Giovanni Crisostomo
Sul sacerdozio
Libro primo
Prologo
Amicizia di Giovanni e Basilio
I.
Io avevo molti amici veraci e sinceri, i quali perfettamente
conoscevano e osservavano le leggi dell’amicizia; ma uno fra gli altri
molti vi era, il quale tutti superandoli in intimità, studiava di
lasciarne indietro di tanto, quanto essi distavano dalle persone
semplicemente mie conoscenti. Questi era stato sempre in mia compagnia;
avevamo intrapreso gli stessi studi sotto gli stessi maestri; eguale era
fra noi la bramosia e diligenza per le esercitazioni retoriche a cui ci
dedicavamo; eguale l’aspirazione e generata dallo stesso obbietto. Né
solo al tempo in cui frequentavamo i nostri maestri, ma allorquando,
toltone commiato, bisognava consigliarsi circa la miglior carriera da
scegliere, anche in questo caso ci trovammo d’accordo. Esistevano
inoltre fra noi altri rapporti indissolubilmente costanti. Poiché né
l’uno poteva menare maggior vanto dell’altro circa l’importanza del
luogo natio; né la sorte aveva dato a me ricchezza soverchia e a lui
estrema povertà; ma anche la proporzione dei beni di fortuna eguagliava
l’identità delle nostre intenzioni; egualmente distinto era il casato di
ciascuno, ed eravamo unanimi in ogni pensiero. Se non che, quando fu
deciso di dedicarci alla santa vita dei monaci e alla verace filosofia,
non fu eguale per noi questo giogo; mentre dalla sua parte la bilancia
alleggerita si elevava, io tuttora inceppato nei desideri mondani,
trascinavo in basso la parte mia, e la impedivo di sollevarsi,
opprimendola di vaneggiamenti giovanili. Qui pertanto durava bensì
costante fra noi tutto il resto, come per l’innanzi, l’amicizia, ma la
comunanza di vita venne spezzata, non essendo possibile intrattenere
conversazioni fra persone che non condividevano le medesime cure. Quando
poi anch’io un poco cominciai a emergere dal flutto della vita mondana,
quegli mi accolse a braccia aperte, ma non riuscivo ancora a mantenermi
di fronte a lui nell’eguaglianza in che ero stato sempre per l’innanzi.
Poiché egli, superandomi d’età e dimostrando gran zelo, saliva più in
su di me ed era tratto ad altezze grandi. Tuttavia essendo egli buono e
facendo molto caso della mia amicizia, segregandosi da tutti gli altri
s’intratteneva continuamente con me; e anche prima egli avrebbe voluto
farlo, ma, come dissi, glielo impediva la mia indolenza. E per certo,
uno che soleva sedere a giudice nel dicastero e che andava pazzo per gli
spettacoli del teatro, non si sarebbe adattato a trovarsi sovente
insieme con chi se ne stava di continuo inchiodato sui libri senza mai
dare neanche una capatina in piazza. Per tal motivo egli stava separato
da me; e poi che una buona volta mi ebbe guadagnato allo stesso regime
di vita, d’un tratto soddisfece il desiderio concepito da lungo tempo,
né tollerava d’abbandonarmi per ben che piccola parte della giornata, e
finì per esortarmi affinché, lasciando ciascuno di noi la propria casa,
avessimo ad abitare in comune; e a ciò m’aveva egli persuaso, e già si
stava per attuare il disegno.
La madre si oppone al ritiro di Giovanni con l’amico Basilio
II.
Ma i continui lamenti di mia madre mi impedirono di dare a lui questa
consolazione, o piuttosto, di ricevere da lui questo dono. Poiché,
inteso ch’essa ebbe questo mio disegno, prendendomi per mano mi condusse
nelle sue stanze; indi fattomi sedere vicino, sul letto nel quale ella
mi aveva dato alla luce, cominciò a versare copiose lacrime, e, più
pietose delle lacrime, aggiunse poi le parole, in simile modo meco
lagnandosi: "Io, diceva, o figliolo, non potei godere a lungo delle
virtù di tuo padre ciò essendo piaciuto a Dio; poiché la morte di lui
che tenne dietro alla tua nascita, fece te orfano c piombò me in una
precoce vedovanza e nei malanni a quella connessi, tali che solo chi li
ha sofferti può adeguatamente comprenderli. Non si può immaginare a
quale bufera e a quale tempesta soggiace una fanciulla che, appena
uscita dalla dimora paterna e inesperta di affari, venga d’improvviso
gettata in un cordoglio intollerabile e costretta a sobbarcarsi a cure
superiori all’età sua e alla sua stessa natura. Deve infatti, io credo,
sorvegliare la negligenza dei servi e porsi in guardia dalle loro
malizie; sventare le insidie dei parenti, tollerare fortemente i soprusi
degli esattori e la loro esosità nell’esigere il pagamento delle
imposte. Se poi il defunto si dipartì lasciando prole in tenera età, se è
una bambina, anche in tal caso ciò arreca molte preoccupazioni alle
madri, sebbene non incomba la necessità di grandi spese, né il timore
dell’indigenza. Ma se si tratta di un figlio maschio, la riempirà ogni
giorno di mille timori e di innumerevoli cure; lascio da parte i
sacrifici di denaro che è costretta a sostenete, volendogli procurate
una distinta educazione. Ciò nonostante, nessuna di queste difficoltà mi
poté indurre a legarmi in seconde nozze e introdurre un secondo marito
nella dimora di tuo padre: ma mi rimasi sola nella tempesta e nel
turbine, né mi sottrassi al ferreo crogiolo della vedovanza, e ciò
anzitutto in forza dell’aiuto venutomi dall’alto, poi perché non piccola
consolazione mi recava in mezzo a quelle distrette, il vederti sempre a
me vicino e il serbarmisi in te vivamente riprodotto il gentile
riflesso delle sembianze del defunto; per questo e per essere tu ancora
bambino né capace di articolare parola, in quell’età nella quale
maggiormente i figli sono di diletto a’ parenti, mi fosti causa di
grande consolazione. Né potresti incolparmi d’aver io bensì sopportato
fortemente la vedovanza, ma assottigliati d’altra parte a te i beni
paterni per sopperire alle necessita vedovili; cosa che io vidi toccare a
molti figli travagliati da orfanezza. Io tutte le tue sostanze serbai
intatte, mentre nulla risparmiai di ciò che occorreva spendere per la
tua educazione, sopperendovi con i miei beni e con la dote che recai
dalla mia casa. Né devi credere che io dica questo per fartene debito;
ma in compenso di ogni cosa ti chiedo un solo favore, di non infliggermi
una seconda vedovanza, né ridestare in me l’ambascia ornai sopita;
aspetta sino a che io muoia: forse fra poco me ne andrò. I giovani
possono nutrire speranza di giungere fino ad una tarda età, ma noi
vecchi null’altro omai aspettiamo se non la morte. Quando adunque
m’avrai consegnata alla terra e riunita con le ossa del padre tuo,
allora intraprendi pure lunghi viaggi e naviga quel mare che ti piacerà;
niuno te ne farà ostacolo; ma fin che io respiro stattene a me vicino.
Né voler offendere senza ragione Iddio col procurare un tanto cordoglio a
me che niuna ingiuria t’ho arrecata. Poiché se tu puoi muovermi
rimprovero che io ti distragga fra cure materiali e ti costringa ad
assumere la tutela della tua sorte, in tal caso senza badare alle leggi
di natura, né all’educazione da me ricevuta, né all’intimità, né ad
altra cosa qualsiasi, fuggimi pure quale insidiatrice e nemica; ma se
invece io faccio di tutto per renderti massimamente agevole il cammino
di questa vita, se altro non fosse, almeno questo vincolo ti trattenga
al mio fianco. Ché se pure innumerevoli altri tu dica che ti sono amici,
niuno ti permetterà di godere tanta libertà, poiché nessuno v’è a cui
tanto stia a cuore la tua onoratezza, come a me".
Basilio insiste nel suo proposito. Improvvisa designazione all’episcopato. Giovanni si sottrae a insaputa dell’amico
III.
Queste ed altre cose ancor più toccanti disse la madre a me ed io
riferii all’amico. Egli però, non solo non se ne turbava, ma vie più
insisteva nella proposta che prima mi aveva fatta.
Mentre
noi discutevamo intorno a ciò, pregandomi egli continuamente e non
avendo io per anco dato il mio assenso, d’un tratto una certa novella
che giunse al nostro orecchio ci gettò ambedue nello sgomento: la
novella era che noi avevamo da essere elevati alla dignità
dell’episcopato. Io all’udire ciò fui preso da timore e ansietà: da
timore di essere forzato anche contro mio volere; da ansietà perché non
potevo raccapezzarmi, per quanto cercassi, donde mai fosse venuta a
quelle persone una simile idea a mio riguardo; ché scrutando me stesso
non trovavo nulla che fosse meritevole di quella dignità. Frattanto
quell’impareggiabile amico recatosi da me in privato e confidandomi la
cosa come se io nulla ne avessi per anco udito, mi pregava che anche in
questa circostanza noi dovessimo dimostrarci di pieno accordo nell’agire
e nel deliberare, come prima sempre avevamo fatto; soggiungeva che egli
m’avrebbe accompagnato in qualunque parte avessi voluto condurlo, sia
che fuggissimo, sia che dovessimo essere eletti. Vedendo io pertanto il
suo zelo, e stimando di recare danno a tutta la comunità ecclesiastica
qualora, a cagione della mia inettitudine privassi il gregge di Cristo
d’un giovane così buono e così adattato per esercitare il governo degli
uomini, non gli svelai il mio disegno riguardo a quella faccenda,
sebbene per lo innanzi non avessi mai sopportato che rimanesse a lui
nascosta qualsiasi parte delle mie intenzioni; ma dicendo che bisognava
rimandare ad altro tempo la decisione, poiché per allora la cosa non era
urgente, lo ebbi tosto persuaso di non pensare a ciò e di starsi
tranquillo sul conto mio, che certo sarei stato d’accordo con lui
qualora ci trovassimo in simile circostanza. Trascorso non molto tempo,
giunto colui che doveva consacrarci ed essendomi io nascosto, egli non
sapendo nulla di ciò, venne condotto via con una ragione plausibile;
ricevette pertanto il giogo, confidando, da quanto gli avevo promesso,
che io l’avrei senz’altro seguito, anzi credendo di venirmi addietro. E
intanto alcuni fra i presenti, vedendolo triste per esser stato preso,
lo ingannarono dicendo essere cosa strana che colui il quale sembrava a
tutti più impetuoso, e alludevano a me, cedesse con molta calma al
giudizio dei padri, e al contrario colui che era più assennato e modesto
s’incaponisse e riluttasse, agitandosi, ricalcitrando e contraddicendo.
Avendo poi egli ceduto a queste parole, appena seppe che io ero
fuggito, venne presso di me, e dopo essersi rimasto a lungo costernato,
alfine si sedette vicino e voleva pur dire qualcosa, ma trattenutone
dall’ansietà, né potendo adeguare colla parola l’agitazione da cui era
preso, tosto che apriva la bocca per parlare, n’era impedito, essendo la
parola troncata dalla confusione prima di uscire fuori dai denti.
Vedendolo io pertanto lacrimoso e tutto ripieno di turbamento e
sapendone la cagione, mi posi a ridere per il gran piacere che provavo, e
tenendogli la destra mi sforzavo di baciarlo, lodando Iddio che avesse
fatto riuscire bene il tranello e secondo il mio desiderio. Ma egli come
mi vide raggiante di gioia, e come prima intese d’essere stato da me
ingannato, più fortemente si rodeva e si adontava.
Lagnanze di Basilio per l’inganno dell’amico
IV.
Alfine riavutosi alquanto da quel turbamento di spirito: "Se anche,
disse, hai posto in non cale i fatti miei e ormai non fai più nessun
conto di me, per qual motivo non so, dovevi pur darti pensiero almeno
della tua riputazione. Ora hai aperto le bocche di tutti, e ognuno va
dicendo che tu hai rifiutato questo ministero per mondano attaccamento,
né v’è alcuno che pensi a scolparti da simile accusa. A me poi non dà
l’animo neanche di mostrarmi sulla piazza, tanti sono quelli che mi
vengono incontro e ogni giorno mi fanno rimproveri. Se poi mi vedono
apparire in qualche parte della città, prendendomi a quattr’occhi quanti
sono con noi in rapporti di familiarità, versano su di me la maggior
parte delle accuse. Poiché, dicono, conoscendo tu la sua intenzione né a
te era mai nascosto nulla de’ suoi disegni non dovevi celarla a noi, ma
rendercene informati; chè non ci sarebbe affatto mancato il mezzo di
prenderlo. Onde io, che proprio ignoravo che tu da lungo tempo andassi
maturando tale progetto, mi vergogno e arrossisco di rispondere a
coloro, per timore che non abbiano a stimare la nostra una finta
amicizia. E se anche è così, come non v’ha ormai dubbio, né potresti
negarlo dopo quello che mi hai fatto, è pur cosa prudente il celare le
nostre magagne agli altri, che hanno buona opinione di noi. Io rifuggo
adunque dallo spiattellare loro in faccia la verità, dicendo come stanno
fra noi le cose; sono quindi costretto a tacere e chinare gli occhi a
terra, cercando di evitare e fuggire gli incontri, Ma se io pure
sfuggirò alla prima accusa, sarò poi tacciato di menzogna, perché certo
non vorranno credere mai che tu abbia collocato Basilio al livello di
coloro ai quali non è lecito confidare i tuoi secreti. Or non voglio far
troppe parole su ciò, poiché a te è così piaciuto; ma riguardo al
resto, come potremo noi sopportare la vergogna? chi ti accusa di
arroganza, chi di vanagloria; quelli poi fra i nostri accusatori che si
mostrano più accaniti, ti addossano l’una e l’altra colpa, e aggiungono
che tu hai fatto ingiuria a quelli che ti avevano proposto alla dignità.
Aggiungono ancora esser ben giusto che quelli soffrano tale affronto da
noi e che ne meriterebbero di maggiori; perché lasciati da parte tanti e
tali altri candidati, prendono fanciulli ancor ieri e ieri l’altro
ingolfati nelle affezioni mondane, e se appena abbiano per qualche tempo
portato in giro gli occhi bassi, vestito panni bruni e ostentato
compunzione, d’improvviso li elevano a una si augusta dignità, a cui
neppure avrebbero sognato di giungere mai; mentre uomini che hanno
durato in penitenza dalla prima età fino all’estrema vecchiezza,
rimangono fra i sudditi, e comandano a loro gli imberbi che potrebbero
esser loro figli, ignari delle leggi secondo le quali si deve questo
governo esercitare. Queste ed altrettali dicerie ripetendo, mi stanno
continuamente ai panni. Io non ho che rispondere in difesa a queste
imputazioni, e però ti prego di suggerirmelo. Poiché io non credo già
che tu abbia perpetrata questa tua fuga ingenuamente e senza un piano
premeditato, affrontando l’inimicizia di sì alti personaggi, ma che ciò
tu abbia fatto con qualche calcolo riflesso e con qualche idea
preconcetta; onde io mi penso che avrai pronti gli argomenti per la tua
difesa. Di’ adunque, se v’è qualche giusto pretesto che possiamo addurre
ai nostri accusatori. Dell’ingiuria da te arrecatami non cerco alcuna
ragione, né per avermi ingannato, né per avermi tradito, né di quanto
nel passato ho fatto per te. Io veramente avevo preso, per così dire,
l’anima mia e postala nelle tue mani; tu invece hai usato meco in guisa
tanto subdola, come se avessi dovuto porti in guardia da un nemico. Per
certo, se riputavi vantaggiosa questa nostra elezione, non dovevi
privare te di tale vantaggio; se poi la credevi dannosa, dovevi
allontanare il danno anche da me, che pur dicevi di apprezzare più
d’ogni altro. Invece facesti il possibile per farmici cascare, e ti fu
mestieri dell’inganno e della finzione verso chi soleva sempre fare e
dire ogni cosa con te senza sotterfugi e con piena sincerità. Ma, come
ho detto, non voglio rampognarti di questo ora, né rimpiango la
solitudine in cui mi hai posto, troncando quelle conversazioni comuni,
da cui sì gran piacere e non piccolo vantaggio tante volte ritraemmo.
Lascio da parte ogni cosa, sopportando in silenzio e mitemente: già non
facesti mitemente tu, ponendomi in non cale; ma da quel giorno in cui
ricambiai d’affetto la tua amicizia, mi ero imposto questa legge, di non
chiederti ragione di qualunque offesa piacesse a te di recarmi. Che poi
non lieve danno tu m’abbia inflitto, lo sai tu stesso, seppure ti
sovviene delle parole che gli estranei dicevano di noi e di quello che
noi stessi dicevamo: cioè che grande vantaggio era per noi l’essere
concordi e il farci riparo della reciproca affezione. E gli altri tutti
asseveravano che pur a molti non poco frutto avrebbe portato la nostra
unanimità. Io per vero non mi pensavo, per quanto dipendeva da me, di
portar frutto ad alcuno; ma ben ritenevo che assai ci avrebbe giovato
per non essere agevolmente sopraffatti da coloro che avessero voluto
muoverci guerra. E non cessavo mai di ricordarti che l’età nostra è
perversa; molti ci tendono insidie; l’amore sincero è sparito e vi è
sottentrata la peste della gelosia; procediamo in mezzo ai tranelli e
siamo esposti come coloro che combattono sugli spalti della città.
Numerosi e da molte parti sopraggiungono quelli che sono pronti a
rallegrarsi dei nostri mali, qualora alcuno ce ne accada, e niuno v’è
che alle nostre sciagure vorrebbe partecipare, o pochissimi per certo.
Guardati pertanto che, essendo noi discordi, non ci tocchi gran
derisione, o peggio ancora, qualche malanno. "Il fratello sorretto dal
fratello è come città forte e come un regno sbarrato"(Prv. 23,19); non
voler dissolvere questa fraternità sincera, né infrangere la barra.
Queste e molte altre cose io ti venivo sempre dicendo, nulla sospettando
mai di simile, ma stimando i tuoi sentimenti verso di me saldi e
intatti, e volendo suggerire rimedi non necessari a uno spirito sano;
non mi pensavo certo, come sembra, che porgevo medicine a chi in realtà
era malato. Ma, misero me, che neppure così trassi giovamento, né m’ebbi
miglior sorte per questa mia gran previdenza! Gettando via in un fascio
tutti quegli ammaestramenti, anzi neppur accogliendoli nel cuore,
spingesti me inesperto in mezzo al pelago, come una nave priva di
zavorra, senza pensare alle fiere tempeste che dovrò sostenere. Ché se
mi occorrerà talora d’aver a sopportare calunnia o scherno o altra
insolenza ed oltraggio ed è forza che. ciò m’accada, presso chi potrò
cercare rifugio? a chi confidare i miei timori? chi vorrà assumere la
mia tutela e, reprimendo gli oltraggiatori e impedendo loro di più oltre
farmi ingiuria, mi conforterà e mi aggiungerà lena per tollerare
l’ignoranza altrui? Nessuno v’è ormai, poi che tu ti rimani lontano da
questo fiero o conflitto, né ti dà l’animo di udirne pur anco il
frastuono. Or comprendi qual male hai commesso? riconosci ora, dopo aver
inflitto il colpo, qual mortale ferita mi recasti? Ma questo
lasciamolo, ché non si può disfare quel che oramai è fatto, né è dato
trovare l’adito quand’è chiusa ogni via. Dimmi piuttosto: che cosa ho da
dire agli estranei? come rispondere alle loro accuse?".
Fine del prologo. Prima parte della difesa di Giovanni. L’inganno può essere opportuno e lecito
V.
Fa’ cuore, dissi, non solo sono pronto a dar ragione di tutto, ma mi
studierò di giustificarmi, come saprò meglio, anche di quello onde mi
accusi senz’ammettere giustificazione. Anzi, se ti piace, da questo
appunto prenderò la mia difesa, perché sarebbe cosa sconveniente e molto
irragionevole se, preoccupandomi dell’opinione degli estranei e
adoperandomi in ogni modo per distruggere le imputazioni che ci muovono,
non riuscissi a tranquillizzare il mio più diletto amico (colui che pur
dicendosi da me ingiuriato, usò meco tanta moderazione da non voler
neppure chiedermene conto, ma dimenticando le sue querele si preoccupa
solo de’ fatti miei), dimostrandogli che non gli ho fatto alcuna
ingiustizia; e sembrassi per tal modo più trascurato a suo riguardo di
quanto egli si mostrò sollecito verso di me. In che dunque ti ho fatto
ingiuria? Poiché da questo punto ho deciso di muovere nel pelago della
mia difesa; gli è dunque perché t’ho ingannato e t’ho celato la mia
intenzione? Ma io ti dico che ciò fu per tuo vantaggio e per vantaggio
di coloro ai quali io ti ho consegnato mediante l’inganno. Infatti, se
in ogni caso la frode è un male e in nessuno modo mai è da farne uso,
allora io sono pronto a subire la pena che a te piacerà di richiedere; o
meglio, poiché tu non sosterresti di infliggermela, io stesso
pronuncerei contro di me quella condanna che i giudici recano contro i
colpevoli quando questi vengono presi da’ loro accusatori. Se invece la
frode non è sempre dannosa, ma diviene buona o cattiva a norma
dell’intenzione di chi l’adopera, cessando di imputarmi l’inganno, tu
devi dimostrare che questo io feci per tuo svantaggio; che se ciò non è,
lungi dal muovere. biasimi e querele, le persone assennate dovrebbero
per giustizia saper grado all’ingannatore. Ora l’inganno ben adoperato e
applicato con retta intenzione è talmente vantaggioso, che molti
dovettero spesso sottostare a pena per non averlo messo in opera.
Esempio tolto dall’arte militare
VI.
Se ti piace di cercare fra i capitani da lunga pezza celebrati,
troverai che la maggior parte di loro vittorie fu effetto di stratagemmi
e vedrai pure che sono più lodati costoro di quelli altri i quali
vinsero pugnando in campo aperto. Questi infatti pagando la vittoria con
molto dispendio di denaro e di uomini, diedero vantaggio al nemico, di
guisa che nulla giovò loro l’aver vinto, ma i vincitori furono in non
minore angustia dei vinti, per via dei soldati da loro perduti e
dell’erario esaurito. Inoltre non è dato loro di godersi la gloria delle
armi, perché non piccola parte di essa tocca ai caduti nella battaglia i
quali, pur vinti nei corpi, rimangono tuttavia vincitori nelle anime, e
se era dato loro di serbarsi incolumi fra i colpi dei nemici e sfuggire
così alla morte, non avrebbero certamente rallentato di coraggio. Ma il
duce che riuscì a vincere mediante l’inganno, infligge ai nemici, oltre
lo scacco, la derisione; perocché la lode di sagacia non tocca questa
volta ad ambedue le parti come la lode della forza nel primo caso, ma
qui il premio è tutto intero dei vincitori, e, ciò che non vale meno,
essi serbano intera alla città la gioia della vittoria. Sono infatti
cose diverse la ricchezza e il numero dall’accortezza della mente:
quelle, col continuo usarne durante la guerra, si dissipano e lasciano
all’asciutto i loro possessori; questa invece quanto più uno l’adopera,
tanto più aumenta. Né solo durante la guerra, ma anche in tempo di pace
può esservi grande e urgente bisogno d’usare l’inganno, non solo nei
pubblici affari, ma anche in casa la moglie verso il marito e viceversa,
il padre verso i figli, l’amico con l’amico e pur verso il padre i
figlioli. La figlia di Saul non riuscì a trarre suo marito dalle mani
del padre suo, se non usando verso di lui l’inganno. Il fratello di lei
poi, volendo a sua volta salvare dal pericolo estremo quegli che già da
lei era stato salvato, nuovamente pose in opera le stesse armi a cui la
donna aveva ricorso.
Esempio tolto dall’arte medica
VII.
Qui Basilio: Ma ciò non mi riguarda punto, disse; poiché io non sono
per te nemico né avversario, né del numero di coloro che perpetrano
l’ingiustizia, ma tutto all’opposto: perché essendomi io rimesso sempre
al tuo consiglio, ti seguii là dove tu avevi indicato.
Ottimo
e impareggiabile uomo, soggiunsi, appunto per questo io dissi prima che
non solo in guerra ne solo contro i nemici, ma anche in pace e coi più
intimi è buona cosa usare la frode. Per persuaderti poi che questa giova
non solo a chi l’adopera, ma pure a chi la subisce, va’ e domanda a
qualche medico con quali mezzi essi liberano gl’infermi dai loro
malanni, e udrai che non solo con l’arte allontanano i morbi, ma che vi
sono casi nei quali appigliandosi allo stratagemma e venendo con esso in
soccorso all’arte, possono talora ricondurre l’infermo a sanità. E
infatti, quando l’irritabilità dei malati e la perversità del male
stesso non s’adattano ai consigli dei medici, allora é mestieri vestire
la maschera dell’inganno per celare la vera natura delle cose, come
accade sulle scene. Ti narrerò, se ti piace, uno stratagemma fra i molti
che udii essere stati usati dai cultori dell’arte medica. Era
sopraggiunta a un tale d’improvviso una gran febbre e l’ardore andava
crescendo; il malato rifiutava i calmanti che gli si davano per sedarla e
pregava con molta insistenza chi si recava a fargli visita, affinché
gli porgesse vino in copia e gli desse di poter saziare quella brama
mortale. Or chi gli avesse soddisfatto questo desiderio, non solo gli
avrebbe vie più accesa là febbre, ma avrebbe gettato quell’infelice in
preda al delirio. Allora, vacillando l’arte né avendo alcun rimedio ed
essendo posta al tutto da un canto, vi sottentrò l’inganno, facendo
prova di sua benefica efficacia, come tosto udrai. Il medico, preso un
vaso di terra cotta uscito di fresco dalla fornace, lo immerse in grande
quantità di vino; indi trattolo fuori vuoto e riempitolo d’acqua,
ordina di oscurare con molte tende la stanza ove giaceva l’infermo,
affinché la luce non palesasse l’inganno, e gli porge quindi il vaso da
bere, come se fosse pieno di vino puro. Quegli, prima ancora di averlo
tra mano, subito ingannato dal profumo che se ne spandeva, non sofferse
neppure d’investigare su ciò che gli era porto, ma fidandosi all’odore e
illuso dall’oscurità, spinto dalla brama tracannò con grande avidità il
liquido e saziatosi spense tosto l’ardore che lo soffocava, scampando
così dal pericolo imminente. Vedi il vantaggio dell’inganno? Ché se si
volesse addurre tutti gli stratagemmi dei medici, non la si finirebbe
più. Né solo coloro che curano i corpi, ma anche fra coloro che danno
opera a curare le infermità spirituali, si può trovarne di quelli che
spesso usarono tale rimedio. Con questo infatti il beato Paolo acquietò
quella moltitudine di Giudei; con tale intenzione pure circoncise
Timoteo colui il quale aveva mandato a dire ai Galati che Cristo non
avrebbe giovato per nulla ai circoncisi; onde si sottopose alla Legge
colui stesso che stimava un danno la giustificazione della legge dopo la
fede in Cristo. Grande è invero l’efficacia dell’inganno, purché non
venga adoperato con intenzione maligna; anzi non inganno si deve dire
questo modo di agire, ma piuttosto una certa economia e saggezza,
un’arte capace di trovare molte vie d’uscita nei luoghi impervi, e di
correggere anche le negligenze dell’anima. Poiché io non chiamerei
omicida Finees, sebbene d’un sol colpo uccidesse due persone; e neppure
Elia in seguito ai cento soldati e a’ loro duci, e al torrente di sangue
che fece scorrere con la strage dei sacerdoti idolatri. Che se ciò
ammettiamo e se le azioni di coloro che quelle cose compirono, si
considerano per se stesse, separatamente dall’intenzione, taluno potrà,
se gli talenta, chiamare Abramo uccisore di suo figlio, ed il nipote ed
il discendente di lui parimenti incolperà di misfatto e d’ingiustizia:
perocché in tal guisa l’uno conquistò la precedenza naturale e l’altro
trasferì le ricchezze degli Egizi nell’esercito degli Israeliti. Ma no,
non é certo così: lungi tale empietà! Ché non solo li riteniamo
incolpevoli, ma anzi, per queste stesse loro azioni li ammiriamo, poiché
Dio stesso ne li lodò. Ed invero si deve chiamare giustamente
ingannatore colui che usa il ripiego con fine ingiusto, non chi vi
ricorre con retto consiglio. Ma d’altra parte spesso torna utile
l’ingannare, per ritrarre da tale artificio i maggiori vantaggi: onde
colui che vi s’induce con retto fine, cagionerebbe gravi mali a chi non
venisse ingannato.
Libro secondo
L’inganno diede occasione a Basilio di manifestare il suo amore a Gesù Cristo
I.
Avrei potuto dire molto di più per dimostrare che si può usare
l’efficacia dell’inganno anche in bene, e che questa non dovrebbe
chiamarsi frode, ma piuttosto una certa mirabile economia. Ma poiché le
cose dette sono ormai sufficienti per darne la prova, sarebbe importuno e
noioso il protrarre più a lungo il discorso. Toccherebbe ora a te il
dimostrare che io ho usato un tal mezzo contro al tuo vantaggio.
E
Basilio: Ma quale vantaggio, disse, mi recò questa tua economia o
saggezza o come meglio ti piaccia di chiamarla, perché io debba credere
che in realtà non fui da te ingannato?
E
qual maggior guadagno, soggiunsi, che l’essere veduti a compiere quelle
opere che Cristo stesso disse essere segni dell’amore a Cristo, E per
vero, rivolgendosi al corifeo degli Apostoli: Pietro, dice, mi ami tu? e
affermandolo questi, soggiunge Cristo: Se mi ami, pascola le mie
pecore. Il maestro interroga il discepolo se lo ama, non già per esserne
informato, come ne avrebbe avuto bisogno colui che penetra i cuori di
tutti? ma per insegnare a noi quanto gli stesse a cuore il governo di
questo gregge. Ora, essendo ciò palese, sarà pur palese la conseguenza,
cioè che grande e incomparabile mercede sarà serbata a chi si dedica a
quest’impresa, che tanto è apprezzata da Cristo. Che se noi, qualora
vediamo alcuno prendersi cura dei nostri armenti, consideriamo come
segno di affezione verso di noi la cura usata verso di quelli, sebbene
si tratti di cose acquistate con denaro; colui che ha riscattato questo
gregge non con ricchezza od altro valore, ma con la sua propria morte e
ne diede in prezzo il suo stesso sangue, con qual mercede ricambierà
quelli che si occupano nel pascolare questo gregge stesso? Per ciò
appunto, avendo il discepolo risposto: Tu sai, o Signore, che io ti amo,
chiamando l’amato stesso in testimonio del suo amore, il Salvatore non
si accontentò solo di questo, ma aggiunse la dimostrazione dell’amore.
Non voleva già Egli allora che Pietro gli significasse la proporzione
dell’amor suo, ciò è a noi noto per molti indizi, ma Voleva dimostrare
piuttosto quanto Egli ami la sua Chiesa; e volle che Pietro e tutti noi
lo apprendessimo, affinché ancor noi le dedicassimo tutte le nostre
cure. Per qual ragione infatti Dio non risparmiò il suo unigenito
figliolo, ma quel solo che aveva lo donò? certo per riconciliare a sé
coloro che gli s’erano inimicati e formare un popolo scelto. Per qual
motivo poi Cristo versò il suo sangue? certo per riacquistare quelle
pecore che ha affidate a Pietro e a’ suoi successori. A buon diritto e
giustamente pertanto disse Cristo: "Chi é mai quel servo fedele e
prudente, che il suo padrone preporrà alla sua casa?". Di nuovo le
parole sono come di chi dubita; però Colui che le pronunziava non
dubitava punto, ma siccome quando chiese a Pietro se lo amava, non lo
fece per bisogno che avesse di scrutare i sentimenti del discepolo, ma
perché voleva dimostrare la grandezza del suo proprio amore, così pur
ora dicendo: Chi é mai il servo fedele e prudente? Non lo dice perché
ignori in realtà chi sia il fedele e saggio servitore, ma volendo far
rilevare quanto scarso ne sia il numero e quanto grande sia questo
ministero. Vedi ora quanto ne sia il premio: "Lo preporrà a tutte le sue
sostanze" (Mt. 24, 47).
Il ministero pastorale é la miglior prova d’amore a Cristo, Esso non é impresa da tutti, ma solo di pochi eletti
II.
Dunque dubiterai ancora che io non t’abbia felicemente ingannato,
mentre stai per esser posto a capo di tutti gli interessi di Dio e
compiere quelle opere, compiendo le quali Pietro, a detta di Cristo,
avrebbe sorpassato gli altri Apostoli? Dice infatti: "Pietro, mi ami tu
più di costoro? pascola le mie pecore". Poteva per altro dirgli: "Se mi
ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le vigilie
ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come padre agli
orfani e come marito alle madri loro"; invece, lasciando da parte tutte
queste cose, che dice? Pascola le mie pecore. E per vero le altre opere
che sopra ho dette, possono compierle agevolmente anche molti fra i
sudditi, non solo uomini, ma donne ancora; trattandosi invece di
soprastare alla comunità dei fedeli e d’essere incaricati della guida di
tante anime, ceda il posto tutto i; sesso femminile e anche la maggior
parte degli uomini, di fronte alla grandezza dell’impresa; si traggano
innanzi quelli che di gran lunga superano tutti gli altri e sono tanto
più eccelsi per virtù dell’anima, quanto Saul superava nella statura
tutto il popolo Ebreo, anzi, assai più. Ché non si deve in tal caso
cercare solamente se alcuno emerga dagli omeri in su, ma quale è la
distanza che corre fra i bruti e gli esseri ragionevoli, tale è la
proporzione fra il pastore e la greggia; per non dir di più, ché il
rischio versa intorno a cose ben maggiori. Poiché colui che perde le
pecore per rapina di lupi o per sopraggiungere di ladri, o in causa di
qualche morbo o per altro qualsiasi accidente, riceverebbe pur qualche
perdono dal padrone della greggia; e qualora fosse richiesto di ammenda,
il danno si limita alle sostanze. Ma quegli a cui vennero affidati gli
uomini, il gregge razionale di Cristo, in pena per la rovina delle
pecore deve anzitutto sottostare non a danno di sostanze, ma della sua
propria anima. Inoltre deve durare una lotta assai maggiore e più fiera.
Non deve egli infatti combattere contro lupi, né ha a temere di
predoni, né a darsi pensiero d’allontanare dal gregge qualche morbo; ma
contro chi è la sua guerra? con chi la sua battaglia? ascolta ciò che
dice il beato Paolo: "Non abbiamo da lottare con la carne e col sangue,
ma con i prìncipi e colle potestà, con i dominanti di questo mondo
tenebroso, con gli spiriti maligni dell’aria" (Ef. 6,12). Vedi la
moltitudine terribile dei nemici e le feroci falangi, non corazzate di
ferro, ma tali a cui è sufficiente la propria natura invece d’ogni arma?
Vuoi tu vedere un altro esercito orribile e feroce che assedia questo
gregge? lo scorgerai dalla stessa vedetta; colui che ha parlato di quei
nemici, colui stesso ci svela questi altri, così dicendo, in altro
luogo, che sono palesi le opere della carne quali siano: prostituzione,
adulterio, impurità, sfrontatezza, idolatria, sortilegio, inimicizie,
contese, invidie, iracondia, sedizioni, oltraggi, maldicenze, orgoglio,
sommosse e altre più ancora, poiché non le nominò tutte, ma da queste
lasciò intravedere le rimanenti.
Non si possono trattare gli uomini come le pecore
E
quanto al pastore di bestie, quelli che mirano alla strage del gregge,
qualora vedano fuggire il custode, smessa la lotta contro di lui, si
accontentano della rapina degli animali; qui invece, se pur abbiano
presa tutta la greggia, neanche allora risparmiano il pastore, ma vie
più gli sono sopra e vie più imperversano, né cessano prima
d’averlo
vinto o d’esserne stati vinti. Aggiungi a tutto questo, che le malattie
degli animali sono palesi, sian essi offesi da morbo o da fame o da
ferita o da checché altro; né ciò conferisce poco a togliere di mezzo la
cagione del male. Un’altra circostanza poi v’è, che agevola la rapida
liberazione da quelle infermità; quale? i pastori costringono con molta
padronanza le pecore ad accogliere la medicazione, qualora quelle non vi
sottostessero di buon grado; onde torna facile il legarle quando sia
d’uopo cauterizzare o tagliare; facile parimenti il farle stare a lungo
rinchiuse, quando ciò sia di giovamento; il porgere un cibo invece d’un
altro, il trattenerle da certi paschi, e tutte le altre cure che
giudicassero conferire alla loro guarigione, viene loro fatto di
applicarle con grande facilità.
III.
Invece le infermità degli uomini, non è anzitutto agevole ad uomo lo
scorgerle, poiché "nessuno conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito
dell’uomo che è in lui" (1Cor. 11,11). Or come potrebbe uno applicare la
medicina a un male di cui non conosce la natura, e mentre spesso non
gli è dato neppur di sapere se altri sia o no ammalato? E quando pure
ciò sia divenuto palese, allora appunto gli offre le massime difficoltà;
poiché non è possibile curare tutti gli individui con la stessa libertà
con la quale il pastore cura una pecora: v’è bene anche qui la facoltà
di legare, d’interdire l’alimento, di bruciare e tagliare; ma la facoltà
di accogliere il rimedio risiede non in chi porge la medicina, sebbene
nell’infermo stesso. Ciò ben sapendo quel mirabile uomo disse ai
Corinzi: "Non perché noi facciamo da padroni sopra la vostra fede, ma
cooperiamo alla vostra consolazione"(2Cor. 1,24). Soprattutto poi ai
Cristiani non è permesso di correggere a forza gli errori dei colpevoli.
I magistrati civili, quando sottopongono i malfattori alla norma delle
leggi, fanno mostra di grande potestà e sforzano i riluttanti a mutare i
loro costumi; qui invece tali individui debbono essere corretti con la
persuasione anziché con la violenza. Perocché non ci è conferita dalle
leggi questa facoltà per ritrar dal male i colpevoli, e quand’anche ce
l’avessero conferita non avremmo dove usare la forza, dando Dio la
corona non a chi lascia il male per necessità, ma a chi lo lascia per
sua libera scelta. Onde v’è bisogno di grande abilità per far sì che
gl’infermi si persuadano a sottoporsi volentieri alle cure dei
sacerdoti, né questo solo, ma ancora perché vedano il vantaggio che la
cura loro arreca. Ché se alcuno legato ricalcitra, ed è in suo potere il
farlo ne viene un male peggiore; e se non farà conto di certe parole
taglienti come ferro, con lo spregio viene ad aggiungere un’altra piaga,
onde il pretesto della cura diviene occasione di più grave malattia.
Poiché non vi è chi lo possa costringere e curarlo contro sua voglia.
Il rimedio deve essere proporzionato al male
IV.
Che dunque s’avrà da fare? Poiché se usi troppa delicatezza con chi ha
bisogno di molti tagli, e non fai un’incisione profonda a chi n’ha
d’uopo, avrai asportato solo una parte della ferita lasciandovi l’altra
parte. Se poi senza esitazione applichi il taglio necessario, spesso
l’ammalato disperando del suo male, gettata via in un fascio ogni cosa, e
medicina e fasciature, finì per gettarsi a capofitto, spezzando il
giogo e rompendo i legami. Potrei narrare di molti che dettero in mali
estremi per essere stati sottomessi alla pena dovuta alle loro colpe.
Poiché non si deve applicare il castigo soltanto in ragione della
grandezza dei falli, ma si deve pur tenere conto dell’intenzione dei
colpevoli, affinché non t’accada, volendo rattoppare uno squarcio, di
produrne uno più grande e che, tentando di rialzare ciò che è caduto, tu
produca una caduta peggiore. 1 deboli, divagati e per lo più schiavi
della mollezza mondana, e che inoltre hanno di che inorgoglire per
nascita e potenza, corretti dei loro mancamenti dolcemente e poco per
volta, potrebbero pure, se non in tutto almeno in parte, purgarsi dei
vizi da cui sono dominati; se invece uno applica loro d’un tratto
l’ammonizione, li avrà privati anche di quel minore miglioramento. Ché
l’anima, spinta una volta all’impudenza, diventa insensibile, né più si
lascia muovere dalle parole dolci, né piegare dalle minacce, né eccitare
dai benefici, ma diviene assai peggiore di quella città a cui il
profeta, riprovandola, dice: "Hai assunto aspetto di meretrice, né
alcuno più tifa arrossire" (Ger. 3,3). Per ciò il pastore ha bisogno di
molta prudenza e di infiniti occhi onde scrutare in ogni parte le
condizioni di un’anima. Perocché come molti salgono in arroganza e
cadono in disperazione della propria salvezza, non potendo adattarsi a
medicine amare; così vi sono di quelli che per non aver subìto un
castigo proporzionato ai loro mancamenti, cadono nell’indifferenza,
diventano molto peggiori di prima e sono incitati a commettere colpe più
gravi. Bisogna pertanto che il sacerdote non trascuri di esaminare
ognuna di queste circostanze, ma tutto diligentemente scrutando, faccia
quanto è in suo potere secondo l’opportunità affinché la sua cura non
gli divenga inutile.
Come ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite
Né
soltanto in questo, ma anche nel riunire i membri separati dalla Chiesa
uno si troverà ad aver molto da fare. Il pastore di pecore ha il gregge
seguace dovunque esso venga condotto: che se qualche capo si svia dal
retto cammino, e lasciato il buon pascolo, va a cibarsi in luoghi
infecondi e ripidi, gli basta dar un grido più forte, per raccogliere di
nuovo e riunire al gregge la parte che se n’era divisa; se invece un
uomo viene trascinato lungi dalla retta fede, fa d’uopo al pastore di
molto lavorio, di fortezza, di tolleranza. Non deve trascinarlo a forza
né costringerlo con timore, ma per via di persuasione egli dev’essere
ricondotto a quella verità dalla quale prima s’era allontanato. V’è
bisogno quindi di un’anima generosa, onde non si smarrisca né disperi
della salvezza degli erranti, onde consideri e ripeta continuamente quel
detto: "...nella speranza che Dio conceda loro la vera conoscenza e si
liberino dalla rete del diavolo" (2Tim. 2,25). Per questo il Signore
parlando ai discepoli disse: "Chi è dunque il servitore fedele e
prudente?" (Mt. 24,45). Poiché colui il quale attende a sé solo,
converte a sé tutto il vantaggio, mentre invece l’utilità del ministero
pastorale si estende a tutto il popolo. Colui poi che largisce denaro a’
bisognosi, o in altra guisa assume la tutela degli oppressi, costui per
certo reca qualche utilità al prossimo, ma tanto minore del sacerdote,
quanta è la distanza che corre fra il corpo e l’anima. A ragione dunque
il Signore disse la cura prodigata al gregge essere segno dell’amore
verso di Lui.
Intermezzo I
Perché Giovanni fuggì la dignità e vi spinse invece l’amico.
Virtù di Basilio proclamate da Giovanni
V.: "Ma tu, disse, non ami Cristo?".
"L’amo (risposi) né mai cesserò di amarlo; ma temo di muovere a sdegno il mio Diletto".
"E
quale enigma, soggiunse, potrebbe darsi più oscuro di questo? Ché
mentre Cristo a chi lo ama impose di pascolare le sue pecore, tu dici di
non volerle pascolare, appunto perché ami Colui che ciò ha comandato".
"Non
è un enigma, ripresi io, il mio discorso, ma anzi è al tutto chiaro e
semplice. Ché se io avessi fuggito questa dignità pur avendo le qualità
necessarie per esercitarla come vuole Cristo, allora potrebbe nascere
dubbio su quanto io ho detto; ma poiché la debolezza dell’anima mi rende
inetto a questo ministero, come possono le mie parole suscitare
discussione? E per vero io temo che ricevendo il gregge di Cristo
prosperoso e ben nutrito, e facendolo deperire con la mia inettitudine,
non ecciti contro di me quel Dio che tanto l’amò, fino a dare se stesso
per la sua salvezza e per il suo riscatto".
"Tu
scherzi dicendo tali cose, mi disse, ché se fai sul serio non so come
avresti potuto in altro modo dimostrare la giustezza delle mie ansietà,
meglio che con queste parole, con le quali tentavi di rimuovere la mia
trepidazione. Già prima convinto che tu m’avevi ingannato e tradito, ora
che t’accingesti a scagionarti dalle accuse, io comprendo ancor meglio
in quale abisso di sciagure m’hai gettato. Ché se tu ti sottraesti da
questo ministero perché conoscevi l’insufficienza delle tue forze a
sopportarne il peso, io per il primo dovevo esserne allontanato, anche
se per caso me ne avesse preso gran desiderio; oltre di che io avevo pur
rimesso a te ogni divisamento riguardo a queste cose. Ora invece, solo
curandoti de’ fatti tuoi trascurasti la mia sorte; e almeno l’avessi
proprio trascurata, ché mi sarebbe stato caro: ma invece sei ricorso
all’insidia per rendermi facile preda di coloro che m’avevano appostato.
Né puoi ricorrere al pretesto che la fama circolante fra i più ti
trasse in inganno e ti fece concepire una grande e mirabile opinione di
me; io non sono del numero di quelli che destano meraviglia e attirano
l’attenzione; né, se anche ciò fosse, è da preporre l’opinione del volgo
alla realtà delle cose. Se io non t’avessi fornito mai l’esperienza
della mia compagnia, pare che un ragionevole pretesto l’avresti avuto
per giudicare a norma dell’opinione comune; ma dal momento che nessun
altro conosce siffattamente le cose mie, ma a te è nota l’anima mia più
ancora che a quelli che mi hanno generato e allevato, quale ragione
tanto persuasiva potresti addurre per convincere chi t’ascolta, che
contro tua intenzione mi hai spinto a questo cimento? Ma lasciamo ora da
parte ciò; non voglio per questi fatti sottoporti a rigoroso giudizio.
Dimmi ormai: che cosa risponderemo ai nostri accusatori?".
"Per
certo, risposi io, non verrò a quest’argomento, fino a che non avrò
terminato quanto riguarda te, anche se mille e mille volte mi
richiedessi di purgarmi dalle altre accuse. Tu dicesti che l’ignoranza
mi otterrebbe perdono e mi assolverebbe da ogni accusa, se non
conoscendo i fatti tuoi t’avessi spinto nella tua presente condizione, e
che ogni giusto pretesto e ogni legittima difesa mi è interdetta,
avendoti tradito, non già perché fossi al buio delle cose tue, ma
essendone pienamente edotto. Io dico invece affatto il contrario: e
perché? perché simili faccende richiedono lunga ricerca, e chi intende
proporre un candidato degno del sacerdozio, non deve appagarsi
unicamente dell’opinione del volgo, ma insieme deve egli stesso, più di
tutto e prima di tutto, investigare la vita di quello. E per vero, il
beato Paolo dicendo: "Fa d’uopo ancora che egli sia in buona riputazione
presso gli estranei" (1Tim. 3,7), non esclude l’indagine diligente e
minuziosa né propone il criterio della buona fama come indizio capitale
nel giudicare dell’idoneità di tali candidati. Infatti dopo aver
discorso di molte cose, alla fine aggiunge questa norma, per mostrare
che non di essa sola conviene appagarsi in tali scelte, ma questa si
deve adottare insieme alle altre. Non raramente avviene che la comune
opinione s’inganni; ma con la scorta d’una diligente indagine, non v’è
più a temere da quella alcun pericolo. Perciò dopo gli altri indizi pone
anche quello della altrui opinione; non dice infatti semplicemente: "Fa
d’uopo che egli sia in buona riputazione", ma aggiunge quell’anche
presso gli estranei, volendo mostrare che prima d’affidarsi all’opinione
di quei di fuori, bisogna diligentemente esaminarlo. Poiché dunque io
conoscevo i fatti tuoi meglio dei tuoi parenti, come tu stesso
ammettesti, sarebbe giusto che io fossi sciolto da ogni accusa.
Giovanni fa l’elogio della virtù di Basilio
VI.
"Ma appunto per questo, disse, non puoi difenderti, se alcuno voglia
accusarti; o non ricordi la pochezza della mia anima, della quale io
tante volte ebbi a parlarti e che potesti apprendere dalle mie opere? e
non mi schernivi tu sempre, tacciandomi di pusillanimità, perché io mi
smarrisco anche nelle incombenze comuni?".
"Ricordo,
risposi, d’aver ciò udito sovente volte da te, né potrei negarlo; ma se
io ti schernivo, lo facevo per gioco, non sul serio".
Ma
tuttavia non starò ora a discutere di questo; ti prego invece di
accordarmi eguale benevolenza quando io venga rammentando alcuna delle
doti che tu possiedi. Ché se anche tenterai d’accusarmi di menzogna, non
cederò, ma dimostrerò che tu lo dici per modestia e non per la verità;
né mi varrò d’altro testimonio, se non delle tue stesse parole e delle
opere tue per confermare la verità delle mie asserzioni. E anzitutto
questo ti voglio dire: Sai tu qual sia la potenza dell’amore? Cristo,
lasciando da parte tutti gli altri portenti che dovevano esser compiuti
dagli Apostoli: "Da questo, dice, conosceranno gli uomini che siete miei
discepoli, se vi amerete reciprocamente" (Gv. 23,35). Paolo poi dice
che esso è la pienezza della legge e che a nulla giovano i carismi
dov’esso faccia difetto. Or questo bene ch’è il più eccellente, la
tessera dei discepoli di Cristo, quello che sta sopra i carismi, io
scorsi profondamente radicato nell’anima tua e fecondo di molti frutti.
"Che
io ponga in ciò molto studio, disse, e molta sollecitudine dedichi a
questo precetto, lo confesso io pure; che poi non lo abbia soddisfatto
neppure per metà, potrai tu stesso farmene fede, qualora lasciando da
parte le parole cortesi, voglia tenere conto solo della verità".
"Orbene,
risposi, verrò alle prove; e come minacciai ora farò, dimostrando che
tu parli per modestia anziché per dire il vero. Narrerò un fatto testé
accaduto, onde non nasca sospetto che, narrando cose vecchie, cerchi di
adombrare la verità, facendo si che l’oblio non permetta di protestare
contro le cose da me narrate per cortesia. Dunque, quando uno dei nostri
amici, calunniato con accusa di oltraggio e insubordinazione, stava per
incorrere nelle pene estreme, allora tu senza che alcuno ti chiamasse,
neanche quegli a cui la condanna soprastava, ti gettasti da te nel mezzo
del pericolo. Questo sarebbe il fatto. Per convincerti poi anche dalle
tue parole, quando gli uni non approvavano questo tuo zelo, gli altri
invece assai lo lodavano e ammiravano: "E che? (dicesti ai tuoi
biasimatori) io non mi so altro modo d’amare, se non col dare anche la
mia vita, quando si tratti di salvare un amico che versa in pericolo";
dicendo in altri termini, ma con eguale sentimento, le parole che Cristo
rivolse ai discepoli quando determinò la misura del perfetto amore:
"Non si può dare, dice, amore più grande di questo, che uno dia la
propria vita per i suoi diletti" (Gv. 15,13). Se adunque non è dato
trovare amore più grande, tu hai raggiunto la perfezione di esso e ne
hai asceso il culmine, sia con le opere, sia con le parole. Per questo
ti ho tradito; per questo t’ho ordito quell’inganno; ti persuado ora che
t’ho spinto in questa carriera non per mala intenzione, né col
proposito di esporti a un pericolo, ma perché sapevo che ciò era cosa
utile?
"Ma tu credi, disse, che la forza dell’amore sia sufficiente per la correzione del prossimo?".
"Senza
dubbio, risposi, essa può contribuire a ciò in massima parte. Ma se
vuoi ch’io rechi esempi anche della tua assennatezza, verrò anche a
questo, e dimostrerò che sei ancor più prudente che caritatevole".
A
queste parole arrossendo e facendosi colore della porpora: "Orsù, dice,
si lascino ormai da parte le cose mie; non t’ho chiesto simili parlate
io in principio. Piuttosto, se hai qualche opportuna ragione da poter
addurre a quei di fuori, questo discorso ascolterò volentieri. Poni
dunque fine a simile vaniloquio e dimmi che cosa addurremo agli altri in
nostra difesa, sia a chi ci prescelse all’onore sia a chi si rammarica
tenendosi offeso per quelle faccende".
a) Seconda parte della difesa di Giovanni. Risposta alle accuse di oltraggio agli elettori, disprezzo del sacerdozio, vanagloria
VII.
Ora io proseguendo soggiunsi: A ciò appunto mi affretto. Poi che ho
dato fine a quanto riguarda te, di buon grado mi rivolgerò ora a
quest’altra parte della mia difesa. Qual è dunque l’accusa di costoro, e
quali le loro querele? Essi si chiamano oltraggiati da noi, e dicono
d’aver sofferto uno smacco, perché noi non accettammo l’onore che
vollero conferirci. Ebbene, io dico anzitutto che non si deve far alcun
caso dell’oltraggio che si possa recare agli uomini, quando per far
onore a questi siamo costretti a far offesa a Dio. Onde neppure per
quelli che se ne adontano è senza pericolo il menare tanto scalpore su
ciò, ma anzi, torna loro molto dannoso; io mi penso infatti che le
persone consacrate a Dio e che solo a Lui riguardano, debbano
comportarsi tanto cautamente da non ritenere ciò come un oltraggio,
quando anche mille e mille volte ne uscissero privi d’onore. Ma che io
non abbia fatto nulla di simile neppur col pensiero, si fa palese da
questo: se io, come hai tante volte ripetuto che taluni vanno
calunniando, venni al punto di votare per i miei accusatori, per
arroganza e vanagloria, sarei pur da annoverare fra i peggiori
malfattori, avendo dispregiato personaggi ammirandi e augusti e per di
più benefattori. Ché se il far ingiuria a chi non te n’ha arrecato
nessuna è degno di condanna; a quelli che spontaneamente si proponevano
di onorarti (ché nessuno potrebbe dire che essi, avendo prima ricevuto
qualche favore o piccolo o grande da me, volessero pagarmi la ricompensa
di quelle mie grazie), come non sarebbe degno d’ogni castigo il
corrispondere col rendere loro l’opposto? Ma se questo non mi passò
neppure per la mente e con ben altra intenzione mi sottrassi al grave
peso, quand’anche non volessero approvarmi, perché in luogo di darmi
perdono, m’accusano per aver io provveduto alla salvezza dell’anima mia?
Di fatto io ero tanto lontano dal voler fare ingiuria a quei
personaggi, che anzi, direi, col mio rifiutare, di averli onorati; né ti
meravigliare se ciò ha del paradosso, ché presto te ne darò la
soluzione. S’io avessi accettato, non tutti, ma quelli che trovano gusto
nelle maldicenze, avrebbero messo in campo molti sospetti e calunnie,
sia a carico di me consacrato, sia a carico di quelli che mi scelsero;
come: che essi guardano solo alla ricchezza e s’inchinano solo allo
splendore de’ natali; che mi condussero a quest’onore perché furono da
me lisciati. Non saprei dire se alcuno non li avesse pure sospettati
corrotti con denaro. Ed ancora: Cristo chiamò a questa potestà i
pescatori, i manovali e i gabellieri; costoro invece schifano quelli che
vivono del lavoro quotidiano, ma se alcuno è infarinato di dottrine
profane e vive tra gli agi, questo solo approvano, a questo fanno la
corte. Per qual motivo trascurano coloro che hanno durato innumerevoli
sudori a vantaggio della Chiesa, mentre uno che non ha mai pur anco
libato il peso di simili fatiche e ha perduto sempre il suo tempo nei
vaniloqui dei profani, d’un tratto te l’innalzano senz’altro a tanta
dignità? Queste ed altre più cose sarebbero andati blaterando, se io
avessi accolto la potestà; ora invece non possono. Ogni pretesto di
maldicenza è loro troncato, e non hanno motivo d’incolparmi, né
d’adulazione né di servilità verso di quelli, tranne se taluni volessero
proprio far pazzie. Come mai infatti, uno che per raggiungere
quest’onore avesse adulato e sborsato quattrini, l’avrebbe lasciato ad
altri proprio mentre era sul punto d’ottenerlo? Sarebbe come se uno,
dopo aver durato grandi fatiche nel coltivare un campo, affinché la
messe gli si aumentasse di copioso frutto e i tini traboccassero di
vino, dopo gli infiniti travagli e le molte spese, giunto il tempo di
mietere e vendemmiare, si astenesse dal cogliere i frutti, in favore di
altri. Tu vedi adunque che in tal caso, benché le loro dicerie fossero
lungi dalla verità, tuttavia quelli che avessero voluto calunniarli
avrebbero ben trovato pretesti, per insinuare che avevano fatta la
scelta senza averne rettamente vagliate le ragioni. Io invece non ho
dato loro il modo di spalancare la bocca, e neppure di aprirla.
Questo
e più altro avrebbero detto sul principio; ma poi, dato mano al
ministero, non sarei bastato a difendermi ogni giorno dagli accusatori,
anche se ogni cosa mi fosse riuscita senza difetti. Se non che per la
mia età e inesperienza avrei necessariamente commesso molti mancamenti; e
mentre ora ho potuto impedire loro di rivolgermi quest’accusa, allora
avrei offerto loro innumerevoli motivi di rimprovero. Che non avrebbero
essi detto? (Hanno affidato un ministero si grande e ammirando a
fanciulli insensati; hanno dato alla rovina il gregge di Dio; le
istituzioni dei Cristiani sono divenute giocattoli e oggetti di riso).
Ora invece "ogni ingiustizia chiuderà la sua bocca" (Sl. 107,42). Che se
poi dicessero tali cose di te, ben presto tu insegnerai loro con le
opere, che non si deve giudicare la prudenza dall’età e non si deve
approvare il vecchio per la canizie, né escludere senz’altro il giovine
da questo ministero; ma s’ha da interdirlo solo al neofita: e fra i due
v’è gran differenza.
Libro terzo
Giovanni dimostra di non essere stato indotto da arroganza a fuggire la vanità
I.
Questo dunque che ho detto è quanto io avrei da rispondere riguardo
all’ingiuria verso quelli che mi avevano onorato, per dimostrare che non
ho rifiutato questo onore con l’intenzione di svergognarli. Ora poi mi
sforzerò, per quanto m’è dato, di spiegarti come ciò non abbia fatto
neppure perché fossi gonfio di arroganza alcuna.
Se
invero mi si fosse voluto eleggere alla dignità di stratego o di re, e
io avessi preso tale decisione, a ragione potrebbe taluno pensare ciò; o
meglio, in tal caso, nessuno m’avrebbe accusato d’arroganza, ma tutti
di stoltezza. Trattandosi invece del sacerdozio, che tanto supera la
dignità regale, quanto la carne dista dallo spirito, oserà alcuno
incolparmi di disprezzo? Non sarebbe strano tacciare di pazzia quelli
che rifiutano piccoli onori, e quelli invece che fanno ciò per dignità
assai maggiori, assolverli dall’accusa di pazzia e nondimeno incolparli
di superbia? Come se un tale, incolpando non già di orgoglio ma bensì di
demenza chi disprezzasse l’armento dei buoi, nè volesse far il bifolco,
accusasse poi non di pazzia ma di gonfiezza, chi ricusasse l’impero di
tutto il mondo e il comando di tutti gli eserciti. Ma no, le cose non
stanno così; coloro che ciò vanno dicendo, non calunniano tanto me,
quanto piuttosto se stessi. Ché il solo pensare che l’umana natura possa
concepire disprezzo per quella dignità, è una prova del concetto che ne
hanno quelli stessi che ciò esprimono: se non lo stimassero cosa
ordinaria e di poco conto, non sarebbe loro occorso di concepire tale
sospetto. Per qual motivo infatti nessuno osò mai immaginare né dire
alcunché di simile riguardo alla dignità degli angeli, che cioè vi sia
un’anima umana la quale non avrebbe acconsentito per arroganza di salire
al grado di quella natura? Noi invero ci figuriamo grandi cose di
quelle Potenze, e ciò non ci permette di credere che un uomo possa
concepire un onore più grande di quello. Pertanto si dovrebbero
piuttosto tacciare d’orgoglio quelli che tale accusa fanno a me; che mai
non avrebbero concepito tale sospetto sul conto di altri, se loro
stessi non nutrivano disprezzo di tale dignità, come di cosa da nulla.
Che
se poi dicono ch’io feci questo avendo di mira la gloria, saranno
palesemente convinti di contraddizione e che si tirano da se stessi la
zappa sui piedi. Non so proprio qual altra ragione avrebbero potuto
cercare, qualora avessero voluto assolvermi dall’accusa di vanagloria.
Se mai tal brama mi prese, dovevo io pur accettare piuttosto che
ricusare. Perché? perché ciò m’avrebbe acquistato grande rinomanza: alla
mia età e da poco toltomi alla vita mondana, essere d’un tratto stimato
fra tutti tanto eccellente, da venire anteposto a coloro che tutto il
tempo consumarono fra tante e tali fatiche, e raccogliere maggior numero
di suffragi che tutti loro, ciò avrebbe fatto nascere in tutti grandi e
meravigliose opinioni a mio riguardo e m’avrebbe reso un personaggio
augusto e celebrato. Ora invece, tranne pochi, la gran parte della
comunità ecclesiastica non mi conosce neppure di nome; e credo che
neppur tutti sapranno del mio rifiuto, ma solo pochi, e che, anche
questi pochi, non siano al chiaro d’ogni cosa; ed è probabile che molti
di questi o crederebbero senz’altro ch’io non fossi stato eletto, o che
dopo l’elezione non fossi già fuggito spontaneamente, ma venissi
rimosso, per non essere parso idoneo all’uopo.
"Ma ben si meraviglierà chi conosce il vero".
"Per
l’appunto, dicevi che questi mi calunniano come vanaglorioso e
arrogante. Or da qual parte s’ha da sperare lode? dai molti? ma non
conoscono il fatto come sta; o forse dai pochi? ma allora la cosa si
presenta per noi tutto al contrario; poiché non sei qui venuto per altro
scopo che per sapere da me come ci si debba difendere presso di questi.
Ed a che tanto sottilizzare ora per ciò? Attendi un poco, e vedrai
chiaramente che se anche tutti sapessero la verità, non c’era motivo per
tacciarmi di arroganza e vanagloria; e oltre a ciò ancora vedrai come
non solo chi mostrasse tanta audacia, seppure alcuno ve n’ha, poiché io
non lo credo, ma anche coloro che la suppongono negli altri, rasentano
non lieve pericolo".
b)
Grandezza del sacerdozio e del rito eucaristico. Gli angeli stanno in
adorazione intorno al sacerdote celebrante. L’epiclési o invocazione
dello Spirito Santo. Confronto coi riti sacrificali dell’antica Legge
Il.
Però che il sacerdozio si compie sulla terra, ma è nell’ordine delle
cose celesti; e con ogni ragione; poiché non un uomo, non un angelo, non
un arcangelo, né altra forza creata, ma lo stesso Paracleto ordinò
quest’ufficio, ispirando quelli che tuttora si stanno nella carne a
ideare una funzione propria degli angeli; deve pertanto il sacerdote
essere così puro, come se abitasse negli stessi cieli fra quelle
Potenze. Terrificanti cose per certo e paurose erano quelle che
precedettero la Grazia, come i campanelli, i melograni, le pietre del
petto e dell’omero, la mitra, la cidari, la tunica talare, la lamina
d’oro, il Santo dei Santi, la profonda quiete degl’interni recessi; ma
se alcuno considera le istituzioni della Grazia troverà piccole quelle
tremende e terribili cose, e che anche qui è vero ciò che è scritto
intorno alla legge: "Non fu glorificato quello che fu glorificato, in
comparazione e rispetto a questa gloria trascendente" (2Cor. 3,10).
Poiché quando tu vedi il Signore sacrificato e giacente, e il vescovo
preposto al sacrificio e pregante, e tutti imporporati di quel sangue
augusto, credi tu d’essere ancor fra i mortali e di starti sopra la
terra, o non piuttosto sei d’un tratto trasportato nei cieli, e sgombro
dallo spirito ogni pensiero della carne, contempli con l’anima ignuda e
con la mente pura le cose celestiali? o meraviglia! o filantropia di
Dio: colui che siede in alto insieme col Padre, in quell’istante viene
tenuto dalle mani di tutti, e dona se stesso a chi vuole abbracciarlo e
stringerlo a sé, e tutti fanno poi ciò allora con gli occhi della fede.
Or dunque ti paiono cose queste da poter essere disprezzate, o tali che
uno possa esaltarsi al di sopra di esse? Vuoi ora scorgere da altra
meraviglia la superiorità di questo sacrificio? Rappresentati innanzi
agli occhi Elia, e intorno a lui moltitudine immensa, e il sacrificio
disposto su le pietre, e tutti gli altri in gran quiete e silenzio
profondo, e il profeta solo supplicante; indi d’un tratto la fiamma
lanciata dai cieli sopra la vittima: è uno spettacolo meraviglioso che
riempie di stupore. Rivolgiti or quindi a quello che adesso si compie e
vedrai non solo cose meravigliose, ma tali da superare ogni meraviglia.
Sta il sacerdote, per attirare giù non il fuoco, ma lo Spirito Santo; e a
lungo si fa la supplica, non affinché una fiamma accesa dall’alto
consumi le offerte, ma affinché la grazia discesa sopra il sacrificio,
per mezzo di questo accenda le anime di tutti e le renda più fulgide che
argento incandescente. Chi oserà nutrire sprezzo, se non sia al tutto
pazzo o fuor di sé, di questa così tremenda azione? o non sai che
l’anima umana non varrebbe a sopportare quel fuoco del sacrificio, e
tutti d’un tratto ne sarebbero annientati, se non fosse grande il
soccorso della grazia di Dio?
Il sacerdote assolve dai peccati con la potestà da Cristo a lui trasmessa
III.
Se alcuno ben consideri che gran cosa è poter avvicinarsi a quella
beata e intatta natura, pur essendo uomo e ancora plasmato di carne e
sangue, vedrà allora bene di quanto onore la grazia dello Spirito abbia
degnato i sacerdoti. Per loro mezzo infatti queste cose si compiono, ed
altre ancora per nulla inferiori a queste, sia per dignità, sia in
rapporto con la nostra salvezza; quelli che dimorano in terra e sono
posti in questa condizione, vengono ordinati ad amministrare le cose
celesti e hanno ricevuto una potestà che Dio non ha conferito né agli
angeli né agli arcangeli; poiché non fu detto a questi: "Ogni cosa che
legherete sulla terra sarà legata anche nel cielo; e ogni cosa che
scioglierete, sarà sciolta" (Mt. 18,18). Anche i dominatori sulla terra
hanno il potere di legare, ma soltanto i corpi; invece questo legame si
applica all’anima stessa e trascende i cieli; onde, checché i sacerdoti
compiano quaggiù, questo conferma Dio in alto, e la deliberazione dei
servi viene sancita dal padrone. E che vuol dire ciò, se non che ha loro
conferito ogni potestà celeste? Dice infatti: "I peccati di coloro ai
quali li rimetterete, saranno rimessi; quelli di coloro a cui li
riterrete, saranno ritenuti" (Gv. 2,23). Qual potere maggiore di questo?
Il Padre ha dato al Figlio ogni giudizio; or io vedo che essi ne furono
fatti dal Figlio pienamente depositari. Come se già fossero assunti nei
cieli, trascesa l’umana natura e sciolti dalle nostre miserie, così
furono elevati a questa dignità. Inoltre, se un re partecipasse a
qualcuno dei suoi sudditi quest’onore di poter gettare in prigione
chiunque gli piacesse e nuovamente liberarlo, sarebbe costui invidiato e
celebrato da tutti; colui poi che da Dio ha ricevuto una potestà tanto
più grande quanto il cielo è più augusto della terra, e le anime dei
corpi, parrà mai ad alcuno aver egli ricevuto sì piccolo onore, da poter
anche solo pensare che altri abbia a mostrare disprezzo verso i
depositari di sì eccelse cose? Lungi tale insania! È per vero insania
palese, il guardar dall’alto in basso una dignità senza la quale non è
dato di ottenere né la salvezza né i beni che ci furono annunziati. Ché
se "nessuno può entrare nel regno de’ cieli, se non venga rigenerato per
acqua e Spirito, e colui che non mangia la carne del Signore e non beve
il suo sangue, viene escluso dalla vita eterna" (Gv. 3,5), e tutte
queste cose si compiono da nessun altro fuorché da quelle sacre mani,
dico del sacerdote, come potrà alcuno indipendentemente da loro, sia
fuggire il fuoco della geenna, sia ottenere le corone riservate? A loro
infatti, a loro fu affidata la generazione spirituale, e il partorire
per mezzo del battesimo; per mezzo loro rivestiamo il Cristo, siamo
consepolti col Figlio di Dio, e fatti membri di quel beato capo.
Pertanto dovrebbero essere per noi giustamente più temibili che
dominatori e re, non solo, ma anche più venerandi che padri; questi
invero ci hanno generati "dal sangue e dalla volontà della carne" (Gv.
1,13), quelli invece ci sono strumento della generazione di Dio, di
quella beata rigenerazione, della verace libertà e dell’adozione secondo
la grazia.
Confronto col sacerdozio levitico
IV.
I sacerdoti degli Ebrei avevano il potere di liberare dalla lebbra del
corpo, anzi, niente affatto liberare, ma soltanto di approvare coloro
che ne erano liberati, e ben sai come il potere sacerdotale era oggetto
di invidia allora; ma questi hanno ricevuto il potere non di liberare
dalla lebbra del corpo, sebbene di togliere affatto, non solo approvare
quando sia tolta, l’impurità dell’anima. Onde, quelli che li
disprezzassero sarebbero più empi dei seguaci di Datan, e degni di
maggior pena. Poiché questi sebbene si arrogassero una dignità non
dovuta, avevano tuttavia un gran concetto di essa, e lo dimostrarono
aspirandovi con grande ardore: quelli invece quando la dignità venne
ordinata a maggior ministero e fu di tanto elevata, allora dimostrano in
senso contrario, molto maggior audacia degli altri. Poiché non è
eguale, quanto al grado del disprezzo, l’arrogarsi un potere indebito e
lo schifarlo: ma questo è tanto maggiore di quello, quanto il rigettare
con sdegno differisce dall’ammirare. Quale anima pertanto sarebbe così
miserabile da sprezzare simili beni? non direi che ciò potesse darsi,
tranne che alcuno fosse invaso da qualche estro diabolico.
Confronto fra i sacerdoti e i parenti carnali.
Ma
torno là donde sono partito. Dio ha dato ai sacerdoti potenza maggiore
che ai parenti carnali, non solo quanto al punire, ma anche quanto al
beneficare: e tanta è la differenza fra gli uni e gli altri, quanta
ven’ha fra la vita presente e quella futura. Poiché gli uni generano a
questa vita, gli altri a quell’altra: quelli non varrebbero neppure a
stornare dai loro figli la morte corporale, né allontanare un’infermità
sopravvenuta; questi hanno spesso salvato l’anima inferma e prossima
alla rovina, agli uni rendendo più lieve la punizione, agli altri
impedendo fin da principio dal cadervi, non solo coll’insegnare e
coll’ammonire, ma anche soccorrendo con le preghiere. Né solo quando ci
rigenerano, ma possono rimetterci anche i peccati commessi in seguito.
Dice infatti: "Chi è malato chiami a sé i presbiteri della chiesa e
preghino per lui, ungendolo di olio nel nome del Signore; e la preghiera
della fede salverà l’infermo, e il Signore lo solleverà e se ha
commesso peccati gli saranno rimessi" (Gc. 5,14-15). Inoltre i genitori
naturali, qualora i figli abbiano recato offesa a qualche potente, non
possono giovargli in alcun modo; mentre i sacerdoti riconciliarono non i
potenti né i re, ma lo stesso Dio più volte con loro adirato. Dopo ciò
oserà ancora taluno accusarmi di arroganza? Da quanto ho detto io penso
d’aver infuso nell’animo degli uditori tale cautela, che abbiano ormai a
tacciare d’arroganza e audacia non quelli che fuggono, ma quelli che da
se stessi si fanno avanti e s’arrabattano per acquistarsi questa
dignità.
Infatti,
se coloro a’ quali sono affidate le magistrature civili, qualora per
caso non siano prudenti e assai accorti, mandano le città a catafascio e
se stessi alla rovina; colui che é destinato a fregiare la sposa di
Cristo, di qual forza non ti par debba essere fornito, sia di quella sua
propria, sia di quella che viene dall’alto, per non cadere in colpa?
c) Virtù richieste dal sacerdozio. Il candidato al sacerdozio deve temere la dignità
V.
Nessuno amò Cristo più di Paolo, nessuno mostrò maggior zelo, nessuno
fu donato di maggior grazia; ma pur con tutto questo, teme ancora e
trema per questa potestà e per coloro sui quali la esercita. "Io temo,
dice, che come il serpente con la sua malizia ingannò Eva, così i vostri
pensieri degenerino dalla semplicità che é in Cristo" (2Cor.11,3). Ed
ancora: "Fui in gran timore e trepidazione per voi" (1Cor. 2,3): un uomo
che fu rapito al terzo cielo e messo a parte degli arcani di Dio, e che
sopportò tante e tali fatiche quanti furono i giorni di sua vita dopo
la conversione; un uomo che non volle neppur fare uso del potere
conferitogli da Cristo, affinché non fosse scandalizzato qualcuno dei
fedeli. Se adunque colui che superò i comandamenti di Dio, né
minimamente cercò il suo interesse, ma quello dei sudditi, era sempre in
tanto timore riguardando la grandezza della dignità, quale sicurezza
avremo noi, che sovente cerchiamo la comodità nostra, che non solo non
superiamo i precetti di Cristo, ma in gran parte li trasgrediamo? "Chi
cade infermo, dice, e io non cado infermo? chi si scandalizza e io non
ne ardo?" (2Cor. 11,29). Tale dev’essere il sacerdote; o piuttosto, non
solo tale; queste cose sono piccole e da nulla rispetto a quanto sono
per dire; che è ciò? "Ho supplicato, dice, d’essere riprovato da Cristo,
per i miei fratelli, miei congiunti secondo la carne" (Rom. 9,3). Se
alcuno pub lanciare questo grido; se alcuno ha l’anima che arriva fino a
questa preghiera, quegli si dovrebbe rampognare se fuggisse; ma chi è
lungi da quella virtù quanto lo sono io, sarebbe degno di detestazione
non quando fuggisse, ma quando accettasse. Che se si trattasse
d’eleggere ad una dignità militare, e quelli cui spetta conferirla,
tirato in mezzo un fabbro od un ciabattino o altro simile artefice, gli
affidassero l’esercito, io non loderei per certo quel miserabile,
qualora non ricusasse e non facesse di tutto per evitare di gettarsi in
un male palese. Ché se bastasse l’esser chiamato pastore e disimpegnare
l’ufficio in qualunque modo, né pericolo alcuno vi fosse, mi accusi pur
chi vuole di vanagloria; ma se colui che si sobbarca a questa cura
abbisogna di grande prudenza, e prima della prudenza, di copiosa grazia
di Dio, rettitudine di costumi, purezza di vita e una virtù più grande
dell’umana, non mi negherai venia, se non ho voluto vanamente e senza
motivo darmi a rovina. Se uno, tratta innanzi una nave da trasporto
piena di remiganti e di preziosi carichi, fattomi sedere al timone mi
ordinasse di traghettare il mar Egeo o il Tirreno, mi ritrarrei alla
prima voce: e se alcuno chiedesse: "Perché?" risponderei: "Per non
mandare a fondo la nave".
Or
poi, se là dove il danno è nelle sostanze ed il pericolo riguarda la
morte corporale, niuno farà rimprovero a chi adoperi grande previdenza;
dove invece i naufraghi sono in procinto di cadere non in questo pelago,
ma nell’abisso del fuoco, e li aspetta non la morte che divide l’anima
dal corpo, ma quella che l’anima insieme col corpo dà in preda alla
punizione eterna, mi detesterete e vi adirerete perché io non mi gettai a
precipizio in un tanto male? no, ve ne prego e vi scongiuro. Conosco
l’anima mia, inferma com’è e piccina; conosco la grandezza di quel
ministero e la gran difficoltà dell’ufficio; poiché le onde che sbattono
l’anima del sacerdote sono più impetuose dei venti che sconvolgono il
mare.
Fuggire la bramosia di onore e la servilità verso i potenti e l’eccessivo ossequio verso le donne.
VI.
E anzitutto v’è il terribile scoglio della vanagloria, più funesto di
quello di cui narrano portenti i mitologi; questo infatti molti
riuscirono a sfuggirlo incolumi tragittando; per me invece quello è
tanto minaccioso, che non posso guardarmi dal suo malo influsso, nemmeno
ora che nessuna necessità mi spinge verso quel baratro; se poi alcuno
mi affidasse questa dignità, sarebbe come legarmi le mani all’indietro e
espormi alle fiere che dimorano su quello scoglio, per esserne
quotidianamente dilaniato. Quali sono queste fiere? violenza, ignavia,
invidia, contese, calunnie, accuse, menzogne, ipocrisia, insidie,
istanze a danno d’innocenti, compiacenza per le sconvenienze dei propri
colleghi, rammarico per i loro successi, brame di lode, avidità d’onore
(ciò che più di tutto tira alla. rovina l’anima dell’uomo); discorsi
tenuti per pavoneggiarsi, adulazioni servili, corteggiamenti indegni,
disprezzo dei poveri, ossequiosità poi ricchi, onori affatto
irragionevoli e favori biasimevoli, che recano pericolo a chi li dà e a
chi li riceve; timore servile, degno soltanto dei peggiori schiavi,
scatti d’audacia, gran modestia all’esterno e nessuna in realtà, accuse
di assenti e punizioni inflitte specialmente ai deboli e fuor di misura,
mentre con quelli che sono circondati di potenza non s’osa nemmeno
aprire bocca. Tutte queste fiere e altre più ancora, nutre quello
scoglio, nelle quali chi incappa una volta, è per forza ridotto a tale
schiavitù, da compiere in grazia delle donne, azioni che non è bello
neanche nominare. La legge divina le ha escluse da questo ministero, ma
esse si sforzano di invaderlo; e poiché nulla possono da se stesse,
fanno ogni cosa per mezzo di altri; e si arrogano tanta potenza, da
approvare o eliminare i sacerdoti come a loro piace. E rovesciato
l’ordine, questo che è proverbiale si può qui vedere avverato: i sudditi
guidano i magistrati; e fossero uomini almeno, ma sono proprio quelle a
cui non è nemmeno dato l’incarico d’insegnare: che dico insegnare? il
beato Paolo non permise loro neppur di parlare nella comunità
ecclesiastica. E io ho udito uno raccontare, che tale baldanza hanno
acquistata, da muovere rimproveri ai capi delle Chiese e imperversare
contro di quelli, più fieramente che non facciano i padroni coi propri
servi. Ma non creda alcuno che io voglia sottoporre tutti a queste
accuse; vi sono invero, vi sono molti che sfuggono a queste reti e sono
in maggior numero di quelli che vi si perdono.
Disordini
provenienti da elezioni ispirate a favoritismo e dominate da spirito
partigiano. Chi si sente impari all’ufficio, anche a elezione fatta
dovrebbe ritirarsi.
VII.
Ma io non vorrei attribuire al sacerdozio la cagione di questi mali, a
meno che fossi pazzo; ché non s’incolpa il ferro degli omicidi, né il
vino dell’ubriachezza, né la forza dell’oltraggio, né il coraggio
s’incolpa della stolta audacia; ma ognuno che ha senno dice esserne
cagione quelli che dei doni impartiti da Dio non fanno il debito uso, e
quelli castiga. E ben a ragione il sacerdozio potrebbe accusare noi,
quando non l’esercitiamo rettamente; ché non esso è a noi cagione dei
mali sopraddetti, ma siamo noi che, per quanto da noi dipende,
l’inquiniamo di tante e tali immondezze, affidandolo a uomini volgari.
Questi poi, non avendo prima conosciute le loro anime né considerato il
peso dell’istituzione, accettano bensì bramosamente la dignità
conferita, ma quando vengono all’azione, ottenebrati dall’inettitudine
loro, riempiono di infiniti mali i popoli che a loro furono affidati.
Questo, sì, questo per poco non accadeva anche a me, se Dio non m’avesse
presto sottratto a quei pericoli, risparmiando la Chiesa e l’anima mia.
O
dimmi, donde credi tu che nascano nelle chiese tanti scompigli? da
nessun’altra parte, io credo, che dall’eseguirsi senza cura e a casaccio
la scelta e l’elezione dei dirigenti; la testa che dovrebbe essere la
parte più salda, per frenare e mantenere in equilibrio gli spiriti
perversi esalati da basso dal resto del corpo, se ella stessa è inferma e
inetta a reprimere quelle morbose esalazioni, s’infermerà ancor più di
quello che non sia, e rovinerà insieme con se stessa il rimanente del
corpo. A evitare ciò nel presente caso, Iddio mi trattenne al livello
dei piedi, dove la sorte prima m’aveva collocato.
Ma
ben molte altre, o Basilio, oltre quanto fin qui fu detto, sono le
virtù che il sacerdote deve possedere, e che io non possiedo; e prima di
tutto questa, di purificare affatto l’anima propria dalla brama di
questa dignità. Che se egli per avventura sentirà vivo desiderio per
questa carica, raggiunta che l’abbia accende una fiamma più veemente, e
volendosi deporlo a forza, commette innumerevoli perversità pur di
serbarsela, sia che occorra adulare o tollerare cosa vile e indegna, o
sacrificare grandi somme: tralascio ora che alcuni hanno riempito le
chiese di uccisioni e messo sossopra le città disputandosi questa
dignità; parrebbe infatti ad alcuno che io narri cose incredibili. Ma
bisogna, a mio avviso, nutrire un tal timore di questo incarico, da
volersene sottrarre fin da principio, né, raggiunto che uno l’abbia,
attendere i giudizi altrui, se mai gli accada di commettere un fallo
degno della deposizione, ma prevenendoli, uscire di carica egli stesso;
così è anche probabile che attiri sopra di sé la misericordia di Dio. Ma
il persistere in carica oltre il convenevole, equivale a privarsi
d’ogni perdono e vie più accendere l’ira di Dio, aggiungendo al primo un
secondo e più grave fallo. Ma nessuno mai sopporterà tal cosa, perché
l’agognare quest’onore è vizio funesto. Né dico ciò per contraddire al
beato Paolo, ma anzi in piena armonia con le parole sue; che dice egli
infatti? "Se alcuno brama l’episcopato, brama una cosa buona"
(1Tim.3,1); e io ho detto che è vizio funesto non già il bramare la
cosa, ma la dignità e il potere.
VIII.
Credo pertanto doversi tal brama cacciare con ogni cura dall’anima, né
soffrire che questa cominci ad esserne dominata, anche affine di poter
compiere ogni cosa con libertà. Colui che non brama d’esser designato a
quella potestà, non teme neppur d’esserne deposto; non temendolo potrà
agire in tutto a norma della libertà che s’addice ai Cristiani; mentre
coloro che temono e tremano d’esserne deposti, sopportano una schiavitù
amara e piena di miserie, e sovente sono nella necessità di offendere
gli uomini e Dio. Tale non ha da essere la disposizione dell’anima, ma
come vediamo nelle battaglie i soldati valorosi combattere con ardore e
cadere con fortezza, così anche quelli che giungono a questo ufficio,
debbono saperlo esercitare e all’uopo deporre, come si addice a uomini
cristiani, certi che una tale deposizione non diminuisce la corona del
ministero. Che se poi taluno soffrisse una tale vicenda senz’aver nulla
commesso di sconveniente e indegno del posto che occupa, procurerebbe la
punizione per quelli che ingiustamente lo deposero e a se stesso
maggior ricompensa: "Beati siete voi quando gli uomini vi malediranno e
vi perseguiteranno e diranno di voi falsamente ogni male per causa mia;
rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei
cieli" (Mt. 5,11-12). Ciò qualora alcuna sia tolto di seggio dai propri
colleghi, o per invidia, o per far piacere ad altri, o per inimicizia o
per altra ingiusta ragione. Quando poi gli occorra di sopportare ciò
anche per opera degli avversari, credo inutile aggiungere parole, per
dimostrare quanto guadagno quelli gli procurino con la loro perversità.
Conviene adunque ricercare da ogni parte e diligentemente investigare,
che non si celi ardendo qualche scintilla di quel desiderio. Invero c’è
da esser contenti se anche coloro che si mantengono da principio liberi
da tal brama, riescano a sfuggirvi qualora siano cascati nella dignità;
che se poi alcuno nutre in se stesso questa fiera terribile e selvaggia
prima ancora di toccare in sorte l’onore, non si può dire in qual
fornace immerga se stesso dopo averlo raggiunto. Io per certo (né credi
che voglia mentire con te per modestia) ero molto preso da questa
bramosia, il che insieme con tutto il resto mi infuse non minore,
sgomento, e mi decise a questa fuga. Come gli amanti dei corpi sentono
più fiero il tormento della passione fin che è loro concesso di starsi
vicino agli amati; e quando si siano spinti il più lontano possibile
dall’oggetto di loro brame, pongono fine anche alle loro smanie; così
anche i bramosi di questa potestà, quando si ‘trovano vicini a essa il
loro male diviene insopportabile; ma qualora ne abbiano perduta la
speranza, spengono in se stessi in un con l’aspettativa, anche il
desiderio. Ciò non era piccolo pretesto: e se anche non ve ne fosse
stato altro, bastava per escludermi da questa dignità.
Prudenza e fortezza sono virtù più necessarie al sacerdote che le austerità e i digiuni.
IX.
Ora s’aggiunge un’altra virtù non minore di questa. Qual è? Deve il
sacerdote essere sobrio e perspicace, e munirsi da ogni parte d’infiniti
occhi, dovendo vivere non solo a:e stesso, ma a vantaggio d’una tanta
moltitudine. Ora, che io sia pigro e debole e appena sufficiente alla
mia salvezza, tu stesso l’ammetteresti, sebbene per l’amicizia sia più
di tutti sollecito nel nascondere i miei difetti. Non parlarmi ora di
digiuni né di vigilie né di sonni su nuda terra né d’altre austerità
corporali; sai del resto quanto io sia lontano anche da queste; ma se
pure mi vi fossi dedicato con ardore, non avrebbero potuto per nulla
giovarmi in questo ministero. Potrebbero bensì quelle austerità recare
grande giovamento a un uomo che se ne stia rinchiuso nella sua cella
unicamente occupandosi di se stesso; ma a chi è diviso fra tanta
moltitudine e sollecitato da cure diverse per ciascuno dei suoi sudditi,
come potrebbero recare un considerevole incremento al progresso di
quelli, se egli non possederà un’anima pieghevole ad un tempo e
fortissima?
Non
meravigliarti se insieme a quelle austerità io richiedo un’altra prova
della virtù dell’anima. Noi vediamo essere per nulla difficile lo
sprezzare i cibi, le bevande e i soffici letti, specialmente a coloro
che menano vita rustica e furono allevati così fin dalla più tenera età,
come anche a molti altri, quando la disposizione fisica e la
consuetudine rende meno sensibile l’asprezza di quei travagli; ma il
sopportare l’ingiuria, l’insolenza, il parlar grossolano, i dileggi da
parte degl’inferiori, sian profferiti a caso o con giusta causa, e i
biasimi mossi senza motivo e infondatamente dai superiori e dai propri
sudditi, non è virtù di molti, ma a stento d’uno o due (); onde si
potrebbe vedere talora persone che in quelle austerità erano forti, dare
ora siffattamente nelle vertigini, da imperversare peggio delle fiere
più selvagge; or questi tali dobbiamo massimamente escludere dai recinti
del sacerdozio. Che il vescovo non languisca d’astinenza né vada a
piedi nudi, non recherà alcun detrimento alla comunità ecclesiastica;
mentre invece l’asprezza d’animo produce grandi malanni, sia in chi ne è
agitato, sia nei suoi vicini; né alcuna minaccia di Dio sovrasta a
coloro che non si danno a quelle pratiche, mentre a coloro che montano
in furia senza ragione, è minacciata la geenna e il fuoco di essa. Come
colui che è preso da vanagloria, quando abbia afferrato il dominio sopra
il popolo offre al fuoco maggior materia; così chi è incapace di
frenare lo sdegno quando è solo o nella conversazione di pochi, ma
facilmente perde le staffe; qualora gli sia affidata la supremazia di
tutta una moltitudine, simile a una fiera punzecchiata da ogni parte e
da moltissimi, egli non potrà mai starsi in pace, e procurerà a’ suoi
sudditi innumerevoli mali. Nulla intorbida più la purezza della mente e
la trasparenza dei pensieri, che un animo sfrenato e che si lascia
trascinare da grande impeto: "Questo (dice la Scrittura) rovina anche i
saggi" (Prv 5,1). E come in un combattimento notturno, l’occhio
dell’anima ottenebrato non trova modo di discernere gli amici dai
nemici, né le persone volgari da quelle distinte, ma con tutti
egualmente usa le stesse maniere, rassegnandosi a sopportare il male che
gliene possa venire, pur di soddisfare la voluttà dello spirito; poiché
l’ardore della collera è una specie di voluttà, anzi più duramente
della voluttà esso tiranneggia l’anima sconvolgendone interamente la
sana costituzione; onde spinge facilmente all’arroganza, a inimicizie
intempestive, all’odio infondato, e continuamente dispone a eccitare
malcontenti inutilmente e senza motivo, e tante altre cose simili
costringe a fare e dire, sentendosi l’anima trascinata da gran tumulto
di passione, né avendo dove appoggiare il suo sforzo per resistere a
tale impeto.
X.
"Ma ormai non sopporterò più a lungo, quel tuo fare ironico, disse;
poiché chi non conosce quanto tu sii lontano da questo difetto?"
"E
che, soggiunsi, o fortunato, vuoi tu dunque spingermi vicino al rogo, e
istigare la fiera accovacciata? o non sai che in ciò mi sono moderato
non per virtù mia propria, ma per amore della quiete, e che chi ha tale
disposizione è cosa desiderabile che, standosene solo o colla compagnia
di uno o due amici soltanto, possa sottrarsi a quell’incendio, non che
dal cadere nell’abisso di tante sollecitudini? Poiché in questo caso,
non solo se stesso, ma molti altri insieme con lui trascinerebbe nel
precipizio della rovina, rendendoli meno solleciti per mantenersi nella
giusta misura; infatti il più delle volte la moltitudine dei sudditi è
disposta naturalmente a guardare i costumi dei capi come un modello
archetipo e foggiare se stessa a norma di quelli. Or come potrebbe uno
sedare i loro gonfiori quando egli stesso è gonfio? chi fra la plebe
desidererebbe diventare moderato, mentre vede il capo che facilmente
cede alla collera? Non è possibile affatto che le mancanze dei sacerdoti
restino celate, ma anche le minime ben presto diventano palesi.
Il sacerdote deve risplendere col buon esempio
Un
atleta fino a che se ne rimarrà in casa senza venire alle mani con
alcuno, potrà bensì celarsi anche se debolissimo; ma tosto che deponga
la veste per affrontare la lotta, ben presto diverrà oggetto di
disprezzo; così anche quelli fra gli uomini che vivono questa vita
privata e tranquilla, hanno per velario delle proprie colpe la
solitudine; ma qualora siano tirati in mezzo, allora sono costretti a
deporre la solitudine come un vestito, e per mezzo dei movimenti esterni
mostrare ignude a tutti le anime loro. Pertanto, come le loro virtù
giovano a molti ridestandone l’emulazione, così pure le loro mancanze
rendono altri più schivi del travaglio che la virtù richiede e li
dispone all’indolenza dinanzi alle fatiche di serie intraprese. Deve
dunque la bellezza dell’anima di lui risplendere da ogni parte per poter
rallegrare e insieme illuminare le anime dei suoi spettatori. Le colpe
dei volgari, commesse per così dire al buio, sono di rovina soltanto per
chi le commette; ma la trascuratezza d’un personaggio distinto e noto a
molti, reca danno comune a tutti, rendendo i caduti sempre più restii
ai sudori per le opere buone, e d’altra parte provocando all’arroganza
quelli che vogliono attendere a se stessi. Inoltre, i falli della gente
comune, anche se divengono palesi, non infliggono nessuna piaga
considerevole; ma quelli che siedono su questo culmine di dignità,
primariamente sono visibili a tutti; poi anche se cadono in difetti
minimi, le cose piccole appiano grandi agli altri, perché tutti misurano
la colpa non in ragione della sua propria entità, ma in ragione del
grado di chi l’ha commessa. Onde il sacerdote ha da essere circondato,
come d’armi d’acciaio, da attenzione continua e da costante moderazione,
e guardarsi da ogni lato che alcuno vedendo qualche parte scoperta e
negletta, non infligga una ferita mortale. Tutti stanno all’intorno
pronti a colpire e abbattere, non solo nemici e avversari, ma molti
anche di quelli che simulano amicizia. Bisogna rendere le anime disposte
come Dio un tempo mostrò essere i corpi di quei santi nella fornace di
Babilonia; l’alimento poi di questo fuoco non è sarmento né pece né
stoppa, ma altre cose ben peggiori; né si tratta di quel fuoco
sensibile, ma li avvolge la voracissima fiamma della gelosia, elevandosi
da ogni parte, investendoli e scrutandone la vita, con più lena che
quel fuoco i corpi di quei giovinetti; se pertanto troverà una piccola
traccia di paglia, subito l’avvolge e arde quella parte corrotta, mentre
il resto della fabbrica, anche se risplenda più che i raggi del sole,
resta fra quel fumo tutto bruciacchiato e annerito.
Anche i piccoli difetti tornano a disdoro del sacerdote.
XI.
Fino a che la vita del sacerdote sarà ben regolata in tutto, egli non
soccomberà all’insidia, ma se trascura anche solo un punto, come è
facile essendo uomo e navigando attraverso il pelago mal fido di questa
vita, nulla gli gioveranno tutte le altre virtù per sfuggire alle lingue
degli accusatori; ma quella piccola deficienza adombra tutto il resto;
tutti vogliono giudicare il sacerdote non come rivestito di carne e
partecipe della natura umana, ma quasi fosse un angelo e libero dalla
miseria comune. E come tutti temono e adulano un tiranno finché serba il
potere, perché non possono toglierlo di mezzo, ma quando vedano
decadere la sua potenza, deposto il rispetto fin allora simulato, quelli
che poco prima gli erano amici, d’un tratto si fanno nemici e
avversari, e esaminando tutte le sue malvagità gliele imputano a colpa e
lo spogliano del dominio; così anche riguardo ai sacerdoti, quelli che
poco prima, mentre era in potenza, lo onoravano e gli s’inchinavano,
quando scorgono una piccola occasione, s’apprestano energicamente a
travolgerlo non solo quale tiranno, ma come qualcosa di peggio. E come
quello teme le guardie della sua persona, così questo ha da paventare
soprattutto i vicini e i suoi compagni di ufficio; ché nessuno agogna
maggiormente la sua dignità e nessuno conosce i fatti suoi più addentro
di loro, perché essendogli vicini, se alcunché di simile gli accada, lo
conoscono prima degli altri; e qualora ricorrano alla calunnia,
facilmente possono trovare fede e togliere di mezzo il calunniato
ingrandendo le cose piccole, (ché la parola dell’Apostolo viene qui
invertita, e "se un membro soffre, godono tutte le altre membra, e se
viene esaltato un membro, tutte le altre membra ne soffrono" 1Cor.
12,26) tranne che uno sappia con grande circospezione far fronte a
tutto. Or dunque tu mi mandi a tale guerra? e credesti che l’anima mia
fosse da tanto da affrontare una lotta si varia e multiforme? ma donde e
da chi l’apprendesti? che se Dio ti ha parlato, metti fuori il
responso, e mi persuaderò; se poi non l’hai, e rechi il suffragio a
norma degli uomini, cessa di più oltre ingannarti. Ché trattandosi di
fatti miei è più giusto credere a me che ad altri, poiché "nessuno
conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è dentro di
lui" (1Cor. 2,11). Ma se anche prima non lo credevi, penso che ora, da
quanto ti ho detto ti sarai convinto che se avessi accettato questa
dignità avrei esposto alla derisione me stesso e i miei elettori, e con
grande iattura me ne sarei dovuto tornare a questo tenore di vita in cui
ora mi trovo. Non solo la gelosia, ma assai più forte di essa, la brama
di questa carica sembra armare la moltitudine contro chi ne è
investito; a quel modo che i figli bramosi di denaro sopportano con pena
la vecchiezza dei padri, così taluni di costoro quando vedono protrarsi
lungamente la durata dell’episcopato, non essendo loro lecito di
toglierlo di mezzo, si studiano di congedarlo, tutti desiderando di
sostituirlo e aspettando ognuno che la dignità venga a cadere nelle sue
mani.
Disordini
che talora accadevano nella elezione al sacerdozio. La professione
monastica e l’età avanzata non sono titoli sufficienti di idoneità al
sacerdozio
XII.
Vuoi che ti mostri un altro aspetto di questa lotta, ripieno, di
innumerevoli pericoli? Va’ a spiare nelle feste pubbliche, dove è
costume di far le elezioni dei capi ecclesiastici, e vedrai il sacerdote
fatto segno a tante accuse quanta è la moltitudine dei sudditi. Allora
quelli a cui spetta il conferire l’onore si scindono in molti partiti, e
si potrebbe vedere il collegio dei presbiteri non concorde né nei suoi
membri né con quegli che ottiene l’episcopato; ognuno fa parte da se
stesso, scegliendosi chi questo chi quel candidato. E ne è cagione il
considerare tutti non ciò che unicamente si dovrebbe considerare, cioè
la virtù dell’anima, ma il tenere conto d’altri pretesti come di titoli
valevoli all’assecuzione di questa dignità; onde: "Questi, dice taluno,
sia approvato perché è di alto ceto; quest’altro perché possiede molta
ricchezza né avrà bisogno di vivere a carico dell’entrate
ecclesiastiche; quest’altro perché proviene da parte avversaria". E
così, cercano di far prevalere sopra gli altri chi un proprio amico, chi
un congiunto, chi un adulatore; nessuno vuol prendere in considerazione
la persona idonea, né si cura di fare alcun assaggio dell’anima. Io
invece sono tanto lontano dal menare buone queste ragioni per
l’approvazione dei candidati al sacerdozio, che anche se uno mostrasse
grande pietà, cosa che contribuisce per me non poco per l’esercizio di
quella carica, non ardirei di ammetterlo subito in grazia di quella, se
non possedesse insieme con la pietà anche molta saggezza. Poiché io ho
veduto molti che erano stati rinchiusi tutta la vita e consumatisi nei
digiuni, i quali finché poterono starsi soli e curarsi soltanto de’
fatti propri, ebbero merito dinanzi a Dio, e ogni giorno aggiungevano
progresso non piccolo in quella filosofia; quando poi s’introdussero fra
la moltitudine e furono posti nella necessità di correggere l’ignoranza
del volgo, gli uni si mostrarono fin da principio incapaci di questa
missione, gli altri, forzati a durarvi, deposta la primitiva osservanza
recarono i massimi danni a se stessi, né procurarono agli altri il
minimo vantaggio. Ma neppure se taluno abbia passato tutto il suo tempo
rimanendosi nell’ultimo gradino del ministero e sia giunto a estrema
vecchiaia, dovremo elevarlo a più alta carica semplicemente per riguardo
alla sua età; e che farci, se anche dopo raggiunto quel termine
l’individuo sia rimasto inadatto all’uopo? Né io dico tali cose per
disprezzo alla vecchiezza, né con intento di escludere per legge da
questa soprintendenza coloro che vengono dalla schiera dei monaci è
avvenuto infatti che molti provenienti da quel ceto risplendettero in
quest’ufficio ma nell’intento di dimostrare questo principio: che se né
la sobrietà per sé sola, né la tarda vecchiaia potrebbero bastare a
garantire l’idoneità di chi ottiene il sacerdozio, tanto meno possono
valere a tale scopo i pretesti prima enumerati. Ma v’è chi ne propone
altri ancor più assurdi; ché taluni sono collocati nelle file del Clero
affinché non si gettino dalla parte degli avversari; altri per le loro
perversità, ad evitare che trascurati non abbiano a perpetrare gravi
mali; ma si può dar cosa più illegale di questa, che uomini perversi e
pieni di colpe fino ai capelli, vengano lisciati per quel motivo stesso
per il quale dovrebbero esser puniti, e che in grazia di quello per cui
non dovrebbero nemmeno varcare le soglie della chiesa, abbiano a salire
alla dignità sacerdotale? Cercheremo noi ancora, dimmi, la causa dello
sdegno di Dio, mentre esponiamo ministeri così santi e tremendi a essere
profanati da uomini o malvagi e affatto indegni di riguardo alcuno?
quando vengono incaricati gli uni di presiedere a uffici che loro non
convengono affatto, gli altri d’uffici affatto superiori alle loro
capacità, faranno sì che la Chiesa non dissomigli per nulla dall’Euripo.
Il
male che proviene alla Chiesa dalla abusiva intromissione delle persone
estranee nella elezione o nella deposizione dei membri del sacerdozio
XIII.
Io, più indietro, deridevo i magistrati civili perché eseguiscono le
distribuzioni delle cariche non a norma della virtù che è nelle anime,
ma a norma delle ricchezze o dell’età o della dignità umana; ma quando
intesi che tale stoltezza aveva invaso anche le nostre istituzioni, non
giudicai questo un male equivalente dell’altro. Qual meraviglia infatti,
che uomini mondani e bramosi della gloria che deriva dal volgo, e che
ogni cosa fanno per acquistare denaro, commettano simili errori, quando
coloro che professano il distacco da tutte queste cose, non si
comportano meglio di quelli, ma mentre hanno impegnata la lotta per i
beni celesti, come se avessero a decidere di un pezzo di terra o d’altra
cosa simile, prendono senz’alcun criterio uomini volgari e li pongono a
capo di interessi tali per cui il Figlio unigenito di Dio non si peritò
di deporre la sua gloria e farsi uomo, d’assumere la forma di schiavo,
d’essere sputacchiato e flagellato, e di morire della morte più
ignominiosa? Né si arrestano qui, ma aggiungono altre irregolarità più
assurde; poiché non solo ammettono gl’indegni, ma ne discacciano gli
idonei: come se fosse necessario che dall’una e dall’altra parte venga
rovinata la sicurezza della Chiesa, o come se non bastasse il primo
motivo per accendere lo sdegno di Dio, così ne aggiungono un secondo non
meno tristo; ché mi parve cosa egualmente funesta tanto l’escludere gli
idonei, quanto lo spingere dentro gli inetti: e ciò avviene affinché il
gregge di Cristo non possa trovare sollievo da alcuna parte, né possa
in alcun modo respirare. Tali cose non sono degne di mille fulmini? o
non sono meritevoli d’una geenna più violenta, e non solo di quella a
noi minacciata? Ma ciò non ostante si trattiene e sopporta tali iniquità
"Colui che non vuole la morte del colpevole, bensì che si converta e
viva" (Ez. 23,23). Chi può adeguatamente ammirare la di lui mitezza?
come degnamente esaltarne la misericordia? T seguaci di Cristo
corrompono le istituzioni di Cristo più dei nemici e degli avversari
suoi, ed egli buono, si mostra ancora benigno e chiama i colpevoli a
ravvedimento; gloria a te, o Signore, gloria a te quale abisso di
benignità in te? quale copia di longanimità? quelli che per il tuo nome
da volgari e ignobili sono divenuti nobili e cinti d’onore, usano
dell’onore contro chi ne li ha rivestiti e osano audacie inaudite, e
imperversano contro le cose sante, allontanando e scacciando i degni,
affinché i malvagi possano con tutta calma e con piena impunità mettere
sottosopra ogni cosa che loro aggrada. E se vuoi apprendere le cause di
questo male, le troverai simili a quelle prima addotte, ché hanno tutte
una sola radice, e come taluno direbbe, madre, la gelosia; esse poi non
sono d’una stessa specie, ma differiscono fra loro. Questo, dice uno,
sia scacciato perché è giovane; quest’altro perché non sa adulare;
quell’altro perché cadde in disgrazia del tale; quell’altro, per non far
dispiacere al tale, qualora vedesse rifiutato il suo protetto e
approvato costui; quest’altro poi perché è affabile e moderato,
quest’altro ancora perché è temuto dai colpevoli; quest’altro per altro
motivo, ché non esitano a trovare pretesti quanti ne vogliano, e qualora
non n’abbiano altro, adducono quello del gran numero dei sacerdoti,
asserendo non doversi in massa elevare a questa dignità, ma con calma e a
poco a poco; e possono trovare quante altre cagioni vogliono. Or mi
piace chiederti a questo punto: Che deve fare il vescovo contrariato da
tali venti opposti? come starà fermo fra tanto ondeggiare? come
respingerà tutti questi assalti? Ché se disporrà la bisogna con retta
riflessione, tutti si dichiarano nemici e avversari a lui ed agli
eletti, e ogni cosa faranno per animosità contro di lui, suscitando
rivolte ogni giorno e infliggendo mille insulti agli eletti, finché o
gli abbiano deposti o abbiano fatto luogo ai loro raccomandati. Accade
come quando un pilota avesse nella nave che varca Tacque, dei pirati
insieme naviganti e insidianti senza posa e in ogni istante a lui, ai
marinai e agli altri viaggiatori: e se anteporrà il riguardo verso di
quelli alla sua propria salvezza, accogliendo chi non dovrebbe, avrà Dio
nemico invece ch’essi, del che qual cosa v’è più tremenda? e d’altra
parte i rapporti con loro gli si faranno più difficili di prima,
prestandosi tutti reciprocamente soccorso e rendendosi per tal guisa più
forti. E come quando, per venti impetuosi scatenatisi da parti opposte,
il mare fin allora tranquillo, d’improvviso infuria, si solleva e
travolge i naviganti; così la pace della Chiesa quando accolga nel suo
seno uomini corruttori, si riempie di procella e di molti naufragi.
XIV.
Pensa pertanto quale deve essere colui che ha da andar incontro a sì
gran tempesta e cavarsela bene da sì forti ostacoli, opposti a ciò che
sarebbe di vantaggio comune: deve essere insieme serio e non altezzoso,
temuto e accondiscendente, imperativo e popolare, imparziale e cortese,
umile e non servile, forte e dolce, affine di poter combattere con buon
esito contro tutte queste difficoltà. Si deve far avanzare con molta
fermezza, anche se tutti s’opponessero, il candidato idoneo, e quegli
che non è tale, con la stessa fermezza e anche se tutti cospirino
contro, non promuoverlo, ma aver di mira una cosa sola, cioè
l’edificazione della comunità ecclesiastica, né alcuna cosa compiere per
simpatia o per animosità. Ti par dunque che io mi sia ritirato con
buona ragione da questo ufficio e da questo ministero? ma tuttavia non
t’ho ancora esposto tutto; ho altro da dirti: però ti prego, non
stancarti di tollerare che un tuo amico e familiare voglia farti
persuaso intorno a ciò di cui lo accusi. Ché tali cose non sono soltanto
utili per la difesa che tu avrai a far di me, ma anche per il
disimpegno dell’ufficio stesso ben presto ti saranno di non lieve
giovamento. È necessario che chi s’incammina per questa carriera di
vita, quando abbia prima ben indagato ogni cosa, allora solo s’accinga
al ministero; e per qual motivo mai? perché se non altro non gli
toccheranno amare sorprese quando si trovi a tali incontri, se già di
tutto avrà chiara nozione.
Governo
delle vedove e difficoltà che presenta. Cura degli ospiti e degli
infermi. Responsabilità del vescovo come amministratore
Vuoi
dunque ora che io tratti prima del governo delle vedove, o della
sollecitudine per le vergini, o della difficoltà che presenta la parte
giudiziaria? Ché in ognuna di queste bisogne diversa é la
preoccupazione, e più grande che la preoccupazione é il timore. E per
principiare da quella parte che si crede essere più facile delle altre,
la cura delle vedove sembra non arrecare altre brighe a chi se ne
occupa, se non quelle riguardanti le spese necessarie; ma non é così;
anche qui c’è bisogno di lungo esame, quando si tratta di accoglierle,
perché l’ascriverle senza criterio e a casaccio, ha prodotto
innumerevoli mali. Talora infatti esse hanno mandato in malora le case,
violato i matrimoni; spesso si sono infamate con furti, con frodi e col
perpetrare altre simili iniquità; ora il mantenere tali soggetti a spese
della Chiesa, provoca punizione da parte di Dio e i peggiori biasimi da
parte degli uomini, mentre poi rende più restii quelli che sarebbero
disposti a beneficare. Chi sopporterebbe infatti che i beni che egli
aveva deciso di dare a Cristo, siano dissipati in pro di quelli che
disonorano il nome di Cristo? Bisogna quindi fare lunga e diligente
indagine, affinché non danneggino la mensa delle indigenti non solo
quelle dette di sopra, ma né anche quelle che sono in grado di
provvedere al proprio sostentamento. Dopo questa ricerca, sopravviene
altra briga non piccola, per far sì che il loro nutrimento scorra
abbondante come da sorgenti, né si esaurisca mai: l’indigenza forzata è
una miseria in certa guisa insaziabile, querula e sconoscente; si
richiede grande sagacia e grande diligenza per chiudere loro la bocca,
togliendo qualsiasi pretesto di accusa. Ora molti, appena vedono un tale
che sia superiore all’avidità di ricchezza, subito lo designano come
idoneo a quest’amministrazione; ma io non credo che gli possa bastare
tale magnanimità; questa si richiede bensì prima d’ogni altra dote (ché
senza di ciò egli sarebbe un flagello anziché un protettore, e un lupo
anziché un pastore), ma insieme con questa conviene cercare se ne
possieda un’altra; quest’altra, che è causa d’ogni bene per gli uomini, è
la longanimità, che guida l’anima ormeggiandola in porto tranquillo. Il
ceto delle vedove, per la indigenza, per l’età e per la sua stessa
natura, dimostra una certa smodata indiscrezione, è meglio dir così,
onde gridano fuor di luogo, menano querele invano, si rammaricano per
cose di cui dovrebbero saper grado, accusano di cose alle quali era
invece da far buon viso: e il reggitore deve tollerare tutto con
fortezza, senza perdere le staffe né per le noie intempestive, né per
gli irragionevoli biasimi; è giusto commiserare quel ceto per i disagi
propri della sua sorte, anziché rampognarlo, ché l’accrescere il peso
delle loro sventure e aggiungere all’ambascia dell’indigenza anche
quella del maltrattamento, sarebbe estrema crudeltà. Onde un tale
sapientissimo uomo, guardando l’avidità e l’alterigia propria della
natura umana e avendo appreso che l’indole della povertà é così
terribile da abbattere anche l’anima più generosa e indurla spesso a
mostrarsi sfacciata nel richiedere le stesse cose, affinché taluno non
monti in ira per esser da altri supplicato né per le continue richieste
infastidito, diventi avversario quegli che doveva recare loro soccorso,
lo dispone a mostrarsi accessibile al bisogno, dicendo: "Piega il tuo
orecchio al povero senza infastidirti e rispondi a lui con pacata
mansuetudine" (Eccl. 4,8). Lasciando da parte il cercatore importuno e
che potrebbe dire a chi giace nella miseria? parla a chi é in grado di
sopportare la debolezza di quello, esortandolo a sollevare il povero con
la dolcezza dello sguardo e l’affabilità della parola, prima di
porgergli la limosina.
Larghezza e buone maniere nel beneficare
XV.
Che se poi alcuno si astenga bensì dall’appropriarsi i beni destinati a
quelle, ma le copra di innumerevoli contumelie, le insulti e monti in
furia contro di esse, non solo non avrà alleviato la confusione che loro
ispira la povertà, col largire soccorsi, ma avrà cagionato loro un
maggior affanno con i maltrattamenti. Ché sebbene, spinte dalla
necessità del ventre, esse diventano assai impudenti, non ostante ciò
soffrono a queste maniere violente; quando adunque per l’urgenza della
fame sono necessitate a chiedere, e col chiedere s’inducono a
comportarsi sfrontatamente, indi per la loro sfrontatezza vengono
coperte di rimproveri, allora un molteplice peso di abbattimento
apportatore di densa tenebra, si stende su l’anima loro. Chi si occupa
di loro dovrà quindi essere tanto longanime, non solo da non accrescere
la loro confusione con modi irritati, ma anche da attutire la maggior
parte di quella che hanno già, con parole di conforto. Poiché, come chi
godendo di grande abbondanza, se riceve insulto non sente la comodità
che arreca il possesso delle sostanze per il colpo dell’offesa ricevuta;
così quegli che ascolta parole affabili e che accetta l’offerta
accompagnata da una voce confortatrice, si rallegra maggiormente e
gioisce, e il soccorso a lui largito gli si duplica per le buone maniere
onde è porto. E queste cose non dico da me stesso, ma secondo colui che
ha fatta la prima esortazione: "Figlio, dice, nel beneficare non recare
vituperio, e in ogni dono non recare dolore con le tue parole; non
forse la rugiada lenirà l’arsura? così é migliore la parola che il dono.
Ecco che la parola é al di sopra della buona largizione e l’una e
l’altra sono presso l’uomo che gode fama di giusto" (Eccl. 18,15-17). Né
solo giusto e longanime dev’essere chi soprintende alle vedove, ma non
deve esser da meno come amministratore; il che se manchi in lui, trarrà a
non minor rovina le sostanze dei poveri. Già taluno cui fu affidato
questo ministero e che aveva radunato molto oro, non se lo divorò lui,
ma neppur lo spese a vantaggio dei bisognosi, tranne di pochi; la
maggior parte ripose e conservò fino a che sopraggiunto il tempo
perverso, lo abbandonò nelle mani dei nemici. C’è bisogno dunque di
molta previdenza, si da non prodigare né lesinare le provvigioni della
Chiesa, ma distribuire subito ai poveri le somme offerte e radunare i
tesori della Chiesa a norma delle intenzioni dei sudditi. Inoltre
l’accoglienza degli ospiti e la cura degli infermi, qual dispendio di
denaro non credi tu che richiedano, quale sollecitudine e prudenza da
parte di chi ne é incaricato? le spese che tali bisogne richiedono non
sono affatto minori di quelle di cui ho detto poc’anzi; spesse volte di
necessità sono anche maggiori: onde chi vi soprintende dev’essere sagace
nel procurare con circospezione e assennatezza, in guisa da disporre i
proprietari a largire i loro beni con zelo e senza rammarico, per non
danneggiare le anime dei donatori mentre provvede al sollievo degli
infermi. Più ancora conviene qui far prova di longanimità e serietà;
perché i malati sono una classe di difficile contentatura e d’animo
debole; onde se non si circondano da ogni parte di premura e di
sollecitudine, basta anche quella piccola trascuratezza per cagionare
all’infermo grande tristezza.
Governo e cura delle vergini. Sollecitudini e ansie che ne derivano al vescovo e al sacerdote che ne é incaricato
XVI.
Riguardo poi alla cura delle vergini é tanto più grande il timore
quanto più eccellente é l’oggetto e quanto più regale é questo atto in
confronto degli altri; invero anche nella schiera di queste sante
persone si sono già introdotti numerosissimi soggetti ripieni di
innumerevoli mali; onde é maggiore in questo caso l’affanno. Or come non
é eguale cosa se cada in fallo una fanciulla libera o la sua ancella,
così anche v’è differenza fra la vergine e la vedova. Per queste ultime
infatti é cosa indifferente il far leggerezze, l’ingiuriarsi a vicenda,
l’adulare, il mostrarsi sfrontate, l’apparire dappertutto e gironzolare
per la piazza; ma la vergine si é disposta a più alto certame ed é emula
d’una più alta filosofia; professa di mostrare sulla terra la
condizione degli angeli e si propone di effettuare, pur circondata di
questa carne, le virtù proprie delle potenze incorporee; onde a lei non
s’addice il far lungi e escursioni, né le si permette di affastellare
parole inutili e vane; di contumelie poi e di adulazioni non deve
conoscere neppure il nome; per queste ragioni essa ha bisogno di più
accurata custodia e di maggior soccorso, ché il nemico della santità
sempre più fiero le fronteggia e assedia, pronto, se taluna vacilli e
cada, a ingoiarsela; molti poi sono gli uomini insidiatori, e a tutto
ciò s’aggiunge l’imperversare della natura; onde debbono schierarsi
contro doppio ordine di nemici: quelli che assalgono all’esterno e
quelli che agitano nell’interno. Grande pertanto é il timore di chi vi
presiede, maggiore ancora il pericolo e l’affanno se talvolta (ciò che
non accada mai) gli venisse commesso qualche fallo involontario. Ché se
"la figlia rinchiusa toglie il sonno al padre" (Eccl. 42,9) e l’ansia a
riguardo di lei lo tiene sveglio, sì grande essendo il timore ch’essa
non rimanga sterile, o che trapassi l’età buona, o che sia disamata dal
suo fidanzato; quale fiducia avrà colui che ha da affannarsi non per
questi motivi, ma per altri di questi assai maggiori? Qui non l’uomo
viene tradito, ma lo stesso Cristo; né la sterilità genera solo infamia
ma il danno di essa finisce con la rovina dell’anima. "Ogni albero,
dice, che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato sul fuoco" (Mt.
3,10); e quando sia odiata dallo sposo non basterà prendere il libello
di ripudio, e andarsene, ma s’avrà in pena dell’odio la punizione
eterna. Inoltre il padre carnale ha molti mezzi che gli rendono agevole
la custodia della figlia: v’è la madre, la nutrice, lo stuolo delle
ancelle; la sicurezza della casa poi viene in aiuto al genitore per la
custodia della vergine. Non le si permette di uscire continuamente in
piazza, né qualora vi si rechi é necessitata a mostrarsi ad alcuno di
quelli che s’incontrano con lei, giovando l’oscurità della sera non meno
delle mura domestiche, per velare colei che non vuol farsi vedere;
s’aggiunga a tutto ciò ch’essa é libera da ogni causa che la potrebbe
forzare a mostrarsi in presenza d’uomini, perché né la sollecitudine
delle cose necessarie né le macchinazioni degl’iniqui, né altro simile
motivo la costringe a questi incontri, avendo essa il padre che s’occupa
in vece sua di tutte queste faccende. Perciò ella non ha che una sola
preoccupazione, di non fare né dire alcuna cosa indegna del decoro
proprio del suo stato. Qui invece molte cause rendono al padre
difficile, anzi persino impossibile la custodia; egli non potrebbe
tenerla rinchiusa insieme con lui, ché tale coabitazione non é né
conveniente, né priva di pericoli; se anche essi non ne soffrono danno e
perdurano nel serbare intatta la santità loro, tuttavia per le anime
che hanno scandalizzate, avranno a rendere non minor conto che se
avessero peccato insieme. Or non essendo ciò possibile, non torna facile
né anche l’intuire i moti dell’anima, né reprimere quelli che si
agitano sregolatamente e coltivare sempre più quelli composti e ordinati
e guidarli al meglio; né torna agevole il sistemare le uscite. La
povertà e la mancanza di protezione non gli permettono d’essere
diligente indagatore della decenza che loro si conviene; infatti quando
la vergine é costretta a provvedere da se stessa a ogni sua necessità,
ha molti pretesti per uscirsene in giro, qualora voglia far disordini;
ci vuole pertanto qualcuno che imponga loro di rimanere sempre e in casa
e tolga di mezzo simili occasioni, procurando loro sia la sufficienza
del necessario sia una persona la quale presti loro servizio per questi
bisogni; é d’uopo anche impedirle di recarsi ai funerali e alle vigilie;
perché quell’astuto serpente sa spargere il suo veleno anche fra le
opere buone, onde bisogna che la vergine se ne stia trincerata e poche
volte in tutto l’anno esca fuori di casa, quando motivi imprescindibili e
urgenti ne la costringano.
Che
se taluno dicesse non esservi affatto bisogno che il vescovo compia
direttamente alcuno di questi uffici, sappi bene che le preoccupazioni e
i biasimi riguardo a ciascuno d’essi si rivolgono sempre a lui. E’
molto meglio ch’egli disimpegnando da se stesso ogni faccenda eviti le
accuse che è giocoforza sopportare in grazia de’ falli altrui, piuttosto
che scaricandosi del ministero, paventare le punizioni dovute a ciò che
altri ha commesso. Inoltre colui che esercita da se stesso queste
cariche, compierà ogni cosa con molta agevolezza, mentre invece chi ha
da far ciò dopo d’aver persuaso la volontà di tutti, non riceve
dall’aver rinunziato a far da sé un sollievo corrispondente alle noie e
agitazioni cagionategli dai contraddittori e da quelli che si opporranno
alle sue decisioni. Ma non potrei enumerare tutte le preoccupazioni
relative alle vergini; già quando si tratti di iscriverle esse arrecano
brighe non ordinarie a chi é incaricato di questa amministrazione.
Difficile
compito dell’amministrare la giustizia con imparzialità. Pericoli che
possono presentarsi al vescovo per la suscettibilità delle varie classi
di persone a cui deve usare cortesia.
XVII.
La parte poi che riguarda i giudizi arreca infiniti pesi, grande fatica
e tali difficoltà, quali non incontrano neppure i giudici dei tribunali
civili. Ché difficile é trovare il giusto, e che colui che lo trova non
lo corrompa. Né solamente fatica e difficoltà, ma vi si incontra pure
non lieve pericolo; già taluni dei più deboli essendo stati coinvolti in
processi, né trovando protezione, finirono per naufragare nella fede.
Poiché molti offesi non meno degli offensori detestano chi non li
soccorre, e non vogliono considerare né l’intricatezza delle questioni,
né la tristezza delle circostanze, né la dignità ecclesiastica: sono
giudici inesorabili che conoscono una sola difesa, cioè la liberazione
dai malanni da cui sono oppressi; chi non é in grado di loro fornirla,
anche se adduca mille ragioni non sfuggirà in alcun modo alla loro
condanna. E poiché ho parlato di protezione, ti svelerò un altro motivo
di biasimi: se colui che occupa la carica episcopale non va ogni giorno
in giro per le case come un vagabondo, ne vengono indicibili
malcontenti. Non solo gli ammalati, ma anche i sani vogliono esser
visitati, indotti a ciò non da riverenza, ma piuttosto per pretesa
d’onore e di considerazione. Che se per l’urgenza di qualche bisogno e a
vantaggio della comunità ecclesiastica gli accada di visitare più
assiduamente alcuno dei più ricchi e potenti, subito gliene verrà taccia
di servilismo e di adulazione. Ma che parlo io di protezione e di
visite? anche solo dal modo di salutare sopportano tal peso di accuse da
esserne sovente oppressi e abbattuti per lo scoraggiamento; persino
degli sguardi hanno da rendere ragione; molti poi sottopongono a
rigoroso esame ciò che quelli fanno ingenuamente, indagano sul tono
della voce, sull’espressione degli occhi, sulla misura del sorriso: "al
tale, dicono, ha rivolto il discorso con sorriso marcato, con aspetto
giulivo e voce sonora; a me invece guardò poco e trascuratamente"; e se
quando parla e molti stanno seduti insieme con lui, non porta l’occhio
in giro da ogni lato, una parte di loro se ne adonterà come d’un
insulto.
Chi
dunque se non assai forte, potrà resistere a tali accusatori sia per
sfuggire a ogni loro imputazione, sia per purgarsene dopo che gli fu
inflitta? per vero bisognerebbe non aver affatto accusatori; ma se ciò é
impossibile, almeno bisognerebbe poter liberarsi dalle loro accuse; che
se anche ciò torna difficile e taluni si dilettano nel muovere querele,
allora bisogna resistere fortemente all’abbattimento che ne deriva. Più
facilmente sopporterebbe l’accusatore chi fosse incolpato per giusto
motivo; ché non essendovi giudice più fiero della coscienza, quando
siamo sopraffatti da questo che é più terribile, sopportiamo più
facilmente quelli esterni che sono più benigni. Ma colui che non ha a
rimproverarsi alcuna colpa, qualora venga accusato senza cagione si
eccita tosto a sdegno e si abbatte facilmente nello scoraggiamento, se
prima non si sia esercitato a sopportare le noie del volgo; ché non é
possibile che uno falsamente accusato e condannato non si conturbi e non
soffra qualche cosa per tanta iniquità.
Ma
chi direbbe poi le afflizioni che debbono soffrire quando sia
necessario espellere qualcuno dalla comunità ecclesiastica? e fosse pure
che il male consistesse solo nell’afflizione l ma v’è anche non poca
rovina; poiché v’è timore che punito oltre i giusti limiti quegli
patisca ciò che fu detto dal beato Paolo, e venga assorbito da eccessivo
dolore. Onde anche qui occorre gran diligenza affinché un mezzo di
giovamento non diventi per lui occasione di un danno maggiore. Come un
medico che non avesse inciso convenientemente la ferita, egli subirà in
comune l’ira di Dio, eccitata da ciascuna delle colpe che quegli
commetterà dopo una simile cura. Or quali punizioni dovrà attendersi,
quando uno non deve solo rendere ragione delle mancanze da lui commesse,
ma trovasi esposto a estremo pericolo anche per i falli altrui? Che se
dovendo dar conto delle nostre proprie mancanze noi paventiamo di non
poter sfuggire a quel fuoco, che cosa dovrà aspettarsi di soffrire chi
avrà a difendersi da tante colpe? Che poi ciò sia vero, odi il beato
Paolo che lo dice, o piuttosto non lui ma Cristo che in lui parla:
Ubbidite ai vostri capi e assoggettatevi a loro perché essi vegliano
sulle anime vostre come quelli che hanno da renderne conto. È questo
dunque un lieve timore? non è possibile affermarlo. Ma tutte queste cose
bastano per convincere anche i più increduli c ‘restii, che io ho
deciso quella fuga non perché accecato da arroganza e vanagloria, ma
solo perché temevo di me stesso e per riguardo alla maestà dell’ufficio.
Libro quarto
Intermezzo
II. Alla osservazione di Basilio, che Giovanni non ha sollecitato la
dignità, questi risponde, con esempi e similitudini, che anche chi non
ha brigato per essere eletto é responsabile di ogni deficienza ed errore
in cui avesse a cadere
I.
Udite queste cose Basilio stette alquanto sopra pensiero, indi: "Ma
questo tuo timore, disse, avrebbe ragion d’essere se tu ti fossi
adoperato per ottenere questa dignità; colui infatti che col brigare per
ottenerla dichiara d’essere idoneo al disimpegno dell’ufficio, se
commette errori dopo che gli fu affidata, non potrà ricorrere al
pretesto della sua inesperienza, poiché egli già prima si privò di
questa difesa, col correre avanti e coll’afferrare il ministero; né chi
spontaneamente e di propria volontà vi si sobbarcò, potrà poi dire: "Ho
fatto questo sbaglio senza volerlo; contro mia volontà ho pervertito
quel tale". Ché colui che avrà da giudicare questa causa, gli dirà: "E
come mai, conoscendo quella tua inesperienza, e non avendo tu senno
sufficiente per dar mano a quest’arte senza far sbagli, ti adoperasti
per sobbarcarti e osasti intraprendere opere superiori alle tue forze?
chi vi ti obbligava? chi vi ti trascinò a forza mentre tu resistevi e
fuggivi?". Ma tu non ti sentiresti certamente dire alcunché di simile;
né tu avresti da fare a te stesso qualche rimprovero di tal genere; é a
tutti palese infatti che non hai sollecitato né molto né poco
quell’onore, ma altri ti procurava la promozione; onde appunto ciò che
toglie a quelli il perdono delle eventuali colpe, fornisce a te un saldo
fondamento di difesa.
A
queste parole io scuotendo il capo e un poco sorridendo, mi stupii
della sua semplicità, indi soggiunsi: "Ben vorrei io pure che le cose
stessero così come tu dici, o incomparabile uomo fra tutti, e non già
per poter assumere quello a cui sono sfuggito. Ma quand’anche niuna pena
mi fosse riservata per aver governato il gregge di Cristo a casaccio e
senz’esserne capace, mi sarebbe tuttavia peggiore d’ogni castigo il
dover io, incaricato di uffici tanto grandi, apparire così miserabile al
cospetto di Colui che me li aveva affidati. E per qual motivo bramerei
io che questa tua opinione non fosse priva di fondamento? certamente
perché fosse dato a quei miseri (ché così hanno da chiamarsi quelli che
non riescono a disimpegnare lodevolmente quest’incarico, anche se mille
volte tu vada dicendo che vi furono trascinati per forza e che peccano
involontariamente) perché fosse dato a costoro di sfuggire a quel "fuoco
inestinguibile, alla tenebra esteriore, al verme imperituro, all’essere
separato e perire insieme con gli ipocriti" (Mt. 24,51); ma che? non é
così, non é così! e ti proverò se ti piace, la verità di ciò che dico,
con l’esempio del principato, la cui eccellenza presso Dio non é sì
grande quanto quella del sacerdozio.
Esempi di Saul, Eli, Mosè
II.
Quel Saul figlio di Cis, non diventò re per esservisi adoperato, ma
muovendo in cerca delle asine, si recò dal profeta per chiederne novelle
e quegli allora gli fece parola del regno; e nemmeno così egli si
spinse avanti, pur avendone udito parlare da un profeta, ma se ne
ritraeva e vi s’opponeva dicendo: "Chi sono io, e quale é la casa di mio
padre?" (1Re 9,21). Ma che? avendo egli malamente usato dell’onore
accordatogli da Dio, valsero forse quelle sue parole a sottrarlo allo
sdegno di colui che gli aveva conferito la regia potestà? E ben poteva
egli dire a Samuele quando lo rimproverava: "Forse accorsi io
spontaneamente alla dignità regia? o forse da me stesso mi vi spinsi
sopra? io volevo pur vivere la vita inerte e quieta dei privati, tu
invece mi trascinasti a questo onore; ma Se io mi fossi rimasto in
quell’umile stato, avrei agevolmente evitate queste colpe, ché essendo
io uno del volgo e oscuro, non sarei stato mandato a quest’impresa, né
Dio m’avrebbe affidata la guerra contro gli Amaleciti; non essendone
incaricato, non sarei mai caduto in questa colpa". Ma tutto ciò é
insufficiente alla difesa, né solo è insufficiente, ma anche pericoloso,
e tale da sempre più accendere lo sdegno di Dio. Colui che fu onorato
oltre il suo merito, non deve già addurre la grandezza dell’onore a
discolpa dei suoi falli, ma invece valersi della sollecitudine di Dio a
suo riguardo come d’uno stimolo a maggior perfezione. Chi crede a sé
lecito peccare per aver toccato in sorte un onore più grande, altro non
fa se non additare la benignità di Dio come cagione delle proprie colpe,
come hanno costume di dire sempre gli empi e quelli che sogliono
governare trascuratamente la propria vita. Noi non dobbiamo comportarci
così, né dobbiamo cadere nella loro pazzia, ma dobbiamo in tutto
aggiungere l’opera nostra secondo le nostre forze, e retta serbare la
lingua e il pensiero. Neppure Eli (per venire ora al nostro argomento,
cioè al sacerdozio, lasciando da parte il principato) si adoperò per
acquistare il potere, ma che gli giovò questo, quand’ebbe prevaricato?
Che dico acquistare? per la necessità della legge, non avrebbe nemmeno
potuto sfuggirlo se avesse voluto; poiché egli apparteneva alla tribù di
Levi e gli era gioco forza assumere la potestà che gli veniva dall’alto
per via degli antenati; eppure anch’egli subì non piccola pena per le
crapule dei suoi figli. Ma che? quegli stesso che fu il primo sacerdote
degli Ebrei e del quale tante cose disse il Signore a Mosè, poiché non
fu capace di resistere da solo contro la stoltezza di tanta moltitudine,
non andò forse vicino alla rovina, se la protezione del fratello non
avesse rimosso lo sdegno di Dio? E dacché ho ricordato Mosè, é opportuno
mostrare la verità del mio assetto anche dalle vicende a quello
occorse. Quello stesso beato Mosè era tanto lungi dall’usurpare il
dominio sugli Ebrei, che lo ricusò anche quando gli fu conferito; e
imponendogli Dio di accettarlo, si oppose a tal segno da muovere all’ira
chi ne lo investiva; né solo allora, ma anche in seguito mentre
esercitava il potere, sarebbe morto volentieri per esserne esonerato:
"Fammi morire, dice infatti, se vuoi fare a me in tal guisa" (Nm.
11,15). Ebbene? Quando egli ebbe peccato all’acqua, valsero forse questi
reiterati rifiuti a difenderlo e a muovere Dio a perdonargli? e per
qual altro motivo fu privato della terra promessa? per nessun altro
motivo, come tutti sappiamo, che per questo peccato, per il quale quel
mirabile uomo non poté ottenere ciò che ottennero i suoi sudditi, ma
dopo le molte fatiche e angustie, dopo quell’indicibile errare, le
guerre e i trofei, morì fuori dalla terra per la quale aveva durato
tutti quei travagli; e dopo aver sostenuto i pericoli del pelago, non
godette i vantaggi del porto. Vedi come non solo a quelli che usurpano
questo potere, ma anche a quanti vi giungono per opera altrui, non.
rimane alcuna difesa dei falli in cui sono caduti? E per vero, mentre
costoro, che sebbene investiti da Dio della dignità vi si rifiutarono
ripetutamente, nondimeno subirono sì grave pena, e nulla valse a
sottrarre da tale pericolo né Aronne, né Eli, né quell’uomo beato, quel
santo, quel profeta, quel mirabile e mansueto fra tutti gli uomini della
terra e che parlava a Dio come a un amico; difficilmente a me che tanto
sono lungi dalla virtù di quello, potrà servire di difesa la
consapevolezza di non aver per nulla sollecitato questa carica; tanto
più quando molte di queste ordinazioni avvengono non per impulso della
grazia di Dio, ma per l’opera di uomini. Dio aveva pur scelto Giuda,
l’aveva collocato in quella santa schiera e gli aveva conferita insieme
cogli altri la dignità apostolica, anzi, a lui aveva dato qualcosa di
più che agli altri, cioè l’amministrazione del denaro. Ebbene? poi
ch’ebbe usato di queste due prerogative contrariamente allo scopo,
tradendo Colui ch’era stato incaricato di predicare e rovinando
malamente i beni di cui gli s’era affidata l’amministrazione, forse che
sfuggi alla pena? anzi, per ciò appunto si procurò un castigo maggiore; e
ben a ragione. Ché non si deve usare degli onori che Dio conferisce,
per offenderlo, sebbene per maggiormente compiacerlo. Che se altri, per
essere stato maggiormente onorato, stimasse giusto per questo di
sfuggire la pena quando gli fosse dovuta, farebbe lo stesso di qualcuno
degl’infedeli Giudei, il quale udendo Cristo che dice: Se non fossi
venuto né avessi parlato loro, non sarebbero colpevoli, e: "Se non
avessi operato fra loro tali prodigi quali nessun altro operò, non
sarebbero colpevoli" (Gv. 12,6), rimproverasse il Salvatore e
Benefattore dicendo: "E perché sei tu venuto e hai parlato? perché
compiesti quei prodigi, per aver poi a punirci più fortemente?". Queste
sarebbero certamente parole da pazzo e da delirante furioso; ché il
medico non venne già per condannarti ma piuttosto per curarti e
liberarti completamente dalla tua infermità: tu invece spontaneamente ti
sottraesti alle sue mani; or dunque abbiti più aspra la pena. A quel
modo che cedendo alla cura ti saresti liberato anche dai malanni
anteriori, così se tu fuggi il medico quando ti s’avvicina, non potrai
più detergerti da questi, e non potendolo subirai la pena di essi e
dell’aver resa vana la sua cura, per quanto dipendeva da te. Onde non
sosteniamo eguale giudizio da Dio prima di essere onorati e dopo aver
ricevuto gli onori, ma molto più severo dopo, ché colui che non diventò
migliore in seguito ai benefici ricevuti, é giusto che sia più duramente
punito. Or dunque, poi che a me appare insufficiente questa difesa e
tale non solo da non salvare coloro che vi cercano rifugio, ma da
esporli a maggior pericolo, fa d’uopo che tu mi mostri un altro scampo.
Se uno sa di essere inetto al ministero, deve sottrarsene, senza badare a riguardi personali
III.
"E quale mai? poiché io non sono ormai in grado di governare me stesso,
tanto m’hai reso trepidante e atterrito con queste tue parole".
"No,
dissi io, te ne prego e te ne scongiuro, non voler tanto abbatterti;
c’è senza dubbio lo scampo sicuro: per me debole esso consiste nel non
mettermivi affatto; per te che sei forte invece, nel riporre la speranza
in null’altro che, dopo la grazia di Dio, nel non fare nulla che sia
indegno di questo dono né di Dio che lo largisce. Ché per certo sono
meritevoli della massima punizione coloro che dopo aver raggiunta questa
potestà dopo di averla sollecitata, ne fanno poi cattivo uso o per
negligenza, o per malignità, o anche per inesperienza; ma non per questo
é riservato alcun perdono a coloro che non trafficarono per
conseguirla, ma anch’essi restano privi di qualsiasi difesa. Poiché fa
d’uopo, mi pare, quand’anche moltissimi chiamino e sforzino d’accedervi,
non badare a loro, ma saggiando anzitutto l’anima propria e ogni cosa
diligentemente indagando, così poi acconsentire a quelli che spingono.
Nessuno oserebbe assumersi l’amministrazione di una casa senz’essere
amministratore; né alcuno s’accingerebbe a trattare i corpi malati
essendo ignaro dell’arte medica; ma se pur fossero molti che lo
spingessero a forza, vi s’opporrebbe, né arrossirebbe di palesare la
propria incapacità; e chi ha da essere incaricato della cura di tante
anime, non esaminerà prima se stesso, ma se pur sia il più inetto di
tutti, accetterà il ministero, perché il tale glielo impone, o il tale
ve lo sforza, o per non offendere il tale altro? E come non precipiterà
se stesso insieme con quelli in un danno palese? potendo egli salvarsi
da se stesso, rovina gli altri insieme con lui; donde potrà dunque
sperare salvezza? donde ricevere perdono? chi intercederà allora per
noi? forse quelli che ora vi ci sforzano e a forza ci trascinano? ma
costoro stessi chi li salverà in quell’ora? anch’essi hanno bisogno
d’altri per poter sfuggire al fuoco. E per persuaderti che ora dico ciò
non per incuterti spavento ma al tutto secondo verità, ascolta ciò che
dice il beato Paolo a Timoteo suo figlio adottivo e diletto: "Non ti
fare fretta d’imporre le mani ad alcuno e non prendere parte ai peccati
degli altri" (1Tim. 5,22); vedi da qual biasimo non solo, ma anche da
qual castigo ho liberato, per quanto stava da me, quelli che volevano
spingermi a questa carica? Però che, come agli eletti non servirà di
sufficiente difesa il dire: non venni di mio arbitrio, ho accettato
senza prevedere la mia mala riuscita; così neppure agli elettori può
giovare qualche cosa, se dicano di non aver conosciuto l’eletto; ma
appunto per questo diviene maggiore l’accusa, perché promossero chi non
conoscevano, onde quello che si stimava servire di difesa, viene ad
aggravare l’imputazione. Come non sarebbe strano infatti, che quelli che
vogliono comperare uno schiavo, lo mostrino ai medici e richiedano
persone garanti della compera, e interroghino i vicini, né si assicurino
dopo tutto ciò, ma esigano un lungo tempo per farne la prova; mentre
coloro che hanno da iscrivere alcuno a tanto ministero, senza fare alcun
altro esame, ve lo aggiudichino agevolmente e senza badare, purché a
taluno sembri bene designarvelo in grazia del favore o del disfavore
altrui, tralasciando ogni altra ricerca? Chi intercederà allora per noi,
quando gli stessi che dovrebbero perorare la nostra causa avranno essi
pure bisogno d’intercessori?
Tanto
l’elettore quanto il candidato devono ponderare con molta cura prima di
scegliere o di lasciarsi eleggere. Il giudizio di Dio sarà severo per
gli uni e per gli altri se avranno agito con leggerezza.
IV.
Bisogna dunque che anche chi ha da imporre le mani, premetta accurata
indagine, e ancor più deve farlo il consacrando; ché se egli avrà gli
elettori partecipi del castigo, per le colpe in cui sarà caduto; non vi
sfuggirà per altro egli stesso, bensì ne subirà uno maggiore: a meno che
coloro che lo promossero abbiano così agito per qualche motivo
personale, contrariamente a quanto sembrava loro retto. Perché se
saranno colti in fallo per questo lato, e conoscendo un candidato come
indegno, lo promossero per qualche pretesto, le proporzioni della pena
saranno eguali anche per loro, e anzi, maggiori saranno a quelli che
investirono del potere un indegno; ché se uno conferisce la potestà a
chi s’accinge a rovinare la Chiesa, sarà egli colpevole dei danni da
quello perpetrati. Se poi egli non avrà da rendere conto ad alcuno per
queste colpe, ma dica d’essere stato ingannato dall’opinione del volgo,
neppure in tal caso resta impunito, tuttavia subirà una pena alquanto
minore di quella dell’eletto; e Perché? Perché é bensì probabile che gli
elettori siano indotti a ciò ingannati dalla falsa opinione pubblica,
ma l’eletto non potrebbe già dire: "Io non conoscevo me stesso" come
altri potrebbero dire di non aver conosciuto lui; pertanto, siccome egli
va incontro a più aspra punizione che quelli i quali ve lo promossero,
così deve far l’esame di se stesso con maggior cura di loro, e
quand’anche essi per ignoranza ve lo trascinassero, facendosi avanti
deve esporre diligentemente le ragioni con le quali dissipi il loro
inganno, e così, dimostrando se stesso indegno della promozione,
sfuggirà l’incarico di sì gravi incombenze. Per qual motivo infatti,
trattandosi di strategia o di navigazione o d’agricoltura o di altre
professioni, il contadino non sceglierebbe di navigare, né il soldato di
lavorare la terra, né il pilota di esercitare la milizia, quando pure
si minacciassero di mille morti? certamente perché ciascun d’essi
prevede il pericolo derivante dalla propria inesperienza; e frattanto
useremo tanta previdenza là ove il danno versa intorno a interessi
piccoli, né cederemo all’imposizione di chi ci sforza, e dove invece a
quelli che mancando di capacità assumono il sacerdozio é serbata la pena
eterna, trascuratamente e a casaccio ci sobbarcheremo al rischio,
adducendo poi a scusa la violenza altrui? Per certo non lo sopporterà
Colui che allora ci avrà da giudicare: giacché bisognava mostrare
maggior fermezza riguardo alle cose spirituali che a quelle materiali;
or invece saremo trovati a non aver nemmeno mostrata l’eguale. Dimmi
infatti: se prendendo noi un tale per architetto mentre non lo fosse, lo
chiamassimo all’opera, e quegli venendo e ponendo mano al materiale
radunato per la fabbrica, mandasse in malora e legname e pietre, e
costruisse l’edificio in guisa tale che presto rovini, basterà forse a
sua difesa l’esservisi accinto per comando d’altri e non essersi
proposto spontaneamente? Non basterà affatto, e ben a ragione e
giustamente; ché ben doveva egli ricusare, non ostante che altri lo
chiamassero. Or dunque, mentre niuna speranza di sfuggire la pena rimane
a chi mandò in malora il legname e le pietre, colui che rovina le anime
e governa malamente, crederà giovargli per essere assolto, l’esservi
stato obbligato da altri? E come non sarebbe ciò molto ingenuo? e lascio
che nessuno potrebbe venire obbligato, qualora non volesse. Ma
soggiaccia pure egli a quanta violenza si voglia e a molteplici raggiri
per esser fatto cadere; forse ciò lo libererà da pena? no, te ne prego,
non inganniamoci fino a tal segno, né simuliamo di ignorare ciò che é
palese persino ai piccoli fanciulli; ché non ci potrà giovare questa
simulazione d’ignoranza, quando saremo chiamati a giudizio. Tu non
brigasti per ottenere questa carica, conscio com’eri di tua debolezza:
benissimo, ma bisognava che con la stessa intenzione t’opponessi a
coloro che vi ti chiamavano; o forse tu eri debole e inetto solo
fintantoché niuno ti chiamava, e come si trovò chi era disposto a
conferirti l’onore, d’un tratto diventasti forte? ciò é ridicolo e
insulso, e degno di gravissimo castigo. Per questo appunto il Signore
esorta "colui che vuole edificare una torre, a non porre il fondamento
prima d’aver computato le proprie sostanze, per non offrire ai presenti
infiniti pretesti di scherno contro di lui" (Lc. 14,28). Per quello il
danno si riduce alla derisione, qui invece la pena é il "fuoco
inestinguibile, il verme imperituro, lo stridore dei denti, la tenebra
esteriore e l’essere separato e collocato insieme con gli ipocriti" (Mt.
25,30).
La Chiesa é il corpo mistico di Cristo.
Ma
i miei accusatori non vogliono saper nulla di tutto questo, ché
diversamente avrebbero senza dubbio cessato di biasimare chi non vuol
porsi inutilmente a rovina. Non ci é proposto l’esame circa
l’amministrazione di frumento, né di biade, né di bovi e pecore, né di
alcun’altra simile cosa, ma circa lo stesso corpo di Gesù. Poiché la
Chiesa di Cristo, secondo il beato Paolo, é il corpo di Cristo; onde
bisogna che quegli a cui esso é affidato, lo serbi in sanità e bellezza
grandissima, d’ogni parte badando che né macchia né ruga né altra
deformità abbia mai a distruggere quella bellezza e maestà: e che altro é
ciò, se non far si che quel corpo appaia, per quanto può conseguirlo
l’umana virtù, degno del purissimo e beato capo che vi sta sopra? Ché se
quelli che bramano acquistare il vigore atletico hanno bisogno di
medici e di maestri di ginnastica, di dieta accurata, di continuo
esercizio e d’altre infinite cautele, potendo l’omissione, anche di
piccole attenzioni, frustrare e rovinare ogni altra cura: quelli che
sono sortiti a servire questo corpo, il quale deve scendere in giostra
non contro altri corpi, ma con le potenze invisibili, come potranno
serbarlo intatto e sano, se non superano di molto l’umana virtù e non
conoscono perfettamente la cura adatta per l’anima?
Fine
dell’intermezzo. II. Ripresa dell’argomento intorno alle virtù
sacerdotali. eloquenza e magistero della parola. Necessità della parola
per confondere gli eretici (nemici esterni) e le vane superstizioni
(nemici interni).
V.
O forse ignori che questo corpo soggiace a più malattie e insidie che
la nostra carne, e che più presto di essa va in rovina e più
difficilmente viene risanato? A quelli che curano gli altri corpi si
offre varietà di medicine, diversi apparecchi meccanici e nutrimenti
adattati agli infermi; spesso anche la natura del clima bastò da sola a
ricondurre i malati a sanità; altra volta il sonno intervenendo a tempo
debito, liberò il medico da ogni fatica. Qui invece non c’è da contare
su alcuna di queste cose; una sola via e un sol mezzo di cura si offre,
oltre le opere, quello cioè che é fornito dal magistero della parola.
Questo é lo strumento, il cibo, la temperatura di clima più perfetta;
questo fa le veci di medicina, di cauterio, di ferro; se occorra
bruciacchiare o tagliare, di questo bisogna valersi, e ove esso manchi,
farà pur difetto ogni altro rimedio. Con esso risvegliamo anche l’anima
assopita e la ricomponiamo se diviene tumescente, tagliamo via il
superfluo, riempiamo le lacune e compiamo ogni altra operazione
opportuna per il benessere dell’anima. Per conseguire la miglior
direzione della vita, giova la vita d’un altro che stimoli a emularla;
ma qualora l’anima sia offesa per opera di falsi dogmi, v’è gran bisogno
della parola, non solo per la sicurezza di quei di casa, ma anche per
le guerre provenienti dal di fuori. Poiché se alcuno avesse la spada
dello spirito e lo scudo della fede, tanto da poter compiere prodigi, e
mediante i portenti chiudere la bocca agli sfrontati, forse non avrebbe
alcun bisogno dell’aiuto della parola; o piuttosto, nemmeno allora
tornerebbe inutile la virtù di essa, ma anzi molto necessaria; e per
vero il beato Paolo se ne valse, sebbene dappertutto egli fosse ammirato
per i suoi miracoli. E anche un altro dei membri di quel coro,
raccomanda di adoperarsi a conseguire questa facoltà, dicendo: "Pronti
sempre a dar soddisfazione a chiunque vi domandi ragione della speranza
che avete dentro di voi" (1Pt. 3,15); tutti poi essi affidarono il
governo delle vedove a Stefano ed a’ suoi compagni per nessuno altro
motivo che per attendere al "ministero della parola" (At. 6,2).
Certamente non con la stessa sollecitudine andremmo in cerca della
parola se avessimo la potenza che deriva dai miracoli; ma se di quella
potenza non rimane neppure la traccia, mentre da ogni parte insorgono
molti e assidui nemici, non ci rimane che armarci di quella, sia per non
esser colpiti dagli strali degli avversari, sia per colpirli alla
nostra volta.
La Chiesa è come città mistica oppugnata da molti nemici
VI.
Bisogna pertanto usare molta diligenza affinché la parola di Gesù
Cristo abiti in noi abbondantemente; non dobbiamo star preparati per una
sola specie di battaglia, ma questa guerra é molteplice e combattuta da
differenti nemici; essi non usano tutti le stesse armi, né a uno stesso
modo fanno forza contro di noi. Onde chi s’accinge a sostenere la
guerra contro di tutti, deve conoscere le arti di tutti: essere al tempo
stesso arciere e fromboliere, generale e capitano, soldato e
comandante, pedone e cavaliere, combattente di flotta e di fortezza.
Nelle guerre gli eserciti, attendendo ciascuno a una data operazione,
respinge con questa gli assalitori; qui invece non accade così, ma se
chi vuol vincere non conosce tutte le specie dell’arte, il diavolo é
capace, anche per una parte sola che rimanga a caso trascurata,
d’introdurre i suoi predoni e far strage delle pecore; ma non vi riesce,
qualora sappia esservi un pastore fornito di ogni conoscenza e
pienamente istruito delle sue insidie; bisogna pertanto ben munirsi da
ogni parte. Fino a che una città si trova ben fortificata tutt’intorno,
può ridersi dei suoi assedianti, rimanendosi in grande sicurezza, ma se
si riesca ad aprire nel muro una breccia anche soltanto come una
porticina, non le sarà più d’altro giovamento la sua cinta, sebbene in
tutto il resto ancor intatta e forte. Così é della città di Dio: fin che
la ricinge da ogni parte invece di muro la sagacia e la prudenza del
pastore, ogni artificio dei nemici ridonderà a loro scorno e derisione,
mentre gli abitanti se ne staranno dentro al sicuro; ma se alcuno riesca
a farla cessare in qualche parte, pur non distruggendola interamente,
rovina per così dire tutto il resto per causa di quella parte. E che
sarà, se mentre [il pastore] sa destramente combattere contro i Gentili,
facciano strazio di essa i Giudei? o se vinti questi due nemici, la
saccheggino i Manichei; o se dopo aver superato anche costoro, i
partigiani del fato uccidano le pecore dentro raccolte? Occorre forse
numerare tutte le eresie del diavolo, alle quali se non sappia resistere
accortamente il pastore, potrà il lupo anche con una sola di esse
divorare la maggior parte delle pecore? Inoltre, i soldati d’un esercito
debbono sempre attendersi la vittoria o la sconfitta da parte di
oppositori e combattenti; qui invece succede molto diversamente; spesso
infatti la battaglia rivolta contro altri, diede la vittoria a tali che
non vennero a pugna al primo scontro, né durarono fatica alcuna, ma se
ne stavano inerti e seduti. Accade anche talora, che uno non molto
addestrato a simile gioco, trafitto dalla sua stessa spada, divenga
ridicolo agli amici ed ai nemici. Per esempio cercherò di renderti
palese anche con un caso particolare ciò che dico coloro che accolgono
la follia, di Valentino e Marcione e quanti sono affetti dalla stessa
infermità di quelli, rigettano la legge data da Dio a Mosè dal catalogo
delle divine Scritture; i Giudei all’opposto la venerano a tal segno da
ostinarsi a osservarla interamente, anche se l’età più non lo comporta e
contrariamente all’insegnamento divino; la Chiesa di Dio invece,
evitando l’eccesso degli uni e degli altri, s’attiene al giusto mezzo e
non permette di soggiacere al giogo di essa, né soffre che sia
disprezzata, ma ancorché abrogata la approva, per aver essa giovato a
suo tempo. Or chi ha da opporsi agli uni e agli altri deve conoscere
questa giusta misura; ché se volendo ammaestrare i Giudei mostrando loro
che s’attengono intempestivamente alla legge antica, comincerà ad
attaccarla smodatamente, porge non piccola presa a quegli eretici che
vorrebbero lacerarla; se poi volendo chiudere la bocca a questi, prenda
ad esaltarla oltre misura, ammirandola come se fosse necessaria anche al
presente, eccoti che apre la bocca ai Giudei. Così pure quelli che sono
presi dalla pazzia di Sabellio e quelli che partecipano la furia di
Ario, per eccesso tanto gli uni che gli altri si dipartirono dalla sana
fede; essi tutti sono detti Cristiani, ma chi ricerchi i loro dogmi
troverà gli uni per nulla migliori dei Giudei, se non in quanto hanno
diverso nome; gli altri molto somiglianti all’eresia di Paolo di
Samosata, e lontani tutti dalla verità. Anche qui v’è gran pericolo, e
la via é stretta e intricata, isolata d’ambo i lati da precipizi; e v’è
non piccolo timore che mentre [il pastore] vuol sottomettere l’uno, non
resti offeso dall’altro. Ché se uno proclama una sola divinità, tosto
Sabellio trae la parola al suo perverso concetto; se poi la separa,
dicendo il Padre distinto dal Figlio e dallo Spirito Santo, si fa
innanzi Ario per ridurre a una diversità di sostanza la distinzione
delle persone; bisogna invece evitare e fuggire tanto l’ampia confusione
di quello, come la pazzesca separazione di costui, proclamando un’unica
sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e facendo
rilevare le tre ipostasi distinte: così potremo bloccare le uscite agli
uni e agli altri. Potrei dirti di molte altre difficoltà, contro le
quali se uno non lotta con vigore e sagacia, se n’andrà coperto
d’innumerevoli ferite.
Insidie provenienti dai membri stessi della comunità. Superstizioni e malignità
VII.
Chi potrebbe poi enumerare i pettegolezzi di questi, di casa? essi non
sono minori degli assalti di quei di fuori anzi danno maggior briga a
chi ha l’incarico d’ammaestrare. Gli uni spinti da zelo indiscreto, si
occupano senza criterio e inutilmente di ciò che non reca alcun
vantaggio a chi l’apprende, né é d’altra parte possibile apprenderlo;
altri chiedono ragione a Dio dei suoi giudizi, sforzandosi come di
scandagliare un grande abisso; però che "i tuoi giudizi, dice, sono un
abisso grande" (Sl. 36,6). Pochi poi troveresti che siano solleciti
della fede e del retto vivere, la maggior parte invece occupati nel fare
e ricercare quello che non si può trovare e trovato muove Dio a sdegno.
Ché quando ci sforziamo d’apprendere ciò che Egli non ha voluto che noi
conoscessimo, non riusciremo a saperlo (e come potremmo se Dio non lo
vuole?) e ci sovrasterà unicamente il pericolo derivante dall’essere
andati investigandolo. Ma pur stando così le cose, quando uno riesca con
l’autorità a chiudere la bocca a quelli che cercano tali arcani
impossibili a conoscersi, si buscherà la taccia d’arrogante e ignorante;
onde anche qui bisogna andar molto cauti, sì che il reggitore si
sottragga a questioni fuor di luogo, e nello stesso tempo sfugga alle
sopraddette accuse. Per tutte queste difficoltà non c’è offerto altro
aiuto che quello che viene dalla parola; se taluno é privo di questa
forza, le anime degli uomini a lui soggetti saranno in condizioni non
migliori di navicelle continuamente sbattute da tempesta, dico degli
uomini più infermi e più curiosi; onde il sacerdote ha da porre in opera
ogni mezzo per acquistarsi tale potenza.
Elogio di S. Paolo
VIII.
"Or dunque, disse Basilio, perché Paolo non si curò di eccellere in
questa virtù? egli non si vergogna della povertà di parola, ma confessa
apertamente di essere idiota, e ciò scrivendo ai Corinzi, che erano
ammirati per abilità di eloquio e ne andavano molto superbi".
"Questo,
risposi, questo é ciò che rovinò molti e li rese più inerti nel
magistero di verità; ché incapaci di indagare accuratamente la
profondità dei concetti dell’Apostolo, e di penetrare il senso delle
parole, consumarono tutto il loro tempo in letargo e fra sbadigli,
coltivando questa idiozia: non già quella per cui Paolo chiama se stesso
idiota, bensì un’altra da cui egli era tanto lontano quanto nessuno
altro uomo che é sotto il cielo. Ma questo discorso ci aspetti al
momento opportuno; frattanto io dico questo: poniamo pure ch’egli fosse
per questo riguardo idiota, com’esci vogliono; orbene, che cosa
importerebbe ciò per noi? Egli invero possedeva una forza molto più
possente della parola e capace di operare molto maggior bene; ché al
solo suo apparire, senza pur che parlasse, era tremendo per demoni;
quelli d’adesso già non varrebbero a effettuare ciò che altra volta
fecero i "semicinzi" (At. 19,12) di Paolo, quand’anche s’unissero
insieme con infinite preci e lacrime. Col pregare, Paolo risuscitò i
morti e operava tali altri portenti da essere creduto dai pagani una
divinità; inoltre prima di uscire da questa vita fu fatto degno d’essere
rapito fino al terzo cielo e intendere parole che alla natura umana non
è permesso di udire. Quelli d’adesso invece (non posso dir nulla di
disgustoso e offensivo, ché non parlo per inveire contro di loro, bensì
per esprimere la mia ammirazione) come non rabbrividiscono paragonando
se stessi ad un tale uomo? E se lasciando da parte i prodigi veniamo a
considerare la vita di quel beato, e investighiamo la sua condotta
angelica, in questa più ancora che nei miracoli, vedrai l’atleta di
Cristo riportare la palma. Chi può degnamente dire del suo zelo e della
sua moderazione, dei continui pericoli, delle cure costanti, degli
incessanti affanni per le Chiese, del partecipare le infermità altrui,
delle molte premure, delle straordinarie persecuzioni, e del morire ogni
giorno? Qual parte del mondo, qual continente, qual mare non conobbe le
fatiche di quel giusto? persino le lande disabitate lo conobbero e
l’accolsero frequentemente in pericolo. Egli sofferse ogni sorte di
insidie e riportò ogni genere di vittoria, né mai cessò di combattere e
di riportare corone. Ma non so come m’indussi a vituperare quell’uomo:
poiché i suoi pregi superano ogni parola, la mia poi di tanto, quanto i
valenti parlatori mi vincono in eloquenza. Tuttavia anche così, ché quel
beato non mi giudicherà dal risultato ma dall’intenzione, non mi
tratterrò dal dire anche quello che supera di tanto il già detto, quanto
egli supera tutti gli altri uomini. Che è ciò? dopo tante virtù dopo le
innumerevoli corone, egli pregava di poter andare nella geenna e
d’essere condannato alla pena eterna, perché si salvassero e si unissero
con Cristo quei Giudei, che lo lapidarono e lo avrebbero anche ucciso
se avessero potuto; chi amò Cristo fino a tal segno? seppure deve questo
chiamarsi amore, o non forse qualcosa d’altro più grande che l’amore. E
noi ci paragoneremo ancora a lui, dopo tanta grazia ch’egli ricevette
dall’alto, dopo sì gran virtù da lui manifestata in se stesso? e qual
maggiore audacia di questa?"
Eloquenza di S. Paolo
IX.
E ora mi studierò anche di dimostrare che egli non era così idiota come
quelli pensano. Essi invero chiamano idiota non solo chi non possiede
la forbitezza dell’eloquenza pagana, ma chi neppure sa combattere per i
dogmi della verità, e stimano rettamente: ma Paolo non disse già
d’essere idiota sotto tutti e due questi aspetti, bensì sotto uno
soltanto, e per confermarlo stabilisce chiaramente la distinzione,
dicendo d’essere idiota nella parola, ma non nella conoscenza. Se io
cercassi la levigatezza di Socrate, la maestà di Demostene, la gravità
di Tucidide o la sublimità di Platone, in tal caso s’avrebbe da addurre
quella testimonianza di Paolo; ma ora lascio da parte tutte quelle doti e
tutto il superfluo adornamento dei pagani, né m’importa nulla della
dicitura né dello stile: sia pur concesso d’aver povertà di frase e una
combinazione di parole semplice e senza ricercatezza; soltanto nessuno
sia idiota quanto a dottrina e a precisione di dogmi; né per palliare la
propria indolenza sottragga a quel beato la maggiore fra le sue doti e
quello che gli merita maggior lode.
S. Paolo cominciò il suo apostolato predicando e per mezzo della eloquenza ottenne i primi risultati
Con
qual mezzo infatti, dimmi, confuse egli i Giudei che abitavano in
Damasco, mentre non aveva ancora incominciato a operare prodigi? con
quale vinse gli Ellenisti? Perché fu mandato a Tarso? Non forse perché
egli fu vittorioso con la parola e tanto gl’incalzava da provocarli
persino a toglierlo di vita, non potendo sopportare in pace la
sconfitta? eppure colà non aveva ancor cominciato a compiere miracoli;
né alcuno potrebbe dire che la maggior parte lo ammirassero per la fama
dei suoi portenti e che quelli che lo prendevano di mira fossero
sgominati dalla riputazione ch’egli godeva, ché fino a quel punto egli
vinceva unicamente con la forza della sua parola. Con qual mezzo
combatté e venne a discussione in Antiochia contro i giudaizzanti? e
quell’Areopagita originario di quella superstiziosissima città, non
divenne forse suo seguace egli e sua moglie attratto unicamente dal suo
discorso? ed Eutico, come cadde dalla finestra? non forse per aver egli
atteso a udire fino a notte inoltrata l’insegnamento della parola di
lui? E a Tessalonica e a Corinto? e a Efeso e nella stessa Roma? non
passava interi giorni e notti continuamente inteso a esporre le
Scritture? chi potrebbe ripetere i suoi discorsi agli Epicurei e agli
Stoici? Andrei ben per le lunghe, se volessi ricordare ogni cosa! Se
dunque e prima dei miracoli e contemporaneamente a questi, appare aver
egli fatto grande uso della parola, come oseranno ancora dire idiota
colui che fu da tutti massimamente ammirato per la valentia nel
discutere e nel concionare? Per qual motivo infatti i Licaoni lo
credettero Ermes? l’essere essi ritenuti come dei deriva dai miracoli;
ma che lui fosse preso per Ermes non fu già per i miracoli, bensì per la
sua parola. Ed in che cosa quel beato sorpassò gli altri Apostoli e per
qual ragione egli è molto celebrato da tutti nel mondo? come mai è
ammirato sopra tutti non solo da noi, ma altresì dai Giudei e dagli
Elleni? non è forse per l’efficacia delle sue epistole, colla quale
edificò non solo i fedeli di quel tempo, ma ancora quelli che furono
d’allora fino al presente e che saranno fino al giorno della parusia di
Cristo, né cesserà di farlo finché duri l’umana stirpe? Queste sue
scritture sono di baluardo come muro d’acciaio per tutte le Chiese del
mondo, di guisa che [l’Apostolo] come un valorosissimo campione è
tuttora fra noi "conducendo in servaggio ogni intelletto all’ubbidienza
di Cristo, distruggendo le macchi nazioni e qualunque altura che si
innalza contro la scienza di Dio" (1Cor. 10,5). Tutto ciò egli compie
per mezzo di quelle epistole che ci ha lasciate, meravigliose e piene di
sapienza divina. Le sue scritture poi non valgono soltanto a
distruggere i dogmi fallaci e confermare i veri, ma anche per ben vivere
ci sono di non piccolo aiuto. Valendosi di esse infatti i capi delle
Chiese, governano, edificano e innalzano a spirituale bellezza quella
pura vergine che egli impalmò a Cristo, allontanano le infermità che
cadono su di lei e le conservano la sanità acquistata. Tali medicine e
di tanta efficacia ci ha lasciato quell’idiota, e le conoscono per prova
coloro che incessantemente se ne valgono. Da ciò adunque appare
manifesto che egli dedicò grande cura all’acquisto di questa dote.
X.
Odi anche quello che dice scrivendo al suo discepolo: "Attendi alla
lettura, all’esortare e all’insegnare" (1Tim. 4,13); indi aggiunge il
frutto che ne deriva, dicendo: "Così facendo salverai te stesso e quelli
che ti ascoltano" (1Tim. 4,16b). E ancora: "Al servo del Signore non si
conviene di litigare: ma di essere mansueto con tutti, pronto a
istruire, paziente" (1Tim. 4,13); e proseguendo soggiunge: "Ma tu
attendi a quello che hai imparato e a quello che ti é stato affidato,
sapendo da chi l’hai appreso, e che dalla fanciullezza conoscesti le
sacre lettere le quali possono istruirti" (2Tim. 3,14); e inoltre:
"Tutta la Scrittura é divinamente ispirata, dice, e utile a insegnare, a
redarguire, a correggere, a formare alla giustizia, affinché l’uomo di
Dio sia perfetto" (2Tim. 3,16-17). Ascolta ancora ciò che egli prescrive
a Tito parlando dell’elezione dei vescovi: "Però che il vescovo
dev’essere dedito a quella parola fedele che é secondo la dottrina,
affinché sia capace di convincere i contraddittori" (Tt. 1,9). Come mai
uno essendo idiota, com’essi dicono, potrà convincere i contraddittori e
ridurli al silenzio? e qual bisogno c’è di attendere alla lettura e
alle Scritture, se s’ha da far buon viso a questa idiozia? ma queste
cose sono pretesti e scuse, e nient’altro che un tentativo per
dissimulare l’inerzia e la pigrizia. "Ma, essi dicono, tali precetti
sono dati ai sacerdoti"; certo dei sacerdoti appunto noi ora parliamo;
ma per convincerti che sono rivolti anche ai sudditi, odi ancora ciò
ch’egli con altre parole in altra epistola raccomanda: "La parola di
Cristo abiti in voi con pienezza in ogni sapienza" Col. 3,16); e ancora:
"Il vostro discorso sia sempre con grazia asperso di sale, in guisa da
distinguere come abbiate a rispondere a ciascheduno" (Col. 4,11); ora
questa esortazione, d’esser pronti alla difesa, è rivolta a tutti;
scrivendo poi ai Tessalonicesi: "siate, dice, di edificazione l’uno
all’altro, come pur fate" (Tess. 5,11). E quando discorre dei sacerdoti:
"I presbiteri che governano bene sian riputati meritevoli di doppio
onore; massimamente quelli che si affaticano nel parlare e
nell’insegnare" (1Tim. 5,17). Poiché il termine più perfetto
dell’insegnamento si raggiunge quando [i maestri] riescano a trarre i
discepoli alla santa vita ordinata da Cristo, sia con le loro parole,
sia con le loro opere; ché il fare non basta da solo per esercitare il
magistero; né la sentenza è mia, bensì del Salvatore stesso: "Chi avrà e
operato e insegnato, questi sarà chiamato grande" (Mt. 5,19). Or se
l’operare equivalesse all’insegnare, la seconda parte era superflua, e
sarebbe bastato dire: "Chi avrà operato"; ma col distinguere l’una cosa
dall’altra, dimostra che una parte [del magistero] consiste nelle opere,
un’altra nella parola, e che hanno bisogno reciproco l’una dell’altra
per la perfetta edificazione. O non odi ciò che dice quel vaso eletto di
Cristo ai presbiteri degli Efesini: "Per la qual cosa siate vigilanti,
rammentandovi come per tre anni non cessai giorno e notte d’ammonire con
lacrime ciascuno di voi?" (At. 20,31). Che bisogno c’era allora di
lacrime o d’ammonizione di parole, mentre la sua vita apostolica
splendeva di tanta luce?
L’esempio apostolico non basta da solo. Bisogna che vi si unisca, come dimostra lo stesso S. Paolo, l’efficacia della parola
XI.
Questa [sua vita] può bensì essere in gran parte d’impulso per
l’adempimento dei precetti, né direi che anche per quello scopo basti da
sola a esercitare ogni efficacia, ma quando ci si muove guerra intorno
ai dogmi e tutti ci combattono appoggiandosi sulle Scritture stesse,
quale forza potrà mostrare in tal caso l’esempio della vita di lui? Qual
frutto si ricaverà dall’esempio dei tanti sudori di lui, se non ostante
quelle fatiche taluno per la sua grande incapacità cadendo nell’eresia
venga scisso dal corpo della Chiesa, cosa ch’io ho pur visto accadere a
molti? Qual vantaggio verrà a lui dalla fortezza (dell’Apostolo)?
nessuno, come nessun vantaggio verrebbe dal serbare retta la fede,
qualora la vita diventi corrotta. Per questi motivi appunto bisogna che
chi deve ammaestrare gli altri abbia grande perizia di queste battaglie;
ché se anche egli rimanga al sicuro senza subire danno da’ suoi
contraddittori, tuttavia la moltitudine dei meno istruiti che è a lui
soggetta, vedendo il capo ridotto al silenzio senz’aver di che
rispondere agli avversari, attribuirà la sconfitta non alla debolezza di
lui, ma all’essere egli intaccato nel dogma; onde per l’incapacità
d’uno solo, gran parte del popolo viene tratta a rovina. Ché se pure non
si schierino interamente dalla parte degli avversari, tuttavia sono
condotti per forza a dubitare di ciò che dovrebbero credere con
sicurezza, né possono più aderire con la medesima fermezza a quanto per
l’innanzi accoglievano con fede incrollabile; ma per la sconfitta del
maestro, sorge nelle loro anime tale tempesta, da finire anche con un
funesto naufragio; or qual rovina e qual fuoco s’accumuli sul capo di
quel misero per ciascuno di questi perduti, non c’è bisogno che tu
l’apprenda da me, sapendolo tu pure perfettamente. E dunque dovrà
chiamarsi arroganza e vanagloria il non voler esser cagione della rovina
di tanti, né procurare a me stesso un maggior castigo di quello che ora
mi è serbato colà? chi potrebbe dir ciò? nessuno per certo, tranne chi
voglia inutilmente biasimare o sfoggiare senno sui casi altrui.
Libro quinto
Il vescovo come maestro e oratore. Contegno e esigenze dell’uditorio
I.
Ho dimostrato a sufficienza di quanta abilità dev’essere fornito il
maestro per potere far fronte agli assalti contro la verità; debbo ora
parlare di un’altra incombenza oltre quelle accennate, che è causa di
infiniti pericoli; o piuttosto, direi che non essa lo sia, ma coloro che
non sanno adempierla come si conviene; poiché l’opera per se stessa può
essere strumento di salvezza e pegno di molti beni, quando trovi per
ministri uomini diligenti e virtuosi. Qual è quest’incombenza? la gran
fatica consacrata ai discorsi che si tengono pubblicamente al popolo.
Anzitutto la maggior parte dei sudditi non vogliono comportarsi di
fronte agli oratori come dinanzi a maestri, ma trapassando il livello di
discepoli, assumono l’atteggiamento degli spettatori che assistono agli
spettacoli profani; e come il popolo là si divide, e gli uni si
dichiarano per questo, gli altri per l’altro, così anche qui, fra loro
divisi, parte sostengono un tale, parte un tal altro, e ascoltano le
cose predicate solo per applaudire o per biasimare. Né questo è il solo
male, ma ve n’è un altro non minore: se accade che un oratore inserisca
nel suo discorso qualche brano di fattura altrui, è fatto segno a
dileggio più che un ladro volgare; spesso anche senza che plagio vi sia,
ma solo per un sospetto, lo trattano come chi è colto con le mani nel
sacco. Ma che dico brani di fattura altrui? Non è neppure lecito a uno
di valersi più volte delle sue stesse opere; poiché non per trarne
vantaggio, ma unicamente per diletto sogliono ascoltare la maggior
parte, sedendo come fossero giudici di citarèdi e di tragèdi così la
facoltà dell’eloquenza che poco fa sottoposi a censura, diventa qui
tanto desiderabile quanto nemmeno lo è ai sofisti obbligati a discutere
fra di loro. Anche in queste circostanze pertanto c’è bisogno di
un’anima generosa e molto al disopra della mia piccolezza, per reprimere
la disordinata e perniciosa voluttà della moltitudine e indirizzare
l’uditorio verso una meta. più vantaggiosa, di modo che il popolo gli
vada dietro docilmente e non sia egli trascinato dalle loro velleità.
Ciò non è dato ottenere se non con questo duplice mezzo: disprezzo delle
lodi e efficacia di parola.
Non bisogna dar troppo peso alle approvazioni e ai biasimi dell’uditorio
Il.
Ove l’uno manchi, l’altro torna inutile, per la separazione dal primo;
se uno pur nutrendo disprezzo per la lode, non esponga un insegnamento
con grazia e asperso di sale, diviene facilmente oggetto di scherno per
la maggior parte, nulla guadagnando da quella sua superiorità d’animo;
se poi si diporti bene per questo lato e si lasci soggiogare
dall’opinione che s’esprime con applausi fragorosi, ne verrà eguale
danno a lui e alla moltitudine, poiché egli, preso dal desiderio della
lode, si dedicherà al ministero della parola più per acquistare favore
che per recare vantaggio. Onde, come colui che non avendo brama di
gloria né sapendo parlare affatto, non cede alla voluttà del popolo, ma
nemmeno può recargli qualche notevole giovamento, così pure chi è
trascinato dal desiderio di elogi, mentre avrebbe da dire quello che può
rendere migliore il popolo, invece di ciò espone quello che meglio
serve a dilettarlo, traendone in compenso lo strepito degli applausi.
L’ottimo
capo ha da esser quindi ben munito da ambe le parti, onde non rovinare
l’una per mezzo dell’altra. Quando egli sorgendo in mezzo dice cose
adatte a scuotere gli inerti, ma poi incespica, s’interrompe ed è
costretto a vergognarsi per incapacità, tosto si disperde il frutto
delle cose dette; ché quelli che furono ripresi, rattristati per le
parole loro indirizzate e non potendo altrimenti resistergli, lo
colpiscono schernendo la sua ignoranza, e credono così di nascondere i
rimproveri da lui ricevuti. Conviene pertanto che come un ottimo auriga,
spinga se stesso alla perfezione di questi due pregi in guisa da
poterne far uso secondo il bisogno: quando sarà irreprensibile di fronte
a tutti, allora potrà con quanta autorità gli piaccia punire o
perdonare secondo il caso tutti i suoi sudditi: ma prima d’aver
raggiunto questo termine non gli sarà facile agire in tal guisa. Si deve
poi estendere la magnanimità non solo fino al disprezzo delle lodi, ma
più oltre, affinché il frutto non rimanga incompleto.
Mentre si sprezza il capriccio mutevole della folla, bisogna però troncare i maligni sospetti e le insinuazioni calunniose
III.
Qual altra cosa pertanto bisogna disprezzare? La gelosia e l’invidia:
non è bene temere e paventare oltre misura le intempestive calunnie
(poiché il capo necessariamente deve sopportare biasimi irragionevoli)
né il passarvi sopra con troppa bonarietà; ma anche se sono false e
scagliate da gente volgare, bisogna studiarsi di soffocarle
repentinamente. Nulla infatti contribuisce più della folla a creare una
fama buona o cattiva; avvezza ad ascoltare e parlare senza criterio,
ripete a casaccio tutto quanto le viene all’orecchio, senza preoccuparsi
affatto se sia vero o falso. Non bisogna quindi stare noncuranti della
folla, ma troncare al più presto i maligni sospetti, sforzandosi di
convincere i maldicenti quand’anche fossero dei più irragionevoli, né
lasciare alcun mezzo intentato per distruggere la cattiva opinione. Se
poi, pur avendo noi posto in opera ogni mezzo, i calunniatori non
vogliano persuadersi, allora conviene disprezzarli; ché se taluno si
lascerà abbattere per simili vicende, non potrà mai far nulla di nobile e
degno d’ammirazione; l’abbattimento e le continue ansie hanno funesta
efficacia per spegnere l’energia dello spirito e piombarlo in estrema
sfinitezza. Il vescovo ha da comportarsi coi suoi sudditi come un padre
coi figli ancor molto piccini; come non ci conturbiamo qualora questi ci
insultino o ci percuotano, o se piangano, né molto diamo loro retta
quando ridono e ci fanno festa, così non bisogna lasciarci soggiogare
dalle lodi della folla né essere oppressi per i suoi biasimi, quando
sono mossi senza motivo. Ma ciò è difficile, o caro, e forse anche,
credo, impossibile; non so se ad alcun uomo riesca di non gioire delle
lodi; or chi ne gioisce è naturale che nutrisca desiderio di riceverne, e
chi desidera di riceverne è giocoforza che sia rattristato, sfiduciato,
agitato e afflitto quando gli venga negata la lode. Come quelli che
godono della ricchezza, qualora cadano in miseria restano oppressi, e
assuefatti com’erano alle mollezze non possono adattarsi a vivere
grossolanamente, così anche i bramosi di elogi, non solo se vengano
ingiustamente biasimati, ma anche se non sono costantemente acclamati,
si sentono l’anima sfinita come per farne, specialmente quando per
avventura ne fossero stati [prima] lautamente pasciuti, o quando per
soprappiù sentono che altri riscuote applausi. Quali brighe e quali
affanni credi tu non abbia pertanto a incontrare chi si espone al
cimento del magistero con lo stimolo di questa bramosia? L’anima sua non
sarà mai libera da ansie e tormenti, come non può essere il mare libero
da marosi.
L’eloquenza esige un costante esercizio per conservare la sua efficacia
IV.
Ma non potrà sottrarsi a un assiduo travaglio neppure quando possieda
gran potenza di parola, cosa che non è facile trovare se non in pochi;
poiché, essendo l’eloquenza frutto di studio anziché dono di natura,
quando pure alcuno ne abbia raggiunto il culmine, ne perde affatto
l’esercizio se non alimenta questa sua facoltà con costante diligenza e
fatica; onde il travaglio diviene maggiore per i più istruiti che per i
più idioti; non è infatti eguale a questi e a quelli il danno della
trascuratezza, ma è di tanto maggiore, di quanto diverso è il corredo di
cultura degli uni e degli altri. A questi ultimi nessuno muoverebbe
rimprovero se parlando espongono solo inezie; quelli invece se non
mettono in mostra cose sempre superiori alla fama in che tutti li
tengono, subito sono fatti segno a critiche; inoltre agli altri si
prodigano grandi elogi anche per piccolo merito, ma se i pregi di quelli
non sono molto meravigliosi e abbaglianti, non soltanto si nega loro la
lode, ma anche si scagliano loro contro numerosi vituperi; già, gli
uditori siedono giudici non tanto delle cose dette, quanto del dicitore,
onde quanto più uno supera tutti gli altri nell’eloquenza, tanto più
gli è d’uopo di laboriosa cura. A lui invero non è lecito soggiacere
nemmeno a ciò che è comune alla natura umana, cioè al non fare
perfettamente ogni cosa, ma se i suoi discorsi non sono proporzionati
all’altezza della sua rinomanza, ne esce carico degli scherni e delle
critiche innumerevoli di tutti. Nessuno considera che un abbattimento
sopravvenuto, le lotte e le preoccupazioni, spesso anche l’irritazione,
possono oscurare la limpidezza del pensiero e impedire che i concetti
vengano espressi con chiarezza, né che essendo egli in tutto uomo, non
gli è possibile mantenersi sempre dello stesso umore e sempre col vento
in poppa, ma naturalmente deve talvolta venire meno e mostrarsi al
disotto del proprio livello; nulla, come dico, di tutto questo vogliono
considerare, ma gli fan colpa di tutto come se giudicassero d’un angelo.
È poi particolarmente proprio dell’uomo il far poco caso di grandi e
numerosi pregi che si trovino in persona vicina; se invece in essa
appaia una colpa, per quanto piccola e d’antica data, ognuno se ne
accorge tosto, se ne fa severo censore e a ogni occasione vi ritorna
sopra; onde spesso un difetto piccolo e comune sminuì la fama di molti e
grandi uomini.
V.
Vedi, o ottimo, che v’è bisogno di operosità sopra tutto per chi è
fornito d’eloquenza; e oltre all’operosità gli occorre anche tanta
tolleranza quanta non ne occorre a tutti quelli di cui ti ho parlato
sopra. Molti infatti gli si oppongono di continuo senza ragionare, nulla
avendo da rinfacciargli, ma solo eccitati dall’essere egli in fama
presso tutti: bisogna ch’egli sappia sopportare la fastidiosa gelosia di
costoro. Non riuscendo essi a celare quest’odio loro maledetto, che
ingiustamente nutrono, vengono a ingiurie, a maligne critiche,
calunniando di nascosto e imperversando a faccia aperta; onde un’anima
che cominciasse ad affliggersi e irritarsi per ciascuno di questi
incontri, morrebbe anzi tempo di crepacuore. Non solo da se stessi gli
fanno guerra, ma s’adoperano anche per avere l’aiuto di altri; e spesso
scelto qualcuno che non sa affatto ben parlare, cominciano a levarlo a
cielo con lodi, e vanno magnificandolo oltre il suo merito, gli uni
facendo ciò per ignoranza, gli. altri per ignoranza ed invidia al tempo
stesso, più per togliere la fama a quell’altro, che per far apparire
mirabile chi in realtà non è tale. Ma quel generoso non ha da combattere
soltanto contro costoro, bensì spesso anche contro la rozzezza di tutto
il popolo. Poiché il pubblico non è composto tutto di uomini
eccellenti, ma la maggior parte dell’assemblea sono gente volgare,
mentre gli altri poi, pur essendo più istruiti dei primi, tuttavia sono
lontani dal poter apprezzare l’eloquenza molto più di quanto il volgo
sia al disotto di loro; sicché rimangono a stento uno o due che
possiedano tale capacità. Quindi accade necessariamente che chi meglio
parla, spesso raccoglie minori applausi e talvolta persino ne rimane
privo affatto. Anche di fronte a questi ingiusti apprezzamenti deve
comportarsi con fortezza e perdonare a quelli che ciò fanno per
ignoranza, e quelli che invece vi sono spinti da invidia, compiangerli
come miserabili e degni di pietà; né deve stimare che il suo valore
venga menomato per i giudizi sì degli uni che degli altri. Ché anche un
eccellente pittore e superiore nell’arte a tutti gli altri, qualora
vedesse un quadro dipinto da lui con ogni cura censurato da profani, non
avrebbe per certo da avvilirsi e riputare cattiva l’opera sua in forza
del giudizio di quelli; come nemmeno dovrebbe giudicare meravigliosa e
affascinante un’opera in sé cattiva, sol perché desta l’ammirazione
degli idioti. L’artefice ottimo dev’essere anche giudice lui solo delle
opere sue, e queste s’hanno a ritenere buone o cattive quando
l’intelletto che le ha prodotte avrà dato questi suffragi, senza neppur
badare all’opinione degli estranei, soggetta a errore e incompetente.
Ora chi affronta il cimento del magistero non deve badare agli elogi
degli estranei, né l’anima sua deve essere abbattuta qualora gli siano
negati, ma componendo i suoi discorsi in guisa da piacere a Dio (questo
dev’essere per lui il criterio supremo per giudicare dell’ottima fattura
d’essi, non gli applausi, né gli elogi), se verrà lodato anche dagli
uomini, non rifiuti i loro encomi, ma se gli uditori non glie ne
concedono, non ne vada in cerca né se ne affligga. Sufficiente sollievo
delle fatiche, e maggiore di ogni altro sarà per lui la coscienza del
suo sforzo di indirizzare e disporre il suo insegnamento in modo da
incontrare l’approvazione divina.
L’oratore sacro ha bisogno di grande fede e fortezza d’animo
VI.
Se egli invece viene ad essere soggiogato dal desiderio di lodi
irragionevoli, nessuno vantaggio ricaverà dalle sue molte fatiche né
dalla sua bravura nel parlare, perché l’anima non potendo poi sopportare
i biasimi inconsiderati del volgo, rallenta nell’ardore e cessa di
applicarsi con cura al magistero della parola; bisogna perciò
esercitarsi soprattutto nel disprezzo delle lodi., ché se non si unisce
questo, non basta il saper ben parlare per serbare in vigore questa
facoltà. Ma se alcuno consideri bene anche la condizione di chi non è
riccamente fornito di questa dote, troverà che anch’egli non ha minor
bisogno di sprezzare l’applauso; egli infatti sarà nella necessità di
commettere molti falli, trovandosi al disotto dell’opinione comune;
incapace di rivaleggiare coi predicatori famosi, non si periterà di
tendere loro insidie, nutrire invidia contro di essi, di biasimarli
ingiustamente e di macchiarsi di molte simili colpe, tutto osando
quand’anche avesse da perderci l’anima, pur di riuscire ad abbassare la
fama di quelli fino al livello della propria nullità. Inoltre rifuggirà
dai sudori necessari per l’opera sua, come se l’anima gli fosse gravata
da torpore; e invero il molto travagliarsi per ottenere una scarsa messe
di applausi, basta per abbattere e avvolgere in profondo letargo colui
che non sa sprezzare la lode; anche l’agricoltore quando lavora un
terreno poco produttivo e deve coltivare la ghiaia, presto abbandona la
fatica, se non sia sostenuto da grande tenacia nel continuare la sua
impresa, o se non tema il sovrastare della carestia. Se coloro che pur
sanno parlare con molta autorità hanno bisogno di tanta cura per
conservarsi questa loro dote, colui che non ha messo nulla in serbo, ma
deve tuttavia porsi in grado di potersi presentare al pubblico, a quali
difficoltà, turbamenti e angustie non dovrà sottostare, per raccogliere
da grande fatica qualche piccolo frutto? Che se poi uno di quelli che
stanno più in basso di lui e occupano una carica inferiore, riesca ad
acquistarsi per questo lato una maggior rinomanza, allora ci vuol
proprio un’anima quasi celeste, per non cadere in preda all’invidia né
lasciarsi abbattere dallo scoramento; perché l’essere egli superato nel
successo per opera d’un suo subalterno, mentre egli è posto in maggior
dignità di grado, e sopportare ciò generosamente, non è virtù comune, ma
propria di un’anima d’acciaio. Quando il più favorito sia persona
affabile e moderata assai, allora il rammarico diventa in qualche modo
sopportabile; ma se è un tipo arrogante, borioso e avido di gloria,
sarebbe a quell’altro più desiderabile la morte ogni giorno, tanto
questi gli renderà amara l’esistenza, censurandolo apertamente,
schernendolo di nascosto, sottraendogli gran parte dell’autorità,
bramoso di tutta usurparsela. E in tutto ciò ha come appoggio sicuro
l’audacia nel parlare e il favore della plebe a suo riguardo e l’essere
nelle grazie di tutti i sudditi. E non vedi tu quanta brama di discorsi
si è ora infiltrata nelle anime dei Cristiani e come quelli che vi danno
opera sono in onore non solo presso i pagani, ma anche tra i fedeli? E
chi sopporterebbe questa confusione, che mentre egli predica, tutti se
ne stiano zitti e stimino di essere importunati, sospirando la fine del
discorso come liberazione da un tormento; mentre invece l’altro anche se
parla a lungo, l’ascoltano con entusiasmo, e accennando egli a finire
si conturbano, e se fa di tacere, si adontano? Sono cose che se anche
ora ti sembrano piccole e disprezzabili, per non averle tu ancora
provate, bastano però a spegnere l’entusiasmo e paralizzare le energie
dello spirito, se uno levandosi al disopra di ogni umano affetto non si
studi di comportarsi come le potenze incorporee, le quali non
soggiacciono né a invidia né a vanagloria, né ad altra simile infermità.
Se dunque v’ha un uomo di tale tempra che sappia mettere sotto i piedi
questa belva inafferrabile, invincibile e selvaggia che è la pubblica
opinione e troncarne le numerose teste, anzi da non lasciarle né anche
da principio spuntare, quegli potrà agevolmente respingere i frequenti
assalti e godere come di un porto tranquillo; ma finché non ne sarà
liberato, egli imporrà all’anima sua una guerra molteplice, continuo
affanno, e il peso dello scoramento e d’ogni altra angustia. E a che
enumerare le rimanenti difficoltà? Nessuno può né dirle né comprenderle,
se non si sia trovato egli stesso in mezzo a queste brighe.
Libro sesto
Riepilogo.
Difficoltà del ministero e virtù necessarie. Conclusione della difesa.
Il pensiero di dover rendere conto al Giudice supremo della salute
spirituale dei sudditi, incute grande timore.
I.
Così stanno le cose quaggiù, come hai udito; quelle poi che riguardano
l’altra vita, come potremo sopportarle, essendo noi costretti a rendere
ragione di ciascuno di coloro che ci furono affidati? Il danno non si
limiterà allora alla vergogna, ma trarrà seco una punizione eterna. Se
già l’ho ricordato, non tralascerò ora di ripetere il detto: "Siate
ubbidienti ai vostri prelati e siate ad essi soggetti, poiché essi
vegliano come dovendo rendere conto delle anime vostre" (Eb. 18,17); ché
il timore di questa minaccia mi agita continuamente lo spirito. Se per
chi scandalizza minimamente uno solo "conviene che gli sia sospesa al
collo una pietra da mulino e venga precipitato nel mare" (Mt. 18,6) e se
"quanti offendono la coscienza dei fratelli, peccano contro lo stesso
Cristo" (1Cor. 8,12), chi infligge tanta rovina non a uno, o due, o tre,
ma a un popolo intero, che cosa non dovrà soffrire in pena e quale
castigo non avrà da riceverne? Né si può incolpare l’inesperienza, né
rifugiarsi nella scusa dell’ignoranza, né addurre come pretesto la
violenza e la costrizione subita: tale pretesto potrebbe farlo valere
chiunque fra i sudditi, qualora fosse il caso, riguardo alle proprie
colpe, più facilmente di quello che un capo possa addurlo a scusa delle
colpe altrui. E perché mai? perché chi é incaricato di correggere
l’ignoranza degli altri e porre in guardia contro la guerra diabolica
quando s’avvicina, non potrà certo pretessere l’ignoranza propria, né
dire: "Non ho udito la tromba, né ho potuto prevedere la battaglia".
Poiché, per questo, come dice Ezechiele, t’ha fatto sedere, per suonare
la tromba anche per gli altri e preannunziare le calamità future. Onde
la pena sarà inesorabile, anche se uno solo andasse perduto. Ché "se
all’avvicinarsi della spada, dice, la sentinella non suoni la tromba al
popolo, per annunziarla, e la spada venendo prenda un uomo, questi
veramente per colpa sua é rapito, ma del sangue di lui domanderò conto
alla sentinella" (Ez. 33,6).
Custodia dei sensi e purezza angelica necessaria al sacerdote
Cessa
pertanto di spingermi verso una pena tanto inesorabile: non si tratta
né di comando militare né di dignità regia, ma di un’istituzione tale
che richiede una virtù angelica. L’anima del Sacerdote dev’essere più
pura dei raggi del sole, affinché lo Spirito Santo non lo abbandoni e
affinché possa dire: "Vivo non già io, ma vive in me Cristo" (Gal.
2,20). Ché se gli anacoreti del deserto, lontani, dalla città e dai
pubblici ritrovi e da ogni strepito proprio di quei luoghi, godendo
interamente il porto e la bonaccia, non s’inducono a confidare nella
sicurezza di quella loro vita, ma aggiungono infinite altre attenzioni,
munendosi da ogni parte e studiandosi di fare o dire ogni cosa con
grande diligenza, per potersi presentare al cospetto di Dio con fiducia e
intatta purezza, per quanto é possibile alle umane facoltà; qual forza e
violenza ti pare che farà d’uopo al vescovo, per sottrarre l’anima sua
da ogni macchia e serbarne intatta la spirituale beltà? A lui occorre
per certo maggior purezza che a quelli, e frattanto, proprio lui che ne
ha maggior bisogno è esposto a maggiori occasioni necessarie, nelle
quali può essere contaminato, se con assidua sobrietà e vigilanza non
renda l’anima sua inaccessibile a quelle insidie. La grazia della
persona, le movenze affettate, il camminare ricercato, l’esilità della
voce, gli occhi imbellettati, la tintura delle gote, la disposizione
delle trecce, le chiome impatinate, lo sfarzo delle vesti e la varietà
dei monili, la bellezza delle gemme, il profumo degli unguenti e tutte
le attrattive di cui va in cerca il sesso femminile, bastano a turbare
l’anima qualora non sia bene inaridita con rigorosa temperanza. Del
resto nulla di strano che uno sia inquietato da simili cose, ma ciò che
riempie di stupore e di sgomento é che il diavolo può percuotere e
trafiggere le anime degli uomini mediante oggetti affatto contrari a
quelli.
II.
Taluni infatti essendo sfuggiti a quelle trappole, caddero in altre
assai diverse. Lo sguardo trascurato, la capigliatura ispida, il vestito
sudicio, l’aspetto dimesso, i modi semplici, il parlar naturale,
l’incesso comune, la voce piana, il vivere in povertà, l’essere oggetto
di disprezzo senza appoggio e in abbandono, dopo aver mosso a
compassione l’osservatore, finirono per trascinarlo a estrema rovina:
onde molti, scampando dalle prime reti tese dai monili, unguenti, abiti
sfarzosi, e tutto il resto sopra ricordato, caddero con tutta facilità
in queste altre così diverse da quelle, e vi soccombettero. Se dunque
mediante la povertà e la ricchezza l’ornamento e l’aspetto dimesso, i
modi affettati e quelli trascurati, in una parola mediante tutti gli
oggetti sopra enumerati si accende la guerra contro l’anima dello
spettatore, e d’ogni intorno gli tendono insidie, come potrà egli
respirare, stretto nel cerchio di tanti scogli? quale scampo potrà
trovare, non dico per non soccombere alla violenza, ché ciò non é molto
difficile, ma per serbare l’anima sua tranquilla e libera da immondi
pensieri? Lascio da parte gli onori che sono cagione di mali infiniti;
quelli che provengono dalle donne sbolliscono bensì con l’assiduità
della modestia, ma possono anche far cadere chi non sa mantenersi sempre
vigilante contro tali insidie; quanto poi a quelli offerti dagli
uomini, se uno non li accoglie con molta superiorità di spirito,
soggiace a due affezioni contrarie, quali la servile
adulazione
e la stolta iattanza, costretto a inchinarsi a quelli che dovrebbero
stare a’ suoi cenni, reso aspro contro i minori dal favore accordatogli e
spinto così nel baratro della presunzione. Queste cose dico io; ma il
danno che da ciò proviene nessuno potrebbe pienamente comprenderlo,
senz’averne fatto esperienza, ché a chi si trova all’atto pratico é
giocoforza che ne accadano di peggiori e più rovinose.
Il ministero dedicato al popolo é più difficile che il governo di comunità monastiche
Colui
che preferisce la quiete si trova libero da ogni peso: onde se talora
un pensiero vano gli suggerisce qualcosa di simile, la fantasia é debole
e facile a spegnersi, non somministrandosi dall’esterno per mezzo della
visione, materia all’incendio. Inoltre il monaco teme solo per se
stesso; se mai é costretto a stare in angustia anche per altri, si
tratta d’un numero piccolissimo; e se fossero più numerosi, lo sono
sempre meno di quelli che sono nelle chiese, e procurano al prelato cure
assai più lievi, non solo per il piccolo numero, ma anche perché tutti
sono liberi dalle faccende mondane e non hanno da preoccuparsi né per i
figli né per la moglie né per null’altro di simile. Questo li fa più
docili ai superiori, ed anche l’aver essi in comune l’abitazione, in
guisa che le loro mancanze si possono diligentemente avvertire e
correggere, il che é di non piccola importanza per il progresso nella
virtù.
Invece
la maggior parte di quelli che sono soggetti al vescovo é occupata
nelle cure materiali, il che li rende più indolenti per quanto si
riferisce alle opere spirituali, onde il maestro deve, per così dire,
seminare quotidianamente, affinché la parola del magistero possa con
l’assiduità essere finalmente afferrata dagli uditori. La sfondata
ricchezza, la posizione elevata, la pigrizia derivante dal lusso, e
molte altre cause oltre a queste, soffocano i semi deposti; spesso poi
la fitta delle spine non lascia neppur cadere la sementa fino a poter
germogliare; anche l’eccesso della tribolazione e le strette
dell’indigenza, i soprusi continui e altre cause contrarie alle prime,
possono ritrarre dalla sollecitudine per le cose di Dio. Delle loro
colpe poi non può venire in chiaro al vescovo neppur la minima parte; e
come potrebbe essere diversamente se non conosce nemmeno di vista il
maggior numero de’ sudditi?
La responsabilità dinanzi a Dio. Grandezza del rito eucaristico
III.
Tali difficoltà offrono al vescovo i suoi rapporti col popolo; ma se
alcuno investiga i suoi rapporti con Dio, troverà che le altre sono al
confronto un nulla, tanto maggiore e più complessa é la cura che questi
richiedono. Colui il quale é mallevadore di tutta una città, ma che dico
città? di tutto il mondo, e che deve propiziare Iddio per le colpe di
tutti, non solo de’ vivi ma anche de’ trapassati, di quale virtù non
dev’essere egli fornito? Io non stimo possa bastare per tale
intercessione né la fiducia di Mosè, né quella di Elia. E per vero [il
vescovo], come custode di tutto il mondo e padre di tutti, si presenta a
Dio supplicandolo di sedare le guerre e comporre i disordini,
implorando pace, prosperità e privatamente e pubblicamente la pronta
liberazione di tutte le calamità da cui ciascuno é afflitto; perciò egli
deve tanto superare tutti coloro per i quali intercede, quanto é
ragionevole che il prelato superi [in dignità] i suoi subalterni. Quando
poi invoca lo Spirito Santo e compie il tremendo sacrificio e viene in
assiduo contatto col comune Signore di tutte le cose, in qual grado,
dimmi, lo porremo noi? e qual purezza e austerità non richiederemo da
lui? pensa quali hanno da essere le mani che si gran cose amministrano,
quale la lingua che pronunzia quelle parole, e come dev’essere più
immacolata e santa che mai l’anima che deve accogliere un tanto Spirito?
Allora assistono al sacerdote anche gli angeli, onde il Santuario e lo
spazio intorno all’altare si riempie di potenze celesti, in omaggio [al
Signore] presente. Ciò si può asseverare anche da quanto é altra volta
accaduto; io stesso ho udito da un tale raccontare che un certo vecchio,
uomo meraviglioso e favorito da rivelazioni, gli aveva confidato
d’essergli stata una volta concessa una simile visione, e che durante
quel tempo aveva scorto d’improvviso una moltitudine di angeli, com’egli
li poteva vedere, cinti di fulgide vesti, facenti corona all’altare e
starsene inchinati, in atto simile a’ guerrieri in presenza del re; e io
lo credo. Un altro pure mi raccontò, non riferitogli da chicchessia, ma
lui stesso esser stato degnato di vedere e udire che coloro i quali
stanno per dipartirsi da questa vita, se abbiano partecipato. ai misteri
con intatta coscienza, al loro spirare gli angeli in guardia d’onore ne
li conducono, per riverenza al sacramento da loro ricevuto. Tu invece
non rabbrividisci nello spingere a sì santa azione un’anima come la mia,
e nel sollevare alla dignità de’ sacerdoti uno avvolto in sordide vesti
e che Cristo respinse anche dal ceto degli altri convitati!
Il sacerdote é sale della terra e luce del mondo
L’anima
del sacerdote deve splendere come luce che illumina tutta la terra,
mentre la mia é ravvolta dalla perversa coscienza in si fitta tenebra,
che sempre vi sta sommersa né può mai con fiducia volger lo sguardo al
suo Signore. I sacerdoti sono il sale della terra, mentre invece la mia
insipienza e totale inesperienza, chi le tollererebbe di buon grado, se
non voi altri, per la consuetudine d’eccessivo affetto? Ché [il
sacerdote] dev’essere non soltanto puro come lo richiede un tanto
ministero, ma anche molto prudente e pratico di molte faccende; non deve
conoscer gli affari materiali meno di quelli che vi si trovano in
mezzo, e tuttavia deve esserne distaccato non meno dei monaci che
abitano i monti. Egli deve essere versatile, perché ha da far con uomini
che hanno moglie, figli, servitù, sono circondati da grandi ricchezze,
trattano la cosa pubblica e occupano alte cariche: versatile, dico, non
subdolo, né adulatore né ipocrita, ma pieno di libertà e di franchezza,
sapendo però accondiscendere docilmente qualora le circostanze lo
richiedano, mostrandosi a un tempo affabile e austero. Non bisogna
infatti comportarsi allo stesso modo con tutti i sudditi, come non
sarebbe opportuno ai medici procedere con uno stesso criterio con tutti
gli ammalati, né al pilota conoscere una sola manovra per combattere
contro i marosi. E per vero anche questa nave é premuta da continue
tempeste; tempeste che non solo assalgono dall’esterno, ma sorgono anche
dall’interno, onde v’è d’uopo di grande accondiscendenza, ma insieme di
grande attenzione. Tutte queste cose, sebbene fra loro diverse,
cospirano a un fine unico: la gloria di Dio e l’edificazione della
Chiesa.
Confronto tra il monaco e il sacerdote
IV.
Grande é la professione monastica e costa molta fatica; ma chi paragoni
quei travagli al conveniente disimpegno dell’episcopato, troverà tanta
differenza quanta ve n’ha fra un uomo del volgo e un re. Sebbene là sia
grande la fatica, tuttavia la lotta é sostenuta in comune dal corpo e
dall’anima, anzi nella maggior parte essa dipende dalla costituzione del
corpo; se questo non é vigoroso la passione rimane assopita, né può
effondersi nell’azione; onde anche gli assidui digiuni, il dormire su
nuda terra, le veglie protratte, il non lavarsi, la dura fatica e tutti
gli altri esercizi che servono a mortificare il corpo, sono messi in
disparte, essendo privo di vigore quello che dovrebbe venire represso.
Qui invece l’arte è puramente dell’anima, né ha d’uopo del benessere del
corpo per dimostrare la sua virtù. Infatti, a che gioverebbe la forza
del corpo per evitare l’arroganza, l’irascibilità, la precipitazione, ed
essere invece sobri, prudenti, ordinati, e mostrare tutte le altre doti
con cui il beato Paolo ci descrive in tutte le sue parti l’immagine del
perfetto vescovo? Non si potrebbe dir ciò riguardo alle virtù proprie
dei monaci.
Ma
come ai prestigiatori occorrono molti ordigni e ruote e corde e
coltelli, mentre il filosofo ha l’arte sua riposta tutta nell’anima
senza bisogno di strumenti esterni, così anche nel nostro caso, il
monaco ha bisogno della buona costituzione corporale e di luoghi adatti
al suo esercizio, che non siano troppo lontani dal consorzio degli
uomini, che abbiano la quiete propria delle regioni disabitate e che
inoltre non difettino di un’ottima temperatura dell’atmosfera; però che
nulla riesce più intollerabile delle intemperie per chi é già estenuato
dai digiuni; non parlo poi delle brighe che essi hanno necessariamente
per prepararsi le vesti e il vitto, dovendo ogni cosa fare da se stessi.
Il vescovo invece non dovrà occuparsi di tutto ciò per servire alle
proprie necessità, ma esente da tali lavori, egli partecipa a tutte le
manifestazioni della vita che non recano danno, custodendo tutta la sua
scienza in serbo nel ripostiglio dell’anima. Che se taluno ammira quelli
che se ne stanno in disparte, anch’io direi che ciò è segno di
fortezza, non però un saggio sufficiente di tutta
la
virtù che è nell’anima: chi siede al timone standosene chiuso nel
porto, non offre adeguata prova dell’arte sua, ma se uno riesca a
salvare la nave in mezzo al pelago e alla procella, nessuno oserà negare
ch’egli sia un ottimo pilota.
La vita solitaria non porge molte occasioni di provare la virtù.
V.
Pertanto non ci dovrebbe destare un’ammirazione esageratamente grande
il monaco, che standosene solo non soffre turbamenti né commette grandi e
numerose colpe: egli non ha le occasioni che stimolano e risvegliano
l’anima. Invece, quando uno dedicandosi a intere moltitudini e costretto
a sopportare i disordini di tutti, sa mantenersi diritto e forte,
guidando l’anima fra le tempeste come se fosse in bonaccia, questi
sarebbe degno d’essere acclamato e ammirato da tutti, ché ha offerto una
prova sufficiente della sua fortezza. Non devi pertanto meravigliarti
se io, fuggendo i ritrovi e le compagnie numerose, non vado incontro a
molti biasimi, come non sarebbe degno di ammirazione che io dormendo
evitassi le colpe, o fuggendo la lotta non m’occorresse di cadere, o
astenendomi dal combattere non fossi vinto. Ma chi, dimmi, chi può
denunziare e smascherare la mia perversità? questo tetto e questa cella?
ma essi non sanno articolare parola. O forse mia madre che più d’ogni
altro conosce le mie tendenze? ma fra me e lei non c’è nulla di comune
né mai siamo venuti a qualche contrasto, e se anche ciò fosse avvenuto,
non c’è madre tanto disamorata e ostile verso la sua prole, da accusare e
perseguitare in faccia a tutti senza che alcun motivo ne la costringa,
quello che essa ha generato, partorito ed allevato. E tu pure, che più
di tutti sei solito a levarmi a cielo con lodi presso chiunque, non
ignori che se si sottoponesse a rigorosa prova l’anima mia, la si
troverebbe in molte parti viziata; se vuoi persuaderti che io non parlo
così per modestia, ricordati quante volte, discorrendosi fra noi di tali
faccende, ebbi a dirti che se mi si proponesse di significare in quale
condizione vorrei ottenere lode, se nel governo della Chiesa oppure
nella vita monastica, io avrei dato coi pieni voti la preferenza alla
prima. Né mai ho cessato di esaltare [parlando] con te quelli che
sapevano egregiamente disimpegnare quel ministero: or dunque nessuno
potrebbe negare che io non avrei fuggito quell’[ufficio] che tanto
ammiravo, se ne fossi stato all’altezza. Ma che? nulla é più dannoso nel
governo della Chiesa, di questa certa inerzia e trascuratezza, che
altri stimano una specie d’ascesi, mentre io penso ch’ella non sia altro
se non un velarne della mia propria inettitudine, col quale io posso
celare la maggior parte delle mie mancanze, impedendo che siano
conosciute. Chi é avvezzo a godere di questa inoperosità e vivere in
grande quiete, anche se é dotato di grandi qualità viene conturbato e
disorientato dall’inerzia, e la mancanza d’esercizio tronca una parte
non piccola delle sue energie: che se poi oltre al tenersi lontano da
tali cimenti, é anche di carattere indolente, come appunto é il caso
mio, qualora abbia assunto questo ministero non farà più di quanto
farebbe una statua di marmo. Ecco la ragione per cui anche di quanti
vengono da quel genere di palestra a questi cimenti, pochi ottengono
buon esito; la maggior parte di loro vanno incontro al comune biasimo,
perdono le staffe e soggiacciono a vicende disgustose e tristi; e nulla
di straordinario in questo, che quando gli esercizi e le palestre non
sono proporzionati allo stesso genere di cimenti, per nulla differisce
uno che sia allenato, da un altro che non sia tale. Infatti colui che
scende in questo stadio deve spregiare la gloria, dominare
l’irascibilità ed essere pieno di grande prudenza; ora chi preferisce la
solitudine non ha occasione di esercitarsi in queste virtù, perché non
ha molti che lo molestino, onde sia condotto a reprimere l’impeto
dell’animo; non ha ammiratori né acclamatori che lo ammaestrino a tenere
a vile gli applausi della moltitudine; né d’altra parte possono [i
monaci] darsi piena ragione della grande prudenza che si richiede nel
ministero ecclesiastico. Pertanto, quando essi vengono al cimento di
lotte delle quali non hanno curato l’esercizio, si turbano, danno nelle
vertigini, sono ridotti all’impotenza, e accade spesso che molti, oltre
che non ne acquistano, vi perdono anche le virtù che prima possedevano.
Il ministero offre molte occasioni pericolose. Difficile cura del ceto femminile
VI.
"Allora Basilio: E che? disse, dovremo noi porre allora al governo
della Chiesa persone avvolte negli affari mondani, preoccupate da
interessi materiali, impigliate in contese e ingiurie e ripiene di
innumerevoli perversità?"
"Calmati,
risposi, o mio caro; ché quando si tratta della scelta dei sacerdoti
non s’ha nemmeno da pensare a tali soggetti; dico che a quei solitari si
deve preferire uno che mentre tratta e pratica con tutti, possa
conservare intatta e inalterata la purezza, la calma, la santità, la
fortezza, la sobrietà e tutte le altre doti che splendono nei monaci;
perché colui il quale avendo molti difetti, pure riesce con la
solitudine a celarli e renderli innocui, astenendosi dal trattare con
alcuno, posto che sia nel mezzo della bisogna, altro non otterrà se non
di rendersi ridicolo, con rischio di peggio.
Ciò
appunto sarebbe per poco capitato a me, se la misericordia di Dio non
avesse in fretta ritirato il fuoco dal mio capo; chi ha sortito
un’indole tale, non può celarla quando venga messo in vista, ma allora
tutto viene smascherato; e come il fuoco prova i metalli, così la prova
del ministero esamina le anime degli uomini; onde se uno é iracondo, o
pusillanime, o vanaglorioso, o millantatore, o se abbia qualsiasi altra
pecca, tosto ne discopre e svela i difetti. Né soltanto li rivela, ma li
rende più forti e perniciosi: le piaghe del corpo stropicciate, più
difficilmente guariscono, e così pure le passioni dell’anima stimolate e
irritate imperversano maggiormente, spingendo a maggiori colpe quelli
che ne sono agitati. [L’esercizio del ministero] accende in chi non sta’
in guardia la bramosia di gloria, lo rende presuntuoso e avido di
ricchezza; lo trascina al lusso, alla rilassatezza, all’indifferenza e a
poco a poco ad altri vizi che da questi derivano. Molte sono là in
mezzo le circostanze che possono distruggere il temperamento dell’anima e
troncare il retto cammino, e anzitutto le conversazioni con le donne;
non lice invero al capo della comunità ecclesiastica e a cui spetta la
cura di tutto il gregge, occuparsi soltanto del sesso maschile e
trascurare le donne, le quali hanno bisogno di maggiore assistenza
essendo esse più facilmente cedevoli alle mancanze; ma chi occupa la
carica di vescovo deve prendersi a cuore l’integrità loro, se non in
maggiore, almeno in eguale proporzione. Bisogna pertanto visitarle
quando sono inferme, consolarle quando sono tribolate, redarguire quelle
che si mostrano indolenti e prestare aiuto a quelle che sono oppresse.
Ora, nell’esercizio di queste opere, il maligno trova molti accessi, se
uno non si munisce con gran cura; lo sguardo colpisce e turba lo
spirito, né soltanto quello delle svergognate, ma anche quello delle
pudiche; le loro adulazioni soggiogano e i loro favori rendono schiavi,
di guisa che la carità ardente, che per se stessa é fonte d’ogni bene,
pub divenire fonte d’ogni male per quelli che non l’esercitano con le
debite precauzioni. Già di per sé le cure assidue ottundono l’acume del
pensiero e da agile lo rendono più pesante del piombo, mentre poi
d’altra parte l’irascibile invadendo ravvolge a guisa di fumo tutto
l’interno)".
L’insidia della calunnia e la necessità di guardarsene.
VII.
Chi potrebbe poi enumerare i danni rimanenti, cioè le ingiurie, le
calunnie, le censure mosse dai superiori e dai sudditi, dai saggi e
dagli insipienti? Quest’ultima genia specialmente, destituita di retto
criterio, é incontentabile e difficilmente ascolta ragioni; ora il buon
prelato non deve disinteressarsi neanche di costoro, ma presso tutti
deve studiarsi di togliere di mezzo le cagioni delle loro querele,
usando molta affabilità e dolcezza, perdonando le accuse ingiustificate
anziché adontarsene e montare in ira. Se il beato Paolo temeva di
destare sospetto di frode nei suoi discepoli, e perciò si assunse altri
nell’amministrazione delle entrate "affinché alcuno non ci abbia da
vituperare per questa abbondanza di cui siamo dispensatori" (2Cor.
8,20), come non dovremmo noi adoperarci in ogni maniera per allontanare i
cattivi sospetti anche se falsi, privi di qualsiasi fondamento e
lontanissimi dalla nostra riputazione? Invero da nessun vizio noi siamo
tanto lontani quanto lo era Paolo dal furto: e sebbene egli tanto
distasse da questa mala azione, non trascurò tuttavia l’eventuale
sospetto della moltitudine, per quanto irragionevole e folle esso fosse;
e certo era una follia sospettare qualcosa di simile per quella beata e
mirabile anima; ma nondimeno egli molto per tempo toglie di mezzo le
cause d’un sospetto tanto stolto e quale niuno poteva concepirlo, tranne
che avesse perduto la testa. Non pose in non cale la stoltezza del
volgo, né disse: "A chi mai potrebbe venire in animo un tale dubbio a
mio riguardo, mentre tutti mi onorano e ammirano sia per i miracoli, sia
per l’equità onde la mia vita risplende?" ma tutto al contrario, egli
previde e s’aspettò tale maligna supposizione e l’estirpò dalla radice,
anzi non permise neppur che cominciasse a formarsi; e per qual motivo?
"Perciò, dice, provvediamo al bene non solo dinanzi al Signore, ma anche
dinanzi agli uomini" (2Cor. 8,21). Tale cura, anzi maggiore, si deve
usare, non solo per togliere di mezzo e impedire le cattive dicerie
quando sono sorte, ma per prevedere da lontano da qual parte possano
sorgere e togliere i pretesti che possono provocarle, né aspettare che
esse prendano corpo e vadano aggirandosi di bocca in bocca, poiché
allora non sarà facile soffocarle, ma molto difficile e presso che
impossibile; ciò poi non é privo di danno perché non può accadere senza
scandalo di molti. Ma fino a quando seguiterò ad andar in traccia
dell’introvabile? ché l’enumerare tutte le difficoltà che qui
s’incontrano, sarebbe la stessa cosa che misurare l’acqua del mare. Se
anche uno si sia purificato da ogni passione, il ché é impossibile, per
giungere a correggere i falli altrui deve sopportare infiniti disagi: se
poi s’aggiungono le proprie deficienze, pensa quale abisso di angustie e
di affanni non deve patire quegli che voglia vincere i vizi suoi e
degli altri!
Bisogna far fruttare i talenti
VIII. Ma tu, disse Basilio, non devi sopportare fatiche e non hai forse affanni anche standotene solo?
"Ne
ho per certo, risposi, anche così; come é possibile infatti, essendo
uomo e vivendo questa tribolata vita, starsene affatto libero da pene e
lotte? Ma come non é eguale cosa il cadere in un pelago sterminato e il
traghettare un fiume, così pure differiscono le pene di questo stato e
quelle
dell’altro. Certamente anch’io desidererei, potendolo, essere di aiuto
ad altri e ciò é per me oggetto di molto desiderio; ma se non è
possibile recare giovamento ad altri, purché almeno mi riesca di porre
in salvo me stesso e sottrarmi al naufragio, me ne starò contento anche
solo di. Questo".
"E tu credi, disse, che ciò sia gran cosa? e pensi davvero di poterti salvare senza occuparti del vantaggio di altri?".
"Tu
dici bene e giustamente, risposi; poiché neppure io posso credere che
abbia a salvarsi chi non sopporta alcuna fatica per procurare la salute
altrui; neppure quel miserabile infatti, guadagnò nulla col non sminuire
il talento, ma appunto il non averlo aumentato ricavandone il doppio,
fu la sua rovina. Tuttavia io stimo che all’accusa di non aver salvato
altri, seguirà una punizione più mite che all’altra, d’aver io rovinato e
me ed altri, essendomi fatto peggiore dopo conseguita sì gran dignità.
Ora io reputo che tale sarà la pena quale richiede la grandezza delle
colpe; ma assunta che avessi la carica, non solo doppia e tripla, ma
d’assai volte maggiore, per averne scandalizzato un numero più grande, e
per aver, dopo un maggior onore, offeso Dio che me l’aveva conferito".
Più si richiede da Dio a chi fu elevato a maggior dignità
Per
ciò appunto [Iddio] accusando più fortemente gli Israeliti, dimostra
ch’essi sono degni di maggior castigo, per esser caduti in colpa dopo
tanto onore loro accordato, dicendo una volta: "Voi soli ho io
conosciuti di tutte le famiglie della terra; per questo vi punirò di
tutte le vostre iniquità" (Am. 3,2). E altra volta: "E de’ vostri
figlioli scelsi i profeti, e dalla vostra gioventù quelli da
consacrarsi" (Am. 2,11). E prima de’ profeti, volendo dimostrare che le
colpe ricevono molto maggior castigo quando sian commesse da’ sacerdoti
che non quando lo sono dai privati, impone di offrire per i sacerdoti un
sacrificio corrispondente a quello offerto per tutto il popolo, volendo
dimostrare che le piaghe del sacerdote richiedono maggior cura, e tanta
quanta se ne richiede per il popolo intero; non vi sarebbe bisogno
certo di più grande cura se esse non fossero per se stesse più maligne: e
tali esse sono appunto, non già per natura, ma perché rese più gravi
dalla dignità rivestita dal sacerdote che le ha contratte. E che dico
gli uomini che rivestono la dignità? le figlie stesse dei sacerdoti,
benché nessun rapporto diretto abbiano col sacerdozio, soggiacciono a
più aspro castigo pe’ loro peccati, a causa della dignità paterna;
eppure la colpa era eguale in loro e nelle figlie dei privati, sì le une
che le altre essendo ree di fornicazione; ma a queste ultime fa più
dura la punizione la superiorità d’onore. Vedi con quanta copia d’esempi
Iddio ti dimostra che esige maggior pena dal capo che non dai sudditi;
però che [Dio] il quale inflisse più grande punizione alla figlia per
causa del padre: da questo, che fu ad essa cagione di aumentarle i
tormenti, non richiederà per certo eguale pena che dagli altri, ma assai
più grande. E ben a ragione; ché il danno non si arresta in lui, ma
rovina anche le anime dei più deboli che a lui tengono volto lo sguardo:
ciò volendo insegnare Ezechiele distingue il giudizio degli arieti da
quello delle pecore.
La vita ritirata protegge un animo debole
IX.
Ti par dunque ch’io tema d’un ragionevole timore? E oltre a quanto ho
detto [aggiungi] che ora ho pur d’uopo di fatica per non essere
totalmente sopraffatto dalle passioni dell’anima, ma nondimeno riesco a
tollerare tale travaglio e non mi ritraggo dal combattimento. E per vero
anche al presente sono soggiogato dalla vanagloria, ma spesso m’è pur
dato di rialzarmi, e conosco le cause della caduta; talora anche faccio
severo rimprovero all’anima per essersene resa schiava. Anche al
presente sorgono in me desideri viziosi, ma essi accendono una più
languida fiamma, non avendo gli occhi esteriori alcun mezzo di porgere
esca al fuoco: non mi occorre punto di parlar male d’alcuno o
d’intendere altri a parlarne, non avendo io conversazione con alcuno; né
potrebbero invero queste pareti dire anche una sola parola. Non mi
riesce però egualmente di sottrarmi all’irascibilità, sebbene non vi sia
chi mi vi ecciti; ché spesso assalendomi il ricordo d’uomini perversi e
delle loro malvagità, mi sommuove lo spirito; per altro
quest’agitazione non va fino agli eccessi, ché ben presto l’anima accesa
si ricompone, e la persuado a calmarsi, dicendo esser cosa inutile ed
estremamente stolta l’affannarsi de’ fatti altrui trascurando le cose
proprie. Ma se io andassi fra la moltitudine e cadessi in preda
d’infiniti turbamenti, non potrei certamente rivolgermi simili
ammonimenti, né trovare le riflessioni che possano esercitare su di me
una tale disciplina. Ma come chi è travolto in un precipizio da una
corrente o da altra forza, può bensì prevedere la rovina in cui andrà a
finire, ma non è dato a lui di escogitare alcuno scampo, così pure io
qualora cadessi in si gran turbine di passioni, potrei scorgere la
punizione aumentarmisi di giorno in giorno, ma non mi sarebbe agevole
come ora serbare il dominio di me stesso: il reprimere in ogni caso
queste turbolente malattie [dello spirito] non mi riuscirebbe così
facilmente come prima. Ho un’anima inferma e piccina, facile preda non
solo di queste passioni ma d’una di tutte più fiera: l’invidia; essa poi
non sa sostenere con moderazione né le contumelie né gli onori, ma in
modo eccessivo rimane incitata da quelle, da questi soggiogata. Come le
fiere terribili quando sono ben tarchiate e vigorose abbattono quelli
che si fanno a pugnare con loro, specialmente se questi sono deboli e
inesperti; se invece alcuno le smunga con la fame, addormenta i loro
impeti e spegne la maggior parte di loro forza, di guisa che anche chi
non è molto valente può cimentarsi con loro in lotta e in caccia, così è
anche delle passioni dell’anima: chi le indebolisce riesce a sottoporle
a sani ragionamenti; chi invece le nutrisce lautamente rende a se
stesso più fiera la lotta contro di esse e se le rende tanto terribili
da aver poi a passare tutta la vita in loro schiavitù e sotto il loro
incubo. Or qual è il nutrimento di queste fiere? della vanagloria sono
gli onori e le lodi; dell’arroganza, la grande autorità e potestà;
dell’invidia, i buoni esiti dei propri colleghi; dell’avarizia,
l’ambizione di quelli che possono largire denaro; dell’intemperanza, il
lusso e i continui trattenimenti colle donne e via dicendo. Tutte queste
passioni, se io esco all’aperto, mi assaliranno e strazieranno l’anima
spaventose, e impegneranno meco una guerra più feroce. Mentre invece fin
che me ne sto qui ritirato, ci vorrà bensì grande sforzo per
soggiogarle, ma pur le soggiogherò con la grazia di Dio e non avranno
più altra forza che di latrare. Per ciò io sto attaccato a questa
stanzetta, senza uscirne, senza conversazioni né compagnie, e sopporterò
di udire infinite altre accuse simili, e me ne purgherei di buon grado,
pur dolendomi e rammaricandomi di non poter farlo. Io non potrei
agevolmente essere uomo di società e nello stesso tempo serbare intatta
la sicurezza presente; onde prego di compatire piuttosto che accusare
chi ha voluto sottrarsi a tale cimento.
Grande timore di Giovanni al pensiero di recare danno alla Chiesa
X.
Ma non ti persuado ancora: è dunque tempo di rivelarti anche quello che
unicamente tenevo celato e che forse sembrerà a molti incredibile; ma
ciò non ostante io non arrossirò di metterlo in pubblico. Che se le cose
dette da me saranno prova di coscienza contaminata e d’innumerevoli
colpe, poi che Dio, il quale ha da giudicarmi, conosce esattamente
tutto, che cosa potrà venirmene di più dalla ignoranza degli uomini? Or
qual è dunque il secreto? Da quel giorno in cui facesti nascere in me
questo sospetto [di essere mio malgrado consacrato], più volte il mio
corpo corse pericolo d’essere totalmente paralizzato, tanto era il
timore e l’abbattimento che s’era impadronito dell’anima mia.
Considerando io l’eccellenza, la santità, la spirituale bellezza,
l’ordine e il decoro della Sposa di Cristo, e d’altra parte pensando ai
miei vizi, non cessavo di rimpiangere e quella e me stesso, e
continuamente fra gemiti e sgomento andavo dicendo tra me: "Chi dunque
poté dare un simile consiglio? o qual gran peccato ha commesso la Chiesa
di Dio? come ha ella mosso siffattamente a sdegno il suo Signore, da
essere data in balìa di me vilissimo fra tutti, e subire una tal
confusione?". Tali cose rivolgendo fra me medesimo, né potendo
sopportare pur il pensiero di un fatto così assurdo, io me ne stavo muto
come gli epilettici, impotente a nulla vedere o ascoltare. Cessato poi
quello sgomento, ché venne pur il tempo in cui cominciò a dileguarsi, vi
succedevano le lacrime e lo scoramento; saziatomi di lacrime
sottentrava di nuovo il timore conturbandomi, sconvolgendomi e
sovvertendomi l’intelletto. In tal tempesta vissi tutto questo tempo,
mentre tu ciò ignoravi e credevi che io godessi tranquillità; ma ora
tenterò di scoprirti il turbine dell’anima mia, ché anche in vista di
ciò ben presto mi darai venia, cessando di muovermi accuse. Or come farò
io a svelarti me stesso? ché se tu volessi averne una chiara
conoscenza, ciò non potrebbe altrimenti farsi che mettendo a nudo il mio
stesso cuore; ma poiché ciò è impossibile, cercherò almeno, come mi
sarà dato, di mostrarti con tenue sembianza la caligine del mio
sbigottimento, di modo che tu possa averne anche solo un’idea.
Allegoria finale. La fidanzata mistica
Supponiamo
che a un uomo sia promessa sposa la figlia del re di tutta la terra che
è sotto il sole, e questa fanciulla sia bella d’ineffabile bellezza,
tale da sorpassare anche l’umana natura e superare di gran lunga in
bellezza le altre donne tutte quante; che oltre a ciò essa possieda tali
doti di spirito da lasciarsi indietro assai la schiatta intera degli
uomini che furono e che saranno; che per leggiadria di costumi sorpassi
tutti i confini della saggezza e faccia impallidire con lo splendore del
proprio aspetto la beltà corporale; supponiamo che il promesso sposo
sia acceso per questa vergine non solo a cagione di queste doti, ma
oltre a ciò senta verso di lei una particolare tendenza, una passione di
tal forza da eclissare al confronto anche gli amatori più deliranti che
mai siano stati. Poniamo poi che mentre è bruciato da un tal fuoco,
venga a sapere che quella sua meravigliosa amata è in procinto di essere
sposata da uomo da nulla, ignobile di stirpe, deforme di corpo e più
meschino di ogni altro. Ti ho io così rappresentato qualche piccola
parte del mio affanno? ti basta ch’io mi limiti a questa immagine? certo
credo che basti per rappresentarti il mio sbigottimento, e appunto per
darti un’idea di quello, te l’ho esposta. Ma ora verrò ad un’altra
rappresentazione, per dimostrarti la grandezza del mio timore e della
mia trepidazione.
L’esercito e l’armata navale affidati a un contadinello
XI.
Sia dunque un esercito composto di pedoni, di cavalieri e d’uomini di
mare; e copra il mare la moltitudine delle triremi, e coprano le
campagne e le vette dei monti le falangi dei fanti e dei cavalieri. E
riverberi al sole il suo splendore il rame delle armi, mentre contro i
raggi di lassù mandati, vibri il fulgore degli elmi e degli scudi: lo
strepito delle aste e il nitrito de’ cavalli si levi fino al cielo, né
si veda più mare o terra, ma rame e ferro appaia da ogni parte.
Incontro
a questi si schierino i nemici, uomini fieri e spietati e sia imminente
ormai il momento della battaglia. Indi alcuno preso ad un tratto un
garzoncello di quelli che sono allevati nei campi e nulla sanno
all’infuori del zufolo e del bastone da pastore, lo rivesta delle armi
di rame; lo conduca quindi a torno tutto quanto l’esercito e gli mostri
le varie compagnie con i loro comandanti, gli arcieri, i frombolieri, i
capitani, i generali, i fanti di grave armatura, i cavalieri, i
lanciatori, le triremi e i trierarchi, gli armati che sopra quelle
stanno, la moltitudine delle macchine poste sulle navi; gli mostri poi
anche
tutte quante le schiere dei nemici e certe facce spaventevoli, la
strana foggia delle armi, l’infinita loro moltitudine; i precipizi, i
profondi burroni e i dirupi dei monti. Poi gli mostri ancora dalla parte
dei nemici e cavalli volanti per via d’incantesimi, e fanti portati per
l’aria e ogni opera e specie di magia. Gli venga poi anche enumerando i
casi della guerra: nubi di saette, nembi di dardi, quell’immensa
caligine, oscurità e tenebrosissima notte prodotta dal nembo degli
strali, sì da impedire con la sua densità i raggi del sole, la polvere
che non meno della tenebra acceca gli occhi, i torrenti di sangue, i
gemiti dei cadenti, le urla di chi sta ancor in piedi, i cumuli dei
distesi a terra, le ruote asperse di sangue, i cavalli con i loro
cavalieri stramazzati bocconi per la moltitudine dei cadaveri giacenti,
la terra di tutto ciò confusamente coperta, e sangue e dardi e frecce e
zoccoli di cavalli e teste d’uomini insieme, e braccia e ruote e
schinieri e petti trapassati, cervella cosparse sul filo delle spade,
punte di saette infrante, e, nelle punte, occhi infilzati. Gli enumeri
anche i casi dell’armata navale: delle triremi, quali incendiate in
mezzo alle acque, quali affondate in un con i soldati; il mugolio
dell’onde, il tumulto dei marinai, il grido delle ciurme, la spuma dei
flutti mescolata col sangue che piove su tutte le navi; e cadaveri,
altri sui tavolati, altri sommersi, altri galleggianti, altri sbalzati
sul lido, altri avvolti dall’onde sì da chiudere alle navi la strada.
Indi, mostrati a lui diligentemente tutti
questi
luttuosi casi di guerra, vi aggiunga ancora i mali della prigionia e la
schiavitù peggiore d’ogni morte; e ciò detto gli imponga senz’altro di
salire subito a cavallo e assumere il comando di tutto l’esercito. Or
credi tu forse che a quel comando potrà bastare quel garzoncello, o
piuttosto al primo aspetto non rimarrà egli subito senza respiro.
Le
forze infernali schierate contro la Chiesa di Cristo e i suoi
sacerdoti. Le ferite dell’anima. Confronto fra la pugna materiale e la
lotta spirituale
XII.
Né credere che io esageri la cosa con le mie parole, né reputarle
[troppo] grandi, perché noi chiusi nel corpo come in una prigione nulla
possiamo vedere di ciò che è invisibile; poiché se tu potessi mai
scorgere con questi occhi [materiali] la tenebrosissima oste e la
furibonda accozzaglia del diavolo, vedresti un apparato di guerra molto
maggiore e terribile di questo. Là non v’è rame né ferro, né vi sono
cavalli o carri o ruote; non fuoco né strali né alcun ordigno bellico di
quelli visibili, ma altre molto più spaventose macchine. A quei nemici
non occorre né corazza, né scudo, né spada, né asta; e tuttavia la sola
vista di quell’infinito esercito basta a tramortire l’anima che non sia
molto ardita e oltre la propria forza non sia favorita copiosamente
dalla provvidenza di Dio. E se fosse possibile, sciogliendosi da questo
corpo, poter osservare liberamente e senza timore tutta l’oste schierata
di quello, e scorgere visibilmente la guerra apprestata contro di noi,
potresti vedere non già rivi di sangue, né cadaveri, ma tale strage di
anime e tanto aspre ferite, che la descrizione guerresca fatta da me più
sopra, sarebbe stimata da chiunque in paragone nient’altro che un
giochetto da fanciulli, un trastullo anziché una guerra, tanti sono
quelli che ogni giorno vengono colpiti. Le ferite poi non infliggono una
eguale morte, ma quella [morte] differisce tanto da questa quanto
l’anima differisce dal corpo; poiché quando l’anima tocca una ferita e
cade, non giace insensibile come il corpo [morto] ma viene quindi
tormentata immediatamente dallo struggimento della mala coscienza; e
dopo il trapasso da questa vita, nell’ora del giudizio viene consegnata
alla pena eterna. Che se taluno poi rimanesse insensibile alle ferite
del diavolo, il danno per lui si accresce appunto per
quell’insensibilità; infatti, chi dopo una prima ferita non prova
rimorso, facilmente ne toccherà una seconda e dopo questa un’altra; ché
quell’immondo, qualora incontri un’anima intorpidita e noncurante delle
prime ferite, non cessa di colpirla fino all’ultimo respiro. E se
volessi esaminare il genere di battaglia, la troveresti molto più
violenta e svariata; ché nessuno conosce tanta specie di frode e
d’inganno quante colui; quel maledetto infatti trae da esse la sua
maggior potenza; né alcuno potrebbe nutrire sì implacabile inimicizia
contro i suoi più feroci avversari, quale il maligno nutre contro
l’umana natura. Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli
combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra
uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà
contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime
e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime.
La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua
brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la
stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre
circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e
respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri
mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai
deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto
incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o
cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente
in piedi armato e vigilante. Ché quegli senza tregua insiste con tutto
il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior
diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza.
Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di
sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi
non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più
scabrosa di quella.
Commiato, augurio finale e promessa di amichevole assistenza e di conforto reciproco
XIII.
Qui adunque tu volevi che io assumessi il comando dei soldati di
Cristo? ma ciò sarebbe stato un guidare l’esercito in pro del diavolo:
quando colui che deve porre in
ordine
e tenere in disciplina gli altri, è privo d’ogni esperienza e
debolissimo, tradendo con la sua incapacità quelli che gli furono
affidati, farà da capitano per il diavolo più che per Cristo.
Ma perché gemi? perché versi lacrime? non è degna di compianto la mia sorte, ma di letizia e giubilo.
"Non
però la mia, disse, ch’è invece degna d’infinito rammarico! ora
soltanto ho potuto comprendere in quale [abisso] di mali mi hai condotto
lo sono venuto da te per sapere che cosa potessi rispondere in difesa
ai nostri accusatori; tu mi rimandi dopo aver aggiunto affanno ad
affanno; già non mi preoccupo più ormai di ciò che risponderò a quelli
in difesa, ma piuttosto di ciò che risponderò a Dio riguardo a me stesso
e alle mie colpe. Ma ti prego e scongiuro, se alcuna sollecitudine hai
delle mie vicende, se alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto
della carità, se viscere di compassione; ben sai che tu più di tutti
m’hai spinto a questo cimento: porgimi la mano, e non cessare un istante
di dire e operare quanto giovi a indirizzarmi, ma più ancora che per il
passato intratteniamo la nostra intima conversazione".
"E
io sorridendo: e che potrò io darti, quale aiuto ti potrò fornire per
sopportare il peso di tanto ufficio? ma pur se ciò ti è caro, fa’ animo,
o diletto; nel tempo in cui ti sarà dato respirare da quelle cure, io
ti sarò vicino per confortarti, né alcuna cosa tralascerò di quanto è in
mio potere.
A
questo punto quegli più dirottamente piangendo si alzò; io
abbracciatolo e baciatolo in fronte, lo rimandai confortandolo a
sopportare fortemente la sua sorte. Credo, dissi, fidando in Cristo che
ti ha chiamato e t’ha preposto alle sue pecorelle, che da questo
ministero ti verrà tanta fiducia, che in quel giorno accoglierai pur me
pericolante nell’eterno tuo tabernacolo.
NOTA:
le citazioni sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria,
lievemente modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in
cui sono testuali è utilizzata la LXX o la Volgata