sabato 18 agosto 2012

Le stelle e il mare di agosto


Riporto da "Libero" di ieri, 17 agosto, a firma di Antonio Socci.

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C’è qualcosa di strano, di metafisico in queste città d’agosto, abbacinate dal sole. E ancor più in questo affollarsi di corpi sulle rive del mare. Tutti ben inquadrati, in reggimenti, come tanti soldati in fila. Davanti all’infinito del mare e alla potenza del sole che entra nella carne.
E’ quasi un’adorazione inconsapevole.
Quella delle claustrali o degli eremiti è un’adorazione cosciente: contemplano un volto in cui si racchiudono tutti i mari e i soli e le stelle, tutte le albe e tutti i tramonti, Colui che dà consistenza a ogni granello di sabbia, a ogni cristallo di neve delle alte montagne, all’universo intero.
Ma forse anche noi, turisti del tempo, siamo pellegrini dell’eterno e in questo periodo sospeso delle città deserte, delle spiagge affollate o delle alte vette delle Dolomiti, contempliamo senza saperlo il “misterio eterno/ dell’esser nostro” (Leopardi)
Cesare Pavese ha dedicato un libro memorabile a questo momento di sospensione, dove le “ferie” dal lavoro spalancano davanti una voragine, quella del tempo vuoto, così insolita e allarmante da dover essere riempita affannosamente di distrazioni o di torpore.
Forse uno dei modi migliori di gustare l’estate è proprio la lettura. Anche – perché no? – di “Feria d’agosto”.
“In verità” scriveva Pavese in questo strano libro “siamo tutti in attesa (…) La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla varia attesa, dal vuoto instabile che la tentazione di tacere crea dentro di noi”.
E ancora: “Non si sfugge, nemmeno nell’acqua, alla solitudine e all’attesa (…). Che cosa deve dunque accadere? (…). Ma siamo tutti inquieti: chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda”.
Certo, Pavese è ipersensibile alle normali risacche della vita. Era vulnerabile come i bambini che non hanno la corazza dell’abitudine e della distrazione a difenderli dagli urti dell’esistenza e avvertono tutto sulla carne viva.
Nel “Mestiere di vivere”, Pavese ci dà ancora due suggestioni che bisognerebbe ascoltare e contemplare a lungo… La prima: “Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.
Il primo pensiero ci fa accorgere di essere come i fortunati destinatari di una grande eredità, i principi di un regno che – nascendo – con la vita stessa ci viene elargito, non si sa da chi e perché.
Certo senza alcun merito da parte nostra. Senza che – appunto – ci fosse dovuto alcunché. Per pura liberalità, per un’assoluta gratuità.
Ma subito dopo subentra la sensazione che questa incomprensibile situazione debba essere – per forza – solo la premessa, la preparazione di qualcosa. Aspettiamo spiegazioni, insomma. Che qualcuno venga a svelarci chi siamo e perché ci troviamo qui. E quale scopo ha questa donazione che abbiamo ricevuto.
Può sembrare assurdo questo aspettare perché – secondo lo scrittore – nessuno ci ha promesso qualcosa. Eppure non è proprio così. Perché intanto tutto ci è stato “dato” e tutto è una promessa. E anche una premessa.
Tutto è qualcosa di incompiuto, come un sipario che deve aprirsi. E questo è il compito di un sipario: esiste solo per aprirsi a un certo momento.
L’attesa di questa rivelazione non è per nulla passività, ma forse è la vita stessa. Ciò che fa dire  ancora a Pavese: “Aspettare è ancora un’occupazione. E’ non aspettar niente che è terribile”.
Perché senza nulla da aspettare è solo il baratro del nulla che ci si spalanca davanti. E non domani, ma da subito e ingoia già le cose, le ore, i volti amati.
E’ orribile. Noi avvertiamo che non siamo fatti per questo. Infatti tutti noi, volenti o nolenti, aspettiamo. Il mare in un modo tutto speciale suggerisce questa attesa.
Anche Flaubert lo coglie e lo rappresenta nell’anima della sua Madame Bovary:
In fondo all’anima tuttavia ella attendeva un avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti essa volgeva di qua e di là degli sguardi disperati, cercando in lontananza qualche vela bianca, tra le nebbie dell’orizzonte. Non sapeva che cosa aspettasse, quale caso; né da qual vento questo sarebbe portato, né a qual riva condurrebbe lei; se fosse scialuppa o bastimento grande, se carico d’angosce o pieno di felicità fino alle murate”.
In fondo il mare è una grande metafora della vita. Apparentemente siamo tutti dei poveretti che dalla riva vedono allontanarsi sempre più, all’orizzonte, il naviglio delle cose e delle persone amate, perché l’esistenza è un continuo addio. E alla fine arriva la notte che inghiotte tutto.
Ma c’è un’altra possibilità, che sussurriamo al nostro cuore e che tacitamente desideriamo per i nostri figli.
Che in realtà noi viventi siamo lì, sulla riva, in attesa di un nave che arrivi dall’orizzonte con il grande Amore della vita, con la Felicità che un giorno si avvicinerà e sbarcherà sulle spiagge della nostra esistenza.
Anche se si crede – come Pavese – che nessuno ce l’ha promessa (ma in realtà ci è stata promessa), questa è l’attesa che abbiamo davvero nel cuore. Ed è inestirpabile. Luminosa come il sole d’agosto.