mercoledì 11 aprile 2012

Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele...

 Il Vangelo di oggi, 11 aprile, mercoledi dell'ottava di Pasqua, è l'episodio famosissimo dei discepoli di Emmaus. Di seguito un commento, qualche omelia (Benedetto XVI, Raniero Cantalamessa, Gianfranco Ravasi, Carlo Caffarra, Giovanni Paolo II, Carlo Maria Martini) e due brevi pagine di sant'Agostino.


Dio non è venuto a spiegare la sofferenza:
è venuto a riempirla della sua presenza

Paul Claudel


Lc 24,13-35

Nello stesso primo giorno della settimana, due discepoli di Gesù erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Èmmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto.
Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò: “Che cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.
Ed egli disse loro: “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”.
E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”.
Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.



IL COMMENTO





Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele... La Pasqua, Cristo nostra Pasqua, giunge in questo cammino a ritroso, sui passi che ripercorrono il nostro antico andare dietro di Lui, nel ricordo che si fa ogni giorno, ogni istante di più, struggimento, delusione e rimpianto. Come quando sfogliamo le foto di qualcosa di bello che non è più, i luoghi, i sorrisi, e quel volto che ci aveva rapito il cuore, quel sorriso, quell'inconfondibile tenerezza che ci aveva scossi e mossi a fissare tutto noi stessi in Lui; pensieri, corpo, cuore in uno Shemà innamorato, totalizzante, quel tutto che aveva afferrato tutto e che ora non è più. Il cammino dei due discepoli di Emmaus è il cammino dell'amore deluso, perchè la speranza è sempre frutto della felicità indomita dell'amore. E' l'amore che ha spinto Maria Maddalena ad incollarsi piangente dinanzi alla tomba del suo Signore. E' l'amore strozzato, il compimento assaporato e strappato via, che inchioda i due di Emmaus ad un ricordo colmo di nostalgia. La tristezza stampata sul loro volto, la tristezza che San Tommaso definisce come l'attesa di un bene assente. Assente Cristo, tutto diviene triste.


Scriveva la scrittrice spagnola Maria Zambrano che l’amore "trascende sempre, la sua promessa indecifrabile squalifica ogni raggiungimento, ogni realizzazione... L’azione dell’amore, il suo carattere di agente divino nell’uomo, si riconosce soprattutto da quell’affinamento dell’essere che lo patisce e lo sopporta. E anche da uno spostamento del centro di gravità dell’uomo. Perché essere uomini significa essere stabili, significa pesare, pesare su qualcosa. L’amore provoca non la diminuzione bensì la scomparsa di quella gravità… Il centro di gravità della persona si è trasferito alla prima persona amata e, nel momento in cui la passione svanisce, resterà quel movimento, il più difficile, dello stare “fuori di sé”… Vivere fuori di sé per vivere oltre se stessi. Vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente" (L’uomo e il Divino). E' questa l'esperienza dei due discepoli sul cammino di Emmaus, un percorso duro, quello che conduce alla scomparsa della gravità, del fondamento umano che ci fa familiare la vita, che ci concede di gestire gli affetti, il lavoro, in un recinto che garantisca, senza sussulti, l'esistenza. L'incontro con Gesù aveva sconvolto la mappa faticosamente disegnata, quella nella quale ritrovare ogni cosa al suo posto, indirizzi certi dove traghettare i giorni; la chiamata di Gesù, quella che ha raggiunto i discepoli sul mare di Galilea, al banco delle imposte, quell'irresistibile sguardo d'amore, li aveva attirati in un esodo inaspettato verso la promessa indecifrabile che squalifica, rende piccola e quasi meschina ogni altra realizzazione; Gesù aveva svelato la friabilità d'ogni altra speranza, desiderio; il suo amore aveva, irrevocabilmente, messo a nudo l'inconsistenza di tutto quanto non fosse Lui, di ogni pensiero e affetto che non scaturisse da Lui. Quella chiamata li aveva segnati e santificati, messi a parte per un altro centro di gravità. 

Ed ora i due di Emmaus, immagine d'ogni discepolo, stavano patendo la purificazione decisiva, quello che passa per la scomparsa dell'amato stesso, dell'origine di quella svolta così travolgente che aveva segnato l'inizio della sequela. Era svanita la passione, si doveva compiere quel volo al di fuori di se stessi, la stessa esperienza della Maddalena sulla soglia del sepolcro. Sulla strada verso Emmaus i due discepoli, immagine della Chiesa, immagine di ciascuno di noi, avevano intrapreso, inconsapevolmente, il movimento più difficile, quello dello stare fuori di sé, l'attitudine che volge l'uomo nella sua interezza verso l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente.

Con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. I discepoli si trovano ancora nel sepolcro, in quel lasso di tempo dove avviene la purificazione decisiva, il tempo dove la sofferenza giunta al suo apice lascia spazio alla morte, all'abbandono di ogni speranza, allo sfinimento impotente della carne. Sì, il passo decisivo doveva attraversare la delusione più cocente, doveva essere sottratto tutto, anche Lui! I due discepoli si trovano in quell'anfratto dell'esistenza che è il Sabato Santo, il sepolcro che avvolge ogni certezza acquisita, lo svuotamento di ogni umana speranza. Il sepolcro, seno fecondo dove è gestata una vita nuova, viscere benedette dove il seme dell'amore immortale purifica ogni passione, il dolore che brucia ogni residuo dell'illusione.

Paul Claudel scriveva che "tutta la sofferenza che c'è nel mondo non è la sofferenza dell’agonia, ma il dolore del parto". Il dolore acuto che percuoteva il petto dei discepoli era dunque il dolore del parto, la sofferenza di una travaglio che conduce ad un amore nuovo, al compimento di quello che l'ardere del nostro cuore realmente desideraNel discutere dei discepoli di Emmaus scopriamo la nostra incapacità di dare un senso agli eventi di dolore e fallimento della nostra vita, ad accogliere ciò che trascende la nostra ragione, l'incapacità di definire e accogliere in esso un amore che brucia le scorie dell'egoismo, dell'autocompiacimento, della consolazione. Dietro a tante, forse a tutte, le nostre discussioni, ai nostri discorsi, alle nostre interminabili ricerche di verità e di soluzioni, dietro ai sofismi e alle indagini circa i responsabili dei mali che ci affliggono, dietro alla quasi totalità dei nostri pensieri e delle nostre parole vi è una speranza delusa. Meglio sarebbe direuna speranza buttata. 

Come per i discepoli, è Cristo la nostra speranza, l'incontro con Lui ci ha stregati. Lo abbiamo seguito, ma non perchè abbiamo visto dei segni, semplicemente perchè abbiamo mangiato il pane e ci siamo saziati, abbiamo riempito il vuoto che umilia la carne. Ma il sopraggiungere della Croce, la deposizione di quello stesso pane nel sepolcro, il suo permanere in quell'oscurità priva di vita, ha fatto saltare gli schemi, quel pane che ci aveva saziati è divenuto un pane inaccettabile, un "discorso duro" da mandar giù. Abbiamo sperato in Gesù, ma non in Gesù crocifisso. Per noi, la gloria che attendiamo e speriamo, per essere proprio quella che i nostri cuori carnali desiderano, deve eludere la croce. Cancellare i problemi. Eliminare i fallimenti, le solitudini, la maggior parte di quel che ci tocca vivere ogni giorno. E discutiamo, litighiamo, ci appassioniamo, indaghiamo, scartavetriamo ogni angolo dell'esistenza mentre gli occhi guardano e non vedono, inchiodati alla maledizione di "chi confida nell'uomo e nella carne", di colui che "quando viene il bene non lo può vedere". Viene il Signore e non lo riconosciamo, la carne desidera vedere altro, e neanche può sospettare qualcosa che non solo compia i suoi angusti desideri, ma che li superi, li trascenda e apra orizzonti vasti come l'infinito.
Ma Gesù è lì, accanto a noi. Ci parla, ci pone domande, ci cerca. Ma noi, dove siamo?Dove son perdute le nostre ore, tra angosce e mormorazioni? Quali speranze hanno fagocitato la nostra vita facendone un'unica, interminabile disputa con tutti e su tutto? La nostra esistenza, una campagna elettorale permanente, sulla via che fugge da Gerusalemme. Gesù ci appare come l'unico così estraneo ai nostri pensieri da non sapere quel che è successo. Questo è quel che pensiamo di Lui, un estraneo ai nostri bisogni, alle nostre lacrime, alle nostre speranze. 

Certo, probabilmente non bestemmiamo, preghiamo e andiamo in Chiesa, ma il cuore è avariato, spera male ed è strozzato nella delusione.


E Gesù non è lontano, proprio quando non lo riconosciamo e la fede fa acqua, il suo amore infinito lo spinge sino al bordo della nostra vita, e Lui sì che ci riconosce. Lui sì che conosce quello che si agita nei nostri cuori. Lui intercetta con uno sguardo di mite misericordia i nostri occhi tristi. Gesù sa quello che gli è successo! Stolti e tardi di cuore, non abbiamo compreso il cuore della nostra vita raggiunta da Cristo, come i due di Emmaus non avevano compreso il senso profondo delle Scritture: gli eventi occorsi a Gerusalemme nei giorni più santi della storia, quelli che hanno infranto la loro speranza, riguardavano Lui perchè riguardavano loro! Tutto era accaduto per loro! Gesù non era "così forestiero in Gerusalemme" da non sapere, era molto di più, era Lui il "
profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo" ucciso sulla Croce! Era Lui che, proprio nella morte e nella discesa nel sepolcro si era fatto il più prossimo a loro, sino a discendere nell'abisso più profondo della loro speranza infranta. Era apparso lì in quell'istante con carne e parola, ma non aveva smesso un istante ad essere con loro, a camminarci accanto, il più familiare di tutti.No, Gesù non è un estraneo, Gesù è dentro ogni avvenimento della storia, nei campi di concentramento e nelle camere a gas, nei sussulti della terra terremotata e sommersa dagli tsunami, nelle nostre case, negli uffici e nelle scuole, negli ospedali e negli ingorghi. Gesù è nelle ansie e nelle difficoltà del matrimonio, nella fragilità dei figli, nel timore del fidanzamento, nella fatica del lavoro e dello studio, nella stanchezza della malattia. Gesù è al centro di ogni Gerusalemme disseminata nella storia di ogni uomo, dove "i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso", per salire al Golgota, discendere nel sepolcro e risorgere vittorioso. Gesù è con noi, sempre.

E, come ai due di Emmaus, ci annuncia il Vangelo, ci parla della Storia d'amore di Dio con il suo popolo, ci ricorda la fedeltà, l'alleanza, le profezie. Ci apre il cuore alle Scritture, svelando il profondo del Suo proprio cuore: Lui doveva soffrire, doveva morire, non poteva far altro che amare di quell'amore assoluto, infinito, che supera le barriere della morte e della carneL'amore sino alla fine. Speriamo male perchè non capiamo di sperare il suo amore credendo di sperare altro, soluzioni, successi affettivi, lavorativi, economici, e Gesù ad esaudire, magari spruzzandoci su qualche goccia di acqua benedetta. Mentre in ogni nostra speranza è inscritto il Suo amore, basta riconoscerlo. E sapere di sperarlo.

Un personaggio di un film di Bergman, il sacrestano di Luci d’inverno, invita il pastore in crisi di fede a fissare la sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». In quel silenzio Gesù si era fatto nostro compagno di viaggio, in quella mancanza di speranza, in quella disillusione, in quell'abbandono, sulla via verso Emmaus.


Per questo Gesù si fa presente in Parola e carne, nella Chiesa, nella predicazione e nei sacramenti, si mostra vivo come nostro compagno di viaggio, per educarci a guardare, per insegnarci a sperare. Il suo amore che scaturisce dalle Sue parole ci apre gli occhi. Il suo corpo donato ci svela l'oggetto vero del desiderio nostro più profondo: saziarci di Lui, mangiare del Suo amore deposto laddove noi non vediamo amore alcuno, nell'abbandono di ogni speranza. Conoscere questo amore e in esso riposare. Il Pane spezzato diviene allora il segno che sino ad allora eravamo incapaci di decifrare, il segno luminoso nell'oscurità di ogni altro segno. E' laddove dove tutto è fallito e nulla può più saziare che quel Pane spezzato diviene segno e significato, Gesù Cristo stesso, il Pane che non perisce. Dove tutto si corrompe l'incorruttibile Pane del Cielo diviene l'unica Verità, incontestabile perchè deposta proprio laddove tutte le altre presunte verità si sono rivelate menzogne.




Così, sorge nei discepoli, al limite estremo della delusione, la memoria destata da quella sua presenza fatta parola, annuncio e poi pane. Sorge lì, nell'abisso del dolore, il desiderio autentico, e il cuore spicca il volo decisivo: "resta con noi!"Resta nella nostra notte, vogliamo il Pane capace di saziare la notte, per vivere nella notte del dolore, del nulla, della solitudine, della paura. Vogliamo il pane della Vita nella morte. E così imparare a sperare, in tutto, niente altro che Lui. E riconoscere che tutto, anche i dolori, le angosce, i fallimenti, i tradimenti, le malattie, tutto, in ogni istante, ci dona e consegna Lui, il Pane sostanza quotidiana, la volontà di Dio compiuta perchè anche noi la si possa compiere. Dire Amen nel ricevere il suo Corpo significa allora accogliere, con la bandiera bianca di chi si è arreso, l'unica autentica possibilità offerta alla nostra vita: entrare con Lui nella morte che ci attende, nella volontà del Padre che è la Pasqua di liberazione, per risorgere ad una vita nuova, trasfigurata, purificata da ogni concupiscenza. Amen, è certo e degno di fede il tuo amore, in questo pane l'alimento della volontà di Dio compiuta e offerta perchè, cibandocene, possiamo sperimentare il mistero di un amore che supera la morte. Perchè in tutto Lui è entrato e ne è uscito vittorioso. Sì, ogni momento della nostra vita è pieno di Lui, del Suo amore, e vivere pienamente non è altro che riconoscerlo, di fermarsi con Lui, di saziarsene.

Ecco la notizia meravigliosa del Vangelo di oggi. Il nostro cuore arde e non ce ne rendiano conto. Tutto di noi spera il Suo amore e non lo sappiamo. Per questo Lui si avvicina, cammina con noi, entra con noi nella nostra notte, e ci apre gli occhi su quello che Lui, da sempre, ha seminato in noi. Il pane spezzato dischiude i nostri occhi sul Suo volto, perchè la nostra speranza ad esso si rivolga, e non rimanga delusa. Ogni giorno. Come recita il verso del Paradiso: «Già non attendere’ io tua dimanda,/ s’io m’intuassi, come tu t’immii» (IX,80-81); Giussani commentava: «Una frase potente, strapotente, tutta quanta nata dalla frase di san Paolo: “Vivo, non io; sei Tu che vivi in me”. Questa è la grande norma… “intuarci”, renderci “tu”, così come Egli è diventato nostro, come Egli è diventato uomo, è diventato te, perché chiamandoti è diventato te… Tu accetti e desideri di amarlo: da’ te stesso per lui» (Le mie letture). La vita consegnata a Lui, vita nella Vita, pane nel Pane, in una relazione pura, celeste, dove la sua stessa assenza, il suo sparire dalla vista si traduce in uno zelo e un ardore che bruciano le distanze, la carne, e abbraccia il mondo. La sua assenza diviene così presenza ancor più intima, in un amore che spinge e urge ad annunciarlo; una conoscenza nuova, un'intimità che apre ad un amore infinito, un desiderio di salvezza che raggiunga ogni uomo, un "guai a me se non annunciassi il Vangelo" che pervade ogni istante, in un dono e una consegna di se stessi che ci fa, ogni istante, più intimi all'Amato. E' il paradosso di Emmaus, l'assenza diviene la presenza più autentica e colmante, traboccante, al punto di divenire un fiume in piena che tracima, e nutre, e feconda, e sazia il mondo. Perdere la vita è ritrovarla, perdere Cristo dalla vista carnale è ritrovarlo vivo e più intimo che mai nell'annuncio del Vangelo, nel dimenticare se stessi, nell'amore che ci ha colmati ben oltre ogni limite. Così, in Cristo, perdere lungo la vita per gli eventi, anche per gli stessi peccati, la relazione schiacciata nella sola carne con il coniuge, con i figli, il fidanzato o l'amico è ritrovarla nuova, purificata, libera: perdere l'egoismo che fa dell'altro la mia speranza per diventare io speranza per lui, testimone e annunciatore della parola e carne risorta di Cristo cui possa consegnare la propria vita.
  
Correre, senza indugio, verso il mondo, a deporre nel sepolcro di questa generazione il seme della Vita che non muore, Cristo risorto unica speranza. Correre senza indugio ad incontrare ogni uomo pellegrino senza meta, triste per l'attesa di un bene assente, di un bene per la propria vita che non vede da nessuna parte e che si fabbrica in illusioni moralistiche o libertine. Come diceva don Giussani al Sinodo del 1987, "Ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale dell'annuncio quanto l'esperienza di un incontro". Solo chi, come i discepoli sulla strada di Emmaus, ha incontrato Cristo vivo e si è lasciato attrarre da Lui sino a vivere la sua stessa vita, può percorrere le strade delle infinite Emmaus deluse di questa generazione, farsi compagno di viaggio dell'infinita schiera di tristi e delusi viandanti, e innescare il fuoco della speranza nei loro cuori disperati.

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COMMENTI

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Benedetto XVI: Catechesi sui discepolio di Emmaus

Specialmente in quest’Ottava di Pasqua la liturgia ci invita ad incontrare personalmente il Risorto e a riconoscerne l’azione vivificatrice negli eventi della storia e del nostro vivere quotidiano. Oggi mercoledì, ad esempio, ci viene riproposto l’episodio commovente dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Dopo la crocifissione di Gesù, immersi nella tristezza e nella delusione, essi facevano ritorno a casa sconsolati. Durante il cammino discorrevano tra loro di ciò che era accaduto in quei giorni a Gerusalemme; fu allora che Gesù si avvicinò, si mise a discorrere con loro e ad ammaestrarli: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti… Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,25 -26). Cominciando poi da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

L’insegnamento di Cristo – la spiegazione delle profezie – fu per i discepoli di Emmaus come una rivelazione inaspettata, luminosa e confortante. Gesù dava una nuova chiave di lettura della Bibbia e tutto appariva adesso chiaro, orientato proprio verso questo momento. Conquistati dalle parole dello sconosciuto viandante, gli chiesero di fermarsi a cena con loro. Ed Egli accettò e si mise a tavola con loro. Riferisce l’evangelista Luca: "Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Lc 24,29-30). E fu proprio in quel momento che si aprirono gli occhi dei due discepoli e lo riconobbero, "ma lui sparì dallo loro vista" (Lc 24,31). Ed essi, pieni di stupore e di gioia, commentarono: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32).

In tutto l’anno liturgico, particolarmente nella Settimana Santa e nella Settimana di Pasqua, il Signore è in cammino con noi e ci spiega le Scritture, ci fa capire questo mistero: tutto parla di Lui. E questo dovrebbe far ardere anche i nostri cuori, così che possano aprirsi anche i nostri occhi. Il Signore è con noi, ci mostra la vera via. Come i due discepoli riconobbero Gesù nello spezzare il pane, così oggi, nello spezzare il pane, anche noi riconosciamo la sua presenza.

I discepoli di Emmaus lo riconobbero e si ricordarono dei momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane. E questo spezzare il pane ci fa pensare proprio alla prima Eucaristia celebrata nel contesto dell’Ultima Cena, dove Gesù spezzò il pane e così anticipò la sua morte e la sua risurrezione, dando se stesso ai discepoli. Gesù spezza il pane anche con noi e per noi, si fa presente con noi nella Santa Eucaristia, ci dona se stesso e apre i nostri cuori. Nella Santa Eucaristia, nell’incontro con la sua Parola, possiamo anche noi incontrare e conoscere Gesù, in questa duplice Mensa della Parola e del Pane e del Vino consacrati. Ogni domenica la comunità rivive così la Pasqua del Signore e raccoglie dal Salvatore il suo testamento di amore e di servizio fraterno.

Cari fratelli e sorelle, la gioia di questi giorni renda ancor più salda la nostra fedele adesione a Cristo crocifisso e risorto. Soprattutto, lasciamoci conquistare dal fascino della sua risurrezione. Ci aiuti Maria ad essere messaggeri della luce e della gioia della Pasqua per tanti nostri fratelli. Ancora a tutti voi cordiali auguri di Buona Pasqua.

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Benedetto XVI: La resurrezione è il fatto centrale della nostra fede. L'esempio dei discepoli di Emmaus.


Cari fratelli e sorelle!
"Et resurrexit tertia die secundum Scripturas – il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture". Ogni domenica, con il Credo, rinnoviamo la nostra professione di fede nella risurrezione di Cristo, evento sorprendente che costituisce la chiave di volta del cristianesimo. Nella Chiesa tutto si comprende a partire da questo grande mistero, che ha cambiato il corso della storia e che si rende attuale in ogni celebrazione eucaristica. Esiste però un tempo liturgico in cui questa realtà centrale della fede cristiana, nella sua ricchezza dottrinale e inesauribile vitalità, viene proposta ai fedeli in modo più intenso, perché sempre più la riscoprano e più fedelmente la vivano: è il tempo pasquale. Ogni anno, nel "Santissimo Triduo del Cristo crocifisso, morto e risorto", come lo chiama sant’Agostino, la Chiesa ripercorre, in un clima di preghiera e di penitenza, le tappe conclusive della vita terrena di Gesù: la sua condanna a morte, la salita al Calvario portando la croce, il suo sacrificio per la nostra salvezza, la sua deposizione nel sepolcro. Il "terzo giorno", poi, la Chiesa rivive la sua risurrezione: è la Pasqua, passaggio di Gesù dalla morte alla vita, in cui si compiono in pienezza le antiche profezie. Tutta la liturgia del tempo pasquale canta la certezza e la gioia della risurrezione del Cristo.
Cari fratelli e sorelle, dobbiamo costantemente rinnovare la nostra adesione al Cristo morto e risorto per noi: la sua Pasqua è anche la nostra Pasqua, perché nel Cristo risorto ci è data la certezza della nostra risurrezione. La notizia della sua risurrezione dai morti non invecchia e Gesù è sempre vivo; e vivo è il suo Vangelo. "La fede dei cristiani – osserva sant’Agostino – è la risurrezione di Cristo". Gli Atti degli Apostoli lo spiegano chiaramente: "Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù risuscitandolo da morte" (17,31). Non era infatti sufficiente la morte per dimostrare che Gesù è veramente il Figlio di Dio, l’atteso Messia. Nel corso della storia quanti hanno consacrato la loro vita a una causa ritenuta giusta e sono morti! E morti sono rimasti. La morte del Signore dimostra l’immenso amore con cui Egli ci ha amati sino a sacrificarsi per noi; ma solo la sua risurrezione è "prova sicura", è certezza che quanto Egli afferma è verità che vale anche per noi, per tutti i tempi. Risuscitandolo, il Padre lo ha glorificato. San Paolo così scrive nella Lettera ai Romani: "Se confesserai con la bocca che Gesù è il Signore e crederai con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo" (10,9).
E’ importante ribadire questa verità fondamentale della nostra fede, la cui verità storica è ampiamente documentata, anche se oggi, come in passato, non manca chi in modi diversi la pone in dubbio o addirittura la nega. L’affievolirsi della fede nella risurrezione di Gesù rende di conseguenza debole la testimonianza dei credenti. Se infatti viene meno nella Chiesa la fede nella risurrezione, tutto si ferma, tutto si sfalda. Al contrario, l’adesione del cuore e della mente a Cristo morto e risuscitato cambia la vita e illumina l’intera esistenza delle persone e dei popoli. Non è forse la certezza che Cristo è risorto a imprimere coraggio, audacia profetica e perseveranza ai martiri di ogni epoca? Non è l’incontro con Gesù vivo a convertire e ad affascinare tanti uomini e donne, che fin dagli inizi del cristianesimo continuano a lasciare tutto per seguirlo e mettere la propria vita a servizio del Vangelo? "Se Cristo non è risuscitato, diceva l’apostolo Paolo, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede" (1 Cor 15, 14). Ma è risuscitato!
L’annuncio che in questi giorni riascoltiamo costantemente è proprio questo: Gesù è risorto, è il Vivente e noi lo possiamo incontrare. Come lo incontrarono le donne che, al mattino del terzo giorno, il giorno dopo il sabato, si erano recate al sepolcro; come lo incontrarono i discepoli, sorpresi e sconvolti da quanto avevano riferito loro le donne; come lo incontrarono tanti altri testimoni nei giorni che seguirono la sua risurrezione. E, anche dopo la sua Ascensione, Gesù ha continuato a restare presente tra i suoi amici come del resto aveva promesso: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Il Signore è con noi, con la sua Chiesa, fino alla fine dei tempi. Illuminati dallo Spirito Santo, i membri della Chiesa primitiva hanno incominciato a proclamare l’annuncio pasquale apertamente e senza paura. E quest’annuncio, tramandatosi di generazione in generazione, è giunto sino a noi e risuona ogni anno a Pasqua con potenza sempre nuova.
Specialmente in quest’Ottava di Pasqua la liturgia ci invita ad incontrare personalmente il Risorto e a riconoscerne l’azione vivificatrice negli eventi della storia e del nostro vivere quotidiano. Oggi mercoledì, ad esempio, ci viene riproposto l’episodio commovente dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Dopo la crocifissione di Gesù, immersi nella tristezza e nella delusione, essi facevano ritorno a casa sconsolati. Durante il cammino discorrevano tra loro di ciò che era accaduto in quei giorni a Gerusalemme; fu allora che Gesù si avvicinò, si mise a discorrere con loro e ad ammaestrarli: "Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti… Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,25 -26). Cominciando poi da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. L’insegnamento di Cristo – la spiegazione delle profezie – fu per i discepoli di Emmaus come una rivelazione inaspettata, luminosa e confortante. Gesù dava una nuova chiave di lettura della Bibbia e tutto appariva adesso chiaro, orientato proprio verso questo momento. Conquistati dalle parole dello sconosciuto viandante, gli chiesero di fermarsi a cena con loro. Ed Egli accettò e si mise a tavola con loro. Riferisce l’evangelista Luca: "Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Lc 24,29-30). E fu proprio in quel momento che si aprirono gli occhi dei due discepoli e lo riconobbero, "ma lui sparì dallo loro vista" (Lc 24,31). Ed essi, pieni di stupore e di gioia, commentarono: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32).
In tutto l’anno liturgico, particolarmente nella Settimana Santa e nella Settimana di Pasqua, il Signore è in cammino con noi e ci spiega le Scritture, ci fa capire questo mistero: tutto parla di Lui. E questo dovrebbe far ardere anche i nostri cuori, così che possano aprirsi anche i nostri occhi. Il Signore è con noi, ci mostra la vera via. Come i due discepoli riconobbero Gesù nello spezzare il pane, così oggi, nello spezzare il pane, anche noi riconosciamo la sua presenza. I discepoli di Emmaus lo riconobbero e si ricordarono dei momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane. E questo spezzare il pane ci fa pensare proprio alla prima Eucaristia celebrata nel contesto dell’Ultima Cena, dove Gesù spezzò il pane e così anticipò la sua morte e la sua risurrezione, dando se stesso ai discepoli. Gesù spezza il pane anche con noi e per noi, si fa presente con noi nella Santa Eucaristia, ci dona se stesso e apre i nostri cuori. Nella Santa Eucaristia, nell’incontro con la sua Parola, possiamo anche noi incontrare e conoscere Gesù, in questa duplice Mensa della Parola e del Pane e del Vino consacrati. Ogni domenica la comunità rivive così la Pasqua del Signore e raccoglie dal Salvatore il suo testamento di amore e di servizio fraterno. Cari fratelli e sorelle, la gioia di questi giorni renda ancor più salda la nostra fedele adesione a Cristo crocifisso e risorto. Soprattutto, lasciamoci conquistare dal fascino della sua risurrezione. Ci aiuti Maria ad essere messaggeri della luce e della gioia della Pasqua per tanti nostri fratelli. Ancora a tutti voi cordiali auguri di Buona Pasqua.



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SPIEGO' LORO LE SCRITTURE, di p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.

"Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" Vogliamo riflettere proprio su questo punto del Vangelo dei discepoli di Emmaus: le Scritture. Ci sono due modi di accostarsi alla Bibbia. Il primo è quello di considerarlo un libro antico, pieno di sapienza religiosa, di valori morali, e anche di poesia. Da questo punto di vista, esso è il libro in assoluto più importante per capire la nostra cultura occidentale e la religione ebraico-cristiana. È anche il libro più stampato e più letto di tutta l'umanità.

Ma c'è un altro modo, ben più impegnativo, di accostarsi alla Bibbia ed è quello di credere che esso contiene la vivente parola di Dio per noi. Che è un libro "ispirato", cioè scritto, sì, da autori umani, con tutti i loro limiti, ma con l'intervento diretto di Dio. Un libro umanissimo e, nello stesso tempo, divino, che parla all'uomo di tutti i tempi, gli rivela il senso della vita e della morte.

Soprattutto gli rivela l'amore di Dio. Se tutte le Bibbie del mondo, diceva sant'Agostino, per qualche cataclisma, andassero distrutte e ne rimanesse una sola copia e anche di questa copia non fosse leggibile che una sola pagina e di questa pagina una sola riga; se questa riga fosse quella della prima lettera di Giovanni dove è scritto: "Dio è amore", tutta la Bibbia sarebbe salva, perché essa si riassume in questo. Questo spiega come mai tante persone si accostano alla Bibbia senza cultura, senza grandi studi, con semplicità, credendo che è lo Spirito Santo che parla in essa e vi trovano risposte ai loro problemi, luce, incoraggiamento, in una parola vita.

I due modi di accostarsi alla Bibbia - quello erudito e quello di fede - non si escludono, anzi devono essere mantenuti uniti. È necessario studiare la Bibbia, i modi in cui va interpretata, (o tener conto dei risultati di coloro che la studiano così), per non cadere nel fondamentalismo. Il fondamentalismo consiste nel prendere un versetto della Bibbia, così come suona, e applicarlo di peso alle situazioni di oggi, senza tener conto della differenza di cultura, di tempo, dei diversi generi letterari della Bibbia. Si crede, per esempio, che il mondo ha poco più di quattromila anni di età perché tanti sono gli anni che risultano dalla Bibbia, mentre sappiamo che, di anni di età, il mondo ne ha diversi miliardi, solo che la Bibbia non è scritta per fare della scienza, ma per dare la salvezza. Dio, nella Bibbia, si è adattato a parlare nel modo che gli uomini del tempo potessero capire; non ha scritto solo per gli uomini dell'era tecnologica.

D'altra parte però ridurre la Bibbia a solo oggetto di studio e di erudizione, rimanendo neutrali di fronte al suo messaggio, significa ucciderla. Sarebbe come se un fidanzato che ha ricevuto una lettera d'amore della fidanzata si mettesse a esaminarla con tanto di dizionario, dal punto di vista della grammatica e della sintassi, e si fermasse a queste cose, senza cogliervi l'amore che c'è dentro. Leggere la Bibbia senza la fede è come aprire un libro a notte fonda: non vi si legge niente, o almeno non vi si legge l'essenziale. Leggere la Scrittura con fede significa leggerla in riferimento a Cristo, cogliendo, in ogni pagina di essa, quello che si riferisce a lui. Proprio come egli stesso fece con i discepoli di Emmaus.

Gesù è rimasto tra noi in due modi: nell'Eucaristia e nella sua parola. In entrambe, c'è lui presente: nell'Eucaristia sotto forma di cibo, nella Parola sotto forma di luce e di verità. La parola ha un grande vantaggio sulla stessa Eucaristia. Alla comunione non si possono accostare se non quelli che già credono e che sono in stato di grazia; alla parola di Dio, invece, si possono accostare tutti, credenti e non credenti, sposati e divorziati. Anzi per diventare credenti, il mezzo più normale è proprio quello di ascoltare la parola di Dio.

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E' risorto veramente, di p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.

 Il Vangelo ci fa assistere a una delle tante apparizioni del Risorto. I discepoli di Emmaus sono appena arrivati trafelati a Gerusalemme e stanno raccontando quello che è capitato loro lungo la via, quando Gesù in persona compare in mezzo a loro dicendo “Pace e voi!”. Dapprima, spavento, come se vedessero un fantasma, poi stupore, incredulità, e infine gioia. Anzi incredulità e gioia insieme: “Per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti”.

La loro è una incredulità tutta speciale. È l’atteggiamento di chi crede già (se no, non ci sarebbe gioia), ma non sa capacitarsi. Come chi dice: troppo bello per essere vero! La possiamo chiamare, con un paradosso, una fede incredula. Per convincerli, Gesù chiede loro qualcosa da mangiare, perché non c’è nulla come il mangiare qualcosa insieme che rassicuri e crei comunione.

Tutto questo ci dice qualcosa di importante sulla risurrezione. Essa non è solo un grande miracolo, un argomento o una prova, a favore della verità di Cristo. È di più. È un mondo nuovo nel quale si entra con la fede accompagnata da stupore e gioia. La risurrezione di Cristo è la “nuova creazione”. Non si tratta solo di credere che Gesù è risorto; si tratta di conoscere e sperimentare “la potenza della sua risurrezione” (Filippesi 3, 10).

Questa dimensione più profonda della Pasqua è particolarmente sentita dai nostri fratelli ortodossi. Per essi la risurrezione di Cristo è tutto. Nel tempo pasquale, incontrando qualcuno, essi lo salutano dicendo: “Cristo è risorto!”, al che l’altro risponde: “È risorto in verità!”. Questa abitudine è talmente radicata nel popolo, che si racconta questo aneddoto accaduto agli inizi della rivoluzione bolscevica. Era stato organizzato un dibattito pubblico sulla risurrezione di Cristo. Prima aveva parlato l’ateo, demolendo per sempre, a suo parere, la fede dei cristiani nella risurrezione. Sceso lui, salì sul podio il prete ortodosso che doveva parlare in difesa. L’umile pope guardò la folla e disse semplicemente: “Cristo è risorto!” . Tutti in coro risposero, prima ancora di pensarci: “È risorto in verità!”. E il prete discese in silenzio dal podio.

Conosciamo come viene raffigurata la risurrezione nella tradizione occidentale, per esempio in Piero della Francesca. Gesù che esce dal sepolcro issando la croce come un vessillo di vittoria. Il volto ispira una straordinaria fiducia e sicurezza. La sua vittoria però è sui suoi nemici esterni, terreni. Le autorità avevano messo sigilli alla sua tomba e guardie a vigilare, ed ecco che i sigilli sono infranti e le guardie dormono. Gli uomini sono presenti solo come testimoni inerti e passivi; non prendono veramente parte alla risurrezione.

Nell’icona orientale la scena è tutta diversa. Non si svolge a cielo aperto, ma sottoterra. Gesù, nella risurrezione, non sale ma scende. Con straordinaria energia egli prende per mano Adamo ed Eva che aspettavano nel regno dei morti e li trascina con sé verso la vita e la risurrezione. Dietro i due progenitori, una folla innumerevole di uomini e donne che aspettano la redenzione. Gesù calpesta le porte degli inferi che ha appena scardinato e infranto lui stesso. La vittoria di Cristo non è tanto su nemici visibili, quanto su quelli invisibili, che sono i più tremendi: la morte, le tenebre, l’angoscia, il demonio.

Noi siamo coinvolti in questa rappresentazione. La risurrezione di Cristo è anche la nostra risurrezione. Ogni uomo che guarda è invitato a identificarsi con Adamo, ogni donna con Eva, e a protendere la sua mano per lasciarsi afferrare e trascinare da Cristo fuori dal sepolcro. È questo il nuovo universale esodo pasquale. Dio è venuto “con braccio potente e mano tesa” a liberare il suo popolo da una schiavitù ben più dura e universale di quella d’Egitto.

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Una sola fede: Eucarestia e carità, di p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.

Prendo lo spunto per questo insegnamento su "Eucaristia e carità" dall'episodio dei discepoli di Emmaus (cf Lc 24, 13-34) che abbiamo più volte ascoltato in questa ottava di Pasqua. Esso ci permette di riflettere sull'Eucaristia in chiave pasquale. «Il duemila - ha scritto il Papa nella Tertio millennio adveniente - sarà un anno intensamente eucaristico» (n. 55). Riflettiamo dunque dapprima sull'esperienza dei due discepoli e poi su ciò che essa ha da dire a noi oggi.


Due di loro erano in cammino


Richiamiamo alla mente il fatto. Due persone camminano insieme; si può vedere dal modo in cui camminano che non sono felici. Il volto è triste, i movimenti lenti e non si guardano in faccia. Ogni tanto pronunciano qualche parola, ma che non è diretta all'altro. Anche se seguono il sentiero lungo il quale camminano, sembrano non avere alcuna meta. Ritornano a casa, ma la loro casa non è più casa. Semplicemente non hanno un altro luogo dove andare. Avevano lasciato il loro paese, avevano seguito quel forestiero con i suoi amici e avevano scoperto tutta una nuova realtà, in cui il perdono, la guarigione e l'amore non erano più delle mere parole, ma delle forze che toccavano la vera essenza della loro umanità. L'uomo di Nazareth aveva reso tutto nuovo. Aveva trasformato la loro vita in una danza! Ora lui è morto. Il suo corpo che aveva irradiato luce è stato distrutto sotto le mani dei torturatori. Tutto era diventato nullità. Essi lo avevano perduto, non soltanto lui, ma anche loro stessi. L'energia che li aveva pervasi di giorno e di notte li aveva lasciati completamente, erano diventati due esseri umani perduti che camminavano verso casa senza avere una casa.


All'improvviso non ci sono più due, ma tre persone che camminano. Gesù si accosta e cammina con loro, ma i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo. I due amici non guardano più in basso la strada davanti a loro, ma negli occhi del forestiero. Alla sua domanda: «Di che state parlando?» (cf Lc 24, 17), segue il loro lungo racconto riguardo a ciò che hanno perduto: qui hanno trovato qualcuno che è disponibile ad ascoltare le parole di disillusione, di tristezza e di totale confusione. Niente sembra aver senso, ma è meglio raccontarlo a lui che è uno sconosciuto, piuttosto che raccontarsi l'un l'altro i fatti noti.


Gesù comincia a parlare con i due. Lui li aveva ascoltati, ora sono loro ad ascoltare lui. «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 27). Il senso di tutte le Scritture, di tutto l'Antico Testamento, improvvisamente era lì aperto e chiaro davanti ai loro occhi. Gesù aveva «aperto loro la mente all'intelligenza delle Scritture» (Lc 24, 45). Era la prima interpretazione cristologica della Scrittura. Io non mi stupisco affatto che i due discepoli si sentissero ardere il cuore in petto nell' ascoltarlo.
Questo il tipo di lettura della Bibbia che Gesù inaugurò quel giorno con i discepoli di Emmaus. Si chiama "la lettura spirituale" della Scrittura. Essa ha dunque un precedente illustre. Guai a rinunciare a essa, in nome di una lettura puramente storica e scientifica della Scrittura.


Lo riconobbero allo spezzare il pane


Intanto, parlando parlando, erano giunti al villaggio. Il forestiero fa «come se dovesse proseguire» (cf Lc 24, 28). Non fa "finta" (Gesù non finge mai!); egli deve veramente proseguire. Deve arrivare «ai confini della terra» (cf At 1, 8). Si ferma solo quando qualcuno gli dice con tutto il cuore: «Resta con noi Signore».


«Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (cf Lc 24, 29). La solennità dei gesti, l'analogia con ciò che Gesù fece nell'ultima cena non lasciano dubbi: per l'evangelista si tratta di un gesto eucaristico. Da qui anzi l'Eucaristia trarrà in seguito il nome di fractio panis, lo spezzare del pane.


«Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista» (Lc 24, 31). Non deve stupire il fatto che, quando Gesù appare dopo la risurrezione, sulle prime i discepoli non lo riconoscono (cf Lc 24, 16). Egli non è risorto, per così dire, all'indietro, alla vita di prima, ma in avanti, verso una vita nuova. La persona è la stessa, ma lo stato è cambiato: non vive più "secondo la carne" (Rm 8, 12), ma "secondo lo Spirito"(cf Gal 5, 13).


Nel caso dei discepoli di Emmaus, Luca ha voluto dirci qualcosa in più e cioè che il vero Gesù lo si incontra ormai nel suo Corpo eucaristico. Con le sue "apparizioni" Gesù prepara la sua "sparizione". Educa i discepoli a riconoscerlo, con gli occhi della fede, nell'Eucaristia che è il modo nuovo con cui si farà presente ai suoi «fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
«E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone". Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24, 33-35).
I due non sono più intimoriti dal fatto che «è sera» (Lc 24, 29). Di corsa tornano indietro a Gerusalemme. Ascoltano, raccontano. Sono stati «rigenerati a una speranza viva dalla risurrezione di Cristo dai morti» (cf l Pt l, 3). Rinasce l'amore per la comunità, il bisogno di ritrovarsi con i compagni di fede. Il Maestro è risorto e con lui risorto anche la vita risorge. Testimoniare non è più un obbligo, è una necessità.
Luca in questa breve storia ci ha spiegato, meglio che con interi trattati, come è nata la Chiesa... e come, ogni volta, essa rinascerà.


Parlaci, Signore!


La storia dei due discepoli di Emmaus è una parabola per noi; contiene una parola profetica per il Rinnovamento carismatico in questo momento della sua storia. Affido allo Spirito Santo il compito di farvi comprendere direttamente questo significato attuale per noi, come in un attimo lo ha fatto comprendere a me.
Lo stato d'animo del Rinnovamento carismatico in alcuni luoghi somiglia a quello dei due discepoli al momento di allontanarsi da Gerusalemme. C'è un "Cleopa" nascosto in ciascuno di noi. «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele...» (Lc 24, 21). Invece ci vediamo noi stessi riassorbiti nell'opacità del vivere quotidiano. La preghiera che era una gioia, diventa una fatica, la comunione con i fratelli difficile, difficoltà e tentazioni che credevamo di aver superato per sempre rispuntano più forti di prima. L'entusiasmo per l'ecumenismo si affievolisce. I rapporti con la gerarchia continuano, a livello locale, a essere talvolta difficili. . .


Non occorre insistere, perché ognuno, credo, potrebbe tracciare un suo proprio quadro assai più aderente alla realtà del mio. La tentazione è quella dei discepoli di Emmaus: far ritorno a casa, al proprio villaggio, alle amicizie e agli interessi di un tempo, al modo di vivere la propria fede di un tempo. Gesù ci vuole guarire, rimettere in piedi la speranza, l'entusiasmo, esattamente come fece con i due discepoli. Vuole che condividiamo fino in fondo la loro storia, non solo nella prima parte. Che torniamo a casa da questo incontro mondiale come essi tornarono a Gerusalemme pieni di gioia (cf Lc 24, 33). Il cammino che dobbiamo fare a questo scopo è lo stesso che Gesù fece fare ai due discepoli e passa attraverso la riscoperta della parola di Dio e dell'Eucaristia.


Cominciamo dalla Parola. Noi abbiamo sperimentato il potere della parola di Dio. Esso non è per noi oggetto solo di astratta fede. Parole che hanno segnato una svolta. Dobbiamo ritrovare il gusto, la passione per la parola di Dio. La Parola ti innalza e ti fa vedere che la tua vita quotidiana e ordinaria è qualcosa di sacro. Senza la parola di Dio, la nostra vita ha poco senso, poca vitalità, poca energia. Senza la Parola, sei persona di poco conto, che vive una vita di poco conto e muore una morte di poco conto.


Gesù si rattristava del fatto che gli chiedessero continuamente segni, mai si rattristava quando gli chiedevano di parlare. Anche noi chiediamo a Dio parole, più che segni.


L' Eucaristia


Il mezzo per eccellenza usato da Gesù per riaccendere la fede dei discepoli di Emmaus - a cui la stessa spiegazione delle Scritture doveva servire - fu sedersi a tavola e spezzare il pane con loro, in altre parole l'Eucaristia. Così è anche oggi. Molti fratelli del Rinnovamento sentono il bisogno di rinnovare il loro battesimo nello Spirito e chiedono di farlo in diverse circostanze. Io credo che il modo migliore per rinnovare periodicamente il battesimo nello Spirito è di accostarci, con questa intenzione, all'Eucaristia. Il battesimo si riceve nella Chiesa una sola volta, l'Eucaristia invece "ogni volta" che vogliamo. La forza della comunione eucaristica risiede proprio qui; in essa noi diventiamo un solo spirito con Gesù e questo "solo spirito" è lo Spirito Santo! Nel sacramento si riflette quello che avvenne nella storia. Nella comunione Gesù viene a noi come colui che dona lo Spirito. Intorno alla mensa eucaristica si realizza la "sobria ebbrezza dello Spirito". Una santa ebbrezza è questa che opera la sobrietà del cuore.


Di qui la celebre esclamazione dello stesso sant'Ambrogio, in un suo inno che ancora oggi si recita nella Liturgia delle ore: «Beviamo con gioia l'abbondanza sobria dello Spirito!» (Laeti bibamus sobriam protusionem Spiritus).


Quelli che ebbero la fortuna di essere in San Pietro il giorno di Pentecoste del 1975 nel primo incontro tra il Rinnovamento carismatico cattolico e il successore di Pietro ricorderanno le parole che Paolo VI pronunciò al termine del discorso scritto: «Nell'inno che leggiamo questa mattina nel breviario e che risale a sant'Ambrogio, nel IV secolo, c'è questa frase difficile a tradursi anche se molto semplice: Laeti, che significa con gioia; bibamus, che significa beviamo; sobriam, che significa ben definita e moderata; profusionem Spiritus, cioè l'abbondanza dello Spirito. Laeti bibamus sobriam profusionem Spiritus. Potrebbe essere il motto impresso sul vostro movimento: un programma e un riconoscimento del movimento stesso». Fu il primo "riconoscimento ecclesiastico" del Rinnovamento carismatico cattolico.


Tradirei, a questo punto, l'amicizia che ho coi fratelli di altre Chiese cristiane, se non manifestassi loro un pensiero che ho nel cuore. Noi abbiamo ricevuto molto da voi: la stima e l'amore per la parola di Dio, l'apertura ai carismi... Questo ci dà il coraggio di dirvi che c'è anche qualcosa di nostro, di cattolico, che vorremmo condividere con voi, offrirvi come il nostro dono: è l'amore per l'Eucaristia. Non è detto che tutte le Chiese debbano esprimere la loro fede nella presenza eucaristica di Gesù allo stesso modo che facciamo noi. Bisogna però dire che alcuneChiese cristiane devono certamente fare uno spazio maggiore all'Eucaristia nella loro teologia e nella loro prassi. L'unità pienadei cristiani non potrà che essere un'unità eucaristica: «Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1 Cor 10, 17).


Affrettiamo il giorno in cui, seduti a una stessa mensa, potremo, insieme, riconoscere il Signore allo spezzare del pane.
Il Rinnovamento carismatico è nato con una forte spinta a ritornare all'essenziale della vita cristiana: lo Spirito Santo, la signoria di Cristo, la parola di Dio, i sacramenti, i carismi, la preghiera, l' evangelizzazione. In questo risiedeva il segreto della sua forza dirompente.


Back to the basic, come dicono i nostri fratelli di lingua inglese: torniamo all'essenziale! Perché sento il bisogno di ricordare tutto questo? Il concilio Vaticano II ha iniziato una grande opera di ripulitura e di snellimento della fede cattolica.


Concentrarsi sull'essenziale non significa togliere ai fedeli ogni spazio di libertà, ogni preferenza, appiattire tutto. C'è spazio per coltivare anche una propria devozione particolare, ma questo deve rimanere nell'ambito personale, non si deve confondere ciò che è richiesto a tutti con ciò che è lasciato alla scelta di ognuno.


Fecero ritorno a Gerusalemme


La storia dei discepoli di Emmaus è un piccolo capolavoro anche dal punto di vista letterario e poetico. Due cammini che terminano entrambi in un cenacolo, due scene di esterni seguite da due di interni, movimento e quiete in alternanza perfetta. Si apre con i due discepoli che si allontanano a testa china da Gerusalemme (cf Lc 24, 13), si chiude con gli stessi che di corsa e pieni di gioia tornano a Gerusalemme gridando a tutti di avere incontrato il Signore e averlo riconosciuto allo spezzare il pane. L'epilogo della vicenda dei discepoli di Emmaus è anch'esso una profezia per il Rinnovamento carismatico. È un invito, per quelli che stavano disamorandosi dei fratelli, dell'opera dello Spirito, per i delusi e gli sfiduciati, a invertire il cammino. A tornare con rinnovato slancio a servire Dio nella Chiesa, a ricongiungersi ai fratelli con i quali hanno fatto un tratto di strada insieme, a ricostituire, là dove è possibile, comunità, collaborazioni e amicizie interrotte.


Nonostante l'impressione diffusa di un calo di entusiasmo, una cosa, per nostra fortuna, continua a essere ora come nei primi tempi del Rinnovamento carismatico ed è la potenza dello Spirito Santo. «Non si è accorciato il braccio del Signore!» (cf Nm 11, 23). Ogni volta che gli permettiamo di agire, che creiamo occasioni per la sua venuta, che con fede piena di attesa (expectant faith) riuniamo gente nel cenacolo, egli scende, ora in maniera visibile e drammatica, ora in modo più nascosto e progressivo. Segni visibili di questo passaggio dello Spirito sono in genere la rinascita del coraggio, della speranza e della gioia. La gioia infatti è uno dei segni o dei frutti dello Spirito. Cerchiamo di coltivare questi segni.


Che lo Spirito Santo ci aiuti a portare intatta con noi, nel millennio appena iniziato, la fiamma della Pentecoste in modo che possa ancora trasformare la vita di tanti uomini e donne del nostro tempo.

Gridiamo anche noi come i discepoli di Emmaus; gridiamolo tra noi per poi gridarlo al mondo: «Il Signore è veramente risorto! L'abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane!».

Tratto dalla Rivista  "Rinnovamento nello Spirito Santo" - Maggio/giugno 2000
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GESU' DI EMMAUS, di G. Ravasi 

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Nel 1623 un grande musicista tedesco, Heinrich Schùtz, compose uno stupendo oratorio intitolato
Storia della risurrezione (op. 3). Alla partitura egli aggiunse un post-scriptum di poche ma intense righe: «Signore Gesù Cristo, tu mi hai concesso di cantare la tua risurrezione su questa terra.

Nel giorno del tuo giudizio, Signore, richiamami dalla mia tomba e, in cielo, il mio canto, mescolato a quello dei serafini, ti renderà grazie in eterno!». La narrazione evangelica della Pasqua di Cristo, pur nella sua estrema sobrietà, ha una potenza di speranza da aver mosso tanti cuori, in particolare quelli di coloro che hanno voluto riproporre la loro fede attraverso la bellezza dell’arte. Si pensi solo all’indimenticabile cascata di alleluia del Messia di Hàndel (1742). Ci fermiamo ora su una delle pagine più affascinanti del Vangelo di Luca: i discepoli di Emmaus (24,13-35).
La cornice cronologica è proprio quella del giorno di Pasqua. Due discepoli stanno camminando sulla strada che da Gerusalemme conduce a un non meglio identificabile villaggio di Emmaus. Il Cristo della gloria pasquale non è riconoscibile coi sensi soltanto: è necessaria una via superiore di conoscenza. Due sono le tappe di questo processo di fede: prima l’ascolto delle Scritture spiegate da Cristo in chiave cristiana; poi lo “spezzare il pane” che, nel linguaggio neotestamentario, allude all’eucaristia. In questi termini abbiamo già ciò che ogni domenica facciamo all’interno delle chiese, ascoltando la Parola di Dio e accostandoci alla mensa del Signore.
Nell’ascolto della Parola «il cuore arde nel petto»; allo spezzare del pane «gli occhi si aprono e lo riconoscono». Ma c’è anche quell’indimenticabile implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!». Lasciamo la parola al grande scrittore francese, Francois Mauriac (1885-1970), e alla sua Vita di Gesù (1936): «A chi di noi, dunque, la casa di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati, nostra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità d’una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria! Rimani con noi, perché il giorno declina...! Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo, e della giovinezza perduta non sentiamo più altro che l’ultimo mormorio degli alberi morti nel parco irriconoscibile...».
Cristo, presenza ineludibile, è «con noi sino alla fine del mondo» (Matteo 28,20). Il celebre scrittore Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Cristo aveva risposto: «Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare».


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Giovanni Paolo II L'EUCARISTIA MISTERO DI LUCE NEL VANGELO DI EMMAUS

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Giovanni Paolo II
 Mane nobiscum Domine

L'EUCARISTIA MISTERO DI LUCE

"Spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27)

11. Il racconto dell'apparizione di Gesù risorto ai due discepoli di Emmaus ci aiuta a mettere a fuoco un primo aspetto del mistero eucaristico, che deve essere sempre presente nella devozione del Popolo di Dio: l'Eucaristia mistero di luce! In che senso può dirsi questo, e quali sono le implicazioni che ne derivano per la spiritualità e per la vita cristiana?


Gesù ha qualificato se stesso come "luce del mondo" (Gv 8,12), e questa sua proprietà è ben posta in evidenza da quei momenti della sua vita, come la Trasfigurazione e la Risurrezione, nei quali la sua gloria divina chiaramente rifulge. Nell'Eucaristia invece la gloria di Cristo è velata. Il Sacramento eucaristico è "mysterium fidei" per eccellenza. Tuttavia, proprio attraverso il mistero del suo totale nascondimento, Cristo si fa mistero di luce, grazie al quale il credente è introdotto nelle profondità della vita divina. Non è senza una felice intuizione che la celebre icona della Trinità di Rublëv pone in modo significativo l'Eucaristia al centro della vita trinitaria.
12. L'Eucaristia è luce innanzitutto perché in ogni Messa la liturgia della Parola di Dio precede la liturgia eucaristica, nell'unità delle due "mense", quella della Parola e quella del Pane. Questa continuità emerge nel discorso eucaristico del Vangelo di Giovanni, dove l'annuncio di Gesù passa dalla presentazione fondamentale del suo mistero all'illustrazione della dimensione propriamente eucaristica: "La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda" (Gv 6,55). Sappiamo che fu questa a mettere in crisi gran parte degli ascoltatori, inducendo Pietro a farsi portavoce della fede degli altri Apostoli e della Chiesa di tutti i tempi: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68). Nel racconto dei discepoli di Emmaus Cristo stesso interviene per mostrare, "cominciando da Mosé e da tutti i profeti", come "tutte le Scritture" portassero al mistero della sua persona (cfr Lc 24, 27). Le sue parole fanno "ardere" i cuori dei discepoli, li sottraggono all'oscurità della tristezza e della disperazione, suscitano in essi il desiderio di rimanere con Lui: "Resta con noi, Signore" (cfr Lc 24,29).


13. I Padri del Concilio Vaticano II, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium, hanno voluto che la "mensa della Parola" aprisse abbondantemente ai fedeli i tesori della Scrittura.(9) Per questo hanno consentito che, nella Celebrazione liturgica, specialmente le letture bibliche venissero offerte nella lingua a tutti comprensibile. È Cristo stesso che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura.(10) Al tempo stesso hanno raccomandato al celebrante l'omelia quale parte della stessa Liturgia, destinata ad illustrare la Parola di Dio e ad attualizzarla per la vita cristiana.(11) A quarant'anni dal Concilio, l'Anno dell'Eucaristia può costituire un'importante occasione perché le comunità cristiane facciano una verifica su questo punto. Non basta infatti che i brani biblici siano proclamati in una lingua comprensibile, se la proclamazione non avviene con quella cura, quella preparazione previa, quell'ascolto devoto, quel silenzio meditativo, che sono necessari perché la Parola di Dio tocchi la vita e la illumini.


"Lo riconobbero nello spezzare il pane" (Lc 24,35)


14. È significativo che i due discepoli di Emmaus, convenientemente preparati dalle parole del Signore, lo abbiano riconosciuto mentre stavano a mensa nel gesto semplice della "frazione del pane". Una volta che le menti sono illuminate e i cuori riscaldati, i segni "parlano". L'Eucaristia si svolge tutta nel contesto dinamico di segni che recano in sé un denso e luminoso messaggio. È attraverso i segni che il mistero in qualche modo si apre agli occhi del credente.


Come ho sottolineato nell'Enciclica Ecclesia de Eucharistia, è importante che nessuna dimensione di questo Sacramento venga trascurata. È infatti sempre presente nell'uomo la tentazione di ridurre l'Eucaristia alle proprie dimensioni, mentre in realtà è lui a doversi aprire alle dimensioni del Mistero. "L'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni".(12)
15. Non c'è dubbio che la dimensione più evidente dell'Eucaristia sia quella del convito. L'Eucaristia è nata, la sera del Giovedì Santo, nel contesto della cena pasquale. Essa pertanto porta inscritto nella sua struttura il senso della convivialità: "Prendete e mangiate... Poi prese il calice e... lo diede loro dicendo: Bevetene tutti..." (Mt 26, 26.27). Questo aspetto ben esprime il rapporto di comunione che Dio vuole stabilire con noi e che noi stessi dobbiamo sviluppare vicendevolmente.
Non si può tuttavia dimenticare che il convito eucaristico ha anche un senso profondamente e primariamente sacrificale.(13) In esso Cristo ripresenta a noi il sacrificio attuato una volta per tutte sul Golgota. Pur essendo presente in esso da risorto, Egli porta i segni della sua passione, di cui ogni Santa Messa è "memoriale", come la Liturgia ci ricorda con l'acclamazione dopo la consacrazione: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione...". Al tempo stesso, mentre attualizza il passato, l'Eucaristia ci proietta verso il futuro dell'ultima venuta di Cristo, al termine della storia. Questo aspetto "escatologico" dà al Sacramento eucaristico un dinamismo coinvolgente, che infonde al cammino cristiano il passo della speranza.


"Io sono con voi tutti i giorni..." (Mt 28,20)
16. Tutte queste dimensioni dell'Eucaristia si rannodano in un aspetto che più di tutti mette alla prova la nostra fede: è il mistero della presenza "reale". Con tutta la tradizione della Chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. Una presenza — come spiegò efficacemente il Papa Paolo VI — che è detta "reale" non per esclusione, quasi che le altre forme di presenza non siano reali, ma per antonomasia, perché in forza di essa Cristo tutto intero si fa sostanzialmente presente nella realtà del suo corpo e del suo sangue.(14) Per questo la fede ci chiede di stare davanti all'Eucaristia con la consapevolezza che siamo davanti a Cristo stesso. Proprio la sua presenza dà alle altre dimensioni — di convito, di memoriale della Pasqua, di anticipazione escatologica — un significato che va ben al di là di un puro simbolismo. L'Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo.


Celebrare, adorare, contemplare
17. Mistero grande, l'Eucaristia! Mistero che dev'essere innanzitutto ben celebrato. Bisogna che la Santa Messa sia posta al centro della vita cristiana, e che in ogni comunità si faccia di tutto per celebrarla decorosamente, secondo le norme stabilite, con la partecipazione del popolo, avvalendosi dei diversi ministri nell'esercizio dei compiti per essi previsti, e con una seria attenzione anche all'aspetto di sacralità che deve caratterizzare il canto e la musica liturgica. Un impegno concreto di questo Anno dell'Eucaristia potrebbe essere quello di studiare a fondo, in ogni comunità parrocchiale, l' Ordinamento Generale del Messale Romano. La via privilegiata per essere introdotti nel mistero della salvezza attuata nei santi "segni" resta poi quella di seguire con fedeltà lo svolgersi dell'Anno liturgico. I Pastori si impegnino in quella catechesi "mistagogica", tanto cara ai Padri della Chiesa, che aiuta a scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l'intera loro esistenza.
18. Occorre, in particolare, coltivare, sia nella celebrazione della Messa che nel culto eucaristico fuori della Messa, la viva consapevolezza della presenza reale di Cristo, avendo cura di testimoniarla con il tono della voce, con i gesti, con i movimenti, con tutto l'insieme del comportamento. A questo proposito, le norme ricordano — e io stesso ho avuto modo recentemente di ribadirlo(15) — il rilievo che deve essere dato ai momenti di silenzio sia nella celebrazione che nell'adorazione eucaristica. È necessario, in una parola, che tutto il modo di trattare l'Eucaristia da parte dei ministri e dei fedeli sia improntato a un estremo rispetto.(16) La presenza di Gesù nel tabernacolo deve costituire come un polo di attrazione per un numero sempre più grande di anime innamorate di Lui, capaci di stare a lungo ad ascoltarne la voce e quasi a sentirne i palpiti del cuore. "Gustate e vedete quanto è buono il Signore!" (Sal 33 [34],9).
L'adorazione eucaristica fuori della Messa diventi, durante questo anno, un impegno speciale per le singole comunità parrocchiali e religiose. Restiamo prostrati a lungo davanti a Gesù presente nell'Eucaristia, riparando con la nostra fede e il nostro amore le trascuratezze, le dimenticanze e persino gli oltraggi che il nostro Salvatore deve subire in tante parti del mondo. Approfondiamo nell'adorazione la nostra contemplazione personale e comunitaria, servendoci anche di sussidi di preghiera sempre improntati alla Parola di Dio e all'esperienza di tanti mistici antichi e recenti. Lo stesso Rosario, compreso nel suo senso profondo, biblico e cristocentrico, che ho raccomandato nella Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, potrà essere una via particolarmente adatta alla contemplazione eucaristica, attuata in compagnia e alla scuola di Maria.(17)
Si viva, quest'anno, con particolare fervore la solennità del Corpus Domini con la tradizionale processione. La fede nel Dio che, incarnandosi, si è fatto nostro compagno di viaggio sia proclamata dovunque e particolarmente per le nostre strade e fra le nostre case, quale espressione del nostro grato amore e fonte di inesauribile benedizione.


"Partirono senza indugio" (Lc 24,33)
24. I due discepoli di Emmaus, dopo aver riconosciuto il Signore, "partirono senza indugio" (Lc 24,33), per comunicare ciò che avevano visto e udito. Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata. L'incontro con Cristo, continuamente approfondito nell'intimità eucaristica, suscita nella Chiesa e in ciascun cristiano l'urgenza di testimoniare e di evangelizzare. Ebbi a sottolinearlo proprio nell'omelia in cui annunciai l'Anno dell'Eucaristia, riferendomi alle parole di Paolo: "Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga" (1Cor 11,26). L'Apostolo pone in stretta relazione tra loro il convito e l'annuncio: entrare in comunione con Cristo nel memoriale della Pasqua significa, nello stesso tempo, sperimentare il dovere di farsi missionari dell'evento che quel rito attualizza.(22) Il congedo alla fine di ogni Messa costituisce una consegna, che spinge il cristiano all'impegno per la propagazione del Vangelo e la animazione cristiana della società.
25. Per tale missione l'Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche — in certo senso — il progetto. Essa infatti è un modo di essere, che da Gesù passa nel cristiano e, attraverso la sua testimonianza, mira ad irradiarsi nella società e nella cultura. Perché ciò avvenga, è necessario che ogni fedele assimili, nella meditazione personale e comunitaria, i valori che l'Eucaristia esprime, gli atteggiamenti che essa ispira, i propositi di vita che suscita. Perché non vedere in questo la speciale consegna che potrebbe scaturire dall'Anno dell'Eucaristia?


Rendere grazie
26. Un fondamentale elemento di questo progetto emerge dal significato stesso della parola "eucaristia": rendimento di grazie. In Gesù, nel suo sacrificio, nel suo "sì" incondizionato alla volontà del Padre, c'è il "sì", il "grazie" e l'"amen" dell'umanità intera. La Chiesa è chiamata a ricordare agli uomini questa grande verità. È urgente che ciò venga fatto soprattutto nella nostra cultura secolarizzata, che respira l'oblio di Dio e coltiva la vana autosufficienza dell'uomo. Incarnare il progetto eucaristico nella vita quotidiana, là dove si lavora e si vive — in famiglia, a scuola, nella fabbrica, nelle più diverse condizioni di vita — significa, tra l'altro, testimoniare che la realtà umana non si giustifica senza il riferimento al Creatore: "La creatura, senza il Creatore, svanisce".(23) Questo riferimento trascendente, che ci impegna ad un perenne "grazie" — ad un atteggiamento eucaristico appunto — per quanto abbiamo e siamo, non pregiudica la legittima autonomia delle realtà terrene,(24) ma la fonda nel modo più vero collocandola, al tempo stesso, entro i suoi giusti confini.
* * *

Giovanni Paolo II. Omelie per la III domenica di Pasqua anno A


VIAGGIO APOSTOLICO IN PORTOGALLO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
«Praça de Toiros», Isola di Terceira (Azzorre)
Sabato
, 11 maggio 1991
1. “Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24, 31).
Nel Tempo Pasquale, la Chiesa torna frequentemente al Cammino di Emmaus. Oggi, qui nelle Azzorre, anche la Liturgia ci conduce là: le parole dell’Evangelista ci aiutano a ricordare il momento in cui anche i nostri occhi si sono aperti e hanno riconosciuto Gesù Cristo. Sono già passati cinque secoli, cari fratelli e sorelle, da quando i vostri predecessori, discepoli di Gesù, raggiunsero e popolarono queste isole prolungando fin qui il Cammino di Emmaus, con il Signore Risorto come Guida, Verità e Maestro della loro avventura, permeata dal dramma e dalla gloria della Croce. Anche qui riconobbero Gesù, nella frazione del pane. Questa conoscenza è stata poi trasmessa di generazione in generazione, attraverso le famiglie e le comunità cristiane che qui hanno messo radici.
Un sentimento di viva gratitudine si eleva a Dio nel mio cuore, poiché finalmente mi è stato possibile vedervi e percorrere con voi questo Cammino di Emmaus, che ha il suo culmine nell’Eucaristia. Rivolgo un saluto riconoscente alle autorità presenti, particolarmente al Signor Presidente della Repubblica e agli Organi del Potere Regionale, e a tutta la gente che abita in questa Regione Autonoma delle Azzorre, in mezzo all’Oceano Atlantico. Un abbraccio particolarmente affettuoso al Vescovo, Don Aurelio, al quale esprimo viva gratitudine sia per avermi invitato a visitarvi, sia per le cordiali parole con le quali, poco fa, ha interpretato i vostri sentimenti e desideri. Un saluto cordiale e fraterno a tutti voi, cari abitanti delle Azzorre, che siete usciti dalle vostre case per accogliermi e a quanti, da vicino o da lontano, ci seguono attraverso i mezzi di comunicazione sociale. In voi, saluto gli eredi del patrimonio spirituale e culturale che la fede in Cristo Risorto, di generazione in generazione, si è intrisa sempre più della grazia del Vangelo, e che, in questo giorno, vi esorto a preservare, ponendolo come fermento del Regno di Dio, nella città degli uomini.
2. L’episodio di Emmaus prova come la verità della risurrezione aprisse con difficoltà il cammino, anche nella mentalità di coloro che erano i discepoli di Cristo. Essi uscivano da Gerusalemme “e conversavano di tutto quello che era accaduto” (Lc 24, 14); e tutto quello che era successo li colmava di tristezza e di profonda delusione. “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24, 21). Le speranze che nutrivano nei confronti di Gesù di Nazaret erano limitate a questo mondo. Lo stesso sentimento provavano anche tutti quelli che vivevano intorno a Lui. La situazione della loro patria, allora dominata dai Romani, li induceva a vedere in quest’ottica la missione del Messia: sarà Lui che libererà Israele dall’oppressore straniero. Si attendevano questo da Gesù, perché avevano visto la forza divina che si era rivelata poderosamente nelle sue opere e nelle sue parole.
Non pensavano forse allo stesso modo le Autorità della Nazione? Basta ricordare la riunione del Sinedrio che approvò la decisione di condannare Gesù a morte: Egli si rivelava un pericolo per loro perché avrebbe potuto causare un disastroso intervento del potere romano. “Non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera” (Gv 11, 50).
3. Conversando con i discepoli che non lo avevano riconosciuto quando Egli si era avvicinato loro lungo il cammino, Cristo cerca in primo luogo di modificare il loro modo di pensare puramente umano. Per questo, invoca “la parola dei profeti” (Lc 24, 25), cominciando da Mosè. L’Antico Testamento mostra che era necessario che il Messia “sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria” (Lc 24, 26). Le Sacre Scritture contengono la Parola di Dio: cercate di comprendere gli avvenimenti degli ultimi giorni, alla luce di questa Parola, non cercate di applicare ad essi la vostra interpretazione umana.
La Parola di Dio preannunciò il Messia come il Servo sofferente, su cui peseranno i peccati di tutti gli uomini. Questa sofferenza espiatoria, portata alla sua dimensione estrema sulla Croce del Golgota, è il pieno compimento della Parola di Dio, scritta nell’Antico Testamento: era necessario che sopportasse tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria.
Qual è la gloria del Messia Crocifisso? È la Gloria della Risurrezione dai morti il terzo giorno, è la Gloria del trionfo sulla morte e sul peccato. Cristo vive già nella gloria, nonostante gli occhi dei discepoli si dimostrino incapaci di riconoscerlo.
Questa situazione di cecità nei discepoli di Emmaus si prolunga fino al momento in cui - dando ascolto alle loro insistenti suppliche perché rimanesse con loro - il Signore entrò, si sedette a tavola e divise il pane con loro. “Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero!” (Lc 24, 31). Essi si resero conto allora di aver parlato con Gesù Risorto e dissero tra loro: “non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32).
4. Nell’episodio dei discepoli di Emmaus si manifesta l’essenza stessa della vita della Chiesa: essa vive dell’Eucaristia e della Parola di Dio. La Parola di Dio è preparazione per vivere più profondamente l’Eucaristia, l’Eucaristia costituisce il Sacramento “degli occhi aperti della fede” al Mistero di Dio, rivelato in Cristo. Questi “occhi della fede aperti” agli orizzonti e ai disegni di Dio vi consentiranno di comprendere e di compiere fino in fondo la vostra vocazione e missione al servizio di Cristo nel mondo, vi riveleranno il compito e il luogo che vi compete come artefici e collaboratori di Dio nella costruzione del suo Regno sulla terra.
Sorelle e fratelli carissimi, vi incoraggio a diventare membri sempre più attivi della vostra comunità ecclesiale. Corrisponderete così alla vostra vocazione di cristiani che riflettono ed approfondiscono i fondamenti della loro fede. I compiti che gravano sui cristiani in quest’epoca sono numerosi: bisogna che tutti noi ci uniamo per dare al mondo una testimonianza credibile del Vangelo, per manifestare visibilmente la comunione alla quale Cristo chiama i membri del suo Corpo.
La narrazione dell’episodio di Emmaus termina con il ritorno dei due discepoli al Cenacolo. Loro che, disillusi, avevano abbandonato la comunità, “partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro . . . Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via . . .” (Lc 24, 33-35). Quei cuori ardenti hanno adesso tanto da raccontare, tanto da offrire! Dai cristiani di oggi, ci si aspetta questo stesso cambiamento di vita. Per questa ragione, mi auguro ardentemente che il vostro Congresso Diocesano dei Laici, verso la metà dell’anno prossimo, sia fedele riproduzione di questa meta del cammino verso Emmaus, modificando energie e mezzi, per impegnarvi insieme nella missione unica e comune di annunciare e vivere il Vangelo.
5. Cari fedeli laici, avete una vocazione specifica che non si esaurisce nell’assolvimento degli obblighi minimi indispensabili di battezzati. Questa è la vostra missione di fedeli laici: essere il sale, la luce, l’anima del mondo. Siete padri e madri di famiglia, operai, professori, studenti, contadini, pescatori o impiegati in qualsiasi altra professione. Così vivono e lavorano tutti gli altri uomini e donne; solo che, nel realizzare la vostra missione, cercate di darle un’apertura all’eternità, di compiere in essa la volontà di Dio, di farla lievitare secondo il Regno dei Cieli e di porla al servizio dell’uomo per riuscire ad arrivare a quella pienezza che le viene da Cristo, superando la frattura tra il Vangelo e la vita. Infatti, “sarà la sintesi vitale che i fedeli laici sapranno operare tra il Vangelo e i doveri quotidiani della vita la più splendida e convincente testimonianza che, non la paura, ma la ricerca e l’adesione a Cristo sono il fattore determinante perché l’uomo viva e cresca, e perché si costituiscano nuovi modi di vivere più conformi alla dignità umana” (Ioannis Pauli PP. II, Christifideles laici, 34).
Dinanzi al progresso materiale che tende a spegnere la voce e il richiamo dello spirito, riaffermate la vostra tradizione ricca di esperienza umana e di sapienza cristiana. Penso al ruolo fondamentale della famiglia, al rispetto per gli anziani, alla cura degli ammalati, all’accoglienza e alla reciproca solidarietà, penso, soprattutto, all’educazione cristiana, alla preghiera in famiglia, alla quotidiana recitazione del Rosario nelle vostre case... Questo patrimonio umano e cristiano ha già plasmato intere generazioni e generato sante vite. Ricordiamo il Patrono della vostra Diocesi, il Beato Giovanni Battista Machado, battezzato nella Sede Cattedrale di Angra, in Giappone egli annunciò il vangelo e lì testimoniò con il martirio, nel 1617. Come non evocare ancora il Fratello Bento de Gois, anch’egli abitante delle Azzorre, e i suoi viaggi da autentico pioniere nelle terre misteriose del Tibet?
6. Quanto è avvenuto sul cammino di Emmaus può essere visto come introduzione a quanto la Prima Lettura della Liturgia di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli, ci dice sulla vita della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli . . . nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2, 42).
Questa comunità si è formata dopo il giorno della Pentecoste, quando lo Spirito Santo aprì gli occhi e il cuore, prima agli stessi Apostoli e, in seguito, mediante la loro testimonianza, ai nuovi discepoli di Cristo. Di essi si dice: “stavano insieme . . . chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 44-45). Spinti dal messaggio sociale del Vangelo, essi distribuivano i loro beni tra i poveri, convinti che le parole del Signore - “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40) - non dovessero restare un pio desiderio, ma diventare un concreto impegno di vita. Il Figlio di Dio scelse la morte e salvò tutti gli uomini e al tempo stesso li unì tra loro, rendendoli responsabili gli uni degli altri, poiché nessuno si può considerare estraneo o indifferente alla sorte di ogni altro membro della famiglia umana.
È necessario contrapporre, dinanzi alla mentalità individualista oggi diffusa, il nostro concreto impegno di solidarietà e carità, che ha inizio in seno alla famiglia, con il reciproco appoggio tra gli sposi e, dopo, con le attenzioni che una generazione rivolge all’altra. La famiglia si qualifica come comunità di solidarietà. Spesso, comunque, succede che quando essa si decide ad aderire pienamente alla propria vocazione, si vede privata di risorse sufficienti e di strumenti efficaci di appoggio, sia nell’educazione dei figli, sia nella cura degli anziani, evitando il loro allontanamento dal nucleo familiare e rinforzando i vincoli tra le generazioni (cf. Ioanni Pauli PP. II, Centesimus annus, 49).
Oltre alla famiglia, molte altre società intermedie svolgono funzioni primarie e costruiscono reti specifiche di solidarietà che dinamicizzano il tessuto sociale, impedendogli di cadere nell’anonimato e nella massificazione, purtroppo frequenti nella società moderna, e equilibrando la divisione dei beni a favore degli “ultimi”, i prediletti del Signore Gesù, che, come tali, furono legati alla Chiesa che ne fece la sua opzione preferenziale.
7. “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia” (Sal 118, 1).
Oggi cantiamo insieme, qui nelle Azzorre, questo Salmo pasquale della Chiesa. Lo cantavano i discepoli di Emmaus nei loro cuori, sulla via del ritorno a Gerusalemme, dopo aver riconosciuto il Signore Risorto, al momento della frazione del pane. Lo cantarono, in seguito, i cristiani della prima comunità di Gerusalemme, riunita intorno agli Apostoli, e, dopo di essa, le successive comunità che sorgevano in tutto il mondo allora conosciuto. Di generazione in generazione, questo cerchio si andava allargando. Il cristianesimo giunse nella Penisola Iberica, già dai tempi degli Apostoli e, molti secoli dopo, da essa partirono le missioni verso il Nuovo Mondo, fruttificando prima qui, in queste isole che segnano il punto estremo dell’Europa.
In tanti luoghi della terra, in tante comunità, si rinnova l’incontro del Signore con i discepoli sul cammino di Emmaus. La Chiesa vive della Parola di Dio e dell’Eucaristia: gli occhi del cuore si aprono e riconoscono il Redentore. È con questa apertura al Signore, le voci umane fanno udire all’unisono il canto pasquale di tutta la Chiesa:
“Celebrate il Signore perché è buono; perché eterna è la sua misericordia”.

* * *


Carlo Caffarra - TERZA DOMENICA DI PASQUA
26 aprile 1998

I cinquanta giorni durante i quali celebriamo la risurrezione del Signore, sono il tempo privilegiato durante il quale ci è dato di “sperimentare-sentire-percepire” la presenza del Signore risorto in mezzo a noi. Di verificare le parole di Gesù: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b).
E’ per questo che anche oggi il Vangelo ci narra un incontro degli Apostoli col Signore; anzi più precisamente, di una manifestazione di Gesù: “Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli”. Questi racconti sono assai importanti per la nostra fede: essi infatti ci rivelano come avviene anche oggi l’incontro del credente col Signore risorto. Certo: le concrete modalità con cui il Risorto si è manifestato ai sette discepoli non sono quelle con cui Egli si manifesta a ciascuno di noi. Ma ciò che è accaduto a loro può accadere anche a noi: il Signore si manifesta! Vivo, nella sua Persona.
1. “Gesù disse loro: venite a mangiare … pure il pesce”. E’ questo il momento culminante della manifestazione e dell’incontro. Non c’è più alcun dubbio sulla sua identità (“E nessuno dei discepoli … che era il Signore”). Che cosa accade? “Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro”.
E’ una profonda esperienza di vicinanza, nella quale ogni estraneità del discepolo col Signore e reciprocamente, è superata. S. Pietro dirà ai suoi fedeli: “stringendovi a Lui …”. Mentre al popolo dell’antica alleanza era stato detto: “Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: guardatevi dal salite sul monte e dal toccare le falde” (Es. 19,11). Non che la distanza sia stata superata dall’uomo; è stato Dio che in Gesù si è fatto vicino all’uomo: “allora Gesù si avvicinò”. Egli si è avvicinato, poiché avendo noi “in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe” (Eb 3,14). E pertanto, Egli non è uno “che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (ib. 4,15).
E’ una profonda esperienza di convivialità durante la quale Gesù stesso ci serve il cibo: “prese il pane e lo diede loro”. L’evangelista S. Luca ci ha conservato alcune parole dette da Gesù la sera prima della morte: “io preparo per voi un regno … perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno” (Lc 22,29-30). Sul lago di Tiberiade, quella mattina, si adempie questa promessa del Signore; si adempie l’antica promessa del profeta: “Preparerà il Signore degli Eserciti … un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti” (Is 25,6).
Fratelli, sorelle: sono sicuro che avrete già collegato questo banchetto del Signore risorto coi suoi discepoli, durante il quale questi vivono un’indicibile esperienza di vicinanza a Lui, coll’Eucarestia. E’ un collegamento giusto, questo che avete fatto. A ciascuno di noi è dato di vivere la stessa esperienza di comunione col Signore risorto proprio attraverso il banchetto eucaristico. Anzi, l’Eucarestia è esattamente questo: la presenza del Cristo risorto in mezzo a noi. Nella celebrazione dell’Eucarestia noi possiamo vivere di questa presenza reale, anche se nascosta: non solo Egli si dona a noi nella sua Parola che ci conforta e ci consola, ma nel suo Corpo e nel suo Sangue.
“E nessuno dei discepoli osava domandargli: «chi sei?», poiché sapevano bene che era il Signore”. Che la nostra fede sia così viva che non sentiamo più il bisogno di chiederci: ma che cosa stiamo facendo? Ben sapendo che stiamo celebrando il mistero della Presenza del Signore con noi.

2. Domenica scorsa, la storia di S. Tommaso ci ha insegnato che per riconoscere il Signore risorto, per avvertire la sua Presenza fra noi è necessaria la fede: “non essere più incredulo, ma diventa credente” aveva detto a Lui il Signore.
Oggi, il quadro delle disposizioni umane necessarie per “vedere” la presenza del Signore, si completa. Se fate bene attenzione alla pagina evangelica, vedete che, come sempre, all’inizio il Signore non è riconosciuto. Il primo a riconoscerlo è il discepolo che Gesù amava: è l’amore che rende il discepolo prediletto capace di riconoscere Colui che è sulla riva, come il Signore. E’ l’amore che dona all’uomo la capacità di vedere Gesù. Tommaso ha creduto dopo che ha messo la mano nel costato di Cristo: dopo che ha sentito l’amore del Signore. E’ l’amore che dona alla nostra anima gli occhi per vedere. Quando si tratta di qualcosa, tu puoi conoscere pur restando del tutto indifferente nei suoi confronti. Quando si tratta di qualcuno, di una persona, la si può conoscere solo nella misura in cui la si ama: il mistero di ogni persona di apre solo agli occhi del cuore di chi lo ama. Lo stesso accade nella nostra esperienza di fede: il primo a riconoscere il Signore è colui che aveva amato di più il Signore.
Fratelli e sorelle: questa pagina narra l’ultima apparizione del Risorto ai discepoli. Anche noi nelle domeniche successive non mediteremo più sulle apparizioni del Risorto, come abbiamo fatto nelle prime tre domeniche di Pasqua. Ma l’ultima apparizione, come è descritta oggi dal Vangelo di Giovanni, non ci sembra affatto un commiato: il tempo si è come fermato. Il Risorto rimane con noi: non importa se non lo vediamo cogli occhi del nostro corpo. Egli rimane, poiché il banchetto eucaristico è sempre preparato nella Chiesa. Resta l’Eucarestia per i discepoli che credono ed amano il Signore. “E’ il mistero eucaristico che accompagna la Chiesa nel suo cammino e fa già presente la fine. La fine del mondo è la Sua presenza” (D. Barsotti). 
 
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Carlo Maria Martini, Partenza da Emmaus

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Preghiera introduttiva
«O Dio, Padre nostro, che nel Tuo Figlio Gesù hai voluto farti compagno dei discepoli sulla strada di Emmaus per sciogliere i loro dubbi e incertezze e rivelare la Tua presenza nel pane spezzato, apri i nostri occhi perché sappiamo vedere la Tua presenza, illumina la nostra mente perché riusciamo a comprendere la Tua Parola e accendi nei nostri cuori il fuoco del Tuo Spirito perché troviamo il coraggio di diventare testimoni gioiosi del Risorto, Gesù Cristo, Tuo Figlio e nostro Signore. Amen»
Lettura del brano:
[13] Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, [14] e conversavano di tutto quello che era accaduto. [15] Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. [16] Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. [17] Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; [18] uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». [19] Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; [20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. [21] Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. [22] Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro [23] e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. [24] Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto».
[25] Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26] Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [28] Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. [29] Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno gia volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. [30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. [31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. [32] Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». [33] E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, [34] i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». [35] Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.


Introduzione
Quello dei discepoli di Emmaus è certamente uno fra i brani più suggestivi e, per certi versi, più aderente alla nostra realtà di persone in cammino, certamente con molte certezze, ma spesso vittime di dubbi, perplessità, interrogativi e desideri.
Proviamo dunque a tentare una rilettura del testo cercando di attualizzare l’annuncio e al tempo stesso cogliendo gli elementi principali che favoriscono una comprensione, una interiorizzazione e quindi una profonda e autentica assimilazione del messaggio teologico che esso contiene.

Delusione, dubbio, incertezza
Nel giro di una settimana a Gerusalemme è capitato di tutto. Gesù è stato accolto in maniera trionfale, acclamato come un re; ha trasmesso il comandamento dell’amore; durante la cena per la pasqua ha rivelato il valore del servizio con la lavanda dei piedi, ha garantito la sua presenza reale spezzando un pane e versando del vino; è stato arrestato; ha sopportato tradimenti e rinnegamenti; è stato arrestato, processato, condannato a morte, trafitto su una croce, sepolto… E basta. Tutto è finito. Nel giro di una settimana sono sfumati progetti, speranze e illusioni tessuti pazientemente in tre anni di sequela fedele e attenta. Tutte le cose che abbiamo costruito, per le quali ci siamo spesi, per le quali abbiamo sudato, lottato e pianto, per le quali abbiamo anche rischiato, ci siamo esposti, sono definitivamente sigillate e oscurate dietro quella grande pietra rotolata contro l’entrata di quel sepolcro nuovo, scavato nella roccia. Sembra di sentirli: "…che delusione… e chi se l’aspettava… lasciamo perdere, andiamo via… Basta, torniamo ad Emmaus!".
Sono i discorsi di due persone che, dopo aver vissuto una esperienza affascinante ed esaltante con Gesù, si ritrovano soli, abbandonati, sconfitti e decidono di abbandonare il "cuore" di questa vicenda per dirigersi verso il definitivo ritorno alla realtà di prima, al quotidiano di ogni giorno.

Gesù si fa compagno
A questo punto, se non conoscessimo l’esito della vicenda e se dovessimo completare la storia con i nostri sistemi, è facile intuire le reazioni: "…e fate come volete… pazienza… peggio per voi… siete grandi e vaccinati... arrangiatevi…".
C’è qualcuno che non la pensa così. "… Gesù in persona si accostò e camminava con loro" (v. 15b) e non perché "è togo" e gli piace mettersi in mostra e affermare la sua supremazia, tant’è che "…i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo" (v. 16). E’ lui che prende l’iniziativa e soprattutto cammina al loro fianco, si fa compagno di quella strada, di quella determinata fase del loro cammino.
Certamente – e ce lo rivela l’originale del testo greco – il loro discutere e discorrere era visibilmente animato, tanto che è facile per lo sconosciuto permettersi di domandare loro: "Ma di che cosa state parlando così calorosamente?". Anche qui, con il nostro stile poco aperto al dialogo, verrebbe voglia di sostituirci alla risposta dei due discepoli: "Ma cosa vuoi? Fatti i fatti tuoi!". E forse, dopo che essi rispondono: "Di quanto è capitato a Gerusalemme in questi giorni" ed egli incalza: "E che cosa è successo?", non verrebbe voglia di rispondere: "Ma scusa, dove vivi? Dove hai la testa?". Invece è talmente forte la ferita che sentono dentro, la sensazione di essere stati ingannati, che essi sentono il bisogno di sfogarsi. D’altronde chiunque avrebbe convenuto con loro sull’assurdità della vicenda, quindi non esitano a raccontare e esprimere tutta la loro delusione.
E questo si coglie dai verbi che utilizzano: fu profeta grande… speravamo fosse lui a liberare Israele… I discepoli avevano i loro progetti e le loro speranze; certamente, anche sulla scia delle idee promosse dagli zeloti, ai quali era legato uno di loro, che ritenevano che la liberazione dovesse esprimersi con atti militari e tendere alla ricerca della prosperità economica e del benessere materiale. Invece Gesù non solo è condannato a morte, ma alla morte in croce, infamante, riservata ai malfattori. Questo non rientra nei loro progetti.
Anche noi abbiamo desideri, progetti, speranze cui ci aggrappiamo con tanta passione, senza considerare che alcuni accadimenti possono rivelarci che esiste un progetto di Dio, diverso dal nostro, che naturalmente non possiamo prevedere o preventivare, più grande dei nostri pensieri. Per questo non riusciamo a pensare che possa essere più bello, più utile, più entusiasmante per noi e più capace di fare fiato e speranza. Certo, non è facile aprirsi e abbandonarsi al progetto di Dio e al mistero che lo accompagna. Ma per cosa pensate che Gesù "…si accosta e cammina con noi"? Non certo per una sterile comprensione affettiva o per assecondare delusioni o incomprensioni. Egli è la via, la verità e la vita. Per questo cammina con noi: per condurci sulla via; per questo ci spiega le scritture: per portarci alla verità; per questo spezza il pane: per donarci la vita.

Gesù, novità sempre nuova
Mentre i discepoli parlano Gesù li ascolta e li fa parlare. Questo è il compito del vero animatore: ascoltare e fare i modo che l’altro possa esprimere le proprie ansie e possa spiegarsi bene.
L’iniziativa dell’incontro, dicevamo, è presa da Gesù. I discepoli non solo non fanno nulla perché l’incontro possa accadere, ma quasi accettano il viandante con indifferenza, a malincuore e frappongono l’ostacolo della delusione, della rinuncia a credere e a sperare. Gesù però dà rilievo alla libertà dei discepoli, che dapprima scoraggiata e rinunciataria, viene via via rigenerata e aperta alla speranza, alla fiducia nel disegno di Dio sulla storia dell’uomo.
Gesù fa questo senza dire cose nuove. Ma sono cose che avevano bisogno di sentirsi ridire e che assumevano, in quel determinato momento e in quella specifica situazione, un significato nuovo.
E’ per questa ragione che i due, a loro volta, lo ascoltano e lo lasciano parlare: perché si tratta di parole che aprono, spiegano, illustrano, indicano, fanno vedere gli eventi della vita, anche i più oscuri, in un modo nuovo e pieno di speranza.
Sembrava loro che tutto ciò che pesava sul loro cuore a poco a poco si sciogliesse. Ed è così che, arrivati a destinazione, con semplicità e serenità gli dissero: "Perché non ti fermi con noi?". E’ molto bella questa richiesta, la richiesta di restare, di rimanere. Se ci pensate è ciò che avvenne, con inversione delle parti, all’inizio della vita pubblica di Gesù. Due discepoli lo seguono, egli si volta e dice loro: "Che cercate?" - gli dissero: "Maestro, dove abiti?" - egli rispose: "Venite e vedrete" - essi andarono, videro dove abitava e stettero con lui quella notte. Lo stare, il rimanere è il segno più eloquente della conoscenza. Capite ora l’importanza di stare davanti l’Eucaristia!
L’Eucaristia, fonte dell’annuncio
Ed è proprio l’Eucaristia la chiave di svolta di questi due uomini. Quando due persone si amano si parlano anche solo con uno sguardo, basta un segno, la comunicazione è immediata.
Di colpo balzarono in piedi, lasciano la cena a metà e corrono verso Gerusalemme. Quel Gesù che fu profeta, che speravano liberasse Israele, che è stato ucciso in croce era apparso loro, aveva camminato con loro e aveva spezzato per loro il pane.
Ecco l’insegnamento per noi oggi: balzare in piedi, lasciare la mensa, correre nel buio per gridare a tutti: "Il Signore è veramente risorto! Noi l’abbiamo visto".
Gesù ha acceso il loro cuore ed essi non riescono più a contenere l’ardore: sentono il bisogno di comunicarlo agli altri. E’ fonte di commozione e di responsabilità sapere che Gesù chiede la nostra collaborazione per raggiungere gli altri uomini.

L’Eucaristia, alimento della comunità
L’adesione a Gesù esprime nell’adesione alla comunità cristiana e si alimenta nell’Eucaristia, senza della quale non esiste comunità. I due discepoli di Emmaus, dopo aver incontrato il Signore e dopo averlo riconosciuto nel segno del pane, ritornano a quella comunità che avevano abbandonato con il cuore pieno di tristezza. La vita comunitaria deve offrire il clima di fede e di carità, che sostiene la testimonianza insieme alla preghiera.
Chiedo a Gesù che lui stesso accompagni ciascuno di noi, come ha accompagnato i due discepoli di Emmaus, così anche noi, al termine del cammino, possiamo ripetere la loro preghiera: "Resta con noi perché si fa sera".

Piste per la riflessione personale
  • Provo ad indicare alcune piste di riflessione per favorire l’ascolto e l’incontro con Gesù Risorto sulle strade della nostra "Emmaus".
  • Trovo facile comunicare? Quali sono le situazioni che mi bloccano?
  • Riesco a fare del mio comunicare un dono per gli altri e a vedere nel dialogo con gli altri e nel loro ascolto un elemento essenziale della mia vita di fede?
  • Quali sono i miei punti di riferimento quando lo scoraggiamento, la delusione, la stanchezza hanno il sopravvento?
  • Riesco a stare in silenzio davanti all’Eucaristia? Cosa dico a Gesù e cosa Lui dice a me?
  • Riesco a stabilire un rapporto franco e sincero con gli altri? Sono diffidente? Dopo un litigio riesco a fare il primo passo per ricomporre l’amicizia?
  • Quale è il giudizio sulle mie relazioni all’interno della comunità parrocchiale? Mi sento capito, valorizzato? Riesco a valorizzare gli altri? Riesco a vedere negli altri quel qualcosa che manca a completare me stesso?
  • Riesco ad essere elemento di dialogo, di comunione? Sono capace di trasferire agli altri la gioia e l’entusiasmo di essere un vero "testimone del Risorto"? Quali sono gli ostacoli che incontro?
  • Cosa mi propongo per migliorare le relazioni in casa, a scuola, nel lavoro, in parrocchia?
  • Prego il Signore perché resti con me, illumini il mio cammino, mi apra gli occhi e il cuore alla Sua Parola, spezzi il pane per me?
  • Quale è il mio rapporto con il Sacramento della Riconciliazione?
Preghiera conclusiva
«Signore Gesù, grazie perché ti sei fatto riconoscere nello spezzare il pane. Mentre stiamo correndo verso Gerusalemme e il fiato quasi ci manca per l’ansia di arrivare presto, il cuore ci batte forte per un motivo ben più profondo.
Dovremmo essere tristi, perché non sei più con noi. Eppure ci sentiamo felici. La nostra gioia e il nostro ritorno frettoloso a Gerusalemme, lasciando il pasto a metà sulla tavola, esprimono la certezza che tu ormai sei con noi.
Ci hai incrociati poche ore fa su questa stessa strada, stanchi e delusi. Non ci hai abbandonati a noi stessi e alla nostra disperazione. Ci hai smosso l’animo con i tuoi rimproveri. Ma soprattutto sei entrato dentro di noi. Ci hai svelato il segreto di Dio su di te, nascosto nelle pagine della Scrittura. Hai camminato con noi, come un amico paziente. Hai suggellato l’amicizia spezzando con noi il pane, hai acceso il nostro cuore perché riconoscessimo in te il Messia, il Salvatore di tutti.
Quando, sul far della sera, tu accennasti a proseguire il tuo cammino oltre Emmaus, noi ti pregammo di restare.
Ti rivolgeremo questa preghiera, spontanea e appassionata, infinite altre volte nella sera del nostro smarrimento, del nostro dolore, del nostro immenso desiderio di te. Ma ora comprendiamo che essa non raggiunge la verità ultima del nostro rapporto con te. Per questo non sappiamo diventare la tua presenza accanto ai fratelli.
Per questo, o Signore Gesù, ora ti chiediamo di aiutarci a restare sempre con te, ad aderire alla tua persona con tutto l’ardore del nostro cuore, ad assumerci con gioia la missione che tu ci affidi: continuare la tua presenza, essere vangelo della tua risurrezione.
Signore, Gerusalemme è ormai vicina. Abbiamo capito che essa non è più la città delle speranze fallite, della tomba desolante. Essa è la città della Cena, della Croce, della Pasqua, della suprema fedeltà dell’amore di Dio per l’uomo, della nuova fraternità. Da essa muoveremo lungo le strade di tutto il mondo per essere autentici "Testimoni del Risorto". Amen»

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 COMMENTI PATRISTICI

Sant' Agostino. I due discepoli di Emmaus, uomini di fede debole.

Ma ci furono altri due che, camminando per la via, parlavano fra loro delle cose accadute a Gerusalemme: della crudeltà dei Giudei, della morte di Cristo. Camminavano discorrendo, in preda al lutto per la sua morte, del tutto ignari della sua resurrezione. Anche a costoro apparve, e, inserendosi come terzo nel percorrere la strada, intavolò con loro un discorso cordiale. I loro occhi però erano accecati e non lo riconobbero. Bisognava che il loro cuore maturasse nella scienza: per questo si rimanda a più tardi la rivelazione. Comincia col chiedere di che cosa parlassero tra di loro per provocarli a manifestare cose che egli già sapeva; e, come avete ascoltato, essi restarono sorpresi delle sue domande che riguardavano cose note e manifeste, mentre lui sembrava non saperne niente. Gli dicono: Possibile che tu sia proprio l'unico straniero che in Gerusalemme non sappia ciò che vi è accaduto? Egli rispose: Che cosa mai? Tutta la vicenda di Gesù Nazzareno, che era stato un profeta potente in opere e in parole. È di questo che si tratta, o discepoli? Era un profeta il Cristo, ovvero il Signore dei profeti? Al vostro giudice date il nome di araldo? In effetti erano scesi a dire ciò che di lui diceva la gente. Cosa intendo dire con questo richiamo alle dicerie della gente? Ricordate l'episodio quando Gesù chiese ai discepoli: Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo? Essi cominciarono col riferire le opinioni altrui: Qualcuno dice che sei Elia, altri Giovanni Battista, altri Geremia o uno dei profeti. Queste erano le risposte degli estranei, non dei discepoli. Ma qui i discepoli erano arrivati alle stesse conclusioni. Ora a voi: chi dite che io sia? Mi avete risposto riferendomi le opinioni degli altri, adesso voglio udire ciò che credete voi. Allora prese la parola Pietro, uno a nome di tutti perché fra tutti regnava l'unità, e disse: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo. Non uno qualsiasi dei profeti, ma il Figlio del Dio vivo: colui che realizzava le predizioni dei profeti, il Creatore degli stessi angeli. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo. Pietro ascoltò ciò che era doveroso ascoltare dopo tale esclamazione: Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l'hanno rivelato la carne e il sangue ma il Padre mio che è nei cieli. Pertanto io dico a te: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non la vinceranno. A te darò le chiavi del Regno dei cieli; e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo, e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato in cielo. Fu merito della fede, non intuizione dell'uomo, se poté ascoltare tale elogio. Difatti, anche lui come uomo cos'altro era se non quel che dice il Salmo: Ogni uomo è mentitore
 
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Sant' Agostino. La fede dei discepoli di Emmaus e la fede di Pietro.



3. Eccoli dunque parlare fra loro delle cose avvenute. Si dolevano della morte di Cristo, che ritenevano un uomo, quand'ecco Gesù apparve loro, si mise, terzo, in loro compagnia e chiese di che cosa discorressero. Risposero i due: Tu sei l'unico forestiero che si trovi in Gerusalemme il quale non sappia le cose accadute in città durante questi giorni, come cioè i sommi sacerdoti han messo a morte Gesù, quel profeta così grande. O discepoli, a che cosa avete ridotto il Signore? A un profeta? Ma non è lui che riempiva tutti i Profeti? Osservate, fratelli, come i discepoli avevano avuto fede, ma, persa ogni speranza a causa della morte del Signore, erano retrocessi fino ad accettare quelle parole che di lui dicevano gli estranei. Ricorderete infatti, o carissimi, come un giorno il Signore chiese ai suoi discepoli: Chi dice la gente che sia io, il Figlio dell'uomo? E i discepoli in risposta gli riferirono le parole e le opinioni degli estranei, non ciò che credevano loro stessi. Gli dissero pertanto: Alcuni dicono che sei Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti. A questo livello erano ritornati quei discepoli: avevano perso la loro fede e stavano abbracciando le opinioni degli estranei. Gli dissero infatti: Egli era stato un profeta. Era quello che di Cristo avevano pensato gli estranei. I discepoli invece che cosa avevano detto? Alla domanda di Cristo: Ma voi chi dite che io sia? rispose Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlia del Dio vivente. E il Signore a lui: Beato te, Simone figlio di Giona, perché non ti ha rivelato questo né la carne né il sangue - com'è stato invece per coloro che mi ritengono un profeta - ma il Padre mio, che è nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro. Tu hai parlato di me, io voglio parlare di te: tu che hai reso a me la confessione ascolta ora la mia benedizione. Parlando di sé il Signore aveva detto il meno, Pietro vi aveva aggiunto il di più. Nel caso del Signore Gesù Cristo, il di meno era l'essere Figlio dell'uomo; il di più era la dignità di Figlio di Dio. Ora, quel di meno l'aveva enunziato colui che volle essere umile, mentre il di più l'aveva aggiunto colui che il Signore volle porre in alto. Gli disse il Signore: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Sopra codesta tua professione di fede, sopra le parole che hai dette (e cioè: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente), io edificherò la mia Chiesa e le porte dell'inferno non la vinceranno. Queste porte infernali avevano, si, vinto quei due, ma si tenevano a distanza da Pietro: erano state sconfitte nell'arena. O Signore, va' in aiuto a quei discepoli! Spezza loro il pane perché ti riconoscano. Se tu non li riconduci sono perduti. E come li ricercasti? Ecco, quei discepoli ti prendono per un profeta
 
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I discepoli di emmaus nell' arte.

I discepoli di Emmmaus. Lettura spirituale e teologica dell'opera di Duccio da Boninsegna, I pellegrini di Emmaus, Siena




Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede (cfr. 1Cor 15, 17). Duemila anni di storia cristiana sono saldamente ancorate a questa certezza. Il Kerigma, che come testimone passa di generazione in generazione infuocando il cuore e la vita dei credenti, si compie in questo straordinario avvenimento: Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone (cfr. Lc 24,34).
La narrazione evangelica dopo la Pasqua costituisce una sorta di spazio metafisico che registra la Presenza misteriosa, eppure reale, del Cristo glorificato. Cristo è apparso non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti (Atti 10,41).
La visione del Risorto che passa attraverso i muri e mangia con i suoi non è frutto di una allucinazione collettiva, ma è esperienza concreta di un incontro realizzata da testimoni prescelti.
Uomini prescelti sì, ma ignari di ciò che stava loro per accadere; protagonisti di un esperienza reale e pur tuttavia impossibile a misurarsi col metro dei sensi umani.
Duccio di Buoninsegna (1255c. - 1318/1319), pittore intelligente e sensibilissimo che coniuga la ieratica solennità dell'arte bizantino-gotica alla dolcezza dell'arte senese, si fa interprete efficace di questo andare oltre la storia e il gesto, pur facendo riferimento - nella sua espressione artistica -unicamente alla storia e al gesto.
Nel suo capolavoro, la Maestà, (Figura 1) egli narra l'episodio dei discepoli di Emmaus non a partire dall'evento straordinario che si consuma all'interno della locanda, non racconta cioè l'aprirsi degli occhi dei discepoli alla fede grazie al gesto di Cristo - così gravido di memoria - dello spezzare il pane, ma ritrae Cleofa e l'amico in cammino, come vuole l'evangelista Marco; in cammino come i credenti di ogni tempo il cui passo si fa lento per le delusioni e il gravame della storia.





E Gesù cammina con loro sotto le mentite spoglie del viandante. La posizione dei tre personaggi è discreta, posta nell'angolo sinistro del riquadro contrasta con la scena precedente dove campeggia l'angelo della risurrezione che in vesti candide e in solenni panneggi addita - curiosamente - la terra. Non addita il cielo perché il cielo, per Duccio, è qui. Il cielo è lo spazio metafisico che irrompe nella scena del mondo grazie alla fede del credente. Sul cielo, infatti, il Maestro stende generoso il color dell'oro che scintillante e impenetrabile annuncia il carattere mistico dell'avvenimento.
Dall'oro si solleva eloquente il volto del Cristo: "Stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti (Lc 24,25) la parola resterà un libro sigillato per voi se non lascerete che la ragione si rivesta di umiltà e il cuore si dilati agli orizzonti sconfinati della fede".
Lo sfondo oro, se colpito dalla luce violenta si appiattisce e riflette, come specchio, il bagliore che lo aggredisce; ma quando l'oro è accarezzato dalla luce calda di un raggio di sole si colora d'iridescenze e si anima di riflessi palpitanti e vivi. Così colui che si ferma ad una pretesa evidenza dei fatti resta abbagliato dall'orgoglio della sua stessa mente, mentre chi indaga con l'umile raggio della fede scopre nel panorama quotidiano orizzonti nuovi e prospettive ribaltate.
E il rovesciamento di prospettiva che dovette subire lo sguardo e la vita dei due discepoli lo si scorge dalla posizione dei loro corpi. Essi volgono le spalle a colui con il quale pure stanno conversando e camminano, ciò li costringe a una rotazione evidente e innaturale dei volti. Anche loro, come già Pietro un giorno, stanno davanti a Cristo, lo precedono laddove - invece - devono seguirlo. Cristo li costringe a rimanere nel presente, a fare i conti - qui e ora - con le sfide della storia. Entrambi, infatti, in modo diverso si vogliono sottrarre alle loro responsabilità.
Nei colori delle vesti, nella caratterizzazione così semplice e precisa dei gesti emerge la situazione peculiare di ciascuno con una vivezza e un'efficacia inimitabile. Il discepolo più anziano riflette i sentimenti di coloro che non hanno più fiducia nella vita e nel futuro. Il verde del manto è facilmente assimilato all'oro del fondo ed accentua il ritrarsi del personaggio. Questo anziano guarda Cristo con intensità, ma appare dubbioso e il gesto della mano appoggiata delicatamente alla spalla del suo giovane amico esprime desiderio e cautela insieme. Certo è affascinato dai modi e dall'eloquenza del misterioso viandante, ma si sta chiedendo se non sarà forse, anche costui, uno dei tanti venditori di fumo: non sarà forse anche questa una illusione cui farà seguito una delusione, come quella appena registrata del Cristo Messia?
Così il verde scintillante dell'uomo anziano assomma le speranze e i timori dell'osservatore: le sue domande sono le nostre, nostre sono le sue perplessità.
Il giovane discepolo possiede più coraggio, più ardimento. La sua veste dorata cerca di assimilarlo al fondo, ma il rosso del manto lo fa emergere con decisione. Più deciso è anche il gesto della mano: Resta con noi Signore, perché l'ora è ormai tarda e il giorno volge al declino (cfr. Lc 24, 29). Lo sguardo di questo giovane discepolo è così profondo, così risolutamente diretto a Cristo che l'osservatore non può indugiare a lungo su di lui, subito è orientato a guardare al Risorto. Lo si scopre allora, nei panni di un viandante che deve viaggiare a lungo, vestito di pelo, con il bastone in mano e una conchiglia nella bisaccia, come i pellegrini diretti a Compostela. Egli è diretto a fines terrae, come voleva la tradizione medioevale, cioè là dove la terra finisce. Cristo infatti, annota il Vangelo, "fece come se dovesse andare più lontano" (Lc 24, 28).
Il dialogo fra Cristo e il giovane discepolo si fa, a questo punto, più serrato. Gli sguardi, uno nell'altro, fissano un istante eterno dal quale non si vorrebbe mai uscire, mentre i gesti esprimono un'urgenza: "Noli me tangere! Anche tu, non mi trattenere. Io devo camminare lungo i secoli e il tempo, io sono compagno di viaggio per ogni uomo, fino alla fine del mondo."
Ed è così che il dialogo trova lo sbocco, la giusta mediazione fra le urgenze del Mendicante Divino e il desiderio dei discepoli di rimanere in sua compagnia, rimanere in quello sguardo così denso di promesse e di vita.

Lo sbocco lo offre la locanda. (Figura 2) Solo ora ci si accorge della sua architettura sobria ed essenziale. Solo ora si individua il percorso, in salita, lungo un acciottolato che conduce ad un antro oscuro. La locanda si riduce ad una porta, ad un antro, appunto. L'edificio è, senza equivoci, simbolico. La sua linea prospettica riprende la diagonale del monte che si erge dietro il giardino della risurrezione. Siamo nello stesso mistero, saliamo verso la stessa Presenza alla quale però si è ammessi passando attraverso l'oscurità della fede.






Seguendo la direzione suggerita dalle mura della locanda l'occhio si dirige verso la scena dipinta in basso a sinistra del Tergo, dov'è collocato l'inizio della narrazione: l'ingresso trionfale di Cristo nella Gerusalemme terrena. A Emmaus il percorso è compiuto, la folla è scomparsa, il trionfo lontano: siamo toccati dal Mistero in maniera personale e discreta. La croce si è interposta fra la Gerusalemme dei trionfi e il cammino faticoso di Emmaus: qui ci scopriamo diretti verso una Gerusalemme che non è di questo mondo, le cui porte sono oscure perché nascoste dentro il cuore dell'uomo. Qui arde la fede, qui risiede la forza che apre gli occhi allo stupore di vedere Dio presente nelle pieghe del quotidiano. Da qui si riparte per la Gerusalemme terrena missionari di un annuncio: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone! (Lc 24, 34).