domenica 8 aprile 2012

Quello che abbiamo di più caro è Cristo stesso.


Le omelie pasquali non sono come tutte le altre, come insegnano i Padri.
Di seguito propongo quelle di:
Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna;
Angelo Scola, Arcivescovo di Milano;
Enzo Bianchi, Priore di Bose, autore anche di un articolo che riporto da "La Stampa" di oggi.
Voci, accenti e toni diversi per un unico Avvenimento.
Ad aprire questo post il Volantone di Pasqua di CL.
Buona lettura!



L'imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: «Strani uomini... ditemi voi stessi o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?». Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: «Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacchè noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità»
                                                   (Vladimir Soloviev, Il dialogo dell'Anticristo)


In un momento storico in cui il Papa ha indetto l’Anno della fede e in cui stiamo facendo la Scuola di comunità con a tema la fede in Cristo, come ci ha detto don Giussani, con gli occhi degli apostoli, per percorrere la strada che hanno fatto loro – dall’impatto con la sua umanità alla domanda sulla sua divinità –, riproporre il testo del Volantone permanente del movimento (uscito nel 1988), accompagnato dall’immagine di Cristo del Masaccio – che esprime l’attrattiva, la potenza della Sua divinità ora –, ci sembra per noi e per tutti il giudizio più consono alla situazione attuale in cui stiamo vivendo.
Usiamolo perciò nei nostri ambienti. È un’occasione per dire a tutti questo giudizio sulla storia nostra e di tutti. Lo leggo per farlo presente a tutti: 
«L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: “Strani uomini… ditemi voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità». […]
Non è ovvio che cosa abbiamo di più caro. Tante volte ci sorprendiamo a scoprire che quello che abbiamo di più caro non è proprio Cristo stesso, ma altre cose che sono conseguenze, non la Sua presenza, non la Sua persona. Il Volantone quindi, è un giudizio, un richiamo, per una memoria di che cosa è il cristianesimo. 
Avendolo davanti per tutto l’anno ci auguriamo, come avevamo detto alla presentazione della Scuola di comunità, che cresca sempre di più il desiderio di Cristo […]: potremo non desiderare altro che questo, se capiamo di che cosa abbiamo bisogno; se invece il bisogno si riduce, potremo farne a meno e accontentarci di qualcosa di meno di Lui.

(Dagli Appunti della Scuola di Comunità con Julián Carrón, 29 febbraio 2012)

* * *
ROMA, domenica, 8 aprile 2012.- Riporto di seguito l’omelia del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, tenuta ieri nel corso della Veglia pasquale.
Durante la Messa il porporato ha impartito il Battesimo, la Cresima e l’Eucaristia a otto adulti che hanno compiuto il cammino di preparazione durante la Quaresima.
* * *
Grandi sono i misteri che stiamo celebrando, cari fedeli. Grande è l’evento che sta accadendo in voi, cari catecumeni eletti: l’evento del terzo giorno, accolto il quale, Dio stesso comincerà a guidarvi e a indicarvi la via della salvezza [cfr. Origene, Omelie sull’Esodo V, 2; CN ed., Roma 2005, 153].
La Chiesa nella sua sapienza educativa ci introduce in questi Santi Misteri mediante realtà visibili, «perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili» [Prefazio I di Natale].
Vorrei fermarmi su una delle realtà visibili che hanno questo compito, rapirci all’amore delle cose invisibili: la luce. Essa sta accompagnando la nostra veglia, dal buio in cui l’abbiamo iniziata.
1. La prima parola che Dio pronuncia, secondo la S. Scrittura, è: «Sia la luce!». La luce è stata la prima creatura uscita dalle mani creatrici di Dio. Questo fatto è carico di significato.
Non dobbiamo pensare solamente alla luce visibile ai nostri occhi, ma alla nostra capacità di essere illuminati dalla Sapienza divina. Mediante la luce di Dio a cui noi partecipiamo in quanto creature spirituali, ci rivolgiamo al nostro Creatore. Ma possiamo distogliere dal Signore la luce che Dio ha acceso in noi donandoci la ragione, e «ricadere in una vita simile ad un abisso di tenebre» [Agostino, Confessioni XIII, 2. 3; NBA 1, 453].
Ritroviamo questo contrasto fra luce e tenebre nella narrazione della liberazione di Israele dall’Egitto: «La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte».
La tenebra avvolge coloro che «hanno amato le tenebre più della luce» [Gv 3. 19], e la luce accompagna coloro che hanno deciso di camminare in essa, per essere liberati da ogni forma di schiavitù.
In che modo la luce di Dio partecipata all’uomo diventa via verso la libertà? Ce lo ha detto il profeta Baruc. «Egli [Dio] ha scrutato tutta la via della sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo […]. Essa è il libro dei decreti di Dio, è la legge che sussiste nei secoli […]… Accoglila; cammina allo splendore della sua luce».
Dio non ha solo acceso in noi la luce della nostra ragione, quando ci ha creati «a sua immagine e somiglianza». Ma ben sapendo che «i ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda di argilla grava la mente dai molti pensieri» [Sap 9, 14-15], ci ha istruiti Egli stesso attraverso la divina istruzione consegnata ai santi libri della Scrittura. E «i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi». Israele uscito dall’Egitto non va verso una libertà intesa come l’affermazione di ognuno a prescindere dall’altro. Va verso una libertà che è un bene condiviso, plasmata dalla luce della Legge di Dio.
Tuttavia, nonostante la cura che Dio ebbe di non far mancare all’uomo la luce perché percorresse la retta via, questi ha continuamente deviato. Abbiamo or ora ascoltato il profeta: «la casa di Israele, quando abitava il suo paese, lo rese impuro con le sue condotte e le sue azioni». La luce della ragione e la luce della Legge insegnata dal Signore stesso non sono in grado di trattenerci dal male. È il “cuore” della persona umana che ha bisogno di essere rinnovato. Questa è precisamente la grande opera che Dio attraverso il suo profeta preannuncia: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne … e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi».
Ciò che l’uomo ha distrutto: se stesso, la sua dignità, Dio lo ricostruirà; ciò che è invecchiato sarà rinnovato, e l’uomo in tutta la sua umanità – intelligenza, libertà, affettività – ritornerà allo splendore delle sue origini.
2. In che modo Dio ricostruirà la nostra persona? Ascoltiamo S. Paolo: «quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte … perché come Cristo fu risuscitato per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova».
Il principio e la fonte di ogni rinnovamento è Gesù, il Signore morto e risorto. Quanto è accaduto in Lui, mediante il battesimo, accadrà fra poco in ciascuno di voi, cari catecumeni. Il battesimo vi unirà così profondamente a Cristo, che con Lui ed in Lui voi sarete strappati “dal potere delle tenebre e resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce” [cfr. Col 1, 12-13].
Cari catecumeni, cari fedeli, abbiamo percorso la storia della nostra salvezza come una storia di caduta nelle tenebre e di rinascita nella luce. «Eravate infatti tenebre, ma ora siete luce nel Signore: comportatevi da figli della luce […] scegliendo ciò che Dio gradisce» [Ef 5, 8-10].


* * *


Omelia del card. Scola nella Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore

MILANO, domenica, 8 aprile 2012.- Di seguito il testo dell’omelia pronunciata oggi dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, durante la Messa del giorno nella Pasqua di Risurrezione.
***
1. «Questo è il giorno che ha fatto il Signore; rallegriamoci e in esso esultiamo» (Sal 117): così, col ritornello del Salmo responsoriale, la Chiesa nostra Madre ci ha invitato alla gioia. Perché? Ce lo dirà con forza ineguagliabile un passaggio sconvolgente e paradossale del Prefazio: «beata mors, quae nodos mortis exsolvit», beata, cioè eternamente felice -la beatitudine, infatti, dice la felicità eterna, quella che non passerà più-, la morte [del nostro Redentore] perché ha sciolto per sempre i lacci della morte.
Come si può parlare di una morte beata? Da dove viene alla Chiesa, e quindi a ciascuno di noi, la certezza circa una tale possibilità? Come mai, dopo il giorno di Pasqua, i discepoli poterono ritornare sui tragici eventi del Venerdì Santo e scoprire in essi quanto annunciato dalle Scritture? Forse siamo così distratti dall’abitudine che non ci rendiamo conto della assoluta singolarità dell’avvenimento della Risurrezione, di come ogni cosa dipenda dalla verità del suo annuncio.
2.Per poter rispondere alle domande poste è necessario contemplare quanto accadde ai discepoli «nei quaranta giorni» dopo la Pasqua (cf. LetturaAt 1,3). Le letture bibliche appena ascoltate. mettono in evidenza la reale presenza di Gesù risorto dopo la morte, testimoniata in modo autorevole da coloro che l’hanno visto e incontrato. Le apparizioni del Crocifisso Risorto sono la porta di accesso alla sconvolgente novità della Pasqua.
È questo l’annuncio esplicito di Paolo: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (Epistola1Cor 15,3-5).Paolo si considera apostolo in forza della medesima esperienza che egli condivide con gli altri apostoli: aver incontrato Gesù risorto vivo. In effetti è questa l’esperienza fondante e probante la verità dell’annuncio cristiano: l’evento è la morte redentrice di Gesù, certificata nel suo significato di salvezza dalla risurrezione. Lo mostrano le Scritture lette alla luce del fatto accertato delle apparizioni.
3. Anche l’inizio degli Atti degli Apostoli ci racconta di questo singolare momento in cui Gesù «simostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove» (LetturaAt 1,3).
Che cosa fa il Signore Risorto dandosi a vedere dai Suoi? Li introduce nel rapporto nuovo inaugurato appunto dalla Sua Risurrezione. Infatti, «durante quaranta giorni» (LetturaAt 1,3) - il numero biblico indica sempre un tempo propedeutico: alla alleanza dopo il diluvio; alla rivelazione di Dio sul Sinai per Mosè, all’entrata nella Terra Promessa per il popolo, al ministero pubblico per Gesù, ecc. - il Risorto si accompagna a loro perché possano accertare la verità della nuova vita di Gesù e abituarsi, quindi, alla nuova modalità della Sua presenza; Gesù, inoltre, li istruisce sulle cose riguardanti il Regno di Dio, perché possano re-imparare alla luce della Risurrezione quello che avevano già da Lui ascoltato; il Risorto, infine, li prepara ad attendere il dono dello Spirito - «tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (LetturaAt 1,5) – che consente a tutti coloro che lo seguiranno di «aver parte» diretta con Lui.
Questi tre elementi - la novità della presenza del Risorto, la comprensione del disegno salvifico del Padre e il dono dello Spirito - descrivono l’esperienza del nuovo rapporto con Gesù. Non solo di quella dei primi, ma anche della nostra.
Chiediamoci: si può ancora sostenere che una simile forma di esperienza, l’esperienza cristiana, sia ragionevole? La sua rivendicazione della verità poggia su solide basi? Pensiamo, ad esempio, alla obiezione di quanti, a partire dalle strabilianti scoperte della scienza, sostengono che tutto è soloNatura (“naturalismo biologico”). Ebbene noi possiamo, come credenti, accettare tutti i risultati comprovati delle scienze naturali - sottolineo tutti i risultati, non tutte le loro interpretazioni e non ogni loro uso - integrandoli con l’esistenza di un Dio Creatore e Redentore dell’universo. Non sono pochi gli scienziati credenti a testimoniarlo.
Qualcuno di loro ha coniato l’espressione “naturalismo teista” (Peacocke). L’esperienza cristiana è ragionevole anche per il sofisticato uomo del terzo millennio.
4. Il racconto evangelico approfondisce poi la natura dell’esperienza cristiana a partire dal rapporto con il Crocifisso Risorto, vivo in mezzo a noi.
Maria di Magdala è la prima a cui il Risorto si manifesta. Il fatto, del tutto sorprendente - ci si aspetterebbe che apparisse prima agli apostoli - è la registrazione di quello che davvero è avvenuto (nessun “falsificatore” avrebbe fatto una scelta così clamorosamente “scorretta”).
Con grande delicatezza ci viene indicato che il riconoscimento di Gesù Risorto è primariamente una questione di conoscenza amorosa. «Donna, perché piangi? Chi cerchi? (…) Signore se l’hai portato via tu… Maria!... Maestro» (VangeloGv 20,15-16).
L’identificazione del Risorto chiede, tuttavia, a Maria un cambiamento: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli» (VangeloGv 20,17). Non si può riconoscere il Risorto senza cambiare. Ecco perché, come ci ha ricordato il Santo Padre nell’omelia della Messa Crismale, «resta chiaro che la conformazione a Cristo» - che esige cambiamento personale e comunitario -«è il presupposto e la base di ogni rinnovamento» nella Chiesa, dell’autentica missione.
Le apparizioni di Gesù, a cominciare da quelle a Maria di Magdala, hanno lo scopo di abituare i discepoli alla sua nuova condizione divino-umana. Essa è riconoscibile nella Chiesa, sacramento universale di salvezza (cfr. LG 48) a partire dalla tracce del Risorto nella vita della comunità cristiana. Ne sono frutti: il perdono, la pace, la letizia, la carità - «per l’oppressione del misero ed il gemito del povero… Io risorgerò» (ci ha fatto pregare la Chiesa nel Sabato Santo) (Ufficio delle Letture, Ant. 5)» -, la missione fino alla consegna della propria vita nel martirio.
Così il Risorto si dà a vedere perché al riconoscimento segua il lieto annuncio che la vita nuova è accessibile a tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi. Le apparizioni del Risorto hanno come scopo di testimoniare la verità della risurrezione del Salvatore. Infatti, Maria rende testimonianza dicendo: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18).
5. Veramente oggi con la liturgia ambrosiana possiamo esclamare: «O mysterium gratia plenum, O ineffabile divini muneris sacramentum, O sollemnitatum omnium honoranda sollemnitas» O mistero ricco di grazia, O ineffabile sacramento del dono divino. O festa che dà origine a tutte le feste (Prefazio). Poiché oggi è il giorno della liberazione, il giorno in cui la morte beata del Signore ci ha donato per sempre la grazia della libertà.
La libertà, infatti, è lo splendore della Pasqua che brilla sul volto degli uomini che Lo riconoscono. Ormai niente più, neanche il rumore sordo della morte che accompagna quotidianamente la nostra esistenza, può farci schiavi. Siamo stati acquistati a caro prezzo: il sangue dell’Agnello immolato, dell’Autore della vita. Noi uomini e donne del nostro tempo siamo così assetati di libertà! Al di là di tutte le contraddizioni e fragilità di noi cristiani, la Chiesa, comunità di redenti generata dalla Pasqua, è veramente la dimora della libertà, perché attraverso la testimonianza dei cristiani è possibile scoprire che «Dio – come ha scritto von Balthasar – non è una fortezza rinchiusa che noi con le nostre macchine da guerra (ascesi, introspezione mistica, ecc.) dobbiamo espugnare, è invece una casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati ad entrare».
Buona Pasqua di risurrezione!
* * *
Omelia per la Veglia Pasquale  di Enzo Bianchi
Monastero di Bose, 8 aprile 2012
Cari fratelli e sorelle, care sorelle di Cumiana, amici e ospiti,
con parole, azioni, segni e soprattutto con la materialità della nostra condizione, con il nostro corpo e i suoi sensi, ma anche con il fuoco, l’acqua, il pane e il vino noi celebriamo la resurrezione di Gesù, la vittoria della vita eterna sulla morte, sulla nostra morte di umani deboli, fragili, mortali appunto. «Cristo è risorto! È veramente risorto!»: questo è il nostro grido, la nostra fede, la nostra speranza e lo scaturire della nostra carità. Sì, come dice l’Apostolo, «se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede … e noi possiamo essere considerati tra i più miserabili della terra» (1Cor 15,17.19).
Dopo avere ascoltato nelle letture di questa veglia tutta la nostra storia come storia della salvezza operata da Dio per noi, storia che trova l’apice, il télos nella resurrezione di Gesù, in questa notte cerchiamo di pensare anche a questo evento leggendovi l’azione di Dio Padre. Perché proprio guardando ai primi annunci della resurrezione di Gesù fatti da Pietro, Stefano e Paolo negli Atti degli apostoli – e le loro omelie sono certamente un riflesso delle prime catechesi pasquali –, ci rendiamo conto che sempre è attribuita al Padre l’iniziativa, l’azione del far risorgere, del rialzare dai morti Gesù, il Figlio:
Dio lo ha risuscitato dai morti (At 3,15; 4,10; 13,30). Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce (At 5,30). Dio lo ha risuscitato il terzo giorno (At 10,40).
Espressioni analoghe si trovano poi nella lettera ai Romani, nelle lettere ai Corinti e nelle altre lettere del Nuovo Testamento. «Cristo è stato risuscitato da Dio», è il primo annuncio pasquale della chiesa apostolica. Solo più tardi, dopo avere anche specificato che questa azione di Dio Padre è stata compiuta attraverso la potenza dello Spirito santo (cf. Rm 8,11), si è giunti alla formula che troviamo nel Credo: «Resurrexit tertia die», «il terzo giorno è risuscitato», ponendo Gesù come soggetto della resurrezione. D’altronde, non poteva essere altrimenti: il Padre, l’Amante, l’origine e lo scaturire dell’Amore, solo lui poteva vincere la morte, cioè poteva – come dice Paolo in At 13,32-33 citando il Sal 2,7 – compiere la promessa, chiamare alla vita, generare alla vita il Figlio Gesù entrato nella morte.

Quando Gesù è morto in croce, rimettendo nelle mani del Padre il suo spirito (cf. Lc 23,46; Sal 31,6), facendo della sua morte un atto puntuale, di vera obbedienza filiale della creatura al Creatore, dopo una vita «di obbedienza fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8), dopo una vita in cui è sempre apparsa in lui l’agápe, l’amore gratuito, incondizionato e senza fine, il Padre si è riconosciuto in lui, dicendogli: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato, dunque io ti esalto, ti glorifico, ti faccio rialzare dalla morte». La morte è stata una vera separazione, in cui Gesù ha vissuto l’abbandono, l’essere «senza Dio» (chorìs theoû: Eb 2,9), perché la morte è questo! Ma Gesù ha vissuto tutto ciò invocando Dio, confessandolo «mio Dio» (Mc 15,34; Mt 27,46; Sal 22,2), ponendo sempre la sua speranza in lui. 
Per questo Dio si è riconosciuto nel Figlio, perché Gesù lo ha narrato (exeghésato: Gv 1,18) fedelmente e totalmente. «Dio è amore» (1Gv 4,8.16), e Gesù ce lo ha detto e mostrato con la sua vita narrante. L’amore del Padre, l’amore dell’Amante accolto dall’«amato» (Mc 1,11 e par.; 9,7; Mt 17,5) che ha amato i suoi (cf. Gv 13,1) dello stesso amore dell’Amante, era degno di vincere la morte. Pietro del resto lo dice nella sua prima omelia pasquale: «Dio ha risuscitato Gesù, … perché non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere» (At 2,24). Perché non era possibile? Perché l’amore di Dio è la sua onnipotenza; perché Dio può tutto nell’amore; perché l’amore di Dio, entrato in duello con la morte, l’ha vinta per sempre.

Gesù, mandato come Parola di Dio e suo Figlio nel mondo, fattosi carne nell’utero di una donna, ha vissuto l’amore del Padre all’estremo, eis télos, si è svuotato delle sue prerogative divine per essere uomo in tutto come noi (cf. Fil 2,6-8) e non ha commesso peccato (cf. Eb 4,15). La vita di Gesù è stata un cammino di umanità, umanizzante, possiamo dire usando il linguaggio del Vangelo, un cammino di obbedienza alla sua condizione umana e alla chiamata di Dio. Obbediente da Figlio e non da schiavo (cf. Gv 8,35), e Figlio perché obbediente, Gesù ha lottato contro la morte, «attraverso i patimenti ha imparato la sottomissione» (Eb 5,8), è diventato «obbediente fino alla morte in croce (cf. Fil 2,8); e accettando la morte, questo nemico che ci attende tutti, che ci sta davanti, ha voluto esistere solo nell’amore e per amore. Possiamo dire che Gesù è cresciuto nell’amore non cercando ciò che gli piaceva, ma cercando di dare la vita per gli amici (cf. Gv 15,13). È cresciuto nell’amore soprattutto pregando, esercitandosi ad ascoltare la voce: «Tu sei mio Figlio» da parte di Dio, l’Amante. Nella morte ha saputo dire: «Abba, Papà, nelle tue mani rimetto il mio respiro» (cf. Lc 23,46), e il Padre gli ha risposto: «Tu sei mio Figlio, perché hai compiuto tutto, la tua incarnazione è stata totale, la tua umanizzazione piena». Ecco, nella morte Gesù è stato generato quale Figlio nella pienezza della divinità, come scrive Paolo all’inizio della lettera ai Romani: «Gesù Cristo nostro Signore, [è stato] costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti» (Rm 1,4). La morte e la resurrezione per Gesù uomo, creatura, sono un unico evento: Gesù è veramente il Figlio di Dio e quando noi lo guardiamo sulla croce, nella sua morte, possiamo simultaneamente confessarlo come vivente, risorto, Figlio di Dio.

Nell’azione di farlo risorgere, Dio ridà a Gesù le sue prerogative divine, lo glorifica al di sopra di tutte le creature, gli dà il Nome di Kýrios, di Signore (cf. Fil 2,9-11). Anche nella resurrezione Gesù narra l’agire del Padre, il suo Amore sorgivo, fontale, perché il Padre èpeghé tês agápes, «Sorgente dell’Amore». Era il Figlio uscito dal seno del Padre, ora il Padre lo riaccoglie nella potenza dello Spirito: un’unica vita, un unico Amore, un solo Dio! Scrive Agostino: «Et illic igitur tria sunt: amans, et quod amatur, et amor» (De TrinitateVIII,10,14), l’Amante, l’Amato e l’Amore. Ecco allora Tommaso che esclama davanti al Risorto: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28), vedendo un corpo umano trafitto. «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto», profetizzava Zaccaria (12,10). Gesù aveva esclamato prima di morire: «Mio Dio, mio Dio, perché mi abbandoni alla morte, alle trafitture». Ma ora tutti guardano a Gesù e dicono con Tommaso: «Mio Kýrios e mio Dio!».
Sì, la nostra fede pasquale non è un mito, una favola, ma una storia di amore. È la scoperta di un Amante, Dio, che possiede un Amore che vince la morte: ma questo Amore lo offre anche a noi, perché nella nostre vite possiamo essere amati e amanti. Guardiamo al Crocifisso risorto perché – come affermava Riccardo di San Vittore – «ubi amor, ibi oculus» (cf. Beniamin minor 13). I nostri occhi siano rivolti al Cristo risorto, l’Amato che ci rivela una volta per sempre Dio come l’Amante, la Sorgente dell’Amore.

* * *

Il giorno della vittoria dell'Amore
Riporto da "La Stampa" di oggi, 8 aprile 2012, a firma di Enzo Bianchi.
In questi giorni di Pasqua emerge con forza la singolarità del cristianesimo tra tutte le religioni, ma emerge con forza anche ciò che nella fede cristiana appare uno “scandalo” e una “follia” per gli uomini religiosi e per quelli che si ritengono autosufficienti nel loro pensare. Va riconosciuto: le altre feste cristiane, con la loro aura poetica, sono vissute più o meno da tutti, ma la Pasqua appare una memoria e una festa irriducibile alla mentalità e al sentire comune.
Che cosa rivivono i cristiani? Innanzitutto leggono e rileggono una storia di passione e di morte. Quella di Gesù di Nazaret, un uomo che – ci dicono quelli che sono stati coinvolti nella sua vita, che hanno vissuto e mangiato con lui – passava per le città e i villaggi della terra di Israele facendo il bene, curando, guarendo, consolando tutti quelli che incontrava. Gesù parlava anche di un Dio che appariva “altro” per gli uomini religiosi del suo tempo, rendeva “vangelo”, buona notizia, quel Dio al quale gli uomini avevano finito per dare immagini perverse proiettandovi i loro desideri mondani. Egli annunciava un Dio il cui amore non deve essere mai meritato, un Dio che ci ama sempre e gratuitamente, un Dio che non castiga ma perdona quelli che cadono nel male, un Dio che chiede riconciliazione e amore reciproco tra gli uomini, un Dio che vuole riconoscimento e culto come mezzi in vista dell’amore, perché egli stesso è amore.
Gesù, inoltre, aveva parole durissime per i detentori del potere religioso, sacerdoti e dottori della legge, perché costoro si rendevano esenti dai pesi che facevano portare agli altri, perché cercavano di apparire esemplari senza mai tentare di esserlo realmente. Gesù era scomodo, e per questo ebbe nemici, calunniatori che lo chiamavano falso profeta e indemoniato. Questi nemici riuscirono, mediante un illegale processo-farsa, a condannarlo come bestemmiatore di Dio e convinsero il potere politico che Gesù era anche un pericolo per l’autorità di Cesare. E così il potere religioso e quello politico, concordi tra loro, lo condannarono alla morte in croce, sentenza eseguita il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Quel giorno Gesù in croce appariva come un maledetto da Dio e dagli uomini per i credenti giudei, come un uomo nocivo per l’impero agli occhi dei romani: nudo, nella vergogna, morì senza difendersi, senza rispondere alla violenza, amando e perdonando “fino alla fine”, come aveva vissuto.

La morte di Gesù è scandalosa, ignominiosa. Come si può credere a un uomo che fa questa fine, a un uomo condannato dai legittimi poteri religioso e civile? Come si può credere che un tale uomo sia stato inviato da Dio? Che Dio è quello che invia un uomo che si dice suo Figlio e poi fa quella fine? Non è credibile! Ecco “lo scandalo della croce”, come lo definisce l’apostolo Paolo. E si badi bene: anche alcuni cristiani hanno fatto fatica ad accettare questa fine. È infatti più facile accettare un Dio che vince, trionfa, regna, piuttosto che un Figlio di Dio che muore in croce. Sicché alcune chiese ammettevano che Gesù fosse Figlio di Dio ma non che potesse fare quella fine, e per questo costruirono teologie secondo le quali un altro era stato crocifisso al posto di Gesù, perché egli non poteva morire in quel modo… Di queste credenze si trovano tracce nel Corano, là dove sta scritto: “Non l’hanno ammazzato, non l’hanno crocifisso, perché Gesù fu sostituito da uno che gli rassomigliava” (Sura IV,157). Eppure i cristiani confessano la loro fede nel Crocifisso, e per questo la croce è il segno di Cristo, al quale essi guardano sapendo che, se la negano, non sono più cristiani. Ecco perché il Crocifisso non può essere ridotto a un simbolo culturale, come propone qualcuno che non sa cosa sia il cristianesimo né conosce le lettere di Paolo.
Ma quest’uomo Gesù, morto in croce e sepolto in una tomba al tramonto di quel giorno vigilia della Pasqua, “non poteva restare preda della morte” (At 2,24), dice Pietro. E infatti quando le sue discepole e i suoi discepoli si recano alla tomba all’alba del primo giorno della settimana non trovano più il cadavere di Gesù: la tomba è vuota! Fin qui giunge la storia, che nessuno può negare. Ma di fronte alla tomba vuota sorgono delle domande: il corpo morto di Gesù era stato rubato da qualcuno? Gesù non era veramente morto ed era fuggito? Dio era intervenuto per dire la sua parola definitiva su Gesù? Domande che ci sono testimoniate dagli stessi vangeli, i quali danno anche una risposta. I vangeli attestano che quelli che erano stati con Gesù alcuni anni, i suoi discepoli e testimoni, hanno cominciato a dire che Gesù era vivente, che il Padre, Dio, lo aveva richiamato dai morti, che essi l’avevano visto accanto e in mezzo a loro nella vita quotidiana. L’avevano visto con altri tratti fisici, con un altro corpo, ma i gesti da lui compiuti erano gli stessi: accompagnava i viandanti, consolava chi piangeva, spezzava il pane, offriva da mangiare, dava fiducia e perdono anche a chi l’aveva rinnegato e abbandonato nell’ora della tenebra e della passione.
Ecco, i cristiani ricordano, rivivono, si ridicono l’un l’altro semplicemente questo: l’amore vissuto da Gesù ha vinto la morte, il suo amore ha vinto l’odio e l’inimicizia. Sì, “Dio nessuno l’ha mai visto” – e nella cultura odierna Dio non gode di buona fama – “ma Gesù ce lo ha raccontato” (Gv 1,18). Gesù era umanissimo e ciò che aveva di eccezionale non era di ordine religioso ma umano. È con la sua umanità che egli, il Figlio di Dio e la Parola diventata uomo come noi, ci ha portato a Dio. Dopo la vita, morte e resurrezione di Gesù per un cristiano augurare “buona Pasqua” significa dunque affermare: “Vorrei dirti che l’amore vince la morte. Sia così per te, nella tua vita”.