domenica 26 agosto 2012

Il sapore della sobrietà




Riporto da "La Stampa" di oggi, 26 agosto 2012, a firma di Enzo Bianchi
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  I temporali che in questi giorni stanno spezzando l’afa opprimente delle ultime settimane simbolicamente chiudono anche la cosiddetta «stagione delle vacanze». Ormai ci siamo infatti abituati ad associare il mese di agosto con le ferie, il tempo libero, lo stacco dall’attività quotidiana. Poco importa che quest’anno si sia mossa da casa – e per periodi sempre più brevi. E con destinazioni ravvicinate – solo metà degli italiani, poco importa che un numero sempre maggiore di persone, in particolare giovani, non abbiano ferie semplicemente perché non hanno neanche lavoro, poco importa che per gli abitanti delle zone terremotate le fatiche della ricostruzione e della permanenza in sistemazioni di fortuna si siano aggiunte alla normale attività lavorativa o che per gli addetti alla protezione civile e alla salvaguardia del patrimonio boschivo ci siano state settimane di incessante lotta alla fiamme... Siamo in agosto e bisogna comunque parlare di vacanze! Ma allora approfittiamo dell’attuale congiuntura, legata alla gravità e alla vastità della crisi sociale ed economica che stiamo attraversando, per fare dell’ormai logora consuetudine di discorrere di vacanze in agosto un’occasione di riflessione sulla qualità della nostra vita e sul nostro atteggiamento verso il tempo, il lavoro, il creato, gli altri. Cosa cerchiamo nelle vacanze, vissute o sognate o rimpiante? Quale parte di noi e delle nostre attività «va in vacanza»? Cosa significa essere se stessi anche quando non si svolgono le mansioni abituali o quando si trascorre del tempo libero e si intrecciano rapporti interpersonali gratuiti, slegati da interessi economici o pratici?

Se ci ponessimo seriamente almeno alcune di queste domande, potremmo fare davvero della crisi attuale un’opportunità, non per cercare un’utopica via d’uscita sognando nuove «magnifiche sorti e progressive», non per inseguire collettivamente il motto olimpico «più veloce, più alto, più forte», ma per addentrarci in quell’atteggiamento verso la realtà circostante che una mente lucida del secolo scorso aveva caratterizzato come «più lento, più profondo, più soave». E in questo senso mi pare di intravedere almeno due ambiti nei quali la vacanza affrontata sapientemente potrebbe essere maestra di vita. Il primo è quello legato al rapporto con se stessi: avere del tempo libero e gestirlo senza l’angoscia di doverlo riempire di gesti ed eventi diversi ma speculari a quelli quotidiani, ci può condurre a porci domande essenziali - Chi sono? Da dove vengo? Dove desidero andare? Cosa mi fa essere quello che sono? - e, magari anche a trovare abbozzi di risposte sempre più sensate. Non è indispensabile per questo frequentare monasteri, conventi, santuari, luoghi di spiritualità: è ben più importante fare spazio al silenzio interiore ed esteriore, ricorrere a letture non superficiali e di ampio respiro, fermarsi a «leggere» i propri moti interiori, a discernere ciò che ci fa star bene o star male, a riconoscere i propri limiti e le proprie potenzialità. In questa non facile operazione, lo stacco dall’attività in cui finiamo per identificarci quotidianamente è di grosso aiuto: sovente infatti il lavoro - e paradossalmente anche la sua forzata assenza - funziona come alibi per non pensare a se stessi o come anestetico per attutire il dolore che l’esistenza ci riserva. Certo, anche lo svago, il divertimento può avere questa funzione di stordimento, di negazione della riflessione, ma in questo senso le restrizioni che la crisi ha prodotto nelle possibilità di vacanza spensierata possono essere un aiuto a recuperare in profondità e autenticità tesori ormai irraggiungibili in termini di tempo e mezzi a disposizione.

Il secondo ambito in cui la crisi e le sue ricadute sulle vacanze possono funzionare da stimolo arricchente per la nostra umanizzazione è quello del rapporto con gli altri e con l’ambiente: la sobrietà che percepiamo come imposta dalle circostanze avverse ha solo risvolti negativi? È un impoverimento del nostro essere uomini e donne degni di tal nome? Che ne faccio dell’altro che mi sta accanto, dei membri della mia famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro, delle persone che incrocio quotidianamente? Quali incontri e quali rapporti voglio davvero coltivare? Che rispetto ho per la dignità di ogni essere umano? Quali responsabilità sono pronto ad assumermi nei confronti di chi frequento abitualmente o di coloro verso i quali ho assunto impegni precisi? Che tipo di solidarietà riesco a esprimere e a vivere nei confronti dei più deboli, delle vittime di ingiustizie e violenze, dei dimenticati dalla storia? Domande che troppo facilmente evitiamo di porci quando siamo assillati dalle cose da fare, dai guadagni da conseguire, dalle lotte da combattere, dalle concorrenze da vincere. Domande che però attendono risposte se non vogliamo smarrire la nostra qualità umana, unica e irripetibile per ciascuno.
Infine, collegata alla qualità dei rapporti con gli altri, c’è la dimensione del rapporto con le cose, con la creazione, con l’ambiente e, di conseguenza, con le generazioni future: che immagine ho del mondo, della terra su cui viviamo e di cui ci nutriamo? Che cura ho delle risorse naturali ricevute in eredità da chi ci ha preceduto e destinate a essere condivise anche con quanti verranno dopo di noi? Il mio approccio è di sfruttamento ottimale per i miei pretesi bisogni o è di sollecitudine verso un’armonia creazionale che genera benefici per tutti? In sostanza, che mondo voglio lasciare dopo il mio passaggio? Certo, «vacanze» di questo tipo possono apparire impegnative, troppo esigenti, contrarie alla nostra voglia di staccare la spina, ma se vissute con consapevolezza e responsabilità, si rivelano autenticamente liberanti, capaci di rigenerarci alla nostra condizione più vera: quella di esseri umani custodi dell’altro e del creato.