mercoledì 7 marzo 2012

Gesù e i primi della classe

Di seguito il Vangelo di oggi, 7 marzo, mercoledi della II settimana di Quaresima, con
un commento e qualche testo di approfondimento.


Ricordiamoci spesso di Gesù Cristo,
perché il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo
e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo
noi “rischiamo” di fare come Lui.

Don Giussani



Mt 20,17-28


In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i Dodici e lungo la via disse loro: “Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà”.
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: “Che cosa vuoi?”. Gli rispose: “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. Rispose Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?”.
Gli dicono: “Lo possiamo”. Ed egli soggiunse: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio”.
Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.


IL COMMENTO


“C’è però una ferita nel cuore, per cui nell’uomo qualcosa si distorce ed egli non riesce con le sue sole forze a permanere nel vero, ma fissa l’attenzione in cose particolari e limitate. Il disegno originario, ciò per cui l’uomo è creato, è stato alterato dall’uso arbitrario della libertà; gli uomini tendono così ad un particolare che, sganciato dal tutto, viene identificato con lo scopo della vita… Uscire da questa parzialità non è nelle nostre mani: nessuno di noi riesce da solo a riportarsi ad uno sguardo vero sul reale” (L. Giussani, Generare tracce). Chiamati a libertà sperimentiamo d’essere schiavi di noi, come "obbligati" alla parzialità delle nostre idee, delle nostre idee, dei nostri giudizi, dei nostri pensieri, dei nostri progetti. Delle ore, dei minuti, delle parole, delle “nostre” cose. Afferrati dalle catene della carne soggiogata alla morte. Schiavi del peccato, la “ferita” che ci obbliga a fissare lo sguardo nell’angusto orizzonte di due poveri occhi spenti. In noi è vergato un disegno originario, d’amore e di donazione, ma non possiamo realizzarlo. Sbattiamo contro un muro e, alla fine, i limiti che ci racchiudono si trasformano in regole di giustizia, confini ben limitati del dovuto e del buono. Oltre? Impossibile. La carne rende impotente ogni tentativo di varcare il limite. Di là, dove “è” l’altro, c’è il baratro, la buia morte, ed essa è inaccettabile. Imprigionati in un desiderio strozzato che si fa sentire, pungente, nell’ansia di primeggiare, d’essere sempre in prima fila, e far breccia nei cuori altrui, e potere, e prestigio, e denaro.


Anche la sessualità, tra adolescenti, tra fidanzati, tra chi è sposato, usata per soddisfare se stessi; nessun sacrificio, nessuna rinuncia. E' impossibile, le membra e le menti sono come annegate nel fiume dell'autorealizzazione. Siamo tutti così. Mentre la vita ogni giorno ci porta a Gerusalemme; ogni giorno, come una risacca, riemerge in noi il medesimo desiderio, la solita concupiscenza: alla destra e alla sinistra del potere, finalmente strappati alla precarietà d’una vita grigia spesa a eternizzare la morte della routine. Nel Vangelo di oggi appare un calice, quello di Gesù, il segno della sua passione d’amore inchiodata ad un legno. Bere quel calice è la via alla realizzazione del destino segnato in ciascuna nostra cellula. Uscire dalla parzialità d’una vita inginocchiata davanti agli idoli del mondo non è nelle nostre mani. Per questo ci viene porto un calice, in ogni eucarestia, in ogni evento della nostra vita, il suo sangue versato per noi, la sua vita offerta per il nostro riscatto. Bere il suo calice significa partecipare della Nuova Alleanza, attingere alla Coppa che chiude il Seder della notte di pasqua, donarsi all'altro per gustare, misteriosamente, proprio al culmine del dolore che costituisce l'amore, la libertà che si fa pienezza, anticipo della terra, gioia e felicità, pace e dolcezza che la carne, pur realizzando ogni suo desiderio, non è capace di raggiungere e sperimentare. Il suo calice è ripieno di Vino buono, il migliore, quello del Regno, della Vita Nuova, dell’eterno amore che vince la morte. Sì, nel calice della croce è celata la vita, la nostra libertà, l'unguento capace di guarire le nostre ferite. Berne è la salvezza, che ci fa liberi dal peccato e dalla morte che segnano il limite di ogni nostra esistenza. 


Liberi in Lui siamo così riconsegnati al nostro vero destino, che è amare e dare la vita. Servi e schiavi, senza difendere nulla perché tutto ci è donato. Graziati, senza alcun merito, per il puro amore di Cristo riversato in noi per amare. Lavoro, amici, fidanzati, genitori, figli, sport, diverimenti, riposo, sessualità, tutto è così trasfigurato in una luce d'amore, di dono, di pace. Assaporiamo allora la vera beatitudine, essere servi e schiavi. E lì, all'ultimo posto che la storia ci dona, dietro a tutti, alla moglie, al marito, ai fratelli, al figlio, al collega, l'orizzonte si allarga non più rinchiuso nella parzialità del particolare, quella di chi fa se stesso il centro dell'universo. L'ultimo posto è l'unico che compie il naturale desiderio di essere i primi: primi come il Primogenito, guardando tutto dal basso verso l'alto, capovolgendo criteri e gerarchie, nella follia di un conteggio che fa saltare la matematica dell'orgoglio. Nel Cielo si comincia a contare dall'ultimo posto, quello del suo re e Signore: così nella Chiesa, nelle famiglie cristiane, ovunque vi sia un fratello del Primo tra i risorti dalla morte. La carne nostra madre naturale ci spinge a primeggiare secondo i suoi criteri, quelli meschini e parziali della terra: come lamadre dei figli di Zebedeo, che cerca per loro i primi posti nel Regno di Gesù, non sapendo assolutamente di che cosa si trattasse. E' la nostra esperienza di figli concepiti da nostra madre nel peccato originale. Rinati nella Chiesa, nostra madre spirituale, siamo condotti, giorno dopo giorno, a seguire l'ultimo tra gli ultimi, i suoi passi che si avviano a Gerusalemme. La Chiesa ci accompagna ogni giorno a vivere secondo lo Spirito, che ci fa discernere nel prossimo la Gerusalemme preparata per noi, il Golgota dove stendere le braccia in un amore senza confini. 

"Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore" (Bendetto XVI). Dietro, all'ultimo posto, crocifissi con Cristo, per afferrare le esigenze e i bisogni di tutti, diluendo il proprio io nei desideri altrui, non per compromesso o paura,  come oggi il mondo ci induce a fare, evaporando personalità e unicità. Per amore: ultimi per amore, perchè l'unica e autentica realizzazione della persona creata da Dio è vivere nell'altro, dimenticando se stessa. Riscattati, ormai Gli apparteniamo, per appartenere ad ogni uomo, amico o nemico. Niente dominio, niente potere, in Lui la nostra vita diviene una sinfonia d'amore, inesausto, sino al Cielo.

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Beato Tito Brandsma, martire, carmelitano olandese (1881-1942)
La mistica della sofferenza

«Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme»

        Gesù stesso ha detto di essere il capo del Corpo mistico di cui noi siamo le membra. La vite è lui; noi, i tralci (Gv 15,5). Si è posto sotto il torchio e si è messo a spremere; ci ha dato così il vino perché, bevendolo, potessimo vivere della sua vita e condividere le sue sofferenze. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce ogni giorno. Chi segue me, avrà la luce della vita. Io sono la via. Vi ho dato l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Lc 9,23; Gv 8,12; 14,6; 13,15). E poiché i discepoli stessi non capivano che la sua via doveva essere una via di dolore, egli lo spiegava loro con queste parole: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26).

        Allora ardeva il cuore nel petto ai discepoli (v. 32). La Parola di Dio li infiammava. E quando lo Spirito Santo scese su di loro come fiamma divina per riempirli di fuoco (At 2), essi furono felici di patire oltraggi e persecuzione (At 5,41), poiché così assomigliavano a colui che li aveva preceduti sulla via del dolore. Già i profeti avevano annunciato quella via di dolore di Cristo, ed infine i discepoli comprendevano che egli non l'aveva evitata. Dalla mangiatoia al supplizio della croce, povertà ed assenza di comprensione erano stati la sua sorte. Aveva passato la sua vita ad insegnare agli uomini che lo sguardo di Dio sul dolore, la povertà, l'assenza di umana comprensione, è diverso dalla stolta sapienza del mondo (1Cor 1,20).... La salvezza è nella croce. La vittoria è nella croce. Dio ha voluto così. 


Benedetto XVI. Con Cristo per servire.
Allocuzione ai neo cardinali. 18 febbraio 2012

Nel brano evangelico poc’anzi proclamato, Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38).

L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.

Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni.

E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).

Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne.

Spiega infatti: «Anche il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (v. 45). Queste parole illuminano con singolare intensità l’odierno Concistoro pubblico. Esse risuonano nel profondo dell’anima e rappresentano un invito e un richiamo, una consegna e un incoraggiamento specialmente per voi, cari e venerati Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio.
Secondo la tradizione biblica, il Figlio dell’uomo è colui che riceve il potere e il dominio da Dio. Così nel Libro di Daniele (cfr Dn 7,13s). Gesù interpreta la sua missione sulla terra sovrapponendo alla figura del Figlio dell’uomo quella del Servo sofferente, descritto da Isaia (cfr Is 53,1-12). Egli riceve il potere e la gloria solo in quanto «servo»; ma è servo in quanto accoglie su di sé il destino di dolore e di peccato di tutta l’umanità. Il suo servizio si attua nella fedeltà totale e nella responsabilità piena verso gli uomini. Per questo la libera accettazione della sua morte violenta diventa il prezzo di liberazione per molti, diventa l’inizio e il fondamento della redenzione di ciascun uomo e dell’intero genere umano.

Cari Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio! Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore.

Sull’anello che tra poco vi consegnerò, sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, con al centro una stella che evoca la Madonna. Portando questo anello, voi siete richiamati quotidianamente a ricordare la testimonianza che i due Apostoli hanno dato a Cristo fino alla morte per martirio qui a Roma, fecondando così la Chiesa con il loro sangue. Mentre il richiamo alla Vergine Maria, sarà sempre per voi un invito a seguire colei che fu salda nella fede e umile serva del Signore.
Concludendo questa breve riflessione, vorrei rivolgere il mio cordiale saluto e ringraziamento a tutti voi presenti, in particolare alle Delegazioni ufficiali di vari Paesi e alle Rappresentanze di numerose Diocesi. I nuovi Cardinali, nel loro servizio, sono chiamati a rimanere sempre fedeli a Cristo, lasciandosi guidare unicamente dal suo Vangelo.


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APPROFONDIMENTI



Il servo che lava i piedi. Frederic Manns

da "Voi chi dite che io sia?" pgg. 177-181
Il vangelo di Giovanni conosce tre Pasque di Gesù: la Pasqua della purificazione del Tempio, la Pasqua della moltiplicazione dei pani e la Pasqua della Passione. I sinottici, che ne conoscevano solo una, fanno convergere i tre elementi sulla Pasqua della Passione. Per Giovanni il principio rabbinico dell'assenza di cronologia — non vi è un prima e un dopo nella Bibbia — resta valido. Il discorso eucari­stico è in tal modo anticipato e si trova al capitolo 6. Allo stesso modo la purificazione del Tempio è anti­cipata per provare che il vero Tempio è quello del corpo del Cristo risorto.


Nel vangelo di Giovanni Gesù, prima di soffrire la Passione, ha lavato i piedi dei suoi discepoli: Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli al­tri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi (Gv 13,14-15). Perché questa scena nel vangelo che è stato definito il van­gelo spirituale?


La scena della lavanda dei piedi da il senso della morte di Gesù. Gesù è il servo che si abbassa volon­tariamente e che guarisce le ferite dell'umanità. Il Padrone prende il posto dello schiavo e ribalta la dialettica del Padrone e dello schiavo. Chi vuole es­sere il primo deve prendere il posto dell'ultimo.
Con questo gesto s'instaura un nuovo ordine di va­lori. Come i profeti dell'Antico Testamento Gesù ri­corre al linguaggio simbolico che è più suggestivo e più eloquente del linguaggio razionale. La lavanda dei piedi era un gesto suggestivo per chi leggeva le Scritture. Evocava parecchie pagine bibliche. In­nanzitutto, per chi era abituato alla lettura sinago-gale della Scrittura, questa scena richiamava l'e­sempio di Abramo che offriva ospitalità a gente di passaggio. Mentre la Bibbia ebraica riferisce l'or­dine del Patriarca in questi termini: Si porti dell'ac­qua (Gn 18,4), la versione del Targum diceva: «Vado a prendere dell'acqua per lavarvi i piedi». La sinagoga vedeva nell'abbassamento di Abramo una fonte di grandi meriti per i suoi figli.
Avendo Abramo offerto dell'acqua ai suoi ospiti, Dio darà acqua da bere ai figli d'Israele quando sa­ranno nel deserto. Non solo, quando si saranno sta­biliti nella Terra promessa Dio darà loro un paese di ruscelli e di fiumi, secondo la descrizione del Deu­teronomio 8,57. Infine, nei tempi escatologici, Dio farà sgorgare un fiume da sotto il Tempio per purifi­care Gerusalemme (Zc 14,8). Ciò significa che la ri­compensa di Dio ai figli di Abramo è triplice: Dio li retribuisce nel deserto, nella terra e negli ultimi tempi. La ricompensa supera enormemente il gesto di ospitalità del Patriarca.


La ricchezza di un simbolo non si esaurisce in un unico significato. Ciò vale anche per la lavanda dei piedi. Per un lettore che ha familiarità con la Bibbia, la scena può richiamare anche l'incontro di Giu­seppe con i suoi fratelli in Gn 43,24. Sappiamo che la figura di Giuseppe è quella di un salvatore unico nel suo genere, avendo salvato dalla carestia tanto gli egiziani quanto i suoi fratelli ebrei. Gesù porterà la salvezza agli ebrei e ai pagani significati dai quattro soldati pagani che si dividono le sue vesti e dalle quattro donne ebree che sono sotto la croce.


La lavanda dei piedi può ancora evocare le pre­scrizioni di Es 30,19 quando Aronne ordina ai figli di lavarsi i piedi prima di entrare nel santuario. L'e­breo, abituato al midrash*, non vede alcuna con­traddizione in questa sovrapposizione di significati. Poiché il nuovo Tempio è stato definito già dal se­condo capitolo del vangelo, Giovanni ricorda che i credenti, se vogliono avere libero accesso a quel santuario, devono purificarsi. Non solo, la lavanda dei piedi poteva anche evocare il testo biblico di Lev 1,9 che esige che si lavino le zampe degli ani­mali offerti in olocausto. Significa che i discepoli dovranno offrire la loro vita come ha fatto il Mae­stro? Il discepolo non è più grande del suo Maestro, ricorda Gesù. Conoscerà la stessa sorte del Maestro. Giovanni aggiunge un dettaglio che potrebbe sembrare insignificante per un lettore frettoloso: prima di lavare i piedi dei suoi discepoli Gesù si cinge i fianchi con un asciugatorio (Gv 13,4). Che significa questo gesto? Il senso primo dell'abitudine di cingersi i fianchi è spiegato dal libro dell'Esodo (12,34): tutti i partecipanti al pranzo pasquale de­vono avere un bastone in mano e i fianchi cinti. Questa tenuta caratterizzava il viaggiatore e l'israe­lita pronto a lasciare l'Egitto.


Il gesto di cingersi è anche quello del servo. Il vangelo di Luca 12,37 vi allude: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti; li farà met­tere a tavola e passerà a servirli. Gesù si identifica con il servo che da la sua vita, ma è anche il Figlio dell'uomo esaltato.


Il gesto di cingersi la veste è anche quello del lot­tatore. Il Messia è descritto in numerosi testi del Targum come un lottatore che spezzerà i gioghi che tengono prigioniera l'umanità. L'immagine del Messia pacifico che viene a dorso d'asino deve es­sere completata con quella del Messia guerriero co­nosciuta nel Targum di Gn 49,10.

Resta un ultimo significato del gesto. Per Gio­vanni 21,18 cingersi la veste è simbolo dell'esodo definitivo, della morte. Gesù dice a Pietro:Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Gesù, la vigìlia della sua Passione, si presenta come un lottatore che si accinge ad af­frontare Satana nel giardino. Il Principe di questo mondo che è entrato in Giuda sarà gettato a terra senza poter entrare nel giardino, dove sono entrati solo Gesù e i suoi discepoli. Il nuovo Adamo è stato tentato come il primo Adamo in un giardino. Gesù, cingendosi la veste, deponendo il suo vestito e ri­prendendolo, simboleggia la sua morte e la sua Ri­surrezione. La Passione è anche la rivelazione del­l'amore di Dio. Avendo amato i suoi che erano nel mondo, egli li amò fino all'ultimo, fino all'amore estremo.


I Padri della Chiesa hanno aggiunto un signifi­cato sacramentale alla scena che evoca a volte il battesimo, a volte la penitenza, senza per questo ne­gare il significato cristologico di questa pagina im­portante. Sant'Agostino in particolare torna spesso nei suoi commentari sull'episodio della lavanda dei piedi. Curiosamente si riferisce al Cantico dei Can­tici. Lo sposo, con la testa bagnata, bussa alla porta della sposa. Questa si rifiuta di aprirgli perché si è lavata i piedi e non vuole sporcarli. Agostino ap­plica il testo alla sua esperienza. Dopo la sua con­versione fu tentato dalla vita contemplativa. Ma il Signore bussava alla sua porta: «Predicami!». A ri­schio di sporcarsi i piedi l'apostolo deve annunciareGesù, che è pronto a lavargli i piedi nel sacramento della penitenza. Così la scena della lavanda dei piedi si arricchisce di un nuovo aspetto.


La dialettica del padrone e dello schiavo ha reifi­cato l'uomo, affermano alcuni. La coscienza di classe ha appannato in molti l'immagine di Dio. Ma ecco che nella scena della lavanda dei piedi questa dialettica viene ribaltata. Il Padrone si fa servo. Non solo, concede all'uomo ricreato di morire all'amore sadico, alla relazione padrone-schiavo, per rinascere nello spazio infinito del Corpo di Cristo in cui soffia lo Spirito, in cui noi siamo membri gli uni degli altri e in cui ogni volto s'illumina dall'interno.


«Il comandamento dell'amore è un comandamento nuovo perché ci spoglia del vecchio uomo per far­cene rivestire uno nuovo. Questo comandamento rinnova chi lo intende, o meglio chi gli obbedisce. Non si tratta però di un amore qualunque, ma di quell'amore che il Signore distingue dall'amore na­turale dell'uomo aggiungendo: Come io vi ho amati...(Gv 15,12). Questo amore ci rinnova così to­talmente che diventiamo uomini nuovi, gli eredi della nuova alleanza, i cantori di un cantico nuovo. Questo amore ha rinnovato anche i giusti dei tempi antichi, i patriarchi e i profeti, come ha rinnovato più tardi gli apostoli. È sempre questo amore che rinnova oggi le nazioni e tutto il genere umano sparso sulla terra: ne fa un popolo nuovo che esso riunisce; è il corpo di questa nuova sposa del Figlio unico di Dio — la Chiesa — di cui è detto nel Can­tico: Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna? (Ct 6,10). E bella come la luna perché è rinnovata, e come è rinnovata se non da questo nuovo comandamento?» (S. agostino,Sermoni su san Giovanni 65,1).

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Card. CARLO CAFFARRA, MEDITAZIONE SU Mt. 20, 17-28

QUARTA STAZIONE QUARESIMALE 6 marzo 1996
Non lasciamo cadere nessuna parola di questa straordinaria pagina del Vangelo che è stata appena proclamata: essa infatti ci istruisce su ciò che stiamo ora vivendo e celebrando (1) e su come il Mistero celebrato deve plasmare la nostra vita e trasformarla (2).
1. Quale Mistero stiamo celebrando? “il Figlio dell’uomo sarà consegnato ...” poiché Egli “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per molti”. Stiamo celebrando il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore. L’Eucarestia, infatti, la S. Messa ri-presenta il sacrifico della croce: è lo stesso sacrificio della croce nei santi segni del pane e del vino. Ed oggi la parola del Signore ci svela l’intima natura di questo sacrifico. E’ il dono della sua vita che Egli ha liberamente compiuto. E’ il dono della sua vita che è un riscatto: mediante questo dono noi siamo liberati dalla nostra schiavitù. La schiavitù è quella profonda mancanza di libertà che ciascuno di noi sente nel suo cuore: schiavi del nostro egoismo, schiavi di ciò che possediamo, schiavi di un esercizio spesso ingiusto della nostra sessualità, schiavi della nostra vanità. E’ un riscatto per molti: esso non esclude nessuno. Ognuno di noi è stato riscattato. Ecco che cosa stiamo celebrando: il mistero della nostra liberazione.
2. Questo Mistero è celebrato perché la nostra esistenza ne sia trasformata. Fra poco, immediatamente prima della grande preghiera eucaristica, noi diremo: “volgi con bontà lo sguardo, Signore, alle offerte che ti presentiamo e per questo santo scambio di doni liberaci dal dominio del peccato”. Dal dominio di quale peccato? Riascoltiamo attentamente il Vangelo.
Se esaminiamo attentamente noi stessi, vediamo che tre sono le tentazioni fondamentali a cui possiamo andare soggetti: la tentazione dell’avidità del possesso (ricchezze), del dominio delle persone (potere e vanagloria), dell’autosufficienza di fronte a Dio (ritenerci giusti e non bisognosi della sua misericordia). Ma guardando le cose più in profondità, ci rendiamo conto che tutte e tre queste tendenze perverse hanno una sola radice; la paura di perderci, che genera precisamente il desiderio di cercare una sicurezza.
Ora potete capire quel che chiede la madre dei figli di Zebedeo: i primi due posti. E’ la seconda fondamentale tentazione. E’ la tendenza che ci porta sempre e comunque ad occupare i primi posti; è l’auto-affermazione, primo e ultimo frutto dell’egoismo; è il peccato originale, che sta all’inizio ed è la causa di ogni peccato. La conseguenza è che anche i rapporti umani vengono scardinati: cessano di essere di “reciprocità” nella identica dignità e diventano conflitto di opposti interessi. “Gli altri dieci, avendoli sentiti, si arrabbiarono contro i due fratelli”. Ecco il risultato: la società umana si trasforma in una lotta nella quale il più debole è inesorabilmente soccombente.
Fratelli, come si può uscire da questa situazione? Celebrando nella vita ciò che stiamo celebrando nella preghiera.
Gesù in questa pagina ci rivela il mistero della vera grandezza: è quello del Figlio dell’uomo che è venuto a servire e non ad essere servito. E quindi può spiegare la vera gerarchia all’interno della comunità dei suoi discepoli: “colui che vorrà essere il primo fra voi, si farà vostro schiavo”. Contro ogni ambizione stoltissima di carriera e di arrivismo nella Chiesa, Gesù dichiara che al primo posto si trova chi sta all’ultimo, perché Lui si è fatto il servo di tutti.
Essere “più che”, ecco il nostro inganno: voler ingrandire il proprio io sugli altri. E un “più” che va tolto, per non essere se non per gli altri.
CONCLUSIONE
Se diciamo che la proposta evangelica è impossibile per l’uomo, diciamo la verità. Ma Cristo ha dato la sua vita per liberarci da questa incapacità: l’incapacità di realizzare noi stessi nel dono di noi stessi.

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CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA II. La morte redentrice di Cristo nel disegno divino della salvezza
«Gesù consegnato secondo il disegno prestabilito di Dio»
599 La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio, come spiega san Pietro agli Ebrei di Gerusalemme fin dal suo primo discorso di pentecoste: « Egli fu consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio » (At 2,23). Questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno consegnato Gesù 438siano stati solo esecutori passivi di una vicenda scritta in precedenza da Dio.
600 Tutti i momenti del tempo sono presenti a Dio nella loro attualità. Egli stabilì dunque il suo disegno eterno di « predestinazione » includendovi la risposta libera di ogni uomo alla sua grazia: « Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d'Israele 439 per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse » (At 4,27-28). Dio ha permesso gli atti derivati dal loro accecamento 440 al fine di compiere il suo disegno di salvezza. 441
«Morto per i nostri peccati secondo le Scritture»
601 Questo disegno divino di salvezza attraverso la messa a morte del « Servo Giusto » 442 era stato anticipatamente annunziato nelle Scritture come un mistero di redenzione universale, cioè di riscatto che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato. 443 San Paolo professa, in una confessione di fede che egli dice di avere « ricevuto », 444 che « Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture » (1 Cor15,3). 445 La morte redentrice di Gesù compie in particolare la profezia del Servo sofferente. 446 Gesù stesso ha presentato il senso della sua vita e della sua morte alla luce del Servo sofferente. 447 Dopo la risurrezione, egli ha dato questa interpretazione delle Scritture ai discepoli di Emmaus, 448 poi agli stessi Apostoli. 449
«Dio l'ha fatto peccato per noi»
602 San Pietro può, di conseguenza, formulare così la fede apostolica nel disegno divino della salvezza: « Foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri [...] con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato, già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi » (1 Pt 1,18-20). I peccati degli uomini, conseguenti al peccato originale, sono sanzionati dalla morte. 450 Inviando il suo proprio Figlio nella condizione di servo, 451 quella di una umanità decaduta e votata alla morte a causa del peccato, 452 « colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2 Cor 5,21).
603 Gesù non ha conosciuto la riprovazione come se egli stesso avesse peccato. 453Ma nell'amore redentore che sempre lo univa al Padre, 454 egli ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). 455Avendolo reso così solidale con noi peccatori, « Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi » (Rm 8,32) affinché noi fossimo « riconciliati con lui per mezzo della morte del Figlio suo » (Rm 5,10).
Dio ha l'iniziativa dell'amore redentore universale
604 Nel consegnare suo Figlio per i nostri peccati, Dio manifesta che il suo disegno su di noi è un disegno di amore benevolo che precede ogni merito da parte nostra: « In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati » (1 Gv 4,10).456 « Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,8).
605 Questo amore è senza esclusioni; Gesù l'ha richiamato a conclusione della parabola della pecorella smarrita: « Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli » (Mt 18,14). Egli afferma di « dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,28); quest'ultimo termine non è restrittivo: oppone l'insieme dell'umanità all'unica persona del Redentore che si consegna per salvarla.457 La Chiesa, seguendo gli Apostoli, 458 insegna che Cristo è morto per tutti senza eccezioni: « Non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto ». 459
Tutta la vita di Cristo è offerta al Padre
606 Il Figlio di Dio disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di colui che l'ha mandato, 460 « entrando nel mondo dice: [...] Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà. [...] Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre » (Eb 10,5-10). Dal primo istante della sua incarnazione, il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera » (Gv 4,34). Il sacrificio di Gesù « per i peccati di tutto il mondo » (1 Gv 2,2) è l'espressione della sua comunione d'amore con il Padre: « Il Padre mi ama perché io offro la mia vita » (Gv 10,17). « Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato » (Gv14,31).
607 Questo desiderio di abbracciare il disegno di amore redentore del Padre suo anima tutta la vita di Gesù 461 perché la sua passione redentrice è la ragion d'essere della sua incarnazione: « Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! » (Gv 12,27). « Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato? » (Gv 18,11). E ancora sulla croce, prima che « tutto [sia] compiuto » (Gv 19,30), egli dice: « Ho sete » (Gv 19,28).
«L'Agnello che toglie il peccato del mondo»
608 Dopo aver accettato di dargli il battesimo tra i peccatori, 462 Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. 463 Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello 464 e porta il peccato delle moltitudini 465 e l'Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. 466 Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti.467
Gesù liberamente fa suo l'amore redentore del Padre
609 Accogliendo nel suo cuore umano l'amore del Padre per gli uomini, Gesù « li amò sino alla fine» (Gv 13,1), « perché nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici » (Gv 15,13). Così nella sofferenza e nella morte la sua umanità è diventata lo strumento libero e perfetto del suo amore divino che vuole la salvezza degli uomini. 468 Infatti, egli ha liberamente accettato la sua passione e la sua morte per amore del Padre suo e degli uomini che il Padre vuole salvare: « Nessuno mi toglie [la vita], ma la offro da me stesso » (Gv 10,18). Di qui la sovrana libertà del Figlio di Dio quando va liberamente verso la morte. 469
Alla Cena Gesù ha anticipato l'offerta libera della sua vita
610 La libera offerta che Gesù fa di se stesso ha la sua più alta espressione nella Cena consumata con i dodici Apostoli 470 nella « notte in cui veniva tradito » (1 Cor11,23). La vigilia della sua passione, Gesù, quand'era ancora libero, ha fatto di quest'ultima Cena con i suoi Apostoli il memoriale della volontaria offerta di sé al Padre 471 per la salvezza degli uomini: « Questo è il mio corpo che è dato per voi » (Lc 22,19). « Questo è il mio sangue dell'Alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » (Mt 26,28).
611 L'Eucaristia che egli istituisce in questo momento sarà il « memoriale » 472 del suo sacrificio. Gesù nella sua offerta include gli Apostoli e chiede loro di perpetuarla.473 Con ciò, Gesù istituisce i suoi Apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza: « Per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità » (Gv 17,19).474
L'agonia del Getsemani
612 Il calice della Nuova Alleanza, che Gesù ha anticipato alla Cena offrendo se stesso, 475 in seguito egli lo accoglie dalle mani del Padre nell'agonia al Getsemani476 facendosi « obbediente fino alla morte » (Fil 2,8). 477 Gesù prega: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! » (Mt 26,39). Egli esprime così l'orrore che la morte rappresenta per la sua natura umana. Questa, infatti, come la nostra, è destinata alla vita eterna; in più, a differenza della nostra, è perfettamente esente dal peccato 478 che causa la morte; 479 ma soprattutto è assunta dalla Persona divina dell'« Autore della vita », 480 del « Vivente ». 481 Accettando nella sua volontà umana che sia fatta la volontà del Padre, 482 Gesù accetta la sua morte in quanto redentrice, per « portare i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce » (1 Pt 2,24).
La morte di Cristo è il sacrificio unico e definitivo
613 La morte di Cristo è contemporaneamente il sacrificio pasquale che compie la redenzione definitiva degli uomini 483 per mezzo dell'Agnello che toglie il peccato del mondo 484 e il sacrificio della Nuova Alleanza, 485 che di nuovo mette l'uomo in comunione con Dio 486 riconciliandolo con lui mediante il sangue versato per molti in remissione dei peccati. 487
614 Questo sacrificio di Cristo è unico: compie e supera tutti i sacrifici. 488 Esso è innanzitutto un dono dello stesso Dio Padre che consegna il Figlio suo per riconciliare noi con lui. 489 Nel medesimo tempo è offerta del Figlio di Dio fatto uomo che, liberamente e per amore, 490 offre la propria vita 491 al Padre suo nello Spirito Santo 492 per riparare la nostra disobbedienza.
Gesù sostituisce la sua obbedienza alla nostra disobbedienza
615 « Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti » (Rm 5,19). Con la sua obbedienza fino alla morte, Gesù ha compiuto la sostituzione del Servo sofferente che offre se stesso in espiazione, mentre porta il peccato di molti, e li giustifica addossandosi la loro iniquità. 493 Gesù ha riparato per i nostri errori e dato soddisfazione al Padre per i nostri peccati. 494
Sulla croce, Gesù consuma il suo sacrificio
616 È l'amore sino alla fine 495 che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell'offerta della sua vita. 496 « L'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti » (2 Cor 5,14). Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti. L'esistenza in Cristo della Persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce Capo di tutta l'umanità, rende possibile il suo sacrificio redentore per tutti.
617 « Sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit – Con la sua santissima passione sul legno della croce ci meritò la giustificazione », insegna il Concilio di Trento 497 sottolineando il carattere unico del sacrificio di Cristo come causa di salvezza eterna. 498 E la Chiesa venera la croce cantando: « O crux, ave, spes unica! – Ave, o croce, unica speranza! ». 499
La nostra partecipazione al sacrificio di Cristo
618 La croce è l'unico sacrificio di Cristo, che è il solo mediatore tra Dio e gli uomini.500 Ma poiché, nella sua Persona divina incarnata, « si è unito in certo modo ad ogni uomo », 501 egli offre « a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale ». 502 Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo, 503 poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. 504 Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari. 505 Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice. 506
« Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo ». 507
(438) Cf At 3,13.
(439) Cf Sal 2,1-2.
(440) Cf Mt 26,54; Gv 18,36; 19,11.
(441) Cf At 3,17-18.
(442) Cf Is 53,11; At 3,14.
(443) Cf Is 53,11-12; Gv 8,34-36.
(444) Cf 1 Cor 15,3.
(445) Cf anche At 3,18; 7,52; 13,29; 26,22-23.
(446) Cf Is 53,7-8; At 8,32-35.
(447) Cf Mt 20,28.
(448) Cf Lc 24,25-27.
(449) Cf Lc 24,44-45.
(450) Cf Rm 5,12; 1 Cor 15,56.
(451) Cf Fil 2,7.
(452) Cf Rm 8,3.
(453) Cf Gv 8,46.
(454) Cf Gv 8,29.
(455) Cf Sal 22,1.
(456) Cf 1 Gv 4,19.
(457) Cf Rm 5,18-19.
(458) Cf 2 Cor 5,15; 1 Gv 2,2.
(459) Concilio di Quierzy (anno 853), De libero arbitrio hominis et de praedestinatione, canone 4: DS 624.
(460) Cf Gv 6,38.
(461) Cf Lc 12,50; 22,15; Mt 16,21-23.
(462) Cf Lc 3,21; Mt 3,14-15.
(463) Cf Gv 1,29.36.
(464) 3 Cf Is 53,7; Ger 11,19.
(465) 3 Cf Is 53,12.
(466) Cf Es 12,3-14; Gv 19,36; 1 Cor 5,7.
(467) Cf Mc 10,45.
(468) Cf Eb 2,10.17-18; 4,15; 5,7-9.
(469) Cf Gv 18,4-6; Mt 26,53.
(470) Cf Mt 26,20.
(471) Cf 1 Cor 5,7.
(472) Cf 1 Cor 11,25.
(473) Cf Lc 22,19.
(474) Cf Concilio di Trento, Sess. 22a, Doctrina de sanctissimo Missae Sacrificio, canone 2: DS 1752; Sess. 23a, Doctrina de sacramento Ordinis, c. 1: DS 1764.
(475) Cf Lc 22,20.
(476) Cf Mt 26,42.
(477) Cf Eb 5,7-8.
(478) Cf Eb 4,15.
(479) Cf Rm 5,12.
(480) Cf At 3,15.
(481) Cf Ap 1,18; Gv 1,4; 5,26.
(482) Cf Mt 26,42.
(483) Cf 1 Cor 5,7; Gv 8,34-36.
(484) Cf Gv 1,29; 1 Pt 1,19.
(485) Cf 1 Cor 11,25.
(486) Cf Es 24,8.
(487) Cf Mt 26,28; Lv 16,15-16.
(488) Cf Eb 10,10.
(489) Cf 1 Gv 4,10.
(490) Cf Gv 15,13.
(491) Cf Gv 10,17-18.
(492) Cf Eb 9,14.
(493) Cf Is 53,10-12.
(494) Cf Concilio di Trento, Sess. 6a, Decretum de iustificatione, c. 7: DS 1529.
(495) Cf Gv 13,1.
(496) Cf Gal 2,20; Ef 5,2.25.
(497) Concilio di Trento, Sess. 6a, Decretum de iustificatione, c. 1: DS 1529.
(498) Cf Eb 5,9.
(499) Aggiunta liturgica all'inno « Vexilla Regis »: Liturgia delle Ore, v. 2 (Libreria Editrice Vaticana 1981) p. 366; v. 4 (Libreria Editrice Vaticana 1988) p. 1284.
(500) Cf 1 Tm 2,5.
(501) Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 22: AAS 58 (1966) 1042.
(502) Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 22: AAS 58 (1966) 1043.
(503) Cf Mt 16,24.
(504) Cf 1 Pt 2,21.
(505) Cf Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24.
(506) Cf Lc 2,35.
(507) Santa Rosa da Lima: P. Hansen, Vita mirabilis [...], (Roma 1664) p. 137.
(508) Cf 1 Pt 1,18.
(509) Cf Is 53,10.
(510) Cf Is 53,11; Rm 5,19.
* * *
 VIAGGIO APOSTOLICO A COLONIA
IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
SANTA MESSA NELLA SPIANATA DI MARIENFELD
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Colonia, Spianata di Marienfeld
Domenica, 21 agosto 2005
Parole del Santo Padre all'inizio della Celebrazione
Caro Cardinale Meisner,
cari giovani!
Vorrei ringraziarti cordialmente, caro Confratello nell'Episcopato, per queste tue parole commoventi che ci introducono tanto opportunamente in questa celebrazione liturgica. Avrei voluto percorrere col papamobile tutto il territorio in lungo e in largo per essere possibilmente vicino a ciascuno singolarmente. Per le difficoltà dei sentieri non era possibile, ma saluto ciascuno con tutto il cuore. Il Signore vede e ama ogni singola persona. Tutti noi formiamo insieme la Chiesa vivente e ringraziamo il Signore per questa ora in cui Egli ci dona il mistero della sua presenza e la possibilità di essere in comunione con Lui.
Sappiamo tutti di essere imperfetti, di non poter essere per Lui una casa appropriata. Per questo cominciamo la Santa Messa raccogliendoci e pregando il Signore di rimuovere da noi tutto ciò che ci separa da Lui e separa noi gli uni dagli altri. Ci faccia così il dono di celebrare degnamente i Santi Misteri.
***
Cari giovani!
Davanti all'Ostia sacra, nella quale Gesù per noi si è fatto pane che dall'interno sostiene e nutre la nostra vita (cfr Gv 6, 35), abbiamo ieri sera cominciato il cammino interiore dell'adorazione. Nell'Eucaristia l'adorazione deve diventare unione. Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell'"ora" di Gesù di cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l'Eucaristia questa sua "ora" diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli Egli celebrò la cena pasquale d'Israele, il memoriale dell'azione liberatrice di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i riti d'Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: "Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue". E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.
Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l'accetta nel suo intimo e la trasforma in un'azione di amore. Quello che dall'esterno è violenza brutale - la crocifissione -, dall'interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1Cor 15, 28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l'atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l'ultima parola. È questa, per usare un'immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell'essere - la vittoria dell'amore sull'odio, la vittoria dell'amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.
Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l'unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L'adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo. Io trovo un'allusione molto bella a questo nuovo passo che l'Ultima Cena ci ha donato nella differente accezione che la parola "adorazione" ha in greco e in latino. La parola greca suona proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni. Questo gesto è necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste a questa prospettiva. Il farla completamente nostra sarà possibile soltanto nel secondo passo che l'Ultima Cena ci dischiude. La parola latina per adorazione è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere.
Torniamo ancora all'Ultima Cena. La novità che lì si verificò, stava nella nuova profondità dell'antica preghiera di benedizione d'Israele, che da allora diventa la parola della trasformazione e dona a noi la partecipazione all'"ora" di Cristo. Gesù non ci ha dato il compito di ripetere la Cena pasquale che, del resto, in quanto anniversario, non è ripetibile a piacimento. Ci ha dato il compito di entrare nella sua "ora". Entriamo in essa mediante la parola del potere sacro della consacrazione - una trasformazione che si realizza mediante la preghiera di lode, che ci pone in continuità con Israele e con tutta la storia della salvezza, e al contempo ci dona la novità verso cui quella preghiera per sua intima natura tendeva. Questa preghiera - chiamata dalla Chiesa "preghiera eucaristica" - pone in essere l'Eucaristia. Essa è parola di potere, che trasforma i doni della terra in modo del tutto nuovo nel dono di sé di Dio e ci coinvolge in questo processo di trasformazione. Per questo chiamiamo questo avvenimento Eucaristia, che è la traduzione della parola ebraica beracha - ringraziamento, lode, benedizione, e così trasformazione a partire dal Signore: presenza della sua "ora". L'ora di Gesù è l'ora in cui vince l'amore. In altri termini: è Dio che ha vinto, perché Egli è l'Amore. L'ora di Gesù vuole diventare la nostra ora e lo diventerà, se noi, mediante la celebrazione dell'Eucaristia, ci lasciamo tirare dentro quel processo di trasformazioni che il Signore ha di mira. L'Eucaristia deve diventare il centro della nostra vita. Non è positivismo o brama di potere, se la Chiesa ci dice che l'Eucaristia è parte della domenica. Al mattino di Pasqua, prima le donne e poi i discepoli ebbero la grazia di vedere il Signore. D'allora in poi essi seppero che ormai il primo giorno della settimana, la domenica, sarebbe stato il giorno di Lui, di Cristo. Il giorno dell'inizio della creazione diventava il giorno del rinnovamento della creazione. Creazione e redenzione vanno insieme. Per questo è così importante la domenica. È bello che oggi, in molte culture, la domenica sia un giorno libero o, insieme col sabato, costituisca addirittura il cosiddetto "fine-settimana" libero. Questo tempo libero, tuttavia, rimane vuoto se in esso non c'è Dio. Cari amici! Qualche volta, in un primo momento, può risultare piuttosto scomodo dover programmare nella domenica anche la Messa. Ma se vi ponete impegno, constaterete poi che è proprio questo che dà il giusto centro al tempo libero. Non lasciatevi dissuadere dal partecipare all'Eucaristia domenicale ed aiutate anche gli altri a scoprirla. Certo, perché da essa si sprigioni la gioia di cui abbiamo bisogno, dobbiamo imparare a comprenderla sempre di più nelle sue profondità, dobbiamo imparare ad amarla. Impegniamoci in questo senso - ne vale la pena! Scopriamo l'intima ricchezza della liturgia della Chiesa e la sua vera grandezza: non siamo noi a far festa per noi, ma è invece lo stesso Dio vivente a preparare per noi una festa. Con l'amore per l'Eucaristia riscoprirete anche il sacramento della Riconciliazione, nel quale la bontà misericordiosa di Dio consente sempre un nuovo inizio alla nostra vita.
Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Ma al tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di tutto e di tutti. Vien fatto di esclamare: Non è possibile che questa sia la vita! Davvero no. E così insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un boom del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c'è in questo contesto. Può esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del "fai da te" alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell'ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l'amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura. È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua fede crescente e l'ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della verità (cfr Gv 16, 13). Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un'opera meravigliosa, nella quale la fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale Catechismo, che è stato anche elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi.
Ovviamente, i libri da soli non bastano. Formate delle comunità sulla base della fede! Negli ultimi decenni sono nati movimenti e comunità in cui la forza del Vangelo si fa sentire con vivacità. Cercate la comunione nella fede come compagni di cammino che insieme continuano a seguire la strada del grande pellegrinaggio che i Magi dell'Oriente ci hanno indicato per primi. La spontaneità delle nuove comunità è importante, ma è pure importante conservare la comunione col Papa e con i Vescovi. Sono essi a garantire che non si sta cercando dei sentieri privati, ma invece si sta vivendo in quella grande famiglia di Dio che il Signore ha fondato con i dodici Apostoli.
Ancora una volta devo ritornare all'Eucaristia. "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" dice san Paolo (1 Cor 10, 17). Con ciò intende dire: Poiché riceviamo il medesimo Signore ed Egli ci accoglie e ci attira dentro di sé, siamo una cosa sola anche tra di noi. Questo deve manifestarsi nella vita. Deve mostrarsi nella capacità del perdono. Deve manifestarsi nella sensibilità per le necessità dell'altro. Deve manifestarsi nella disponibilità a condividere. Deve manifestarsi nell'impegno per il prossimo, per quello vicino come per quello esternamente lontano, che però ci riguarda sempre da vicino.
Esistono oggi forme di volontariato, modelli di servizio vicendevole, di cui proprio la nostra società ha urgentemente bisogno. Non dobbiamo, ad esempio, abbandonare gli anziani alla loro solitudine, non dobbiamo passare oltre di fronte ai sofferenti. Se pensiamo e viviamo in virtù della comunione con Cristo, allora ci si aprono gli occhi. Allora non ci adatteremo più a vivacchiare preoccupati solo di noi stessi, ma vedremo dove e come siamo necessari.
Vivendo ed agendo così ci accorgeremo ben presto che è molto più bello essere utili e stare a disposizione degli altri che preoccuparsi solo delle comodità che ci vengono offerte. Io so che voi come giovani aspirate alle cose grandi, che volete impegnarvi per un mondo migliore. Dimostratelo agli uomini, dimostratelo al mondo, che aspetta proprio questa testimonianza dai discepoli di Gesù Cristo e che, soprattutto mediante il vostro amore, potrà scoprire la stella che noi seguiamo.
Andiamo avanti con Cristo e viviamo la nostra vita da veri adoratori di Dio! Amen.

* * *
SAN FRANCESCO DI SALES SUI FIGLI DI ZEBEDEO
Dai Discorsi di san Francesco di Sales.
Sermon pour la fète de Saint Jean ad Portam Latinam.Oeuvres.Annecy,1897,t.IX,73-79.
Oggi la santa Chiesa celebra la festa di un apostolo. Invece di parlarci delle perfezioni, dei carismi e delle virtù di san Giacomo, il vangelo ci riferisce uno dei suoi grandi limiti, l'ambizione che lo agitava.
Ammiro la semplicità degli evangelisti nello scrivere questo episodio. Cosi possiamo vedere come lo Spirito di Dio sia opposto a quello del mondo. Quando infatti la gente del mondo vuol lodare i suoi campioni, ne segnala sempre le virtù, le perfezioni, i lati positivi, li insignisce di tutti i titoli e le qualità che li rendano più onorabili, tacendo però quanto potrebbe scalfirne la reputazione.
La nostra madre Chiesa fa esattamente il contrario. Ella ama teneramente i suoi figli, ma quando vuole lodarli o esaltare, riferisce senza attenuanti i peccati che essi commisero prima della conversione. In questo modo la Chiesa procura molto più onore e gloria alla maestà di Dio, che santificò questi uomini irradiando su di essi la sua infinita misericordia Dio infatti, dopo averli tratti fuori dalla miseria morale e dalla colpa, li ha colmati con le sue grazie e il suo amore mediante cui sono pervenuti alla santità.
L'apostolo san Giovanni aveva pochissimi limiti, così innocente com'era, e poi puro, casto, giovanissimo. Tuttavia, il vangelo ci riferisce che lui e suo fratello Giacomo avevano il desiderio assillante di sedere l'uno a destra e l'altro a sinistra di nostro Signore.
Possiamo credere che i due fratelli concertarono il modo per conquistare quella dignità, ma non la vollero chiedere apertamente. Si sa che gli ambiziosi non usano pretendere di persona quanto bramano, nel timore di essere giudicati per quello che sono.
I figli di Zebedeo escogitarono perciò un espediente: si rivolsero alla madre, perché fosse lei a presentare la petizione al Signore. Giacomo e Giovanni erano certi che Gesù avrebbe concesso quel favore a motivo dell'affetto che aveva per loro. In realtà, il Signore amava assai i due fratelli e in modo speciale san Giovanni, la cui dolcezza e purità glielo rendevano tanto caro.
Per ottenere più facilmente quanto desiderano, i due si rivolgono dunque alla madre; questa, tutta zelante per il bene e l'onore dei figli, va a presentarsi da nostro Signore, il loro buon maestro. Si prostra ai suoi piedi con umiltà per guadagnarselo e venire esaudita.
Di' che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno. L 'evangelista Marco specifica che i due fratelli soggiunsero:Maestro. noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo. 1.( Mc 10, 35 )
Vi prego di notare quanto sia grande la nostra miseria! Desideriamo che Dio faccia la nostra volontà e non vogliamo fare la sua quando non concorda con la nostra. A un attento esame troveremo che la maggioranza delle nostre richieste sono piene di imperfezione e mirano unicamente al nostro soddisfacimento.
Vi cito un caso: se stiamo pregando, vogliamo che prontamente il Signore ci parli, ci visiti, ci consoli. Gli diciamo di far questo, di darci quello, e se per il nostro bene lui non lo fa, eccoci inquieti e rannuvolati.
Quanto saremmo felici se regnasse in noi la santa volontà di Dio! Non commetteremmo più nessun peccato baderemmo di non vivere alla mercé dei nostri umori delle nostre inclinazioni disordinate, poiché la volontà divina è la regola di ogni autentica santità.
Il Signore risponde ai nostri due santi: " Potete bere il calice che io sto per bere? Non immaginatevi che esso consista nel raccogliere onori, dignità, posti prestigiosi e gratificanti. Niente di tutto questo. Bere al mio calice vuol dire condividere passione, pene, sofferenze, chiodi e spine; signi fica bere fiele e aceto, e alla fine morire sulla croce con me".
Dobbiamo stimare un favore e una fortuna grandissima portare la croce e venirvi inchiodati con il nostro dolce Salvatore!
I martiri bevvero quel calice in breve tempo. Alcuni lo vuotarono in un sorso, altri ci misero un'ora, chi due o tre giorni, chi un mese. Quanto a noi, se non berremo quel calice con un rapido martirio, possiamo almeno sorseggiarlo nel corso dell'intera esistenza terrena, mediante una continua abnegazione. Così fanno e devono fare tutti i religiosi e le religiose che Dio ha chiamato a questa speciale consacrazione per portare la sua croce e venire crocifissi con lui.
E' davvero un pesante martirio non fare mai la propria volontà, sottomettere continuamente il proprio modo di vedere, estirpare dal cuore ogni affetto impuro e quanto non è Dio. In breve, si tratta di non vivere più secondo le proprie inclinazioni o le proprie fantasie. per seguire la ragione e la volontà divina.
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Dalle Omelie di san Beda il Venerabile.

In Natale sancti lacobi apostoli,Lib.II,hom.18. PL94,228-233.




Poiché desiderava sanare le ferite della superbia umana, il nostro Creatore e Redentore, il Signore Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, divenne simile agli uomini umilio sé stesso facendosi obbediente fino alla morte.1.( Fil 2,6.8)


Con l'esempio Gesù ci ha avvisati che se vogliamo arrivare al culmine della vera altezza, dobbiamo intraprendere il cammino dell'umiltà. Se bramiamo vedere la vera vita, il Maestro ci esorta a soffrire con pazienza le avversità del mondo presente e perfino la morte.


Gesù ci ha promesso i doni della gloria, ma ci ha preannunziato i rischi della battaglia. Ecco la sua promessa.





Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla a, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo. 2.( Lc 6,35 ) Dunque, Gesù promette ai suoi la dorata, ricompensa della vita eterna; però segnala che prima è,
necessario passare per una porta stretta e uno scomodo sentiero.




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Per giungere sulla cima d’un monte, bisogna affrontare, rudi fatiche; quanto sforzo sarà allora necessario per avere, la vita in cielo e riposare sul monte di Dio, di cui parla, il salmista? 3( Sal 14,1 ) Quando i figli di Zebedeo sollecitano da Gesù di sedere


accanto a lui nel suo Regno, il Signore ribatte offrendo loro il suo calice da bere. Li invita cioè a imitare l'agonia della sua passione, perché ricordino che i beni del cielo si acquistano in terra al duro prezzo dell'abiezione e della prova.


Si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli e si prostro per chiedergli qualcosa.4.( Mt 20,20 )


Possiamo immaginare che una tale richiesta fosse provocata da eccessivo affetto materno o da desideri ancora egoistici da parte dei discepoli, forti di una parola del Maestro: Quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele.5.( Mt19,28 )


D'altronde Giacomo e Giovanni si sapevano amati in modo speciale dal Signore. L'evangelista ricorda che Gesù talvolta li prendeva in disparte con Pietro, per renderli partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti.




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L'amore di predilezione che Gesù testimonia a Pietro, Giacomo e Giovanni si manifesta nei nomi nuovi che loro dà. Simone merita di essere chiamato Pietro per la fortezza e la stabilità della sua fede inespugnabile. Giacomo e Giovanni si vedono soprannominati da Gesù "i figli dei tuono perché insieme con Pietro udirono la voce del Padre quando Gesù si trasfigurò sul monte.


Ai figli di Zebedeo certo era stato rivelato molto di più sui misteri divini che non agli altri discepoli, ma a loro importava soprattutto aderire con cuore indiviso al Signore e sentirsi avvolti dal suo amore.


Per tali motivi, Giacomo e Giovanni supponevano che fosse possibile aspirare di sedere più da vicino al Signore nel Regno, specie perché Giovanni, per la sua verginità e la grande purezza di cuore, era tanto caro a Gesù da poggiare il capo sul petto di lui durante la cena.


Ma ascoltiamo ora che risposta dà a tale richiesta colui che conosce i meriti e distribuisce le dignità.




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La semplicità tinta d'affetto e di fiducia, con cui i figli di Zebedeo chiedono di sedere accanto al Signore nel suo Regno, è certo degna di lode. Tuttavia sarebbe stato meglio che, coscienti della loro fragilità, essi avessero avuto la saggia umiltà di dire:Per me stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi.6.( Sal 83, 11 )


Non sanno quello che chiedono nel reclamare dal Signore l'eccellenza del premio prima di aver fornito la perfezione delle opere. Ma il divino Maestro insinua loro ciò che va cercato in priorità, rammentando che la strada della fatica è l'unico percorso che sfocia nel relativo compenso.


Egli dice loro: Potete bere il calice che io sto per bere ?7.( Mt 20,22 ) Il calice simboleggia le amarezze della passione. I giusti d'ogni tempo possono condividere le sofferenze del Signore, perché queste continuamente riaffiorano nella crudeltà dei miscredenti. Ogni uomo che le accetti con umiltà, con pazienza, persino con gioia a causa di Cristo, regnerà in alto con lui.


Ai figli di Zebedeo, bramosi dei primi posti, Gesù espone la necessità di seguire anzitutto l'esempio della sua passione per raggiungere finalmente il culmine della gloria desiderata.


L'apostolo Paolo offre il medesimo insegnamento di vita, quando scrive: Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.8.( Rm 6, 5 )




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Gesù dice ai figli di Zebedeo: Non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra ma e per coloro per i quali e stato preparato dal Padre mio.9.( Mt 20,23 ) Se quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa, 10( Gv 5, 19 ) Gesù come può dire che non sta a lui concederlo se non perché egli è insieme Dio e uomo?


Nel vangelo Gesù talvolta parla con la voce della maestà divina, per cui è uguale al Padre, talvolta parla con la voce dell'umanità assunta, per la quale si è fatto uguale a noi.


Poiché nel testo odierno egli vuol dare agli uomini un esempio di umiltà, parla essenzialmente con la voce della sua natura umana.


Abbiamo visto che la madre viene con i figli a presentargli una richiesta. La donna lo interroga in quanto uomo che ignori quello che è occulto e non conosca il futuro, lui che nell'eternità della potenza divina sa tutto quello che deve accadere.


Questa donna si rivolge all'umanità di Gesù più che alla sua divinità, perché chiede che i figli possano sedere alla sua destra e alla sua sinistra. In quanto ha assunto un corpo, il Figlio ha infatti una destra e una sinistra; ma in quanto Dio, ciò non ha senso.


Poiché Gesù è interrogato in quanto uomo, risponde facendo astrazione della sua divinità impassibile e parla della passione che dovrà subire come uomo. Egli propone ai discepoli di imitare il suo itinerario doloroso e conferma la loro protesta di coinvolgimento attestando: R mio calice lo berrete. 11.( Mt 20,23 )




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Nel commento di questo testo non va tralasciato che Gesù non fa distinzioni tra i due discepoli quando afferma che berranno il suo calice. Ora sappiamo che Giacomo terminò la vita con l'effusione del sangue, mentre Giovanni morì in un periodo di pace per la Chiesa.


Luca attesta chiaramente il martirio di Giacomo quando


scrive: In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare


alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo


fratello di Giovanni.12.( At 12,1-2 )


Da parte sua, Eusebio, nella "Storia Ecclesiastica riferisce alcuni particolari di quella passione: "Colui che aveva consegnato Giacomo al giudice. rimase sconvolto. Confessò di essere anch'egli cristiano, e ambedue furono condotti insieme al supplizio. Per via, quell'uomo chiese a Giacomo di perdonarlo. Dopo un istante di riflessione, Giacomo gli disse: 'La pace sia con te, e gli dette il bacio santo. Cosi ambedue furono decapitati". 13




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Sappiamo che Giovanni era pronto per bere il calice di morte per il Signore. Negli Atti leggiamo di lui che insieme con gli apostoli fu lieto di aver subito gli oltraggi, il carcere e le percosse per amore del nome di Gesù. 14( At 5,41 ) Sappiamo pure che Gìovanni, a motivo della parola di Dio, fu relegato in esilio nell'isola di Patmos.


Quanto al supplizio ch'egli avrebbe sofferto sotto Domiziano, la tradizione vuole che sia stato gettato in una caldaia di olio bollente. Ma Giovanni ne usci sano e salvo,così com era integro di mente e di vita. 15


Sempre Domiziano mandò Giovanni in esilio; eppure quanto più l'Apostolo pareva privo di ogni soccorso terreno, tanto più i cittadini del cielo venivano a consolarlo.


Giovanni bevve realmente al calice del Signore tanto quanto suo fratello decapitato, giacché per le tante prove sostenute in difesa della verità, dimostrò che avrebbe prontamente affrontato la morte se si fosse presentata l'occasione.




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Anche noi, cari fratelli, possiamo ricevere il calice di salvezza e ottenere la palma del martirio, pur senza soffrire catene, supplizi, carcere e persecuzione per la giustizia. Basterà trattare duramente il nostro corpo e tenerlo sottomesso, pregare Dio con cuore umile e pentito; basterà sopportare serenamente le offese del prossimo, amare chi non ci vuol bene, mostrarsi buoni con chi ci tratta male, impegnandoci a pregare per la loro vita e la loro salvezza. In una parola, rivestiamoci di pazienza e orniamoci del frutto di buone opere.


Seguiamo il consigio dell'Apostolo che ci esorta a offrire i nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito aDio. 16( Rm 12.1 )


Se vivremo cosi, Dio ci ricompenserà, elargendoci la gloria riservata a coloro che per Cristo consegnarono le proprie membra al martirio.


Allora la nostra vita sarà preziosa agli occhi del Signore quanto la morte dei martiri. E quando i legami della carne si scioglieranno, meriteremo di entrare nelle dimore della Gerusalemme celeste. La, insieme con i cori dei beati, renderemo grazie al nostro Redentore che vive e regna con il Padre, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.Amen.