martedì 17 luglio 2012

Come predicare bene

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di monsignor Enrico Dal Covolo, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense.
ROMA, martedì 17 luglio 2012 .- “Trasmettere la fede” è il titolo della terza parte dell’Instrumentum laboris della prossima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della Fede Cristiana, 27 maggio 2012).
Vi si legge, al n. 91: “Non si può trasmettere ciò che non si crede e non si vive. Non si può trasmettere il Vangelo senza avere come base una vita che da quel Vangelo è modellata, che in quel Vangelo trova il suo senso, la sua verità, il suo futuro”.
Precisamente in questa prospettiva vogliamo affrontare il “caso serio” dell’omelia – un’autentica sfida e un’enorme responsabilità per il ministro ordinato, nell’“oggi” delle comunità cristiane.
Sembra una contraddizione con quello che ho appena detto riguardo all’“oggi”; e tuttavia a me, che studio i Padri della Chiesa, sembra proprio che la via migliore per riflettere sull’omelia sia quella percorsa da alcuni predicatori illustri dei primi secoli cristiani.
Di fatto, anche nel ministero della predicazione, come in molti altri ambiti, i nostri Padri hanno marcato in modo irreversibile la storia del cristianesimo, a tal punto che ogni annuncio e magistero successivo, se vuole essere autentico, deve confrontarsi con il loro annuncio e con il loro magistero. Pertanto un predicatore, che non si confronta con i Padri, non è un autentico predicatore della Chiesa.
Parto da un approccio introduttivo, che contempla due “casi” interessanti: quello dello Pseudo-Clemente e quello di sant’Ambrogio.
* Cominciamo dallo Pseudo-Clemente, o meglio dalla cosiddetta Seconda Lettera di Clemente, nota come la più antica omelia patristica a noi pervenuta. Si tratta in realtà di uno scritto falsamente attribuito a Clemente, vescovo di Roma verso la fine del primo secolo. A tutt'oggi se ne ignora – oltre che la paternità – la data precisa e il luogo di composizione. E' comunque uno scritto venerando, riconducibile forse alla metà del secondo secolo. Fra l'altro, in questa cosiddetta Seconda Lettera di Clemente si incontra, per la prima volta nella letteratura patristica, il termine katechéo, nel significato etimologico di “insegnare a viva voce”, dove però l'insegnamento non è altro che l'“eco” (e il sostantivo “eco” è presente in katechéo) di una Parola che è già stata detta: quella di Dio.
Ecco dunque che cos'è l'omelia per i nostri Padri: è un “riecheggiamento” della Parola di Dio, appena pronunciata nell'assemblea liturgica.
* Sempre a questo riguardo, è eloquente un altro riferimento alla tradizione, questa volta relativo ad Ambrogio, vescovo di Milano fra il 374 e il 397. C'è un episodio della sua vita, narrato dal diacono Paolino, che riveste un grande valore simbolico.
Narra Paolino che c'era a Milano un eretico, un ariano, “fin troppo abile nel discutere, e testardo, tanto che non si poteva convertirlo alla fede cattolica. Un giorno egli si trovava in chiesa mentre il vescovo predicava, e vide (come dopo riferì egli stesso) un angelo che parlava all'orecchio del vescovo, mentre questi predicava. Sembrava proprio che Ambrogio ripetesse al popolo le parole dell'angelo. Convertito da questa visione, quell'uomo cominciò a difendere egli stesso la fede che prima combatteva” (Vita 17).
Lo ripeto: si tratta di un episodio che riveste un grande valore simbolico, mentre dice il metodo di Ambrogio, e dei nostri Padri in genere, nel predicare. Essi non predicavano se stessi, ma le parole ispirate; non vane dottrine, ma la Parola di Dio, la sola capace di convertire il cuore dell'uomo. Così l'omelia era “catechesi” nel senso etimologico del termine: un “riecheggiamento” della Parola di Dio.
1. Dai Padri della Chiesa al Magistero attuale
Certo, dai Padri ad oggi trascorrono quasi duemila anni di predicazione cristiana. E proprio nel solco di questa tradizione si collocano i ministri ordinati, ai quali è affidata la missione “tremenda e meravigliosa” di predicare la Parola di Dio: una missione che troviamo sintetizzata in un celebre passaggio della Dei Verbum, che cita a sua volta un Sermone di sant'Agostino (così, da Agostino al Vaticano II, risaliamo un bel po' di secoli di predicazione).
"E' necessario", ammonisce la Dei Verbum al n. 25, "che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi", ed è qui la citazione agostiniana, "'vano predicatore della Parola all'esterno colui che non l'ascolta di dentro'".
Ritorna quell’importante messaggio dei Padri, di cui si parlava: per l’omileta di ieri e di oggi è indispensabile una profonda e amorevole sintonia con le Scritture, affinché l'omelia "riecheggi" in modo efficace la Parola di Dio proclamata nell'assemblea liturgica.
Queste riflessioni, svolte sul filo della storia, offrono la prospettiva giusta per comprendere le più recenti indicazioni del Magistero sull'omelia.
Valga per tutti il riferimento al n. 59 (“L’importanza dell’omelia”) dell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, firmata dal Papa Benedetto XVI il 30 settembre 2010. Vi si legge fra l’altro: “L’omelia costituisce un’attualizzazione del messaggio scritturistico, in modo tale che i fedeli siano indotti a scoprire la presenza e l’efficacia della Parola di Dio nell’oggi della propria vita. Essa deve  condurre alla comprensione del mistero che si celebra, invitare alla missione, disponendo l’assemblea alla professione di fede, alla preghiera universale e alla liturgia eucaristica… Si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore  del messaggio evangelico. Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare  Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia… L’Assemblea sinodale ha esortato che [nella preparazione dell’omelia] si tengano presenti le seguenti domande: ‘Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?’”.

2. Definizione e metodo dell'omelia, secondo la Bibbia e i Padri della Chiesa
Ma perché tanta sollecitudine per l'omelia?
La risposta è ben nota. Per una larga parte del popolo di Dio essa è rimasta praticamente l'unica occasione di "catechesi" (nel senso che i nostri Padri ci hanno insegnato), e più in generale di "formazione religiosa", a parte la preghiera e la celebrazione dei sacramenti.
Di fatto l'omelia rappresenta il luogo in cui si attua una comunicazione particolare a livello spirituale e a livello umano; una comunicazione che permette di raggiungere ogni domenica un numero così elevato di persone, che nessun'altra "agenzia" riesce ad eguagliare.
Di qui la "sfida" e la "responsabilità" che l'omelia comporta.
* Consideriamo anzitutto il termine impiegato, cioè omelia. Tra i vari sostantivi usati dai Padri della Chiesa per definire questa particolare forma di comunicazione religiosa – quali soprattutto omelia e sermone – la riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II ha preferito appunto il termine omelia, che implica un diretto riferimento all'episodio narrato da Luca, alla fine del terzo Vangelo, dove si parla dell'incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus. Mentre essi conversavano (en to homiléin) e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò a loro, per spiegare in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (cfr. Luca 24,13ss.: nei vv. 14 e 15 è impiegato due volte il verbo omiléo).
Gesù si rivela così il primo omileta, come già si era manifestato nella sinagoga di Nazaret (cfr. Luca 4,14-21).
* Ma nei due episodi narrati da Luca Gesù Cristo insegna anche il metodo fondamentale dell'omelia, quello che i nostri Padri hanno ampiamente utilizzato e variamente elaborato. In sostanza, è il metodo che presiede alla lectio divina tradizionale.
Teorizzata e sistematizzata nel XII secolo, in ambiente monastico (valga per tutti il nome di Guigo II, priore della Grande Certosa), la lectio divina in realtà è molto più antica, e non è posteriore alla Bibbia, proprio perché la lectio si trova già all'interno della Bibbia stessa. Sostanzialmente, la lectio prevede un duplice movimento. Il primo movimento è come un "viaggio di andata", nel quale la Parola di Dio viene letta e meditata, perché scenda fino al cuore; e dal cuore parte il secondo movimento, che è come un "viaggio di ritorno", nel quale la Parola viene a convertire la vita dei credenti.
Occorre precisare però che nel caso dell'omelia i due movimenti – quello di andata come quello di ritorno – coinvolgono una Parola contestualizzata nell'anno liturgico. Di fatto, l'omelia si trova vitalmente inserita nella liturgia eucaristica. Dunque i due movimenti non si riferiscono ad una Parola isolata, ma ad una Parola che viene proposta dalla Chiesa in intima relazione con l'evento liturgico celebrato.
Nell'ambito della Chiesa di Rito romano la progettualità dell'annuncio è racchiusa nei vari Lezionari, mentre la descrizione teologica è presentata nell'Introduzione generale al Lezionario (per la Chiesa italiana, l’edizione più recente è quella del 2008, condotta sull’editio typica altera dell’Ordo lectionum Missae, che è del 1981. L’Introduzione vi si trova nel tomo dedicato al Lezionario feriale – Tempi forti, alle pp. 15-58).
Di qui una conseguenza pratica molto importante. Occorre che l'omileta ponga la massima attenzione ai temi offerti dai Lezionari per le singole celebrazioni. L'omelia non è il luogo per parlare di tutto e di nulla, ma il momento per operare una formazione religiosa a partire dai suggerimenti intrinseci al Lezionario. Se la metodologia del Lezionario, con i titoli proposti alle singole letture, non è patrimonio connaturale all'omileta, i fedeli non potranno cogliere il progetto di annuncio che soggiace alla celebrazione liturgica.

3. Ancora sul “metodo patristico” dell’omelia
Rimanendo ancora sul “metodo patristico” dell'omelia, e precisamente sul suo duplice movimento, conviene esplicitare almeno due suggerimenti.
* Il primo suggerimento raccomanda una sorta di equilibrio tra il viaggio di andata e il viaggio di ritorno. Ci imbattiamo spesso in omelie "squilibrate": o troppo ripiegate sull'esegesi dei testi, dove magari si fa sfoggio di erudita informazione biblica e liturgica; oppure, al contrario, omelie troppo sbilanciate sull'attualizzazione, dove il rischio estremo è quello di trasformare l'omelia in un comizio. Nel primo caso il fedele non viene accompagnato nell'interpretazione della Parola pro nobis, hic et nunc; nel secondo caso la Parola rischia di diventare un semplice pretesto, per dire quello che al predicatore sembra bene in quel momento. Conviene ricordare che il viaggio di ritorno, cioè l'attualizzazione, sarà tanto più fecondo, quanto più accuratamente sarà stato preparato dal viaggio di andata.
* Entra qui il secondo suggerimento, anch’esso legato al magistero dei nostri Padri. Nell’esercizio dell’omelia occorre valorizzare il cuore, perché proprio il cuore è il centro dei due movimenti della lectio divina: lì scende la Parola, letta e meditata, e da lì essa riparte per il confronto con la preghiera e con la vita.
Uno dei difetti di molte omelie è quello di un certo intellettualismo. L'omelia invece deve parlare al cuore dei fedeli, nel senso biblico e patristico di questa parola. Per la Bibbia e i Padri, il cuore è l'intimità dell'uomo. E' là dove teniamo in mano il nostro destino, dove si giocano le grandi decisioni, dove in qualche modo sono chiamate a raccolta tutte le nostre facoltà. E' in questo senso che il predicatore deve parlare "da cuore a cuore": cor ad cor loquitur. La tradizione cristiana riconosce nel cuore la via per stabilire incontri autentici e veri. "Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?", si domandano stupiti i discepoli di Emmaus.
In questo senso, l'icona del predicatore è Maria santissima. Nel Vangelo dell'infanzia Luca ripete due volte che Maria "conservava nel cuore tutte queste cose" (2,19.51). L'evangelista intende dire che nella teca preziosa del suo cuore la vergine madre "custodiva insieme con grande cura" (sunetérei) ogni reliquia del mistero di Gesù. Ma una delle due volte Luca aggiunge: "E le confrontava..." (2,19). Qui viene usato un altro verbo molto significativo: è il verbo greco symbállein, imparentato fra l'altro con il sostantivo italiano simbolo. In questo modo si vuole dire che Maria non soltanto custodiva gelosamente nel suo cuore il Verbo di Dio: di più, essa cercava di confrontare le parole della rivelazione con la propria vita, evidentemente per “metterle in pratica”.
Trascorriamo ora dalla Bibbia ai Padri, sempre riguardo alla centralità del cuore nel metodo dell’omelia.
All’amico Teodoro, medico dell’imperatore, Gregorio Magno raccomandava: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio”.
Ma perché questo avvenga davvero, occorre che la Parola sia “digerita” nel cuore dell’uomo. Forse questa immagine della digestione non è molto attraente (Bernardo esortava addirittura i suoi monaci ad essere animalia munda et ruminantia), ma essa ha il pregio di ricordare in modo icastico che la Parola di Dio è vero cibo del nostro cuore.
A questo riguardo la tradizione dei Padri è ricchissima. Mi limito a un solo esempio.
Del beato Aelredo di Rievaulx, discepolo e biografo di san Bernardo, si legge che parlava ex biblioteca sui cordis. Il cuore di Aelredo (e a maggior ragione quello di Bernardo, il suo maestro) era divenuto come una teca, cioè un prezioso scaffale in cui si allineavano ordinati tà biblía, cioè la Sacra Scrittura, "i libri" per eccellenza.
E' il complimento migliore che si potrebbe fare a un omileta: quando parla, parla dalla biblioteca del suo cuore. Cioè si sente davvero che il suo impegno di "attualizzare" la Parola viene da un cuore plasmato da essa, in profonda sintonia con essa.
Gli omileti che hanno inciso più profondamente nella vita dei fedeli sono precisamente i testimoni di questa intima, cordiale unione con il mistero di Dio.
Si pensi – solo per fare qualche esempio – a Francesco d'Assisi. E' stato detto che del "profumo del Vangelo" sono a tal punto ripieni i suoi scritti (come lo erano, per quanto possiamo saperne, le sue omelie), che se si togliesse il Vangelo non vi rimarrebbe più nulla. Oppure si pensi a san Carlo Borromeo, e alla celebre Omelia 45, nella quale il santo vescovo si rivolge direttamente al Crocifisso: "Perché hai voluto nascere in così bassa condizione, vivere sempre in essa e morire tra le ignominie? Perché hai sofferto tante fatiche, tante offese, tanti oltraggi, tanti dolori e tante piaghe, e alla fine una morte così crudele, versando il tuo sangue fino all'ultima goccia?...". E san Carlo conclude la sua omelia proclamando "veramente felici coloro che hanno impresso nel cuore Cristo crocifisso, e non svanisce mai". Si pensi ancora al santo Curato d'Ars, che sul più bello interrompeva la sua omelia, per rivolgersi con intensità ineffabile al Tabernacolo, dicendo semplicemente: "Ma che importa tutto questo? Egli è là!...". Ma forse l’esempio più impressionante viene da una singolare omelia di san Luigi M. Grignion de Monfort. Salito sul pulpito all’ora stabilita, il predicatore estrae il suo crocifisso, e senza dire parola si ferma a contemplarlo lungamente, dando sfogo al pianto. Il popolo, a sua volta, non riesce a trattenere le lacrime, quando il predicatore scende e presenta a ciascuno il crocifisso per il bacio. “La predica era stata corta”, commenta il biografo, “ma non occorre meno di tutta la vita di un santo per prepararla”.

4. La preparazione dell’omelia
Abbiamo alluso così – oltre al metodo dell'omelia – anche al “retroterra spirituale” del predicatore: egli deve essere profondamente nutrito di scienza e di fede, perché non gli capiti di essere – secondo l'ammonimento di sant'Agostino – “vano predicatore della Parola”: un “parolaio”, diremmo noi oggi.
Ma l’esempio dei nostri Padri ci insegna pure che, oltre al “retroterra spirituale” e alla “preparazione remota”, occorre curare anche la “preparazione prossima” dell’omelia.
* E' stato detto – e giustamente – che le omelie migliori sono quelle più a lungo preparate, e molti zelanti pastori concordano nell'affermare che essi cominciano il lunedì a preparare l'omelia della domenica. Ed è normale, se si pensa al metodo proprio dell'omelia, come l'abbiamo illustrato fondandoci sull’esempio dei nostri Padri: se l'omelia deve parlare al cuore dei fedeli, deve partire da un cuore che sia già plasmato – in qualche misura – dalla Parola di Dio; e questo non si raggiunge certo raccogliendo quattro idee, all'ultimo momento, in sagrestia...
* Qualcuno chiede talvolta: conviene leggere, o no? conviene avere davanti un testo scritto, interamente scritto, oppure soltanto uno schema con i passaggi fondamentali, o niente del tutto?
Qui si tocca molto da vicino l'irripetibile personalità di ciascuno, e nella storia dell'omiletica, dai Padri in poi, vediamo esempi molto diversi: predicatori che apparentemente improvvisavano, e che in realtà avevano scritto tutto, e imparato a memoria, ciò che intendevano dire; e predicatori che apparentemente leggevano, e che in realtà dettavano le loro prediche, e spesso poi ne rivedevano il testo dagli appunti dei tachigrafi o dei fedeli, per sistemarlo definitivamente e conservarlo. Sant’Agostino, per esempio, curava personalmente la raccolta delle sue omelie negli archivi di Ippona.
 Mi è capitato di avere tra mano qualche appunto della predicazione di san Carlo Borromeo. San Carlo disegnava le sue omelie come un albero: il tronco era l'idea centrale, che egli intendeva comunicare ai fedeli, i rami erano invece i vari sviluppi del pensiero, a partire da quell'unica idea centrale. Senonaltro, questo ci ricorda che le nostre omelie non devono essere sovraccariche di concetti e di messaggi. Se la gente dalle nostre omelie porterà a casa un'idea centrale, valida e operativa per l'intera settimana, sarà già molto...
Dunque, credo che non ci sia una risposta univoca di fronte alla domanda se l'omelia vada scritta o no, se vada letta o no. Certo, il semplice leggere non aiuta l'attenzione dei fedeli. Tuttavia, almeno per chi comincia a predicare, raccomanderei di stendere per intero il testo dell'omelia, e di tenerlo sott'occhio, in modo da vincere più facilmente il timore degli inizi. Direi invece che tutti i predicatori devono avere ben chiaro, scolpito nel cuore, l'itinerario completo della loro omelia, nei suoi punti fondamentali dell'"andata" e del "ritorno".
Da questo punto di vista i nostri Padri, che avevano studiato l’eloquenza classica, tenevano ben presente la “regola” dell'oratore latino: Rem tene, verba sequentur! In particolare, sono molto importanti per l'incisività della comunicazione l'introduzione e la conclusione: esse devono aiutare l'assemblea a percepire l'omelia quale deve essere, cioè nel contesto vivo della celebrazione liturgica.
* Anche sulla lunghezza dell'omelia non si possono dare delle regole ferree. E' certo che l'omelia ben preparata va all'essenziale, e risulta più concisa. Lo sapeva bene – ancora una volta – sant'Agostino, quando si lamentava perché all'ultimo momento gli cambiavano le letture... Già Origene (che poi però in molti casi contraddiceva ampiamente questa norma) affermava: Brevitatem auditores ecclesiae diligunt. E Pietro Crisologo parla della brevitas amica sermonis.
In realtà nella predicazione patristica abbondano i segnali di stanchezza da parte del pubblico. In ogni caso mi pare che il contesto storico, culturale, ambientale... sia talmente mutato, che sul punto specifico della brevità o della lunghezza dell’omelia non sia molto illuminante il riferimento alla predicazione patristica. Per quanto ci riguarda, ordinariamente alla domenica converrebbe attestarsi intorno ai dieci minuti di omelia, per poterla opportunamente valorizzare senza fretta, attraverso tutti gli altri elementi della celebrazione eucaristica.

5. “Relativizzazione” dell'omelia
Le considerazioni svolte fin qui aiutano anche a "relativizzare", in senso positivo, l'omelia. E’ proprio vero che la migliore catechesi sull’Eucaristia, e anche la migliore omelia, è la stessa Eucaristia ben celebrata.
Vale a dire che l'omelia non va considerata da sola, in assoluto. Essa è situata in un contesto liturgico, che ne determina la validità.
* Anzitutto, ciò che relativizza positivamente l'impegno dell'omileta è il fatto che in ultima istanza chi parla veramente al cuore dell'uomo è solo Dio. Ancora di più: secondo i nostri Padri, Dio stesso apre il suo cuore a coloro che ascoltano la Parola: “Disce cor Dei in verbis Dei”, non si stancava di ripetere Gregorio Magno.
Da parte sua, il predicatore cercherà di assicurare le condizioni migliori perché questo incontro tra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo si realizzi efficacemente.
* Un altro contesto che condiziona e relativizza l'omelia è la vita stessa del predicatore. Di questo abbiamo già fatto qualche cenno, ma conviene sottolinearlo ancora, a partire dalla definizione stessa di Padre della Chiesa: “Padre”, secondo la Tradizione della Chiesa, non è semplicemente uno che parla e che scrive bene. Il Padre è un santo. Se non è santo, non è un Padre. L’efficacia della parola è intimamente legata alla testimonianza della vita.
E' ben noto che il magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II ha elaborato, si può dire, una vera e propria "teologia della testimonianza", a partire dalla celeberrima affermazione dell’Evangelii Nuntiandi, secondo cui il mondo d'oggi ha più bisogno di "testimoni" che di "dottori".
In qualche misura, dunque, è la vita stessa del ministro che dà validità alla sua predica. Questa affermazione non va esagerata, perché altrimenti dovremmo rimanere tutti zitti. In ogni caso, la figura dell'omileta deve essere una figura compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti.
Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli si accostò, chiedendogli di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: "Io non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio...".
Ebbene, per noi le cose vanno ben diversamente.
Noi l'abbiamo la Parola: noi abbiamo il lieto messaggio di Cristo, noi abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, noi abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo non può passare senza la testimonianza della vita: eritis mihi testes.
* Infine, l'omelia è situata nella vita della comunità cristiana – normalmente della parrocchia – in cui si celebra. L'efficacia dell'omelia dipende anche dalla testimonianza di questa comunità cristiana, dal suo impegno nella vita ecclesiale, dalla sua partecipazione nella fede, nella speranza e nella carità.
Da questo punto di vista è significativa una testimonianza delle Confessioni di sant'Agostino. Ciò che cominciò a muovere il cuore del giovane retore africano, scettico e disperato, e che lo spinse alla conversione prima, e poi al battesimo, non furono le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) del vescovo Ambrogio, ma fu piuttosto la testimonianza della Chiesa milanese che pregava e cantava, compatta come un solo corpo; una Chiesa capace di resistere alla prepotenza dell'imperatore Valentiniano e di sua madre Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di una chiesa per le cerimonie degli ariani. Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, “il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. Anche noi”, e questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi nell'intimo di Agostino, "pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell'eccitazione di tutto il popolo" (Confessioni 9,7).
Di qui si comprende anche quanto possano incidere negativamente su ciò che diciamo le "controtestimonianze" personali e comunitarie; di qui l'importanza che Giovanni Paolo II attribuiva al saper chiedere perdono come comunità, come Chiesa; l'importanza di educare le nostre assemblee alle liturgie della penitenza e della riconciliazione.
6. Per non concludere...
L'omelia è veramente una sfida e una responsabilità, forse oggi più di ieri.
Ho tentato di condividere alcune riflessioni e qualche suggerimento, dettati dal riferimento ai Padri, dall'esperienza personale e da vari studi e letture.
A quest'ultimo riguardo, degli studi e delle letture, raccomando uno strumento prezioso e facilmente accessibile. Si tratta del Dizionario di Omiletica curato da Manlio Sodi e da Achille M. Triacca per le Editrici Elle Di Ci e Velar, Leumann - Gorle 2002, con bibliografia praticamente esaustiva a corredo dei singoli lemmi. A parte la voce complessiva Predicazione (nella Chiesa antica), scritta dal benedettino dom Alexandre Olivar, vi compare una vera e propria “galleria” di Padri, autentici modelli di predicazione nell’“oggi” della Chiesa.
Stando al loro magistero, il “caso serio” dell’omelia si colloca più sul versante della testimonianza di vita (ecco l’impegno penitenziale, di conversione) che non su quello della metodologia e delle tecniche (senza ovviamente sottovalutare questo secondo versante).
Può servire anche per il predicatore ciò che l'allora don Joseph Ratzinger scriveva in Introduzione al cristianesimo a proposito del teologo. Il predicatore non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte "per mestiere". Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene – egli deve essere come il discepolo innamorato, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro, e da lì ricava il suo modo di pensare, di parlare e di agire.
Alla fine di tutto, il discepolo innamorato è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.