sabato 5 maggio 2012

Ogni tralcio che porta frutto, lo pota.


Domani 6 maggio celebriamo la:


 
   

V DOMENICA DI PASQUAAnno B




MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 97,1-2
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi;
a tutti i popoli ha rivelato la salvezza. Alleluia.

 
Colletta

O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo, guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione, perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l'eredità eterna. Per il nostro Signore...


Oppure:
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per il nostro Signore...
LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  At 9, 26-31
Bàrnaba raccontò agli apostoli come durante il viaggio Paolo aveva visto il Signore.
 
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

Salmo Responsoriale  
Dal Salmo 21
A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.

Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».
 
Seconda Lettura  
1 Gv 3, 18-24

Questo è il suo comandamento: che crediamo e ci amiamo.

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Canto al Vangelo 
  Cf Gv 15,4a.5b
Alleluia, alleluia.

Rimanete in me e io in voi, dice il Signore;
chi rimane in me porta molto frutto.
Alleluia.
   
 
   
Vangelo  Gv 15, 1-8
Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Parola del Signore.



COMMENTI

1. Congregazione per il Clero


Le Letture che abbiamo oggi ascoltato si compenetrano meravigliosamente e ci attirano ancor più nel “realismo” cristiano, nella nuova realtà inaugurata dalla Incarnazione, Morte e Risurrezione di Cristo.
«Io sono la vera Vite» (Gv 15,1-8). Attribuendo a Se stesso l’immagine biblica della vite, il Signore Gesù, raccoglie e fa propria l’identità di Israele – popolo scelto ed eletto da Dio in mezzo agli altri popoli – e, insieme, descrive la nuova relazione tra Lui e i discepoli: come i tralci rispetto alla vite, così i discepoli appartengono a Cristo quasi “biologicamente”, come ha recentemente commentato il Santo Padre Benedetto XVI (cfr. Santa Messa all’Olympiastadion di Berlino, 23/09/2011). Tale appartenenza esprime efficacemente la nostra “vitale” dipendenza dal Signore e la Sua commovente identificazione con noi: la vite, infatti, è un tutt’uno con ciascuno dei suoi tralci e ogni tralcio la rende presente.
Perché Cristo è la vera vite? E perché ci ha fatti diventare Suoi “tralci”? Perché il “frutto” che Dio si attendeva dall’uomo, per nostra colpa, non siamo stati in grado di offrirlo, producendo solo piccole “pietruzze” immangiabili. Il Figlio di Dio, allora, si è fatto uomo per presentare al Padre il frutto tanto atteso – il vino buono dell’amore e dell’obbedienza – ed inserire, così, tutti noi in questo amore vero.
A questa realtà, per lo più familiare alla coscienza cristiana, si vorrebbe aggiungere oggi una nuova riflessione, a partire da una seconda parola del Signore. Al “portare molto frutto” e all’ottenere “quel che chiediamo” il Signore pone una condizione: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…» (Gv 15,7). Cosa significa rimanere nel Signore? E in che senso le sue “parole” rimangono in noi?
Alla prima domanda, ha risposto San Giovanni nella seconda Lettura: «Chi osserva i Suoi comandamenti rimane in Dio ed Dio in lui. In questo conosciamo che Egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). Possiamo dimorare in Dio, rimanere in Cristo, perché Egli per primo ci ha “inseriti” nel rapporto con Lui e questo legame non dipende più da noi, bensì è dato. È dato una volta per tutte nel Battesimo ed è approfondito sempre più nell’Eucaristia: «In questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato». Forti del rapporto vitale con Cristo, allora possiamo osservare i comandamenti, non però come un prezzo che possa meritarci l’amore, ma come il “frutto” che, amati da Lui, diveniamo capaci di offrire.
In che senso, allora, le Sue parole devono “rimanere” in noi? Sicuramente è da escludersi una lettura intellettualista: non sarebbe sufficiente che le Sue parole rimanessero in noi, semplicemente, come una serie di concetti appresi mnemonicamente. Le “parole” di Cristo, infatti, non sono riducibili a concetti e nemmeno a semplici parole “scritte”, materialmente memorizzabili.
Le parole di Cristo sono molto di più: sono realtà. Sono ciò che Egli, Risorto e Vivo, ci comunica quotidianamente nella Chiesa, in quegli incontri, talvolta inaspettati, nei quali Egli stesso rende particolarmente percepibile la verità e la bellezza della Sua Presenza; sono i “fatti” attraverso i quali ci raggiunge ed indica la via da seguire. Questi “fatti”, queste “parole” assumono così il volto di quanti sono divenuti compagni di cammino e testimoni prediletti della nostra appartenenza a Cristo, dell’essere stati da Lui chiamati e profondamente amati.
Per San Paolo, sicuramente facevano parte di queste “parole” l’incontro con Cristo Risorto sulla via di Damasco; il tempo trascorso con Anania ed il dono del Battesimo; l’amicizia con Barnaba, che – come abbiamo ascoltato – arriva a garantire personalmente per lui, affrontando la diffidenza di tutta la comunità cristiana; ancora, infine, l’amore della comunità stessa, che, di fronte agli attentati da parte dei giudei di lingua greca, si fa carico della sua vita e lo pone in salvo, facendolo partire per Tarso.
In ognuna di queste “parole”, Cristo ripete la parola del Suo Amore per noi e ci rende forti di questo Amore. Domandiamo a Maria Santissima, che ricordava “tutte queste cose”, meditandole nel suo Cuore, il dono di fare “memoria”, perché ogni parola del Signore possa modellarci come Egli vuole e, alla fine dei tempi, presentarci al Padre: «santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4). Amen!


* * *

2. Luciano Manicardi (Bose)

La V, VI e VII domenica di Pasqua presentano un brano evangelico tratto dal cosiddetto “discorso di addio” di Gesù nel quarto vangelo (Gv 13-17). In questa domenica le letture mostrano aspetti diversi della vita spirituale ed ecclesiale sgorgata dall’evento pasquale. Il vangelo pone l’accento sulla comunione che il credente vive con il Signore e sul come custodire e conservare tale comunione; la seconda lettura va anch’essa a fondo della dimensione interiore della relazione con il Signore: interiorità evocata dal termine “cuore” e dall’esperienza dell’inabitazione di Dio nel credente contemporanea al suo rimanere in Dio. Il testo della Prima lettera di Giovanni propone l’obbedienza ai comandamenti del Signore, soprattutto al comandamento nuovo dell’amore vicendevole, come elemento fondante e strutturante della comunità cristiana. Vivere l’amore reciproco significa mostrare visibilmente la fede nel Risorto. Infine, il brano degli Atti degli apostoli (I lettura) mostra le energie del Risorto operanti in Paolo che da persecutore diviene annunciatore zelante e franco del vangelo.
L’autorivelazione di Gesù “Io sono la vera vite” lo situa in relazione sia con il Padre (il vignaiolo) sia con i discepoli (i tralci). Come è essenziale al tralcio rimanere nella vite per fruttificare, così è essenziale al discepolorimanere in Cristo per dare frutto. Che significa rimanere in Cristo? Per Giovanni “rimanere” (verbo ménein) non è il passivo adeguarsi a uno status in cui ci si trova, ma indica un evento dinamico in quanto designa la maturità del rapporto di fede e di amore del credente con il suo Signore. La sequela deve interiorizzarsi e divenire unrimanere nell’amore di Cristo. L’amore non è esperienza di un momento ma diviene relazione, storia, quando in esso si rimane. Custodire l’esperienza di amore conosciuta su di sé è essenziale per sviluppare la propria capacità di amare in modo adulto e maturo.

Questo rimanere nell’amore diviene fondamento del rimanere e perseverare nella fede. Di più: il rimanere in (in Cristo, nel suo amore, nella sua parola) è basilare per ilrimanere con (con i fratelli nella vita comune, nella chiesa). L’esperienza di fede come rimanere è esperienza di interiorità e profondità spirituale ed è esperienza di perseveranza e di comunione. Ma la comunione ecclesiale ha un saldo e imprescindibile fondamento nella comunione personale e interiore con il Signore. Senza quest’ultima, la vita ecclesiale si riduce a scena, a ipocrisia. Senza uno spazio di vita interiore e di comunione personale con il Signore l’“io” non riuscirà a dire “noi” in modo libero, convinto e pieno d’amore, e rischierà di piegare il “noi” all’“io”, di vivere le relazioni con gli altri all’interno di un rapporto di forza.
“Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Analogamente Gesù dichiara: “il Figlio non può far nulla da se stesso, se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19) e: “io non posso fare nulla da me stesso” (Gv 5,30). Gesù è interamente definito dalla sua relazione con il Padre: egli rivela il Padre perché è spossessato di sé, perché non fa nulla da se stesso. Ora, ciò che i discepoli, e dunque i credenti, hanno in comune con Gesù è questo “nulla”, questo nulla di proprio in cui sta la loro libertà e la loro forza. Per portare frutto il tralcio deve essere potato, e il credente, per portare frutto abbondante, deve conoscere una spogliazione, una purificazione, una morte a se stesso, ma per amore, in nome dell’amore. Infatti, solo una fede che si configuri come relazione di amore diviene vivibile con perseveranza!
Il “portare molto frutto” è spiegato da Gesù con la frase “diventare miei discepoli” (Gv 15,8). A noi che troppo spesso pensiamo di essere già discepoli, di essere già cristiani, il vangelo ricorda che la vita cristiana è un cammino in cui, strada facendo, si impara a divenire discepoli, a divenire cristiani. Ignazio di Antiochia, al termine di una lunga vita di santità, mentre era condotto al martirio disse: “Ora incomincio a essere discepolo” (Ai Romani V,3).


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3. Raniero Cantalamessa


“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”.
Nel suo insegnamento, Gesù prende spesso lo spunto da cose famigliari agli ascoltatori e che erano sotto gli occhi di tutti. Questa volta ci parla con l’immagine del tralcio e della vite.
Gesù prospetta due casi. Il primo negativo: il tralcio è secco, non porta frutto, viene perciò tagliato e buttato via; il secondo positivo: il tralcio è ancora vivo e vegeto; viene perciò potato. Già questo contrasto ci dice che la potatura non è un atto ostile verso il tralcio. Il vignaiolo si attende ancora molto da esso, sa che può portare frutti, ha fiducia in esso. Lo stesso avviene sul piano spirituale. Quando Dio interviene nella nostra vita con la croce, non vuole dire che egli è adirato con noi. Proprio il contrario.
Ma perché il vignaiolo pota il tralcio e fa “piangere”, come si usa dire, la vite? Per un motivo molto semplice: se non viene potata, la forza della vite si disperde, metterà forse più grappoli del dovuto, con la conseguenza di non riuscire a portarli tutti a maturazione e di abbassare la gradazione del vino. Se resta a lungo senza essere potata, la vite addirittura si inselvatichisce e produce solo pampini e uva selvatica.
Lo stesso succede nella nostra vita. Vivere è scegliere e scegliere è rinunciare. La persona che nella vita vuole fare troppe cose, o coltiva un’infinità di interessi e di hobby, si disperde; non eccellerà in nulla. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, lasciar cadere alcuni interessi secondari per concentrarsi su alcuni primari. Potare!
Questo è ancora più vero nella vita spirituale. La santità somiglia alla scultura. Leonardo da Vinci ha definito la scultura “l’arte di levare”. Tutte le altre arti consistono nel mettere qualcosa: colore sulla tela nella pittura, pietra su pietra nell’architettura, nota su nota nella musica. Solo la scultura consiste nel levare: levare i pezzi di marmo che sono di troppo per far emergere la figura che si ha in mente. Anche la perfezione cristiana si ottiene così, levando, facendo cadere i pezzi inutili, cioè i desideri, ambizioni, progetti e tendenze carnali che ci disperdono da tutte le parti e non ci permettono di concludere nulla.
Un giorno Michelangelo, passeggiando in un giardino di Firenze, vide, in un angolo, un blocco di marmo che sporgeva da sottoterra, mezzo ricoperto di erba e di fango. Si fermò di scatto, come se avesse visto qualcuno, e rivolto agli amici che erano con lui esclamò: “In quel blocco di marmo c’è racchiuso un angelo; debbo tirarlo fuori”. E, armatosi di scalpello, cominciò a sbozzare quel blocco finché non emerse la figura di un bell’angelo.
Anche Dio ci guarda e ci vede così: come dei blocchi di pietra ancora informi e dice tra sé: “Lì dentro c’è nascosta una creatura nuova e bella che aspetta di venire alla luce; di più, c’è nascosta l’immagine del mio stesso Figlio Gesù Cristo (noi siamo destinati a diventare “conformi all’immagine del Figlio suo”); voglio tirarla fuori!”. E allora che fa? Prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili. Ordinariamente egli non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica, tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione. Ci aiuta a non sciuparle.
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4. Enzo Bianchi (Bose)

Nelle ultime domeniche del tempo pasquale la chiesa legge alcune parole di Gesù riprese e meditate nei cosiddetti “discorsi di addio” del quarto vangelo. È infatti attraverso questi discorsi che ci parla il Cristo della Pasqua, il Signore glorificato attraverso la croce e la resurrezione.
 Oggi è il caso di una parabola mediante la quale Gesù rivela se stesso, mostrando la propria identità e, insieme, la propria relazione con Dio Padre e con i discepoli: “Io sono la vera vite e mio Padre è il vignaiolo … Io sono la vite, voi i tralci”. Nell’Antico Testamento più volte il popolo dei credenti era stato definito attraverso la metafora della vite (cf. Sal 80; Is 5,1-7; 27,2-5…), in quanto popolo scelto e piantato da Dio nella terra promessa; di conseguenza, Dio poteva essere inteso come il padrone della vigna, legato ad essa da un rapporto di amore, cura e dedizione. Egli desiderava che questa vigna fosse feconda, che desse frutto abbondante in vista del vino, simbolo dell’amore (cf. Ct 2,4)…
 Ma ora, dopo la vicenda terrena di Gesù e la sua resurrezione, la vigna è una persona, è Gesù, il Figlio stesso di Dio; egli è vera vite, nel quale tutto il popolo di Dio è corporalmente vivente. Da ciò discende anche l’identità dei discepoli, coloro che sono alla sequela di Gesù Cristo, totalmente coinvolti nella sua vita e nel suo destino. Essi sono tralci e, in quanto tali, devono rimanere attaccati alla vite per riceverne la linfa: questa non è solo la condizione necessaria per portare frutto, ma è questione di vita o di morte… Sì, il discepolo di Gesù non è colui che si limita a conoscere il suo insegnamento, ma è colui che rimane saldamente legato a lui in un rapporto di amore, in un radicale coinvolgimento di vita. Gesù non è semplicemente un maestro spirituale da ascoltare, come tanti esistiti in diverse vie religiose: per essere suoi discepoli, per essere cristiani, occorre vivere insieme a lui.
  
 Gesù stesso definisce questa relazione attraverso il verbo “rimanere, dimorare”: il discepolo autentico di Gesù è chiamato a vivere con perseveranza in lui, fino a fissare in lui la propria abitazione, a dimorare nella sua parola (cf. Gv 14,23-24), ad abitare il suo amore (cf. Gv 15,9-10); fino ad affermare: “Io e Gesù viviamo insieme!” (cf. Gal 2,20)… Al contrario, senza questa circolazione di vita che dal Padre scende in Gesù e da Gesù in noi, la vita cristiana può anche declinarsi come pratica religiosa, ma in verità è pura “scena mondana” (cf. 1Cor 7,31). Ogni cristiano è dunque avvertito: senza questo legame personale con Gesù Cristo, egli non solo “non può fare nulla”, ma neppure ha in alcun modo a che fare con Gesù il Signore! Ed è proprio questa la via più quotidiana per divenire ipocriti: dirsi cristiani senza esserlo…
 Sentirsi tralcio di una vite è esperienza di chi sa di essere sotto le cure del vignaiolo, il Padre, il quale, se anche ci pota, lo fa solo perché portiamo un frutto più abbondante; è esperienza di chi impara a portare frutto a nome del ceppo, della vite, attraverso una linfa di cui partecipa ma che non gli appartiene; è esperienza di essere tralcio insieme ad altri tralci, i fratelli e le sorelle, e, di conseguenza, di essere vera chiesa di Dio solo se radicati in Cristo. Davvero diventare discepoli, e diventarloinsieme, non è questione di un’ora, di una stagione della vita, ma è un percorso lungo e faticoso, in cui siamo chiamati a perseverare, a rimanere in comunione con Cristo. E così, giorno dopo giorno, il legame di amore con il Signore ci consentirà anche di accedere all’amicizia con lui (cf. Gv 15,13-15)…
 In un’ora in cui nella nostra chiesa sembrano prevalere i “cristiani militanti”, coloro che presumono di combattere per Gesù Cristo senza essere suoi discepoli, è bene ricordare che un grande padre della chiesa come Ignazio di Antiochia solo al termine di una lunga vita, mentre si avviava al martirio, ha osato scrivere: “Ora comincio a essere discepolo di Cristo!”.



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COMMENTI DALLA TRADIZIONE PATRISTICA

1.Dai «Discorsi» di san Massimo di Torino, vescovo
(Disc. 53, 1-2. 4; CCL 23, 214-216)
La risurrezione di Cristo apre l'inferno. I neofiti della Chiesa rinnovano la terra. Lo Spirito Santo dischiude i cieli. L'inferno, ormai spalancato, restituisce i morti. La terra rinnovata rifiorisce dei suoi risorti. Il cielo dischiuso accoglie quanti vi salgono.

Anche il ladrone entra in paradiso, mentre i corpi dei santi fanno il loro ingresso nella santa città. I morti ritornano tra i vivi; tutti gli elementi, in virtù della risurrezione di Cristo, si elevano a maggiore dignità.
L'inferno restituisce al paradiso quanti teneva prigionieri. La terra invia al cielo quanti nascondeva nelle sue viscere. Il cielo presenta al Signore tutti quelli che ospita. In virtù dell'unica ed identica passione del Signore l'anima risale dagli abissi, viene liberata dalla terra e collocata nei cieli.
La risurrezione di Cristo infatti è vita per i defunti, perdono per i peccatori, gloria per i santi. Davide invita, perciò, ogni creatura e rallegrarsi per la risurrezione di Cristo, esortando tutti a gioire grandemente nel giorno del Signore.
La luce di Cristo è giorno senza notte, giorno che non conosce tramonto. Che poi questo giorno sai Cristo, lo dice l'Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13, 12). Dice: «avanzata»; non dice che debba ancora venire, per farti comprendere che quando Cristo ti illumina con la sua luce, devi allontanare da te le tenebre del diavolo, troncare l'oscura catena del peccato, dissipare con questa luce le caligini di un tempo e soffocare in te gli stimoli delittuosi.
Questo giorno è lo stesso Figlio, su cui il Padre, che è giorno senza principio, fa splendere il sole della sua divinità.
Dirò anzi che egli stesso è quel giorno che ha parlato per mezzo di Salomone: «Io ho fatto sì che spuntasse in cielo una luce che non viene meno» (Sir 24, 6 volg.). Come dunque al giorno del cielo non segue la notte, così le tenebre del peccato non possono far seguito alla giustizia di Cristo. Il giorno del cielo infatti risplende in eterno, la sua luce abbagliante non può venire sopraffatta da alcuna oscurità. Altrettanto deve dirsi della luce di Cristo che sempre risplende nel suo radioso fulgore senza poter essere ostacolata da caligine alcuna. Ben a ragione l'evangelista Giovanni dice: La luce brilla nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta (cfr. Gv 1, 5).

Pertanto, fratelli, tutti dobbiamo rallegrarci in questo santo giorno. Nessuno deve sottrarsi alla letizia comune a motivo dei peccati che ancora gravano sulla sua coscienza. Nessuno sia trattenuto dal partecipare alle preghiere comuni a causa dei gravi peccati che ancora lo opprimono. Sebbene peccatore, in questo giorno nessuno deve disperare del perdono. Abbiamo infatti una prova non piccola: se il ladro ha ottenuto il paradiso, perché non dovrebbe ottenere perdono il cristiano?



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2. Certosa di Serra San Bruno
Letture della preghiera notturna dei certosini

Tempo di Pasqua
QUINTA DOMENICA

9
Dal vangelo secondo Giovanni:
16,5-15

Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù disse ai
suoi discepoli: "E' bene per voi che io me ne vada, perché
se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; ma quando
me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto,
egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia
e al giudizio".

Dai "Discorsi" di Giovanni Taulero.

Esaminiamo con cura perché lo Spirito Santo non può essere
dato agli amici di Dio se Cristo non si sia prima
allontanato da loro. Che altro è questo suo allontanarsi da
noi se non abbandono, restare privi di ogni consolazione,
senza più gusto per il bene tanto da essere indolenti
freddi tetri e pesanti? Allora Gesù se ne è andato: ma se
gli uomini riconoscessero che sono allora provati, perché
ne traggano profitto, sarebbe una gran bella cosa, fonte di
autentica gioia. Scoprirebbero che la molteplicità è
divenuta semplicità, il dolore gioia, il turbamento pace,
l'amarezza soavità. Nostro Signore aggiunge: Quando verrà
lo Spirito convincerò il mondo. Gv 16,8. Di che cosa e
come? Ecco: ci farà conoscere chiaramente se il mondo si
dissimula, celandosi nel nostro fondo. Questo fatto lo
spirito lo giudicherà e lo punirà. Che è il mondo in noi?
Sono i modi dì agire e di vedere mondani: vuol dire cedere
alle emozioni: piacere sofferenza amore paura tristezza.
gioia desiderio inquietudine ansia.

10

I peccatori dicono: Chi è mai così obbediente a Dio e
sottomesso a tutti i suoi voleri e precetti? Quando hai tu
rischiato per Dio corpo e beni, gioia e dolore, quando hai
messo fuori te stesso e ogni cosa dal tuo fondo intimo, dove
Dio dovrebbe essere Signore incontrastato? Ebbene: questi
peccati che denunzia lo Spirito Santo, sono le tue
resistenze, frequenti e molteplici, alla sua volontà e alle
sue ispirazioni, per cui pecchi con gravità e frequenza.
Ecco ciò che biasima e condanna lo Spirito Santo quando
viene in noi, oltre a numerosi altri difetti occulti.

Queste colpe causano un rapido giudizio, una pena infernale,
un insopportabile tormento, di cui ben poco sa la gente che
vive a livello istintivo. Ma percepire questo giudizio è
segno sicuro che lo Spirito è presente nel cuore. Proprio
così: mille peccati che lucidamente riconosci e di cui ti
confessi colpevole, ti sono meno disastrosi di una sola
mancanza, che rifiuti di ammettere e di cui non vuoi essere
ammonito.

11

Lo Spirito Santo giudicherà e condannerà la nostra
giustizia. Fratelli, quanto essa è miserabile agli occhi di
Dio. Sant'Agostino ha detto: Guai, guai ad ogni giustizia
umana se Dio non la giudicherà secondo la sua misericordia.
Il Signore afferma in Isaia: "Come veste immonda sono tutte
le vostre azioni di giustizia". cf Is 64,5 E ha anche
proclamato: "Quando avrete fatto tutto quello che vi è
stato ordinato, dite: siamo servi inutili". Lc 17,10. Anche
san Paolo sentenzia: "Se uno pensa di essere qualcosa mentre
non è nulla, inganna sé stesso". Gal 6,3. Ci sono tanti
che si compiacciono di quel che fanno al punto da non voler
sottostare né a Dio né agli uomini, e si guardano
dall'abbandonarsi al Signore con la stessa premura che
metterebbero a custodire la pupilla dei loro occhi. Viene
Cristo ad avvertirli in modo mediato o diretto: essi
oppongono il proprio criterio e non se ne curano affatto.
Sono persone davvero poco ricettive verso Dio. Se lo Spirito
Santo fosse lì, condannerebbe la loro condotta, perché
dove c'è lo Spirito, l'uomo riconosce lucido le sue colpe e
impara ad essere docile, umile e via dicendo.

Consideriamo ora il giudizio. Qual è il nostro giudizio?
Ognuno presume di giudicare gli altri, mentre chiude gli
occhi sui propri difetti e sulle sue colpe ben consistenti.
Eppure Cristo ha detto: "Con la misura con cui misurate
sarà misurato a voi in cambio". Lc 6,38. E anche: "Non
giudicate per non essere giudicati". Mt 7,1; Lc 6,37.

12

Carissimi, quando lo Spirito Santo verrà, vi insegnerà
ogni cosa. Ciò non significa che ci informerà di come
questa o quella guerra procederà o se il grano crescerà
bene. No, no, non così. Quel ogni cosa va inteso come tutto
quello che ci è necessario per una vita divina e per
l'intima conoscenza della verità e della malizia della
natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via,
ciò che certe persone non fanno. Quando Dio le vuole
dentro, esse escono; e quando le vuole fuori, entrano; ed è
tutto un andare a rovescio.
Queste sono tutte le cose necessarie dentro e fuori. Si
tratta della conoscenza profonda intima limpida e pura dei
nostri limiti; è l'annientamento dell'io e biasimo severo
perché restiamo lontani dalla verità, attaccati purtroppo
a piccolezze. Lo Spirito invece ci insegna ad inabissarci in
una profonda umiltà e a raggiungere una totale
sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è la
scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze necessarie
per la vera santità. Eccola l'umiltà autentica, senza
preamboli, non a parole e in apparenza, ma reale e profonda.
Possiamo noi disporci talmente che ci venga dato in verità
lo Spirito Santo. In ciò Dio ci aiuti.

* * *

2. Dal "Commento al Vangelo di Giovanni" di sant'Agostino, vescovo

OMELIA 81


Senza di me non potete far nulla


Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.

1. Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.
[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]
2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.
3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.
4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.

OMELIA 82


Rimanete nel mio amore.


Tutto nasce dalla fede operante per mezzo dell'amore. Ma come potremmo amare se prima non fossimo stati amati da Dio?

[Siamo opera di Dio, creati in Cristo Gesù.]
1. Richiamando con insistenza l'attenzione dei discepoli sulla grazia che ci fa salvi, il Salvatore dice: Ciò che glorifica il Padre mio è che portiate molto frutto; e così vi dimostrerete miei discepoli (Gv 15, 8). Che si dica glorificato o clarificato, ambedue i termini derivano dal greco . Il greco , in latino significa "gloria". Ritengo opportuna questa osservazione, perché l'Apostolo dice: Se Abramo fu giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non presso Dio (Rm, 4, 2). E' gloria presso Dio quella in cui viene glorificato, non l'uomo, ma Dio; poiché l'uomo è giustificato non per le sue opere ma per la fede; poiché è Dio che gli concede di operare bene. Infatti il tralcio, come ho già detto precedentemente, non può portar frutto da se stesso. Se dunque ciò che glorifica Dio Padre è che portiamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo, di tutto questo non possiamo gloriarcene, come se provenisse da noi. E' grazia sua; perciò sua, non nostra, è la gloria. Ecco perché, in altra circostanza, dopo aver detto ai discepoli: Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, acciocché vedano le vostre buone opere, affinché non dovessero attribuire a se stessi queste buone opere, subito aggiunge: e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt 5, 16). Ciò che glorifica, infatti, il Padre è che produciamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo. E in grazia di chi lo diventiamo, se non di colui che ci ha prevenuti con la sua misericordia? Di lui infatti siamo fattura, creati in Cristo Gesù per compiere le opere buone (cf. Ef 2, 10).
2. Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi: rimanete nel mio amore (Gv 15, 9). Ecco l'origine di tutte le nostre buone opere. Quale origine potrebbero avere, infatti, se non la fede che opera mediante l'amore (cf. Gal 5, 6)? E come potremmo noi amare, se prima non fossimo amati? Lo dice molto chiaramente, nella sua lettera, questo medesimo evangelista: Amiamo Dio, perché egli ci ha amati per primo (1 Io 3, 19). L'espressione poi: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, non vuole significare che la nostra natura è uguale alla sua, così come la sua è uguale a quella del Padre, ma vuole indicare la grazia per cui l'uomo Cristo Gesù è mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1 Tim 2, 5). E' appunto come mediatore che egli si presenta dicendo: Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. E' certo, infatti, che il Padre ama anche noi, ma ci ama in lui; perché ciò che glorifica il Padre è che noi portiamo frutto nella vite, cioè nel Figlio, e diventiamo così suoi discepoli.
3. Rimanete nel mio amore. In che modo ci rimarremo? Ascolta ciò che segue: Se osservate i miei comandamenti - dice - rimarrete nel mio amore (Gv 15, 10). E' l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza dei comandamenti? Chi non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti. Con le parole: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, il Signore non vuole indicare l'origine dell'amore, ma la prova. Come a dire: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti: potrete rimanervi solo se li osserverete. Cioè, questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti; poiché in tanto lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole:Rimanete nel mio amore, non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: anch'io ho amato voi, e subito dopo ha aggiunto: Rimanete nel mio amore. Si tratta dunque dell'amore che egli nutre per noi. E allora che vuol dire: Rimanete nel mio amore, se non: rimanete nella mia grazia? E che significa: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell'amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili mentre è rimasta nascosta ai superbi.
4. Ma cosa vogliono dire le parole che il Signore subito aggiunge: Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 15, 10)? Certamente anche qui vuole che ci rendiamo conto dell'amore che il Padre ha per lui. Aveva infatti cominciato col dire Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi; e a queste parole aveva fatto seguire le altre: Rimanete nel mio amore, cioè, senza dubbio, nell'amore che io ho per voi. Così ora, parlando del Padre, dice: Rimango nel suo amore, cioè nell'amore che egli ha per me. Diremo però che questo amore con cui il Padre ama il Figlio è grazia, come è grazia l'amore con cui il Figlio ama noi; e ciò nonostante che noi siamo figli per grazia non per natura, mentre l'Unigenito è Figlio per natura non per grazia? Ovvero dobbiamo intendere queste parole come dette in relazione all'umanità assunta dal Figlio? E' proprio così che dobbiamo intenderle. Infatti, dicendo: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, egli ha voluto mettere in risalto la sua grazia di mediatore. E Gesù Cristo è mediatore tra Dio e gli uomini non in quanto è Dio, ma in quanto uomo. E' così che di Gesù in quanto uomo si legge: Gesù cresceva in sapienza e statura e grazia, presso Dio e gli uomini (Lc 2, 52). Dunque possiamo ben dire che, siccome la natura umana non rientra nella natura divina, se appartiene alla persona dell'unigenito Figlio di Dio lo è per grazia e per una tale grazia di cui non è concepibile una maggiore e neppure uguale. Nessun merito ha preceduto l'incarnazione, e tutti hanno origine da essa. Il Figlio rimane nell'amore con cui il Padre lo ha amato, e perciò osserva i suoi comandamenti. A che cosa deve la sua grandezza umana se non al fatto che Dio l'ha assunta (cf. Sal 3, 4)? Il Verbo infatti era Dio, era l'Unigenito coeterno al Padre; ma affinché noi avessimo un mediatore, per grazia ineffabile il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi (Gv 1, 14).