mercoledì 25 aprile 2012

Dalla Messa Tridentina alla Riforma Liturgica del Vaticano II


n°2, Olio su masonite, 1961
William Congdon, Eucarestia


Riporto da La Rivista del Clero Italiano, n°3 (2012)
a firma di ENZO BIANCHI
Introduzione
Da tempo sento il dovere di raccontare come ho vissuto la messa per vent’anni, prima della riforma liturgica voluta dal concilio Vaticano II. Sento questo dovere per diverse ragioni. Innanzitutto perché in me il ricordo di quella messa resta vivissimo: da sei a ventiquattro anni è stata per me la messa quotidiana, una messa in cui «servivo» da chierichetto. Quella messa era la principale fonte della mia vita spirituale, era la messa che mi plasmava ogni giorno, era la liturgia di comunione con il Signore nella quale crescevo e facevo discernimento sulla mia vita e sulla mia vocazione. 
Ma c’è anche un’altra ragione per cui sento questo dovere di memoria. Molti che hanno la mia età o sono anche più vecchi, e dunque hanno vissuto come me o più di me quella forma liturgica, sembrano non ricordare, non sanno più parlarne, né sanno leggerla: l’ho constatato più di una volta, rimanendo spesso turbato da tanta smemoratezza… Non si tratta però della trascrizione di ricordi personali, quasi fossero mie memorie, né di nostalgia da parte di un senescente: è un confronto tra due forme di celebrazione, tra due riti entrambi capaci di celebrare il mistero di Cristo, ma uno derivante dall’altro e generato dal più antico, nella continuità della crescita della fede e dell’eloquenza della fede che è la liturgia cattolica. 
Nello scrivere questa testimonianza spero soltanto di essere veridico, onesto con me stesso per quanto mi è possibile, perché è vero che anche l’esperienza della messa riformata dal concilio Vaticano II mi ha plasmato, anzi molto di più, in quanto è la «mia» messa da più di quarant’anni, è la messa che vivo nella mia comunità, come monaco che tenta di essere cristiano. Spero di non ferire nessuno e di fare un servizio a quanti vogliono una testimonianza su quella messa che oggi può essere celebrata come rito straordinario concesso da Benedetto XVI a quanti si sentono legati e affezionati a questa forma pre-conciliare. Il lettore potrà dunque fare un confronto, potrà comprendere di più la continuità tra i due riti e, nello stesso tempo, discernere la «grazia» che la riforma liturgica ha apportato alla vita di tutta la chiesa.
La messa tridentina
Cominciamo con il dire qualcosa sul tempo e sullo spazio di quella liturgia. Nei paesi di campagna come il mio, la messa feriale era celebrata alle 6 del mattino: un orario che veniva incontro ai bisogni della gente, in particolare delle donne, le quali più tardi dovevano lavorare in casa. Alle 6 ero in sacrestia e aiutavo il parroco a vestirsi: lui, dopo averlo baciato, metteva l’amitto sulle spalle e intorno al collo, poi indossava il camice, prendeva il cingolo e la stola che gli porgevo, poi indossava la pianeta e io gli legavo il manipolo. A quel punto il prete era pronto e, dopo aver fatto un inchino alla croce collocata sopra la credenza, ci si avviava verso la chiesa, mentre io davanti a lui portavo il messale appoggiato sul petto, con l’apertura presso il cuore. Quando oltrepassavamo la porta, il sacrestano dava un colpo di campana: ed ecco, eravamo in chiesa.
Nei primi banchi vi erano due o tre suore, la perpetua del parroco, qualche donna anziana; nei banchi dall’altra parte della chiesa stava una famiglia più o meno numerosa, quella che aveva «ordinato», cioè fatto celebrare, la messa per il suo caro defunto nell’anniversario o nel giorno trigesimo della sua morte. In fondo alla chiesa vi erano qualche donna e qualche uomo che amavano quel luogo lontano, fuori dai banchi: con una certa ironia venivano chiamati «quelli della soglia». In tutto vi erano tra le dieci e le quindici persone, non di più; eppure, soprattutto in quell’ora, sovente ancora nel buio, almeno io e il mio parroco avevamo la consapevolezza di stare coramDomino per tutti i cristiani del paese e in comunione con tutta la chiesa.
Giunti all’altare, dopo la genuflessione si saliva a esso per portarvi calice e patena coperti dal velo e per collocare il messale sul leggio. Poi si scendeva e la messa aveva inizio. «Introibo ad altare Dei», diceva a voce sommessa il prete, e io rispondevo: «Ad Deum quilaetificat iuventutem meam». Così io e il prete pregavamo il salmo 41 (42). Era un salmo in cui mi immedesimavo in particolar modo, perché la mia vita era dura e segnata anche dalla sofferenza. «Quaretristis incedo?» (Sal 41 [42],2), dicevo a Dio, e speravo in lui solo affinché allietasse la mia giovinezza. Seguiva la confessione dei peccati. Il prete la faceva per primo: «Confiteor Deo omnipotenti», e io lo assolvevo:
«Misereatur tui omnipotens Deus et,dimissispeccatis tuis, perducat te ad vitam aeternam. Amen». Poi mi confessavo io ed egli mi assolveva, o meglio, assolveva tutti i presenti: essi però non potevano sentire, perché questo dialogo avveniva a voce bassa e sembrava riguardare solo noi due, il prete e me. Noi due eravamo i protagonisti. In questo senso va anche detto che quando un prete arrivava da fuori a dir messa nel mio paese, chiamava me che abitavo di fronte alla chiesa e così poteva soddisfare l’obbligo, perché era proibito celebrare messa da soli (a norma del canone 813 § 1 del Codice di diritto canonico del 1917: «Sacerdos missam ne celebret sine ministro qui eideminserviat et respondeat»).

Il prete mi spiegava: «La gente non sa il latino, quindi non può capire. Alla gente basta “assistere alla messa” e pregare come sa fare, con il rosario o le altre preghiere». In verità non si sarebbe nemmeno osato pensare il concetto di «assemblea», tanto meno ritenere che la gente («popolo di Dio» era un’espressione sconveniente) intesa come assemblea fosse soggetto della celebrazione. I fedeli erano di fatto pensati e trattati come «presenti assenti». Neanche le fedelissime suore avevano un messalino su cui seguire la celebrazione, mentre io ero fiero di possedere e di poter usare quello del Caronti, che mi era stato regalato il giorno della prima comunione. Per la mia generazione il messalino è stato ancora un libro decisivo per la formazione cristiana. La messa, i vespri, l’anno liturgico si imparavano da questo prezioso libro che stava sempre sul comodino, anche come fonte delle preghiere del mattino e della sera, nonché delle varie orazioni per le diverse necessità e delle devozioni dei fedeli. C’era un messalino per ogni età: dopo il Caronti, a dodici anni mi fu regalato il Lefebvre e poi a quindici il Feder. Ancora oggi accanto al mio letto, in attesa di un messalino latino-italiano successivo alla riforma liturgica, conservo quello del Feder per la preghiera personale.
In quegli anni era presente un movimento liturgico molto sentito dal mio parroco. Soprattutto dopo che Pio XII nell’Enciclica Mediator Dei (1947) aveva parlato dei fanciulli come ministranti, chierichetti, questi erano diventati una presenza e un servizio a cui si prestava molta attenzione. Ogni settimana c’erano due ore di insegnamento liturgico e di prove per imparare come servire la messa e le altre liturgie: il parroco era molto esigente e si dovevano apprendere la postura, il modo di camminare, di tenere le mani, di genuflettersi, di fare l’inchino... Questo insegnamento e l’esercizio quotidiano mi dava una consapevolezza profonda e una convinzione forte del servizio all’altare, quasi che la messa fosse cosa del prete e mia: noi due eravamo i protagonisti, perché da chierichetto ero di fatto un concelebrante. Tanto più che ciò che poteva essere cantato dalla gente era irrilevante per la validità della messa: solo il prete era celebrante e ciò che importava era che lui e il chierichetto seguissero il rito secondo le rubriche e validamente («rite et valide»). I canti o le eventuali risposte della gente erano decorativi, ma non necessari. Il chierichetto di allora doveva essere un esperto rubricista, un attento conoscitore delle regole e delle norme liturgiche, un ragazzo consapevole e fiero del suo servizio all’altare. La sua presenza e le sue risposte al prete erano essenziali per la celebrazione: egli era una sorta di chierico virtuale. Né va dimenticato che questo servizio era consentito solo ai maschi, mentre le donne non potevano assolutamente entrare nel presbiterio, né tantomeno collaborare allo svolgimento della celebrazione. Il chierichetto era dunque educato allo spirito liturgico e all’esecuzione ordinata, elegante, seria delle funzioni liturgiche di cui era investito.
Quando il prete saliva all’altare, lo baciava e quindi invocava la pietà del Signore: «Kyrie eleison», diceva, e io rispondevo. Si intrecciavano così tra me e lui le invocazioni di pietà, quindi vi era la preghiera della colletta del giorno, sempre in latino, seguita dalla lettura dell’epistola. Tutte le mattine, essendo la messa «da morto», la lettura dell’epistola era la stessa, 1Ts 4,13-18, che si apriva con le parole: «Fratres, nolumusvos ignorare de dormientibus», così come la successiva lettura tratta dal vangelo secondo Giovanni (Gv 11,21-27). Io studiai e imparai molto presto il latino, già a otto anni, grazie a chi mi ha educato in modo raffinatissimo, soprattutto dopo la morte di mia madre, e così potevo seguire tutte le parole bisbigliate dal prete; sentivo però, dietro le spalle, anche il brusio della gente che recitava il rosario. Ogni tanto il prete si voltava verso la gente dicendo: «Dominus vobiscum», ma ero solo io a rispondere: «Et cum spiritu tuo».

Tuttavia a un certo punto, quando, dopo il prefazio a volte cantato, proclamavo il Sanctus e suonavo tre colpi di campanello, ecco che il brusio della preghiera della gente cessava e tutti, inginocchiatisi, guardavano il prete che all’altare, inchinato sull’ostia e sul calice, pronunciava a voce bassissima le parole della consacrazione. Tutti sapevano, in una totale obbedienza alla «disciplina dell’arcano», che quello era il momento culminante della messa, un momento che infondeva timore: era il «santissimo» della messa, in cui occorreva assolutamente tacere e fare attenzione; era ilfascinosum et tremendum, che si imponeva anche a rozza gente di campagna! Tutti gli sguardi erano fissi alla schiena inclinata del prete, in attesa che apparissero sopra il suo capo, levati in alto dalle sue mani, l’ostia e poi il calice. Anche qui il campanello ritmava i movimenti del prete che si inginocchiava dopo le elevazioni. Uno squillo continuo del campanello che io facevo girare con arte indicava la fine della consacrazione, del momento più alto, del culmine della messa. Aver visto l’ostia e il calice per molti era l’elemento decisivo nella messa, la massima comunione possibile con il Signore, perché quasi nessuno poi accedeva alla comunione del corpo del Signore. La comunione sacramentale era infatti praticata da pochissimi. Era necessario comunicarsi almeno una volta all’anno – recitava il precetto della chiesa – e nessuno, a parte le suore e me, si sentivano di fare la comunione quotidianamente. Va anche detto che la comunione non si faceva durante la messa: al momento della comunione solo il prete si comunicava, poi la messa finiva. Dopo essere rientrato in sacrestia e aver deposto la pianeta, il prete in camice e stola tornava al tabernacolo dell’altare, lo apriva e ci comunicava, inginocchiati alla balaustra; quindi richiudeva il tabernacolo bisbigliando: «O sacrum convivium…».
Questa era la messa feriale e quotidiana, che durava tra i venti e i venticinque minuti, al centro della quale c’era «il silenzio canonico», il santissimo momento della consacrazione e dell’elevazione, un tempo in cui il celebrante si immergeva, più o meno a seconda della sua devozione, in un’azione timorosa, adorante, misterica; e con lui anch’io che da vicino, solo tre scalini più in basso, ascoltavo e quindi potevo accompagnare le sue parole bisbigliate. Resta vero che la gente «assisteva» e che questa era la sua partecipazione: ciò che contava era la devozione, l’esercizio degli affetti, l’attenzione alla presenza di Dio, il timore per quello che avveniva sull’altare. Non era donata la parola del Signore: l’Antico Testamento era ferialmente letto pochissime volte, le letture dell’epistola e del vangelo erano – come si è detto – sempre le stesse, e comunque in latino (più in generale, nelle messe non «da morto» le letture bibliche erano scarsissime: testi quasi unicamente del vangelo secondo Matteo e ammonizioni tratte dall’Apostolo Paolo). Ricordo anche che il mio parroco, ritenuto un innovatore nella liturgia e a volte per questo biasimato dal vescovo, a partire dal 1951 mi faceva leggere in italiano dalla balaustra le letture che lui simultaneamente leggeva a bassa voce in latino sull’altare. Allora le gente faceva silenzio, ascoltava, come all’elevazione: erano gli unici momenti in cui si sospendevano le devozioni condotte parallelamente allo svolgimento della messa. 
Alla domenica invece le messe erano tre: alle 6 per le donne, che poi dovevano andare a casa a preparare il pranzo; alle 8 per i ragazzi, messa a cui seguiva l’ora di catechismo; alle 11 la «messa grande», soprattutto per gli uomini e i giovani. In quest’ultima messa, in particolare, vi erano i canti: la cantoria del paese eseguiva in gregoriano la Missa de angelis; all’inizio e alla fine si cantavano invece degli inni che ricordo con vera tristezza, in quanto composizioni brutte, con parole cariche di sentimentalismo, a volte contenenti elementi drammatici. Ma la gente – va riconosciuto – li sentiva suoi e li cantava con passione. Alla «messa granda» non mancava la predica, adattata all’uditorio: nel primo dopoguerra veniva un «giuseppino» da Asti o un frate passionista dal santuario delle Rocche e, per non rendere la messa troppo lunga, predicava durante lo svolgimento del rito. Si fermava solo al momento delSanctus, si inginocchiava anche lui in direzione dell’altare e riprendeva la predica dopo lo scampanellio che seguiva la consacrazione. Si trattava di prediche, non di omelie: era l’occasione per ricordare e ripassare durante l’anno l’etica cristiana, i comandamenti di Dio, i precetti della chiesa. Negli anni ’50-’60 del secolo scorso la predicazione era un’opportunità per la difesa della chiesa, per la lotta contro l’ateismo, il comunismo e il venir meno della rigorosa morale sessuale, in una società che perdeva i suoi parametri e conosceva una nuova cultura, sempre meno tradizionale e sempre più intrisa di individualismo e di libertà. Molti uomini durante la predica restavano fuori, formando capannelli, e io dovevo uscire per forzarli a entrare prima che ci fosse l’offertorio, avvertendoli che altrimenti per loro la messa non sarebbe stata valida. Il parroco mi diceva: «Su, forza! Compelle intrare, spingili a entrare (Lc 14,23)!». Quelli che entravano, uscivano di nuovo sul sagrato dopo il Padre nostro, dicendo con sollievo: «È finita!», e si lamentavano della predica borbottando.

Oltre alla messa feriale e a quella domenicale, vorrei anche ricordare un’altra messa molto solenne, che veniva celebrata in occasione di funerali o messe di suffragio, ma solo per le persone ricche o nobili. Sì, i ricchi potevano pagare non solo la messa «detta» dal parroco, quella ordinaria, alla portata della gente comune, ma anche la cosiddetta «messa grande levitica». In questa occasione venivano da fuori altri due preti, che rivestivano il ruolo levitico del diacono e del suddiacono: questi ultimi indossavano la dalmatica e assistevano il parroco durante la messa. Era una messa che stupiva per la solennità (dovuta soprattutto alla contemporanea presenza di tre preti), per il canto (eseguito dalla cantoria), per la presenza di un catafalco altissimo e ornato con numerose candele, diverso da quello per i poveri, montato appositamente per accogliere la bara oppure, in caso di messe in memoria del defunto, per fingere che vi fosse la bara (si incensava addirittura il catafalco vuoto…). Ma allora nessuno pensava che quest’ultima fosse una finzione o che nella liturgia occorresse la verità, non la finzione. Nei piccoli paesi come il mio la «messa grande levitica» era un evento raro da vedere, e il sentimento prevalente era la meraviglia per il suo carattere solenne, grandioso, spettacolare.
Per me la messa di allora era l’unica messa, e non avevo nessun problema riguardo alla forma della sua celebrazione. Comprendevo il latino, avevo il messalino ed ero un cristiano molto convinto. Non è un caso che a undici anni, contro la volontà di mio padre (mia madre era morta da tre anni), volli andare in seminario per diventare prete, soprattutto – dicevo – per poter celebrare la messa. D’altronde il servizio quotidiano da chierichetto all’altare era un esercizio alla liturgia e dava una soggettività cristiana non certo debole, ma convinta. Confesso che, di tutta la celebrazione della messa, oltre alla consacrazione per me era importantissima la meditazione sulla colletta della messa del giorno, in particolare la domenica. La colletta della tradizione latina, infatti, sovente è una «perla», una vera e propria sintesi della preghiera cristiana, un canovaccio per chi vuole pregare secondo il cuore della chiesa. Per questo conoscevo a memoria molte collette, in modo da poterle pregare in occasioni diverse senza fare ricorso alla lettura del messalino.
Un evento molto significativo fu poi la riforma della settimana santa voluta da Pio XII all’inizio degli anni ‘50. Per me che avevo dieci anni si trattava di imparare nuovi riti insieme al parroco: l’introduzione della lavanda dei piedi il giovedì santo sera, la veglia pasquale nella notte tra il sabato e la domenica apparivano come novità che richiedevano impegno e dedizione. Sì, perché fino al 1954 – si perdoni e si comprenda l’espressione popolare di allora – «Gesù Cristo risorgeva il sabato santo mattina». La liturgia pasquale avveniva infatti verso le 9 del mattino, in una chiesa oscurata da tende in modo da poter celebrare la luce della resurrezione. In chiesa eravamo pochissimi, meno che in una messa feriale alla quale partecipavano i parenti del morto per cui si celebrava il suffragio. Verso le 10,30 si sentiva il suono delle campane, sciolte alla lettura del «Gloria in excelsis Deo» dopo essere state legate il giovedì santo sera, e la gente che restava a casa correva verso i ruscelli per lavarsi la faccia. Questa era allora la celebrazione della resurrezione di Gesù. Non fu dunque facile far accettare quella prima riforma liturgica. Io, il parroco, le suore e qualcuno dei cristiani più istruiti imparavamo a capire la grandezza del mistero delle resurrezione; per altri invece il commento era: «Ci cambiano perfino la Pasqua!». Una reazione non molto diversa da quella suscitata dalla successiva riforma liturgica del Vaticano II, quando l’esclamazione diventò: «Ci cambiano anche la messa!».

La messa post-conciliare
Con Pio XII la dinamica del cambiamento era ormai entrata nella liturgia, e Giovanni XXIII egli pure avrebbe semplificato alcuni riti e cambiato alcune formule. Certo, sarebbe stato necessario spiegare di più alla gente il perché della riforma, suscitare nella gente un interesse per la «nuova messa», iniziarla all’ascolto delle sante Scritture. È stato fatto troppo poco, ma posso dire che nel mio paesino il parroco ha fatto molto, tutto il possibile, credo. Ma ormai erano giunti gli anni del boom economico, la gente era cambiata: il sabato e la domenica erano diventate occasioni per andare al mare o a fare – si diceva – «qualche gita»; era la televisione a dare lezioni al posto dei preti; i giovani andavano in giro a ballare… Quanto a me, approdato a Torino per l’università, frequentavo sempre ogni giorno la messa, ma non più come chierichetto. Qui ricordo messe dette in fretta, tante messe in diversi altari contemporaneamente, almeno nella chiesa più vicino al mio alloggio, il santuario della Consolata.
Ma ormai il concilio era iniziato e si era sempre più convinti che, per giungere a una riforma della vita del cristiano e della chiesa tutta, occorreva dare vita a un cammino di riforma innanzitutto dal punto di vista liturgico. Se ne sentiva il bisogno e vi era attesa in questo senso anche da parte della gente comune. Così, poco per volta, arrivavano «le novità». Le novità c’erano davvero ma – ahimè – venivano introdotte a singhiozzi, perché i presbiteri finivano per annunciare prima della messa: «Da oggi nella messa si cambia questo… Questa parte della messa non è più in latino ma in italiano… Non si fa più come si faceva, ma si fa diversamente…». Questa modalità forse non era la più adatta per far capire ai cristiani comuni l’intenzione della riforma, e pochi presbiteri spiegavano con pazienza e competenza i mutamenti. Non ci fu rivolta da parte della gente, ma piuttosto una passiva accoglienza. E l’esclamazione: «Ci cambiano anche la messa!» era priva di amarezza, quasi una battuta, in quell’ora in cui nell’Italia del boom economico tutto stava cambiando. Eppure, proprio perché cambiava la vita dei cristiani, doveva cambiare anche la forma della liturgia.
Poco a poco la riforma liturgica cambiò profondamente il modo di andare a messa. Possiamo sintetizzare tale mutamento attraverso un eloquente cambio di linguaggio: «dal prendere messa (o assistere alla messa)» al «partecipare alla messa». In primo luogo tutti furono grati dell’introduzione della lingua italiana, perché finalmente potevano comprendere parole che fino a quel momento sembravano monopolio del presbitero e del chierichetto. Ciò che il presbitero faceva all’altare non era più oscuro, segreto, per alcuni magico, ma era qualcosa di comprensibile e sempre più riferito a ciò che Gesù aveva fatto e detto. Si pensi poi alla maggior ricchezza di letture nella messa. Per fare solo un esempio, se prima nell’insieme delle messe domenicali e festive si ascoltavano (o meglio erano letti in latino) cinque brani dell’Antico Testamento e dieci del vangelo secondo Marco, con il nuovo lezionario i brani dell’Antico Testamento proclamati erano circa duecento e quelli di Marco quasi quaranta. La gente sentiva per la prima volta pagine mai ascoltate, delle quali la predica poteva diventare una spiegazione e un commento. Dopo un lungo esilio la parola di Dio tornava al cuore del popolo di Dio e, soprattutto, i vangeli venivano conosciuti quasi nella loro interezza. Si cominciò inoltre a rispondere alle parole del prete, si ebbe davvero quella «messa dialogata», come si diceva nell’ora del concilio, tanto desiderata dai pastori e dai fedeli. Scomparve l’uso di far coincidere la messa feriale con la messa «da morto»: anche in queste liturgie le letture scritturistiche erano varie e abbondanti. Insomma, va confessato – e per questo occorre anche ringraziare il Signore – che si tornava veramente a una comunità, a un’assemblea celebrante, anche se la gente non ne aveva piena consapevolezza; inoltre il presbitero nel presiedere la liturgia appariva più chiaramente segno di Cristo verso l’assemblea e segno dell’assemblea verso Dio.
Non dico che non feci fatica ad accettare tutti i cambiamenti introdotti, ma la coscienza di un rinnovamento necessario della liturgia mi fece partecipare dal di dentro a quella riforma, anche per la mia amicizia e assiduità con gli esperti liturgisti che a Torino, al centro liturgico della Elle Di Ci di Leumann, lavoravano per dare un contributo di qualità a tutta la chiesa italiana. La convinzione e la determinazione del cardinale Michele Pellegrino e la frequentazione dei monasteri benedettini e trappisti francesi mi aiutarono molto nell’accogliere la riforma all’interno della mia comunità, che dal 1968 aveva ormai fatto della liturgia l’opus Dei su cui costruire la sua vita monastica. L’unica tristezza, di fronte alla quale sentii tutta la mia e la nostra impotenza, fu l’introduzione di canti e musiche la cui bruttezza e banalità e il cui carattere ideologico spesso deturpavano la liturgia. Comprendevo che nelle parrocchie non si potesse cantare il gregoriano (scomparivano infatti le cantorie e venivano introdotte le band giovanili), ma si poteva cercare, attendere e non cedere subito alle nuove mode musicali. Da parte nostra, radicandoci nella liturgia monastica, siamo stati preservati da questa contaminazione e il nostro canto è rimasto in continuità con la grande tradizione latina, anche se in lingua italiana. Nessuna alterazione ma un progresso, una crescita della liturgia in se stessa.
Conclusione
Dunque, è cambiata la messa? Sì, è cambiata nella sua forma, come sempre è cambiata nelle diverse epoche della storia della chiesa; nel contempo, però, la messa è la stessa in una continuità ben più profonda della lingua o dei gesti con i quali è eseguita. In verità, per chi vive una fede autenticamente cristiana ed ecclesiale, la liturgia della Parola non è mutata da quella dell’assemblea presieduta da Esdra al ritorno dall’esilio (cf. Ne 8), e la liturgia eucaristica è sempre la stessa, dallo spezzare il pane della comunità di Gerusalemme nell’ora della Pasqua fino a oggi. Nel mio cuore vi è pertanto un’enorme gratitudine per il concilio Vaticano II e per Paolo VI che hanno operato la riforma in fedeltà alla tradizione, alla grande tradizione cristiana, ma non ho sentimenti depressivi né tanto meno negativi ricordando la messa come era celebrata prima della riforma conciliare.
Quarant’anni fa coglievo nella riforma liturgica soprattutto le novità; oggi riconosco soprattutto la continuità, la tradizione che si accresce e si rinnova per non morire o decadere, ma che sa sempre conservare la stessa messa, la stessa celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Quarant’anni fa la messa era per me il sacrificio della croce: oggi è ancora il sacrificio della croce, che ha come esito la resurrezione, la vittoria di Cristo sul male e sulla morte. Oggi nella messa vivo con più consapevolezza il mistero pasquale, rinnovo l’alleanza con il Signore, offro a Dio la mia vita, il mio corpo in sacrificio (cf. Rm 12,1), offro tutta la creazione con un’epiclesi, invocazione allo Spirito santo affinché trasfiguri questa creazione in regno dei cieli. E resto convinto che ci saranno altri sviluppi, altri accrescimenti e mutamenti nella liturgia, perché la liturgia, come la chiesa, è semper reformanda. Tutto questo però in una continuità che ha come riferimento la grande tradizione dell’oriente e dell’occidente e che completerà ciò che mancherà, correggerà ciò che sarà necessario, arricchirà ciò che apparirà misero.
La Rivista del Clero Italiano, n°3 (2012)
di ENZO BIANCHI