoli. Il vostro discorso è quindi superfluo e vano.
2.
Se invece vuoi conoscere esattamente i premi degli apostoli, ascolta le
parole di chi li assegna: «Quando il figlio dell’uomo siederà sul trono
della sua gloria, anche voi che mi avete seguito sederete su dodici
troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele». Qui non si parla
affatto né di Abramo, né di suo figlio, né del figlio di suo figlio, né
del seno che li accoglierà, ma di una dignità molto più grande: essi
sederanno a giudicare i loro discendenti. La differenza non risulta solo
da questo, ma anche dal fatto che molti otterranno ciò che ha ottenuto
Abramo: «molti – dice il Signore – verranno dall’oriente e
dall’occidente e si sederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe»; nessuno
invece prenderà posto sui troni, con la sola eccezione del coro dei
santi apostoli.
3. Dimmi:
pensate ancora ai greggi, alle mandrie, ai matrimoni ed ai figli? Perché
non dovremmo – mi si risponderebbe – se molti di coloro che sono
rimasti vergini, dopo avere tanto faticato, si augurano di giungere
lì?». Ed io ricorderò una cosa ancora più importante: molti di coloro
che sono rimasti vergini non giungeranno né nel seno di Abramo né in una
sede inferiore, ma nella Geenna, come stanno a dimostrare le vergini
chiuse fuori della camera nuziale. Ma allora la verginità non è uguale, o
addirittura inferiore al matrimonio? Il tuo esempio la rende inferiore.
Questo solo infatti rimane da sospettare in base al vostro discorso, se
è vero che Abramo, che pure era sposato, ora riposa e gode, mentre chi è
rimasto vergine si trova nella Geenna. Ma le cose non stanno affatto
così: la verginità non solo non è peggiore, ma è di gran lunga migliore
del matrimonio. Come mai? Perché non fu il matrimonio a rendere cosi
virtuoso Abramo, ne la verginità a perdere quelle sciagurate vergini: le
virtù dell’anima fecero rifulgere il patriarca, mentre la vita viziosa
consegnò al fuoco le vergini. Abramo infatti, pur vivendo nel
matrimonio, si preoccupava di realizzare i pregi propri della verginità,
vale a dure il decoro e l’assiduità.
4.
Le vergini invece, pur avendo scelto la verginità, caddero nel vortice
della vita e nelle preoccupazioni proprie del matrimonio. «Che cosa ci
può dunque impedire – mi si obietta – di salvare l’assiduità anche ora,
rimanendo sposati ed avendo i figli, i beni e tutte le altre cose?».
Innanzi tutto, nessuno è ora come Abramo, e non gli si avvicina neanche
un po’. Egli infatti pur essendo ricco, disprezzava i beni più dei
poveri, e pur avendo una moglie sapeva dominare i piaceri più delle
persone vergini; mentre quest’ultime sono ogni giorno bruciate dal
desiderio, egli spense la fiamma e non si legò a nessuna affezione: non
solo lasciò la concubina, ma la scacciò anche dalla sua casa, per
eliminare ogni motivo di rissa e di discordia. Ora non sarebbe facile
trovare qualcosa di simile.
LXXXIII. A noi non viene proposto lo stesso metro di virtù che era stato proposto agli uomini del Vecchio Testamento
1.
Ma a parte questo, ripeto ciò che avevo detto al principio: non ci è
richiesto lo stesso metro di virtù che veniva richiesto ai patriarchi.
Ora infatti non si può essere perfetti se non si vende tutto e se non si
rinunzia a tutto – non solo ai beni ed alla casa, ma anche alla propria
anima; in quei tempi, invece, non si conoscevano ancora esempi di una
moralità così severa. «E allora? – mi si chiede –. Adesso conduciamo una
vita più severa di quella del patriarca?». Lo dovremmo e ci è stato
ordinato, ma non la conduciamo, e per questo siamo molto inferiori a
quel giusto: che a noi vengano richieste prove più difficili, è evidente
a tutti. Per questo la Scrittura non esprime la sua ammirazione per Noè
in modo assoluto, ma con un’aggiunta limitativa. Dice infatti: «Noè,
che era giusto e perfetto nella sua generazione, piaceva a Dio». Non
dice semplicemente «perfetto», ma aggiunge «in quel periodo»: molti sono
i tipi di perfezione che si determinano a seconda delle differenti
epoche, e con il passare del tempo ciò che prima era perfetto diventa
imperfetto.
2. Faccio un
esempio: allora la perfezione consisteva nel vivere secondo la legge.
«Chi mette in pratica le prescrizioni – è detto – vivrà in esse». Cristo
però, una volta giunto tra noi, ha mostrato che questa perfezione era
in realtà imperfetta. Dice infatti: «Se la vostra giustizia non supera
quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli».
Allora soltanto l’omicidio era ritenuto un misfatto; adesso, l’ira e le
offese possono da sole mandare nella Geenna. Allora era punito solo
l’adulterio; ora, neanche lo sguardo cupido gettato su di una donna
resta impunito. Allora era considerato proveniente dal Maligno solo lo
spergiuro; adesso, è considerato tale anche il giuramento. «Ciò che si
aggiunge – dice il Signore – proviene dal Maligno». Allora, agli uomini
era richiesto solo di riamare chi li amava; adesso, questa cosa così
importante ed ammirevole appare così imperfetta, che noi, anche dopo
averla realizzata, non possediamo nulla in più dei pubblicani.
LXXXIV.
È giusto che per gli stessi atti virtuosi a noi ed agli uomini
dell’Antico Testamento non venga accordata la stessa ricompensa
1.
Perché mai dunque per gli stessi atti virtuosi non viene accordata a
noi ed agli uomini dell’Antico Testamento la stessa ricompensa, e perché
noi, se vogliamo ottenere lo stesso trattamento che è riservato loro,
dobbiamo dar prova di una virtù più grande? Perché ora si riversa su di
noi in abbondanza la grazia dello spirito, e perché grande è il dono
rappresentato dalla venuta di Cristo, che da bambini che eravamo ci ha
resi uomini perfetti. Quando i nostri figli arrivano all’adolescenza,
noi pretendiamo da loro degli atti virtuosi molto più impegnativi: una
volta che sono divenuti adulti, non ammiriamo più allo stesso modo gli
atti che lodavamo all’epoca della loro prima infanzia, ma ingiungiamo
loro di dar prova di altre virtù, d’importanza ben maggiore. Allo stesso
modo, Dio ai primi tempi non pretese dei grandi atti virtuosi dalla
natura umana, perché era ancora bambina Dopo avere fatto ascoltare agli
uomini i profeti e gli apostoli ed aver concesso loro la grazia dello
spirito, Egli accrebbe però l’importanza delle azioni virtuose da
compiere: era giusto, giacché assegnò anche dei premi maggiori e delle
ricompense molto più fulgide A chi realizza queste virtù non sono
infatti riservate la terra e le cose della terra, ma il cielo ed i beni
che superano ogni capacità di comprensione.
2.
Non è dunque assurdo, dopo che si è divenuti uomini, continuare a
rimanere piccoli come prima? Allora la natura umana era lacerata nel suo
intimo e vittima di una guerra implacabile. Spiegando questa
situazione, Paolo così parlò: «Vedo nelle mie membra un’altra legge che
combatte contro la legge della mia mente e che mi cattura con la legge
del peccato che si trova nelle mie membra». Ma ora le cose non stanno
più così. «Ciò che era impossibile alla legge perché era debole a causa
della carne, Dio l’ha reso possibile mandando a causa del peccato il
proprio figlio rivestito di una carne simile a quella del peccato e
condannando il peccato della carne». Ringraziando Dio di questo, Paolo
disse: «O me misero, chi mi libererà da questo corpo di morte? Rendo
grazie a Dio tramite Gesù Cristo».
3.
La punizione che ci tocca è quindi giusta: pur essendo liberi, non
vogliamo correre come le persone legate; ma neanche se corressimo come
loro potremmo sfuggire alla punizione. Chi infatti gode di una pace più
sicura deve innalzare dei trofei molto più grandi e splendenti di quelli
che può innalzare chi è tanto oppresso dalla guerra. Se ci volgiamo
verso le ricchezze, il lusso, le donne e la cura degli affari, quando
mai potremo diventare uomini, quando mai potremo vivere secondo lo
spirito, quando mai potremo pensare alle cose del Signore? Forse quando
ce ne andremo via di qui? Allora però non sarà più il momento delle
fatiche e delle gare, ma delle corone e dei castighi. Allora anche la
vergine se non avrà l’olio nella sua lampada, non potrà farselo dare
dalle altre vergini, e dovrà rimanere fuori; e chi si presenterà con
indosso un vestito sudicio, non potrà uscire per cambiarlo, ma sarà
gettato nel fuoco della Geenna: anche se invocherà Abramo, non otterrà
nulla. Quando il giorno del giudizio è giunto, quando la tribuna è
pronta, quando il giudice è già seduto, quando il fiume di fiamme già
scorre ed ha luogo l’esame delle nostre azioni, non ci è più consentito
di deporre i nostri peccati, ma siamo, volenti o nolenti, trascinati al
castigo che essi meritano. Nessuno potrà più intercedere per noi,
neanche chi possiede la stessa sicurezza di quei grandi e straordinari
uomini di allora, neanche un Noè, un Giobbe o un Daniele, neanche chi
prega per i propri figli e le proprie figlie: sarà tutto inutile.
4.
I peccatori dovranno essere puniti in eterno, così come i virtuosi
dovranno essere onorati in eterno. Che non ci sarà fine né per i premi
né per i castighi l’ha mostrato Cristo, là dove ha detto che sia la vita
che la punizione saranno eterne. Quando accoglierà quelli alla sua
destra e condannerà quelli alla sua sinistra, Egli aggiungerà: «Questi
ultimi andranno al castigo eterno, mentre i giusti andranno alla vita
eterna». Dobbiamo quindi sforzarci mentre siamo ancora qui: chi ha la
moglie si comporti come se non l’avesse , e chi non l’ha veramente
pratichi assieme alla verginità tutte le altre virtù; solo così non
avremo modo di lamentarci inutilmente dopo la nostra dipartita da qui.