Un grande affresco della famiglia così come
la presenta la Scrittura, “tra opera della creazione e festa della
salvezza”: l’ha disegnato il card. Gianfranco Ravasi, biblista di fama
mondiale e presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura,
nell’intervento che ha aperto i lavori della prima giornata del
Congresso teologico pastorale.
Impreziosita da citazioni letterarie e con diversi riferimenti all’attuale contesto socio-culturale, la riflessione
ha preso le mosse da una celebre affermazione fatta dall’antropologo
Claude Lévi-Strauss nel 1952: «La famiglia come unione più o meno
durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli è
un fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società».
Una centralità della famiglia che tuttora permane: secondo un recente
sondaggio i cittadini europei considerano fondamentale la famiglia e, in
46 Paesi su 47, la collocano al primo posto tra le realtà sociali più
importanti.
Prendendo come cifra simbolica la “casa”,
Ravasi ha indicato anzitutto le fondamenta della famiglia nel rapporto
di coppia, tra un uomo e donna “uguali nella loro dignità radicale ma
differenti nella loro identità individuale”: un’unità d’amore che nel
cristianesimo riceve “un suggello trascendente”.
Ravasi ha poi individuato nei figli le
“pietre vive”. La pienezza della famiglia, ha aggiunto, è affidata alla
discendenza che può non essere solo biologica (come, ad esempio,
nell’adozione). “Dio è creatore – ha spiegato -, l’uomo e la donna sono
generatori e continuano la storia della salvezza”. E ha ripreso, in
proposito, una frase di Giovanni Paolo II, pronunciata durante il
viaggio apostolico in Messico nel 1979: «Il nostro Dio nel suo mistero
più intimo non è una solitudine, ma una famiglia. (…) Così, il tema
della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina».
Ancora. La casa-famiglia è costituita di
stanze, la prima delle quali (“lo sguardo del credente deve essere
realistico”, ha chiosato Ravasi) è la “stanza del dolore”: “la Bibbia
stessa ne è testimone costante, a partire dalla brutale violenza
fratricida di Caino su Abele e dalle liti tra i figli e le spose degli
stessi patriarchi”, fino a Gesù che “conosce le ansie e le tensioni
delle famiglie travasandole nelle sue parabole”. Oggi – ha continuato il
cardinale - assistiamo a nuove lacerazioni del tessuto familiare, un
insieme di fenomeni socio-culturali che “scuote l’impianto tradizionale
della famiglia” e che rende la casa un qualcosa di “liquido”.
Di fronte a questi fenomeni la famiglia
cristiana è chiamata a non rinchiudersi dietro le porte blindate, perché
“non è una monade ma la prima cellula della società” e questo la carica
di responsabilità.
L’ultima stanza
individuata da Ravasi è quella della festa e della gioia familiare.
“Fenomeni inediti come la globalizzazione, la civiltà digitale, il
fermento della scienza (neuroscienze e biotecnologie), l’incontro con
volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture” rappresentano
una “molteplicità d’esperienze” che può arricchire la festa della
famiglia, a patto che – ha puntualizzato il cardinale - “essa sappia
custodire nel dialogo la sua identità cristiana in forma non aggressiva e
integralistica, ma sappia anche non stingersi e scolorirsi in un
generico e vago sincretismo”.
La festa è essenziale per l’esperienza della
famiglia perché – ha concluso il biblista, parafrasando il mistico ebreo
Abraham J. Heschel – “quando celebrano la liturgia festiva, l’uomo e la
donna entrano nel tempio/tempo eterno divino”. Pertanto, “la festa
autentica non è né un orizzonte vuoto e inerte , né è un mero week-end”,
ma è “segno di una trascendenza resa disponibile alla creatura”,
un’opportunità unica con la quale umanizzare il tempo.
Di seguito il testo dell'intervento del Card. Ravasi.
* * *
LA FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE
E FESTA DELLA SALVEZZA
Card. Gianfranco
RAVASI
Non può restare nascosta una casa collocata
sul crinale di un monte: parafrasando una celebre immagine del Discorso della
Montagna (Mt 5,14), poniamo al centro
della nostra riflessione un simbolo radicale nella stessa storia dell’umanità,
la casa, un segno che s’affaccia bel
2092 volte col vocabolo ebraico bajit/bêt
nell’Antico Testamento e 209 volte nel Nuovo Testamento sotto le parole analoghe
oíkos e oikía, accompagnate da uno sciame di circa quaranta termini
derivati. Dal crinale, dove svetta la casa simbolica che vogliamo delineare, si
diramano due versanti che costituiscono il titolo stesso del nostro tema: da un
lato, ecco l’alfa della creazione,
che si distende lungo la traiettoria della storia; dall’altro lato, ascende il
versante arduo dell’omega, ossia
della festa piena della salvezza, l’escatologia, la meta attesa ove il “non
ancora” della storia si trasformerà nell’“ora” perfetta della redenzione
compiuta e la Gerusalemme
terrena si muterà nella nuova Gerusalemme celeste.
Le
fondamenta della “casa”-famiglia
Toda casa es un candelabro / donde arden con aislada
llama las vidas. Forse questo verso era sbocciato nella mente del giovane
Jorge Luis Borges, il famoso scrittore argentino, mentre ventiquattrenne
passeggiava per una “strada ignota” della sua città, dato che la raccolta
poetica s’intitola appunto Fervore a
Buenos Aires (1923). Ed effettivamente le mura dei palazzi celano al loro
interno tante fiamme “appartate” (aislada),
cioè vite isolate nelle loro solitudini o nei loro drammi, famiglie unite
nell’amore o scavate dalle divisioni, benestanti o curve sotto l’incubo della
povertà o dell’assenza di lavoro. La “casa”, infatti, in molte lingue non è
soltanto l’edificio di mattoni, di pietra e di cemento o la capanna o la tenda
in cui si dimora (e la mancanza di una casa è un elemento drammatico di
dispersione esistenziale), ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di
persone vive e di generazioni. Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino
il tempio, residenza terrestre di Dio.
Suggestivo, al riguardo, è il rimando
di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re Davide che vuole
erigere una “casa” (bajit) al Signore,
ossia un tempio in Gerusalemme, Dio replica affermando che sarà lui stesso a
edificare per il re una “casa” (bajit),
una discendenza familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata
ad approdare al Messia (2Sam 7). La
“casa” simbolica che stiamo per costruire partecipa di questa visione: è lo
spazio che custodisce «l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e
vitale cellula della società», come il Concilio Vaticano II definisce la
famiglia (GS 48; AA 11). È il segno dell’esistenza umana che si compie nella libera
relazione interpersonale d’amore, come suggeriva lo scrittore inglese Gilbert
K. Chesterton nel suo scritto Fancies
versus Fads (1923): «La famiglia è il test della libertà umana perché è
l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé».
Già
Aristotele, nella sua Politica,
considerava la famiglia come la struttura istituita dalla natura stessa per
provvedere all’esistenza piena della persona. È spesso ripresa la nota che il
famoso antropologo Claude Lévi-Strauss ha posto nel cuore del suo saggio sulla
famiglia nella raccolta Razza e storia e
altri studi di antropologia (1952): «La famiglia come unione più o meno
durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli… è un
fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società». Questa
convinzione è sperimentalmente confermata anche nella società contemporanea,
nonostante le apparenze contrarie, come si evince dalla quarta indagine degli
“European Values Studies” (2009). Da essa risulta che l’84% dei cittadini
europei (e il 91% degli italiani) considera fondamentale la famiglia e
inaspettatamente 46 paesi su 47 la collocano al primo posto tra le realtà
sociali più importanti, prima ancora del lavoro, delle relazioni amicali, della
religione e della politica.
La “casa” è, perciò, un emblema vivo e
vivente che attinge all’antropologia autentica, non solo religiosa, la quale
vede nella creatura umana non una monade chiusa in sé stessa, ma una cellula in
relazione con un corpo più vasto, un orizzonte aperto che accoglie e si
espande. In pratica, come vedremo, l’umanità si rivela “duale”, dotata di una
necessità strutturale di dialogo con l’altro. Ha, quindi, un suo fondo di
verità l’enfatica intemerata che lo scrittore francese André Gide scagliava
nella sua opera Nutrimenti terrestri (1897):
«Famiglie, vi odio! Focolari chiusi, porte serrate, geloso possesso della
felicità!». Purtroppo, venendo meno alla sua vocazione sociale, la famiglia
adotta spesso – soprattutto nella vicenda contemporanea – come emblema la porta
blindata, così da rinchiudersi in se stessa, perdendo il suo respiro genuino,
la sua identità primigenia, ignorando chi sta fuori di quella cortina di ferro
protettiva che si tramuta in prigione.
Andando
oltre, dobbiamo ricordare che la “casa”-famiglia è anche, come si diceva,
l’analogia per definire il tempio ove si raduna la famiglia che ha per padre
Dio. È per questo che uno dei vocaboli per indicare il santuario di Sion è
appunto bajit e nel Nuovo Testamento
entra in scena la kat’oíkon ekklesía,
l’ecclesia domestica, ove lo spazio
vitale di una famiglia si può trasformare in sede dell’eucaristia, della
presenza di Cristo assiso alla stessa mensa (1Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2; cf. LG 11).
Indimenticabile è la scena dipinta dall’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui,
cenerò con lui ed egli con me» (3,20).
Iniziamo, allora, a far sorgere la
“casa” simbolica e vivente che sta su quella vetta dalla quale si dipartono i
due versanti della felicità della creazione e della festa della salvezza. È
necessario partire dalle fondamenta solide, gettate sulla roccia del monte (cf.
Mt 7, 24-25). La base è ovviamente
costituita dalla coppia che è la radice dalla quale si leva il tronco della
famiglia. Non è possibile ora né è necessario definire questo fondamento
attraverso una compiuta teologia nuziale. Ci accontenteremo di rimandare a un
testo biblico che è l’incipit stesso
delle Scritture e, quindi, della creazione. Esso è desunto da quella pagina che
contiene il progetto che il Creatore ha accarezzato come suo ideale e che ha
proposto alla libertà della creatura umana. Questo disegno primordiale emerge
nel capitolo 2 della Genesi e si affida a una sorta di collana di perle lessicali
ebraiche, che ora cercheremo di far brillare in modo essenziale davanti ai
nostri occhi attraverso un settenario di termini.
La prima parola è ‘ezer, letteralmente un “aiuto” offerto nel momento più critico e,
quindi, diventa risolutivo e indispensabile. Nel nostro caso c’è un incubo che
sta attanagliando l’uomo appena uscito dalle mani di Dio: è la
solitudine-isolamento, che spegne quella vitalità ad extra strutturale per la persona. «Non è bene che l’uomo sia
solo: voglio fargli un ‘ezer che gli
corrisponda», esclama infatti il Creatore (Gen
2,18). Come è noto, non è sufficiente all’uomo avere accanto gli animali,
che sono pure una simpatica presenza nell’orizzonte terrestre: «l’uomo non
trovò in essi un aiuto (‘ezer) che
gli corrispondesse» (2,20). Come ha cercato di rendere questo termine un
esegeta, Jean-Louis Ska, ciò di cui ha bisogno l’uomo è «un allié qui soit son
homologue». È, dunque, un aiuto vivo e personale, un alleato nel quale egli
possa fissare gli occhi negli occhi, anche in un dialogo silenzioso perché –
come suggerisce un testo attribuito al grande Pascal – nella fede come
nell’amore i silenzi sono più eloquenti delle parole; nei due innamorati che si
guardano negli occhi in silenzio l’inesprimibile si fa esplicito, l’ineffabile
si rivela.
Ecco, allora, la seconda formula ke-negdô, tradotta di solito con un
“simile” o “corrispondente” aiuto. In realtà, il suo significato di base suona
letteralmente così: “come di fronte”. È appunto quella parità di sguardi a cui
si accennava. Finora l’uomo ha guardato verso l’alto, cioè verso la
trascendenza, verso quel Dio che gli ha infuso il respiro vitale, gli ha donato
«la fiaccola» della coscienza che «scruta le profondità dell’intimo» (Pr 20,27), lo ha insignito della libertà,
collocandolo all’ombra dell’«albero della conoscenza del bene e del male».
L’uomo ha poi guardato in basso, verso quegli animali che rivolgevano a lui il
loro muso in attesa di ricevere un nome (Gen
2,19-20). Ora, invece, cerca un volto davanti a sé, un “tu”, «il primo dei
beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio», come dice il Siracide
(36,26), ma come meglio esclama la donna del Cantico dei cantici, un essere col
quale è possibile comporre una piena reciprocità di donazione: «Il mio amato è
mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3:
l’originale ebraico è musicalmente rimato e ritmato sul suono –ô– e –î–
che denotano i due pronomi
interpersonali, “lui” e “io”, dôdî lî
wa’anî lô… ’anî ledodî wedodî lî).
Passiamo, così, al terzo vocabolo che
in questo caso è un simbolo: è quella “costola” sulla quale si sono ricamate
tante ironie antifemminili. L’intervento creativo divino avviene all’interno di
un “sonno”, che nella Bibbia è segno di un’esperienza trascendente, è la sede
delle rivelazioni e delle visioni, è l’ambito in cui Dio è protagonista
rispetto alla sua creatura. Ebbene, lo svelamento del valore di quell’azione
divina ha luogo al risveglio, quando l’uomo intona quel canto d’amore
primigenio che verrà declinato nella storia in infinite forme e formule
differenti: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (2,23).
Carne e ossa sono le componenti strutturali del corpo umano che,
nell’antropologia biblica, è il segno della persona nella sua pienezza comunicativa
(non abbiamo un corpo ma siamo un corpo). Si spiega, così, il
simbolo della “costola”: essa indica la piena parità strutturale e costitutiva
tra uomo e donna. Non per nulla, in sumerico ti designa sia la “costola” sia la “vita” trasmessa dalla donna. E questo
ci conduce spontaneamente al quarto termine che si intreccia intimamente con la
quinta locuzione ed entrambi risuonano in Gen
2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne».
È evidente che l’Adamo (in ebraico con
l’articolo ha-’adam), protagonista
del passo, è l’Uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta:
egli con la sua donna dà origine a una nuova famiglia, definita appunto
attraverso i due vocaboli che ora sottolineiamo. Da un lato, c’è il verbo dabaq, “unirsi”, che letteralmente
raffigura una stretta sintonia, un attaccamento fisico e interiore, tant’è vero
che lo si adotta persino per descrivere l’unione mistica con Dio: «Il mio
essere si tiene stretto (dabaq) a
te», canta l’orante del Sal 63,9. Per
questo san Paolo afferma che «chi si unisce a una prostituta forma con essa un
solo corpo…, ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor 6,16-17). Col verbo dabaq si ha, quindi, l’atto sessuale sia
nella sua dimensione corporea sia nella sua celebrazione d’amore, di donazione
totale della coppia. D’altro lato, ecco appunto la formula finale “un’unica
carne “ (basar ’ehad) che definisce
visivamente quel dabaq e che apre il
discorso forse alla componente successiva della “casa” che stiamo innalzando:
infatti, per l’esegeta tedesco Gerhard von Rad, l’“unica carne” è anche il
figlio che nascerà dai due e che porterà in sé, unendole, non solo
geneticamente, ma anche spiritualmente le due realtà dei suoi genitori.
Possiamo,
allora, concludere il disegno delle fondamenta della “casa”-famiglia con
l’ultimo sguardo a questa coppia e al loro nome che ci presenta le ultime due
parole: la donna «la si chiamerà ’isshah ,
perché da ’ish [l’uomo] è stata
tratta» (2,23). Non c’è bisogno di spiegare come l’autore sacro abbia voluto
ricordarci che queste due persone che costituiscono la coppia sono uguali nella
loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale: ’ish è l’uomo nella sua realtà specifica
e ’isshah è lo stesso termine ma al
femminile, svelando così come la donna e l’uomo siano entrambi persone umane,
pur nella diversità dei loro generi sessuali. La pienezza dell’umanità è in
questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare.
La persona umana è, quindi, “duale” ed è così che realizza la sua autentica
“identità”.
Abbiamo, dunque, inanellato un
settenario di vocaboli che reggono la base da cui sorge la famiglia, ossia la
coppia: ‘ezer-aiuto indispensabile,
che è ke-negdô, ci sta di fronte alla
pari, simbolicamente raffigurato nella “costola”, cioè nella stessa componente
strutturale dell’essere umano; l’uno e l’altra si abbracciano (dabaq), divenendo “una carne unica” (basar ’ehad) e recando i nomi uguali ma
non identici di ’ish e di ’isshah.
A suggello facciamo risuonare un appello intenso del Talmud, la grande raccolta
della tradizione religiosa giudaica: «State molto attenti a far piangere una
donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola
dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per
essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del
braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata». Nel
cristianesimo, poi, questa unità d’amore riceve un suggello trascendente
ulteriore che l’apostolo Paolo chiama “mistero” (Ef 5,32) e la teologia “sacramento”. In modo illuminante il teologo
martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer così commenterà questo trapasso: «Il
matrimonio è più del vostro amore reciproco… Finché siete voi soli ad amarvi,
il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia. Entrando
nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio
chiama al suo regno».
Le
pareti di pietre vive
Quando san Pietro
tratteggia «l’edificio spirituale» della comunità ecclesiale, descrive le sue
ideali pareti come costituite da líthoi
zóntes, «pietre vive», che s’aggregano attorno alla «pietra viva» fondamentale
che è Cristo (1Pt 2,4-5). Raccogliamo
questa simbologia e la applichiamo alla casa che stiamo innalzando, quella
della famiglia. Anche nel Cantico dei cantici, che è per eccellenza il poema
dell’amore, si leva un “muro” al quale è appoggiato l’amato e questa parete è
detta in ebraico kotel (Ct 2,9), che è lo stesso termine con cui
oggi si denomina il muro del tempio di Gerusalemme davanti al quale l’Israele
prega il Signore. Ebbene, quali sono le “pietre vive” che compongono le pareti
della famiglia innalzandola verso l’alto, l’oltre, il futuro? Sono i figli. È
curioso notare che, statisticamente parlando, la parola che ricorre più volte
nell’Antico Testamento – al di là delle congiunzioni, gli articoli, le
preposizioni e gli avverbi, e dopo il nome divino Jhwh (6828 volte) – è il vocabolo ben, “figlio”, che risuona per 4929 volte!
Il legame di ben con la casa risulta diretto e intimo se si tiene conto che il
verbo “costruire, edificare” in ebraico è banah,
e la rappresentazione più incisiva di questo vincolo stretto è nella miniatura
poetica del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano vi faticano i costruttori… Ecco eredità del
Signore sono i figli (ben), è un suo
premio il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza. Beato l’uomo che
ne ha colma la faretra: non sarà umiliato quando verrà alla porta a trattare
coi suoi nemici». Certamente il Salmo riflette una società di stampo agrario
ove le braccia per il lavoro nei campi e negli scontri tribali erano decisive.
La scena finale è tipicamente orientale: il padre, simile a uno sceicco,
attorniato dalla sua folta e vigorosa prole, quasi fosse una guardia del corpo,
incute timore quando si presenta alla porta davanti ai suoi avversari. Già
nella Sapienza di Ani, un testo
egizio del XIII secolo a.C., si leggeva: «L’uomo i cui figli sono numerosi è
salutato rispettosamente e temuto a causa dei suoi figli». La pienezza della famiglia è tendenzialmente
affidata alla discendenza.
Tuttavia, per approfondire questo tema
in chiave teologica, raccogliamo l’invito stesso di Cristo che spinge, per
parlare della famiglia, a risalire ap’ archés,
“in principio”, e ritorniamo alla Genesi, a un passo del primo racconto della
creazione posto proprio in apertura alla Bibbia. Là si legge questa frase: «Dio
creò l’uomo a sua immagine, / a immagine di Dio lo creò / maschio e femmina li
creò» (1,27). Lo schema del parallelismo tipico della letteratura semitica
rivela che “immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia
“maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato e accanto a lui si asside una
compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? Ovviamente no, sapendo con
quanta nettezza la Bibbia
rifiuti come idolatrica questa concezione diffusa tra gli indigeni Cananei
della Terrasanta. Dio resta trascendente, ma è creatore e la fecondità della
coppia umana è “immagine” viva ed efficace dell’atto creativo divino, ne è un
segno visibile; la coppia che genera è la vera “statua” (non quella di pietra o
d’oro che il Decalogo proibisce) che raffigura il Dio creatore e salvatore.
L’amore
fecondo è, perciò, il simbolo della realtà intima di Dio e proprio per questo
il racconto della Genesi, secondo la cosiddetta “Tradizione Sacerdotale”, è
tutto scandito sulle sequenze genealogiche (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16;
25,11; 28,3; 35, 9.11; 47,27; 48,3-4): la capacità di generare della coppia
umana è la via sulla quale si snoda la storia della salvezza. Possiamo, anzi,
dire che l’intera Bibbia è per molti versi un’ininterrotta storia di famiglie. È,
però, da notare che, accanto all’“immagine” (selem), si parla anche di “somiglianza” (demût), un modo per sottolineare la non-identità totale fra
divinità e umanità; esiste una distanza, marcata proprio da questo secondo
vocabolo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (1,26).
Il mistero di Dio ci trascende, ci precede e ci eccede.
Sta di
fatto, però, che la relazione generativa umana diverrà l’analogia illuminante
per scoprire il mistero di Dio: fondamentale al riguardo è la visione trinitaria
cristiana che introduce in Dio un Padre, un Figlio e lo Spirito d’amore.
Dio-Trinità è comunione di amore e la famiglia ne è il riflesso vivente. E come
i tre umani, uomo-donna-figlio, sono “una cosa sola”, così Padre-Figlio-Spirito
sono un unico Dio. Le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio
1979, durante il suo viaggio apostolico in Messico, sono illuminanti: «Il
nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia,
dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della
famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo.
Così, il tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». L’analogia
trinitaria, come è noto, ha poi una declinazione cristologico-ecclesiale da
parte di san Paolo riguardo al “mistero” dell’unione nuziale (Ef 5,21-33).
Infine, dobbiamo ricordare che sulle
pareti di pietre vive della casa familiare sono incise due epigrafi che
delineano l’impegno vitale morale dei suoi abitanti. Sono i due comandamenti
capitali della famiglia. Da un lato, ecco il precetto nuziale della fedeltà:
«Non commetterai adulterio» (Es 20,14),
ricondotto da Cristo alla pienezza del progetto divino originario dell’amore
totale e indissolubile (Mt 5,27-28; 19,3-9).
D’altro lato, ecco il comandamento sociale: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove la figura
paterno-materna incarna tutta la complessa rete delle relazioni sociali,
essendo appunto la famiglia la cellula germinale del tessuto comunitario. E
naturalmente queste due ideali epigrafi ricevono il loro commento in tante
pagine bibliche e in tanti insegnamenti del magistero ecclesiale sulla
famiglia, a partire dalle celebri “tavole domestiche” paoline (Ef 5,21-6,9;
Col 3,18-4,1).
Le
tre stanze della “casa”-famiglia
Una casa è costituita
da spazi diversi in cui si consuma l’esistenza dei suoi abitanti. Noi ora
evochiamo tre locali simbolici e lo facciamo in modo molto essenziale,
consapevoli in realtà che in essi si nascondono opere e giorni ora monotoni ora
esaltanti. La prima è la stanza del
dolore. Aveva ragione Tolstoj quando, nel suo celebre romanzo Anna Karenina, affermava che «le
famiglie felici si somigliano tutte; le famiglie infelici sono infelici
ciascuna a modo suo». La Bibbia
stessa ne è testimone costante, a partire dalla brutale violenza fratricida di
Caino su Abele e dalle liti tra i figli e le spose degli stessi patriarchi
Abramo, Isacco, Giacobbe, per passare poi alla tragedia che insanguina la
famiglia di Davide col figlio Assalonne aspirante parricida, fino a giungere
alle molteplici difficoltà che costellano quel mirabile racconto familiare che
è il libro di Tobia o a quell’amara confessione di Giobbe abbandonato e
isolato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari
mi sono diventati estranei… Il mio alito fa schifo a mia moglie, faccio
ribrezzo ai figli del mio grembo» (19, 13.17). Lo stesso Gesù nasce all’interno
di una famiglia di profughi, entra nella casa di Pietro ove la suocera è
malata, si lascia coinvolgere dal dramma della morte nella casa di Giairo o in
quella di Lazzaro, ascolta il grido disperato della vedova di Nain o del padre
dell’epilettico di un villaggio ai piedi del monte della Trasfigurazione.
Nelle loro case incontra pubblicani come
Matteo-Levi e Zaccheo, o peccatrici come la donna che s’introduce nella casa di
Simone il lebbroso; conosce le ansie e le tensioni delle famiglie travasandole
nelle sue parabole: dai figli che lasciano le case per tentare l’avventura (Lc 15,11-32) fino ai figli difficili dai
comportamenti inspiegabili (Mt 21,28-31)
o a quelli vittima di violenza (Mc 12,1-9).
E si interessa anche di nozze che corrono il rischio di diventare imbarazzanti
per assenza di vino o di ospiti (Gv 2,1-10;
Mt 22,1-10), così come conosce
l’incubo per lo smarrimento di una moneta in una famiglia povera (Lc 15,8-10). Si potrebbe continuare a
lungo nel descrivere la vastità della stanza del dolore, naturalmente giungendo
fino ai nostri giorni quando le pareti domestiche registrano spesso la
decostruzione dell’intero edificio familiare in una sorta di terremoto. La
lista delle antiche lacerazioni dei divorzi, ribellioni, infedeltà, aborti e
così via si allarga a nuovi fenomeni socio-culturali come l’individualismo, la
privatizzazione, i sorprendenti e non di rado sconcertanti percorsi bioetici
della fecondazione in vitro, dell’utero in affitto, della coppia omosessuale e
delle relative adozioni, delle teorie sul “gender”, della clonazione, della
monogenitorialità, della pornografia e via dicendo.
Una lista di realtà che scuote
l’impianto tradizionale della famiglia e che rende la casa un qualcosa di
“liquido”, plasmabile in forme molli e mutevoli che impongono continue
riflessioni di natura culturale, sociale ed etica. Noi ci fermiamo qui,
affidando ad altri questa visita ardua allo spazio delle difficoltà e degli
interrogativi, uno spazio dai confini incerti che lo rendono contenitore di “mondovisioni”
diverse, di veri e propri “multiversi” incontenibili. Accanto, però, troviamo
subito un altro locale ove ferve l’opera umana, ma che, purtroppo, non di rado
ai nostri giorni si fa deserto e sembra aprire le sue porte quasi
automaticamente alla camera della sofferenza appena descritta. Parliamo,
infatti, della stanza del lavoro. Nel
progetto divino della creazione da cui siamo partiti l’uomo era invitato a
“prendere possesso” (kabash) e a
“governare” (radah) il creato,
simbolicamente rappresentato come un giardino ricco, fertile e popoloso:
«Riempite la terra, prendetene possesso e governate i pesci del mare, gli
uccelli del cielo e ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28).
Anzi, si ribadiva – usando in ebraico i
verbi stessi del culto e dell’alleanza con Dio, ‘abad e shamar, “servire”
e “osservare” – che «il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di
Eden, perché lo coltivasse (‘abad) e
lo custodisse (shamar)» (2,15). Dopo
tutto, la stessa rappresentazione del Creatore è quella di un lavoratore che
opera (bara’, “creare”, è il verbo
dell’artigiano) per una settimana lavorativa di sei giorni (1,1), o anche di un
pastore (Sal 23) o di un contadino (Sal 65,10-14), o di un tessitore o di un
vasaio che modella il suo capolavoro tessile o fittile (Gen 2,7; Ger 18,6; Sal 139, 13-16; Gb 10,8-11). Egli nella sua opera di creazione non è certo simile a
un guerriero distruttore come si aveva, invece, nelle antiche cosmologie del
Vicino Oriente. È in questa luce che il Salmista dipinge un delizioso interno
familiare che ha al centro una festosa tavolata ove è assiso il padre che può
nutrire se stesso, la sua sposa, comparata a una vite feconda, e i figli,
vigorosi virgulti d’olivo, attraverso «la fatica delle sue mani» (Sal 128, 2-3). È una felicità che nasce
dall’impegno pesante del lavoro (labor
in latino è anche “travaglio”, come nel francese travail, e deriva dalla radice indoeuropea labh- che designa un “afferrare” per trasformare).
È una serenità che dilaga anche nella
società e nelle generazioni future: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme…
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (128, 5-6). Il lavoro, infatti, è un
dono divino, come suggerisce il Salmo precedente, il 127, quello del padre e
dei figli a cui abbiamo già accennato: «Se il Signore non vigila sulla città…,
invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un
pane di fatica» (127,2). Ne è consapevole anche la materfamilias il cui ritratto suggella il libro dei Proverbi, donna
sapiente e fedele a Dio il cui lavoro è celebrato in tutti i particolari
quotidiani, così da attirarsi la lode del marito e dei figli (31,10-31). Lo
stesso apostolo Paolo sarà orgoglioso dell’aver vissuto senza esser di peso a
nessuno con l’opera delle sue mani, tanto da imporre la regola ferrea: «Chi non
lavora neppure mangi» (2Ts 3,7-12:
cf. At 18,3).
Detto questo, si comprende che la
disoccupazione e la precarietà si trasformano in sofferenza, come si registra
nel delicato ed emozionante libretto di Rut e come ricorda Gesù nella parabola
dei lavoratori a giornata, seduti in ozio forzato nella piazza del villaggio (Mt 20,1-16), o come egli sperimenta nel
fatto stesso di essere circondato spesso da miserabili e da affamati, così come
era accaduto al profeta Elia che si era trovato davanti una vedova col figlio
sfiniti dalla fame (1Re 17,7-18). È
ciò che la società contemporanea sta vivendo in modo talora tragico e questa
assenza di lavoro si trasforma in un vero e proprio attentato alla solidità
della “casa”-famiglia. Non bisogna
neppure dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società,
quando l’uomo si comporta da tiranno nei confronti della natura, devastandola,
sfruttandola egoisticamente e brutalmente, secondo norme dispotiche, così da
rendere il lavoro una cupa alienazione, segnata dal sudore personale, dalla
desertificazione del suolo (Gen 3,17-19)
e dagli squilibri economico-sociali contro i quali si leverà forte e chiara la
denuncia costante dei profeti, a cominciare da Elia (1Re 21) e Amos per giungere fino allo stesso Gesù (ad es. Lc 12,13-21; 16,1-31). L’arricchimento
sfrenato, fonte di ingiustizie, è alla fine un’idolatria, come scriveva il
teologo Paul Beauchamp, nella sua opera La
legge di Dio: «O l’uomo adora Dio perché è Dio che lo ha fatto, o l’uomo
adora l’idolo perché è lui stesso ad averlo fatto. Io adoro colui che mi ha
fatto o adoro colui che ho fatto… L’idolatria colpisce il lavoro, come certe
malattie colpiscono più alcuni organi che altri».
La
stanza della festa
C’è, però, una terza
e ultima camera della nostra “casa” simbolica: è la stanza della festa e della gioia familiare. Essa, come suggeriva il
filosofo Soeren Kierkegaard, deve avere la porta che «si apre verso l’esterno così
che può essere richiusa solo andando fuori da se stessi». E comunicare con
l’esterno può essere complesso e faticoso perché si presentano fenomeni inediti
come la globalizzazione, la civiltà digitale con la sua rete che avvolge il
globo, il fermento della scienza che non teme di inoltrarsi lungo sentieri
d’altura come nel caso delle neuroscienze e delle biotecnologie, l’incontro con
volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture e via elencando.
Questa molteplicità d’esperienze è, però, feconda e può arricchire la festa
della famiglia, qualora essa sappia custodire nel dialogo la sua identità
cristiana in forma non aggressiva e integralistica, ma sappia anche non
stingersi e scolorirsi in un generico e vago sincretismo. Bisogna, quindi, ricordare
che l’ingresso in questa stanza solare avviene non di rado dopo una lunga
attesa e un’intensa preparazione, come affermava in modo suggestivo nel suo Diario lo scrittore francese Jules
Renard: «Se si vuol costruire la casa della felicità, ci si deve ricordare che
la stanza più grande dev’essere la sala d’attesa».
Questo
spazio gioioso è collegato e adiacente al locale del lavoro. A questo proposito
è significativo ancora una volta il racconto d’apertura della creazione secondo
la Genesi. In
quella pagina emerge un elemento simbolico dialettico che raccorda appunto
lavoro e festa. L’uomo è considerato il vertice della creazione: non è solo una
realtà “bella/buona” (tôb) come le
altre creature, ma è “molto bella/buona” (Gen
1,31). Eppure egli è creato il sesto giorno e il sei, nella simbologia numerica
biblica, è indizio di imperfezione, essendo il sette il segno della pienezza.
L’uomo è, quindi, prigioniero del limite temporale, spaziale, fisico e
metafisico. Tuttavia, può evadere dal carcere della sua natura creaturale e
della stessa ferialità: lo fa quando celebra il sabato, il settimo giorno, la
festa, la liturgia, la preghiera. Quel giorno, infatti, è il tempo di Dio,
l’orizzonte trascendente in cui egli “riposa” nella pienezza della sua gloria.
Per questo, il sabato è tratteggiato dalla Genesi come un tempio che viene
“benedetto” e “consacrato”: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (2,3),
rendendolo la sede della vita piena e perfetta, il tempio nel tempo, scandito
dall’eternità.
L’uomo e la donna, quando celebrano la
liturgia festiva, entrano nel tempio/tempo eterno divino. Come scriveva il
pensatore mistico ebreo Abraham J. Heschel nel suo noto testo sul Sabato (1951), «per sei giorni viviamo
sotto la tirannia delle cose dello spazio; il sabato ci mette in sintonia con
la santità del tempo. In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è
eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della
creazione, dal mondo della creazione alla creazione del mondo». In questa linea
è significativo registrare nella duplice redazione del Decalogo la diversa
motivazione che giustifica la festa sabbatica. Da un lato, in Dt 5,12-15 si sottolinea l’uscita dal
regime del lavoro feriale, rievocando la liberazione dall’alienazione
dell’oppressiva schiavitù egizia; d’altro lato, in Es 20,8-11 si celebra l’ingresso nel riposo perfetto ed eterno del
settimo giorno “benedetto e consacrato” da Dio dopo i sei giorni della
creazione. La festa è, quindi, liberazione dal limite e partecipazione
all’eternità, è comunione con Dio che strappa la creatura umana dal sesto
giorno e la introduce nella festa del settimo ove essa “riposa” come Dio.
È per questo che la Lettera agli Ebrei dipinge
la vita eterna come un sabato senza fine, non più compresso dalla fuga del
tempo né occupato dagli idoli terreni o striato dal peccato umano (3,7 – 4,11).
È per questo che l’apocrifo giudaico Vita
di Adamo ed Eva afferma che «il settimo giorno è il segno della
risurrezione e del mondo futuro». È per questo che la festa primaria
dell’Israele biblico, la Pasqua,
è di sua natura familiare ed è collocata nello spazio della tenda domestica (Es 12): essa è la celebrazione
dell’uscita-esodo dal lavoro oppressivo imposto dal faraone ed è l’avvio
dell’ingresso nella terra promessa che diventa un simbolo della patria celeste,
come appare esplicitamente nella trama sia del Libro della Sapienza sia
dell’Apocalisse.
È per questo, come si è già ricordato
in apertura, che la celebrazione eucaristica delle origini cristiane aveva come
sede proprio la ecclesia domestica e
come contorno il convito familiare (1Cor 11,17-33).
Era là che i genitori diventavano i primi araldi della fede per i loro figli.
Già nell’antico Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che
brilla nel racconto della celebrazione pasquale e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella
“narrazione” dialogica che accompagna il rito pasquale. Anzi, il Salmo 78
esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i
nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando
alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le
meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha
posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere
ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno.
Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la
loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi»
(78, 3-7).
Pertanto, la festa autentica non è né
un orizzonte vuoto e inerte, come Tacito bollava il sabato degli Ebrei, né è un
mero week-end, ma è un evento positivo, è segno di una trascendenza resa
disponibile alla creatura, è dono di una comunione con Dio, è la requies aeterna che i cristiani augurano
ai loro defunti e che è già pregustata nella liturgia terrena del “giorno del
Signore”, la “domenica” (Ap 1,10).
Possiamo, dunque, affermare con Benedetto XVI che «il lavoro e la festa sono
intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte,
influenzano le relazioni tra coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul
rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr.
Gen 1-2) ci dice che la famiglia, il
lavoro e il giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere
un’esistenza pienamente umana».
Queste parole del Papa, desunte dalla Lettera per il VII Incontro Mondiale delle
Famiglie, riassumono la nostra visita ideale nella sala della festa che si
apre nella casa simbolica che abbiamo descritto. Ricorrendo al celebre motto
benedettino, possiamo dire che il labora
dell’impegno feriale si deve aprire all’ora
della liturgia festiva, conservando comunque l’unità dell’Ora et labora settimanale. La porta della “casa”-famiglia si
spalanca, quindi, anche sull’altro versante del monte ove essa è posta, un
versante illuminato dal sole dell’eternità e dell’infinito. Detto in altri
termini, la stanza della festa ha davanti a sé una terrazza che s’affaccia sul
cielo e sul futuro escatologico, quando tutte le tribù di Israele e «una
moltitudine immensa e innumerevole di ogni nazione, famiglia, popolo e lingua
staranno tutte in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolte in
vesti candide, con rami di palma nelle loro mani» (cf. Ap 7,4-9).
Sarà, quindi, la liturgia perfetta, la
festa eterna, il futuro definitivo che era prefigurato proprio dai figli che
evocavano nella storia la novità, l’alterità, la continuità temporale,
l’attesa, la progettualità. A quella “immortalità” affidata alle generazioni
che si distendono nel tempo succede ora la vera e piena immortalità, la pasqua
che non ha tramonto: «in quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo,
sarà un unico giorno, solo il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né
notte e verso sera risplenderà la luce… La città non avrà bisogno della luce
del sole né della luce della luna, la gloria di Dio la illuminerà e la sua
lampada sarà l’Agnello» (Zc 14, 6-7; Ap 21,23). Allora si chiuderà per sempre
la “stanza del dolore” perché Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non
vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima
sono passate» (Ap 21,4).
Mentre contempliamo la “casa”-famiglia
che dovremmo erigere nella nostra storia sulla scia del desiderio che Dio ha espresso
nelle Scritture, risuona un’ultima parola: è quella della speranza, virtù molto
realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy che ad essa ha
dedicato un poemetto, Il portico del
mistero della seconda virtù (1911): «È sperare la cosa difficile / a voce
bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande
tentazione». Certo, è arduo edificare e tener salda questa casa, come ripeteva
il grande Montaigne nei suoi Saggi,
perché «governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno».
Eppure, l’amore fiducioso e generoso può compiere miracoli. Persino un
pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a
riconoscere – sia pure al negativo – che «la vita di famiglia perde ogni
libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu mi
dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più
grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Gv 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il
prossimo come se stessi».
Immaginiamo, allora, di intuire in
finale, in una stanza della nostra casa simbolica, quel delizioso quadretto che
il Salmista ha abbozzato soltanto con 11 vocaboli in un testo composto di sole
30 parole ebraiche. È il Sal 131 che
introduce nella famiglia e nella fede quella virtù che ai nostri giorni è
brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), il
legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui
è la dolce e tenera intimità che intercorre tra una madre e il suo bambino. Non
si tratta, però, di un neonato che, dopo essere stato allattato, dorme placido
tra le braccia della sua mamma, bensì – come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – è di scena un bimbo “svezzato”
che s’attacca consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una
relazione di intimità cosciente e non meramente biologica.
Canta, dunque, il Salmista: «Io ho
l’anima mia distesa e tranquilla; come un
bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima
mia» (131,2). In dissolvenza potremmo far scorrere un’altra scenetta parallela,
quella di un padre profeta, Osea, il quale metteva in bocca a Dio padre questo
soliloquio familiare che immaginiamo di intravedere anch’esso da una delle
finestre della nostra “casa” simbolica: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho
amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di
tenerezza, con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-4). Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore,
grazia e impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo per l’ultima
volta la casa che la Parola
di Dio affida alle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché compongano
«una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del
Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il
riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere
la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura
della Parola di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2205).
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