domenica 16 settembre 2012

"Dono" senza reciprocità


Riporto da "La Stampa" di oggi, 16 settembre.

 Il testo che anticipo in questa pagina è uno stralcio della lezione magistrale che Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose, terrà oggi a Carpi (piazza Martiri, ore18) nella giornata conclusiva del Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo. Titolo del suo intervento «”Dono” senza reciprocità». Il programma completo della domenica al Festival sul sito www.festivalfilosofia.it 

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Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare? Ecco una domanda a mio avviso decisiva: nell’educazione, nella trasmissione alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c’è attenzione al dono e all’azione del donare come atto autentico di umanizzazione? C’è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito? Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del tornaconto. In un’epoca di abbondanza e di opulenza si può addirittura praticare l’atto del dono per comprare l’altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà. Si può perfino usare il dono - pensate agli «aiuti umanitari» - per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra. Questa ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: già nell’antichità si diceva «Timeo Danaos et dona ferentes», «Temo i Greci anche quando portano doni»... Ma c’è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti - lontani! - per i quali vale la pena provare emozioni... Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. I cristiani sanno come nella storia perfino il dono di Dio, la grazia, abbia potuto e possa essere presentato come una cattura dell’uomo, un’azione di un Dio perverso, crudele, che incute paura e infonde sensi di colpa. Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un’arte che è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» - perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è - richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro. Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c’è la vendita, lo scambio, il prestito. Nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine. Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l’uomo ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator. Certo, c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente, l’uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo. Ha immesso una diastasi nelle relazioni, nei rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito «buono», cioè il «debito dell’amore» che ciascuno ha verso l’altro nella communitas. Sta scritto, infatti: «Non abbiate alcun debito verso gli altri se non quello dell’amore reciproco» (Rm 13,8). La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola donata, data all’altro. Oggi siamo forse meno consapevoli di cosa significhi «dare la parola, donare la parola», ma il dono della parola è il sigillo sulla fiducia, sul credere negli altri. Senza fede negli altri non c’è cammino di umanizzazione, ma l’eloquenza della fiducia è proprio il donare la parola, che è promessa e accensione di responsabilità verso l’altro. Nelle più quotidiane e autentiche «storie d’amore», proprio perché l’incontro diventi storia, perché l’attimo diventi tempo, occorre la parola data, la promessa. Ma dal dono della parola si deve tendere, attraverso una serie di atti di dono, al dono della vita. Questo dono estremo è possibile là dove un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita, spendere la vita, dedicare tutta una vita a... Sono le stesse ragioni per cui vivono, per le quali la loro vita trova senso. Dare la propria vita è però l’operazione più difficile, che urta contro le nostre fibre e il nostro senso di autoconservazione. Noi siamo abitati dalla pulsione biologica a vivere, a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri... Ma ecco la possibilità di dare noi stessi, la nostra vita per gli altri. Non c’è via intermedia. La tentazione dell’uomo è quella di dare, piuttosto che se stesso, altre cose a lui estranee: è la logica dei sacrifici offerti a Dio... Ma quello non è un dono, ed è significativo che nel cristianesimo la sola offerta possibile sia quella di se stessi, del proprio corpo, della propria vita per gli altri. Si tratta di non sacrificare né gli altri né qualcosa, ma di dedicarsi, mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la giustizia, la vita piena. Ma cosa significa donare se stessi? Significa dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio all’altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna come me, un fratello, una sorella in umanità. Dare la propria presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano, in una prossimità il cui linguaggio narra il dono all’altro. Ma il dono all’altro - parola, gesto, dedizione, cura, presenza - è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro. Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso, diviene quasi naturale perché c’è in noi, nelle nostre profondità la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la relazione. C’è una parola di Gesù - non riportata nei Vangeli, ma ricordata dall’apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto riferito negli Atti degli apostoli - che è molto eloquente: «C’è più gioia nel donare che nel ricevere». Esperienza reale di chi sa farsi prossimo avvicinandosi all’altro perché l’altro, anche quando avesse il volto del lebbroso, se è visto faccia a faccia, chiede alle nostre viscere di soffrire insieme, chiede la compassione, chiede il dono della presenza e del tempo, chiede il dono di noi stessi. L’atto del donare provoca gioia al donatore perché è un atto concreto che lega il donatore al cosmo, all’altro: è un atto percepito come speranza di comunione. L’accumulazione che non conosce la logica del dono, invece, accresce sempre la dipendenza dalle cose e separa l’uomo dall’uomo, l’uomo dagli altri. Non c’è vera gioia senza gli altri, come è vero che non c’è speranza se non sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della condivisione, della solidarietà. In questo donare e ricevere, proprio perché l’azione è oltre la giustizia che si nutre delle regole dell’eguaglianza, si fa spazio l’amore che è ispirato dalla sovrabbondanza, come dice Paul Ricoeur, appare cioè il «buon debito dell’amore». L’azione del dare la parola, del donare le cose espropriandole da se stessi, del dare la presenza e il tempo non chiede restituzione, ma richiede che l’iniziativa del dono sia proseguita, continuata. Il donare non può essere sottoposto alla speranza della restituzione, di un obbligo che da esso nasce, ma lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame sociale. Il debito dell’amore regge la logica donativa alla quale è peculiare il carattere della gratuità, l’assenza della reciprocità. Com’è vera la parola di Gesù sull’arte del dono: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)! Ogni vita umana è istituita dal debito dell’amore, grazie al quale l’altro è colui del quale si è responsabili, una persona che, una volta incontrata, ha diritto a essere destinataria dell’amore in virtù della prossimità che si è creata.

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Riporto da  Avvenire di oggi,  16 settembre 2012
a firma di ENZO BIANCHI
La gratuità cristiana conosce la migliore narrazione nel dono per eccellenza, il dono tra i doni, il per-dono, appunto. Scrive Attali: «Perdono è nome di Dio, perché nella misura in cui Dio è amore, è tale fino al perdono». Ma l’uomo, essendo a immagine di Dio, è capace di perdono, cioè di fare il dono più grande: perdonare chi gli ha fatto del male, perdonare il nemico, perdonare il persecutore, perdonare sempre e comunque! Il perdono è un dono totale, è dono fino all’estremo che richiede un sacrificio di se stessi in rapporto all’altro. Si perdona perché l’altro esista, si accetta di essere stati vittima senza per questo esercitare la vendetta che rende l’altro vittima a sua volta. Sul perdono, le parole di Gesù sono inequivocabili: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono...», senza se e senza ma!
Il perdono è dunque senza limiti, ed è un vero atto sacrificale perché si rinuncia a se stessi, perché il perdono costa, è a caro prezzo, è una forma di rinuncia a se stessi, di morte a se stessi. Dare il perdono, domandare il perdono, ricevere il perdono è veramente un’operazione difficile, faticosa, sempre incandescente per chi vi è coinvolto!
Dobbiamo allora porci la domanda con serietà: è possibile il perdono a noi uomini? Se il perdono significa non un’affermazione verbale, non un atto esteriore e pubblico ma un vero e proprio atteggiamento del cuore che vuole il bene di colui dal quale si è ricevuto del male, se vuole il bene e lo compie fino a dare all’altro tutte le possibilità di vita e di felicità che l’essere umano desidera, è possibile? È mai realizzabile questo perdono, questa rinuncia al debito dell’altro, questo condonare il debito fino al dono in profondità, fino al per-dono? È possibile la dimensione incondizionata e asimmetrica del perdonare «non sette volte, ma settanta volte sette» (cfr. Mt 18,21-22)?
E ancora: è possibile il perdono non solo nell’ambito personale, dell’intimo, ma anche nello spazio giuridico, politico ed economico? Non sono domande retoriche ma interrogativi ai quali oggi, nel nostro cammino di umanizzazione, vogliamo rispondere, consapevoli della fatica che ci attende personalmente, culturalmente, politicamente.

Già gli ateniesi conoscevano l’istituto dell’amnistia – dimenticanza, perdono – che aveva lo scopo di riconciliare le parti avversarie; noi oggi conosciamo il “condono” del debito contratto dai Paesi poveri, assistiamo ad alcuni abbozzi di “perdono reciproco” a livello politico e giudiziario, come in Sudafrica, siamo tuttavia lontani da un’affermazione del perdono inerente al concetto di giustizia, sia in ambito politico che in ambito giuridico. Il per-dono è sì un dono, ma frutto di un cammino, di un itinerario: a differenza del dono, non nasce in modo spontaneo e in risposta all’estasi del proprio intimo, non risponde al bisogno di relazione e di amore che ci abita, ma a un certo momento sopraggiunge come un soffio che ci trascende. Eppure non c’è dono che possa escludere il perdono, perché la gratuità, la grazia deve inglobare in sé il per-donare. Alla domanda se è possibile il perdono possiamo solo rispondere che è stato possibile perché la storia ce lo testimonia. Sono esistiti uomini e donne che hanno perdonato: hanno perdonato ad Auschwitz, hanno perdonato nei gulag, hanno perdonato uscendo dalle carceri dell’apartheid, hanno perdonato nel conflitto tra Israele e Palestina, hanno perdonato in tante vite dimesse e anonime, al seguito di Gesù che ha perdonato ai suoi persecutori, ma anche mossi dalla loro coscienza di essere umani esercitati dell’amore dei fratelli.

Per-donare è una vera conversione da attuarsi in se stessi. E va detto con chiarezza: il perdono non nasce dalla conversione di colui che ha offeso, ma nasce dalla conversione di chi ha ricevuto l’offesa. È la vittima che deve convertirsi: questa la portata scandalosa del perdono! Si tratta di rinunciare a vendicarsi, di rinunciare a rivalersi contro chi ha commesso il male; si tratta di non stare lontano dalla persona che ha compiuto il male, di non escluderla dalla propria presenza; si tratta di intraprendere un cammino di prossimità, fino a fare il dono della propria presenza benevola e conciliante a chi ha operato il male. Occorre tempo e fatica per il dono del perdono! Certo, questo non significa dimenticare, anzi: più si perdona e più si ricorda, ma in un’operazione di memoria che non è mortifera né per chi ricorda né per chi è ricordato come malfattore. Perdonando, si guardano le ferite, le stigmate sofferte che restano incancellabili, ma le si considera cariche di senso, capace di esercitare all’amore. E il perdono dato è il sigillo di questa dinamica. Così l’altro torna nel nostro orizzonte, non è negato bensì affermato come vivente verso il quale c’è la responsabilità di una fraternità rinnovata. Solo così il perdono è responsabile e può generare gioia... Sì, c’è più gioia nel perdonare che nel vendicarsi, c’è più giustizia nel perdono che nell’esecuzione di una legge punitiva!