giovedì 22 marzo 2012

Gesù alla festa delle Capanne

Di seguito il Vangelo di oggi, 23 marzo, venerdi della IV settimana di Quaresima,
con un commento e due letture di approfondimento.


 Perché l’uomo,
se si sente dentro dei limiti,
tutto dentro dei limiti, soffoca.
Mentre una azione,
anche la più piccola,
se è compiuta come coscienza e come amore del tutto,
come obbedienza nell’istante al grande disegno del tutto,
«soddisfa», satis facit. Compie.
Per poter vivere il valore,
il «ciò-per cui-val-la-pena»,
bisogna quindi avere una percezione acuta e viva del tutto.
Ma il senso del tutto è mistero.
Noi lo chiamiamo Dio,
ma l’essenza della parola Dio è assoluto mistero.

Luigi Giussani


Gv 7,1-2.10.25-30

In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne. Andati i suoi fratelli alla festa, vi andò anche lui; non apertamente però, di nascosto. Alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”. Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.


IL COMMENTO

La festa delle Capanne era una festa importantissima, "la" festa. Ricordava l'Alleanza, e il tempo del deserto, le viscere nelle quali si è formato il popolo di Israele; il catecumenato dove ha imparato a conoscere Dio e a conoscere se stesso. "…tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto" (Lv 23:41). Al tempo di Gesù era una festa con fortissime connotazioni messianiche, il tempo in cui “il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi securi” (Is 32:18). L'aria era pregna d'attesa. La schiavitù e l'asservimento a Roma erano divenuti impossibili da sopportare. Durante la settimana della festa il popolo si costruiva delle capanne e vi dimorava in ricordo dei quarant'anni nel deserto. E che deserto era il giogo romano. Il nostro deserto. Di oggi. Di ieri. Di domani. Le nostre attese.

La festa delle Capanne o dei Tabernacoli cadeva in settembre al culmine del raccolto; per facilitare la raccolta, si rimaneva nei campi per tutta la settimana invece di ritornare a casa, abitando nella capanne costruite per l’occasione. Accanto all'attesa Israele celebrava dunque anche il compimento, che si apriva di nuovo all'attesa della nuova stagione. Per il Popolo la speranza non è un chiudere gli occhi e sognare qualcosa di inaudito. Per Israele la speranza si radica nella propria esperienza ed il Messia porterà a compimento quanto Dio ha già mostrato di voler e poter compiere. Le capanne erano segno di una promessa che già iniziava a compiersi, il raccolto di un anno preludeva a quello del prossimo. La festa delle Capanne era la festa della fedeltà di Dio, la Luce che illumina il cammino, acqua che disseta e dà vita laddove non vi è, Alleanza gratuita che sigilla un'elezione irrevocabile, misericordia che sostiene i passi incerti. Tutto questo era la festa delle Capanne, con i suoi riti che, fondamentalmente, esprimevano la gioia. Era chiamata infatti anche festa della gioia. In essa brillava la misericordia. Seguiva la grande espiazione di Kippur, l'esperienza del perdono che rigenera la comunità nella comunione fondata sulla gratuità della misericordia.

Gesù giunge alla Festa di nascosto. Ed è un segno: Lui incarna il senso più profondo della Festa. La precarietà della capanna allude infatti alla sua carne, nella quale si cela la sua divinità. E' Figlio di Dio, ma lo è in una carne del tutto simile a quella dei suoi "fratelli". Gesù è lì per ridestare la memoria, perchè i giudei possano scendere al cuore di quello che stanno celebrando. Gesù è il compimento, ed è lì che si trova, alla Festa, nascosto tra la folla, perchè ogni uomo possa scoprire, al fondo di ciò che ogni giorno vive, il compimento della propria vita; Gesù è la realizzazione delle promesse fatte agli antichi Padri da cui è sorto Israele, ed è lì perchè ogni suo figlio possa scoprirlo e riconoscerlo. Gesù è la gioia, perchè in Lui la vita ha senso e compimento, con Lui si raccoglie senza che nulla vada perduto, senza che neanche un istante sia disperso.

Ma vi è lo scandalo dell'incarnazione. I giudei inciampano ancora una volta nella capanna, nella tenda visibile, arrestandosi sulla soglia del mistero che il segno contiene e indica, e invece di raccogliere con Cristo, disperdono le Grazie disseminate nella storia. San Giovanni descrive l’Incarnazione alludendo alla tenda: "E il Verbo si fece carne e costruì la sua “skēnē” (la sua tenda) in mezzo a noi". La tenda del Signore è la sua carne. Come la capanna issata nei giorni della mietitura e durante il cammino nel deserto, essa è il luogo dove incontrare il compimento di ogni promessa, la pienezza della vita. Ma non può essere di più di quello che è, non si può chiedere alla carne di più di quello che essa può dare. Pena lo scandalo, l'inciampo sui suoi limiti, sulle sue contraddizioni, sulla sua debolezza. La tenda della carne è il luogo dove riposarsi durante il raccolto e durante il cammino dell'esodo; la carne, il corpo, la storia, tutto ciò che nella vita è transitorio, costituisce il luogo dove riposarsi, dove riprendere le forze, dove sostare, perchè è come il tempio nel quale è deposto il seme della vita che non muore. Ma essa è segnata dalla precarietà, è un'orma sul cammino, un memoriale, non è l'origine, non è il sostegno, non è ciò che dà senso e gioia alla vita, esattamente come non lo era il Tempio di Gerusalemme dove, non a caso, il Signore si trova ad insegnare pronunciando le parole del vangelo di oggi. Attraverso le capanne il Popolo era aiutato a ricordare ciò che stava celebrando e a gioire per il dono ricevuto. Accendeva la gioia autentica perchè spingeva Israele a guardare al suo unico Dio, a ritornare al suo primo amore, a sperimentare la grazia del deserto dove è stato attirato perchè Dio potesse parlare al suo cuore. Le tende per ricordare la promessa ricevuta, per reinnescare la speranza, per accogliere il compimento: "Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (Os. 2,21-22).

La capanna è il luogo dove conoscere il Signore, dove fidanzarsi con Lui nell'amore e nella fedeltà. Ma il Signore non è solo la capanna-tenda. Fermarsi alla carne conduce ad uccidere la carne stessa, come fare del tempio l'assoluto dimenticando, nella vita reale, Colui per il quale esso è stato eretto. I Profeti hanno pronunciato parole durissime proprio contro una religione di facciata, che contempla le pietre del Tempio senza fissare il cuore sulla Pietra angolare: del tempio fatto dall'uomo non resterà pietra su pietra, mentre proprio quella scartata diverrà testata d'angolo. Perchè una relazione che si arresta alla carne si risolve, inevitabilmente, in un voler possedere l'altro, in una conoscenza parziale attraverso la quale imprigionare e gestire, per veder franare la stolta architettura senza fondamento di affetti sregolati e passionali. Gesù era, agli occhi dei giudei, troppo uomo. Troppo comprensibile ai loro occhi velati. No, non poteva essere il Messia. Il figlio di un falegname. No. Questa precarietà, questa fragilità... Il Messia invece, il Salvatore, porrà termine a tutta questa incertezza, alla dura precarietà della vita; finirà il tempo dell'attesa, smonteremo le capanne, metteremo radici e nulla più ci creerà problemi. E invece, nel bel mezzo di questa attesa che si fa speranza tutta carnale, ecce homo, ecco l'uomo. Come tutti. Debole, fragile e precario. Anche Lui in una capanna, la Sua vita come quella di ciascuno di noi, in una barca in mezzo alle onde. No. Nazaret, la Galilea, niente studi, niente lignaggio, neanche un sacerdote, un rabbino tra i parenti! Troppo umano, semplicemente uomo. No. Conosciamo fin troppo bene quest'uomo. Non è di Lui che abbiamo bisogno, ma di forza, intelligenza, programmazione e tanti bei miracoli a risolvere le nostre sofferenze e porre fine alla precarietà. Di un tempio come un distributore automatico di miracoli, ecco il Messia che tutti aspettiamo. E, nell'attesa, ci portiamo avanti il lavoro, aiutiamo Dio a fare il suo mestiere, secondo i nostri gusti e le nostre conoscenze, quelle apprese un giorno nel Giardino dinanzi all'albero della vita... Ci facciamo dio, idolatriamo la carne perchè essa idolatri noi, e il Tempio destinato a Dio è trasformato in un mausoleo al nostro io: così con il coniuge, con i figli, i colleghi, gli amici; così con noi stessi. Crediamo di conoscere da dove venga chi ci è accanto, e, certamente, nell'ambito della carne, lo sappiamo. Ma non sappiamo riconoscere nel prossimo le sembianze del Figlio di Dio, perchè stretti nella falsa certezza che non può incarnarsi in quella debolezza. Pensiamo che il Messia debba venire da chissà dove, dal miracolo di un'esistenza trasformata, e invece Egli bussa alla nostra porta attraverso la carne debole del marito, del figlio, di chi si avvicina a noi.

Invece la Buona Notizia è proprio la precarietà. Le capanne, un Servo che si fa ultimo, un Agnello che si fa macellare. Un Uomo che è Dio e rende divina ogni precarietà. Che fa della vita un prodigio, ogni lacrima, ogni angoscia, ogni dubbio ogni paura, ogni dolore, tutto assunto dal Dio fatto uomo, e trasfigurato e divinizzato. Lui, il Messia, nel nostro deserto a fare di questo nostro deserto quotidiano un Giardino. Il paradiso nel deserto, la vita nella morte. Il Messia, Gesù, non cambia nulla, neanche una virgola delle nostre esistenze. Le assume, oggi, come ieri come domani, le fa Sue, le rende divine, le ricolma di Vita e le fa sante. Per questo siamo chiamati a vivere nelle capanne, in una totale precarietà, con il Signore. Vivere il Cielo qui sulla terra. Sperimentare l'amore tra le difficoltà.

Nella capanna che è la nostra vita, un'unica certezza, il Suo amore. Così la relazione con il Signore è modello per ogni relazione tra le persone. Dimorare nella precarietà della capanna significa dimorare in Cristo, nel suo amore che si manifesta attraverso la debolezza della sua carne. Questo significa vivere ogni rapporto dimorando nella tenda della carne con gli occhi ed il cuore fissi a ciò che essa nasconde. Guardare in chiunque ci è vicino il Mistero Pasquale del Signore, intercettare il prodigio in corso d'opera che, nella precarietà della tenda, sta costruendo una dimora per l'eternità. Guardare un figlio con questi occhi! Una moglie, un marito, la fidanzata, l'amico, il fratello! Guardarlo come il Tempio che Dio ha voluto per sua dimora, il Santo dei Santi dove dispensare la Grazia del perdono. Guardare così, contemplando Dio nel suo Figlio, in quella persona che mi è accanto ora: come cambierebbero le parole, e gli sguardi e gli atteggiamenti... La bellezza della fidanzata, la simpatia dell'amico, la tenerezza dei figli, la fratellanza della comunità, sono i rami di Lulav agitati durante la Festa delle Capanne. Il lulàv è un ramo di palma (lulàv) a cui sono legati due rami di salice ('aravà) e tre di mirto (hadàs); a questi si aggiunge un cedro (etròg). La palma dà un frutto dolce, ma senza profumo; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo ma non sapore; il cedro ha sapore e profumo. Le quattro specie di vegetali del lulàv simboleggiano i quattro tipi di persone che hanno o non possiedono, sapienza e bontà. Alcune sono sapienti e generose, altre sapienti ma non generose, altre generose ma non sapienti, altre ancora né sapienti né generose.Il lulav è la carne che fa festa allo Spirito, alla vita divina che, come l'arca, come il roveto ardente, porta e manifestaL'umanità è ciò che innesca l'amore, come i due occhi splendidi di una ragazza muovono il cuore all'innamoramento. Ma occorre entrare in quegli occhi e scoprirvi il Mistero che essi trasmettono. Dimorare nello sguardo dell'amata, nelle sue parole, nei suoi sorrisi, anche nei suoi difetti cercando e fissando il "più in là", l'altra riva che essi, spesso nascostamente, indicano. E' questa la conoscenza che si fa intimità, amore che si fa consegna, la vita autentica che, nella precarietà, si alimenta del compimento che è Cristo vittorioso sulla morte, il suo amore che supera ogni limite e ogni aspettativa.

Origene (circa 185-253), sacerdote e teologo
Commento al vangelo di Giovanni, XIX, 12 ; PG 14, 548

« Nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora »

Cercare Gesù è per lo più in vista di un bene, poiché è come cercare il Verbo, la verità e la sapienza. Direte però che le parole « cercare Gesù » sono a volte pronunciate riguardo a coloro che gli vogliono del male. Per esempio : « Cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora »... Egli sa da chi si allontana e accanto a chi rimane, anche quando non si è lasciato trovare, affinché cercandolo, lo troviamo nel momento favorevole. L'Apostolo Paolo dice a coloro che non possiedono ancora Gesù e non l'hanno ancora contemplato: «Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? Questo significa farne discendere Cristo; oppure: Chi discenderà nell'abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti. Che dice dunque la Scrittura? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore» (Rm 10, 6-8).

Nel suo amore per gli uomini, quando il Signore dice: «Voi mi cercherete» (Gv 8,21), fa intravvedere le cose del Regno di Dio, affinché coloro che lo cercano non lo cerchino fuori da sè dicendo «Eccolo qui o: eccolo qua». Il Vangelo dice loro: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21). Finché teniamo il seme della verità deposto nella nostra anima, e i suoi comandamenti, il Verbo non si allontana da noi. Invece se il male si diffonde in noi per corromperci, ci dirà Gesù: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato» (Gv 8,21).


APPROFONDIMENTI

LA FESTA DELLE CAPANNE

Il Nuovo Testamento non è la distruzione ma il compimento dell'Antico. Le feste liturgiche sono l'esempio più notevole di questo principio. Le grandi solennità del giudaismo, la Pasqua e la Pentecoste, sono rimaste quelle del cristianesimo, caricandosi solamente di un senso nuovo. Vi è tuttavia un'eccezione a questa legge, almeno apparentemente, che è quella della Festa dei Tabernacoli, la Scenopegia dei Settanta, che si svolgeva in settembre. Non ne sussiste che un vestigio, la lettura del testo del Levitico che la riguarda, il sabato delle Quattro Tempora di settembre.

La festa ha certamente lasciato delle tracce nella liturgia e nell'esegesi cristiana 1. Ci chiediamo quindi il significato che essa rivestiva al tempo di Cristo.

La prima origine della festa dei Tabernacoli è da ricercarsi nel ciclo delle feste stagionali. È la festa della vendemmia, come la Pentecoste era la festa della mietitura 2. Lo indica lo stesso testo del Levitico che ne prescrive la celebrazione (XXIII, 39). Anche Filone sottolinea questo aspetto (Spec. leg., II, 204). È a questa festa stagionale che si ricollegano i riti caratteristici della festa: l'abitazione per sette giorni nelle capanne costruite di ramaglie (skenai), le libagioni di acqua destinate ad ottenere la pioggia, la processione intorno all'altare l'ottavo giorno, tenendo in una mano il mazzo (lulab) fatto con tre specie di ramoscelli (salice, mirto e palma) e nell'altra un frutto di limone (etrog) 3.

Ma, come per le altre feste che hanno la stessa origine, il pensiero ebreo ha iscritto il ricordo di un avvenimento della sua storia nel quadro ciclico della festa stagionale. Così la Pasqua, festa delle prime spighe e dei pani azzimi, è divenuta la festa dei primogeniti risparmiati (pessah) dall'Angelo sterminatore. La Pentecoste è stata associata alla comunicazione della Legge sul Sinai.

Così è per la festa dei Tabernacoli. Già il Levitico spiega che essa è destinata a rammentare agli ebrei il ricordo del loro soggiorno nelle tende (skenai) del deserto al tempo dell'Esodo (XXIII, 43). Questa interpretazione si ricollega alla tradizione sacerdotale e si ritroverà in Filone (Spec. leg., II, 207), nella tradizione rabbinica 4, presso i Padri della Chiesa 5.

Ma a partire dai Profeti, e sopratutto nel periodo dopo l'esilio, gli avvenimenti passati della storia d'Israele, e in particolare l'Esodo, non sono ricordati che per nutrire la speranza del popolo negli avvenimenti futuri, in cui la potenza di si manifesterà in modo ancora clamoroso in favore dei suoi. Gli avvenimenti dell'Esodo diventano la figura delle realtà escatologiche. È il fondamento della tipologia. Questo è vero per la Pasqua e l'uscita dall'Egitto, che appaiono come la figura della liberazione escatologica del popolo di Dio, ed è ancor più vero per la festa dei Tabernacoli, che assume più di qualsiasi altra festa un significato escatologico. Forse si può trovarne una ragione in un tratto che ci indica Filone, cioè che essa chiude (teleiosis) il ciclo agrario dell'anno (Spec. leg., II, 204) 6.

Vi è però una ragione più antica e più profonda. La festa pare avere difatti un legame molto speciale con le speranze messianiche. Le origini di questo legame sono oscure, ma sembra che la festa dei Tabernacoli sarebbe in relazione sia con la festa annuale dell'instaurazione reale, sia, come pensa Kraus, con il rinnovamento dell'alleanza da parte del re davidico. È questa festa, con i suoi resti disintegrati, che sussisterebbe nelle tre grandi feste ebraiche di Tischri, Rosh-ha-shana, Kippur e Sukkoth (skenaí) 7. Questa festa avrebbe preso nel giudaismo un carattere messianico, cioè sarebbe stata messa in rapporto con l'attesa di un re futuro. Non si tratta qui della prima origine della festa, che sembra collegarsi ai riti stagionali, ma di una trasformazione che avrebbe subito all'epoca regale e che vi avrebbe introdotto elementi nuovi.

Ciò che è sicuro, ad ogni modo, è che molti testi ci documentano l'importanza assunta dalla festa nel giudaismo post-esilico in rapporto con l'attesa messianica. Il primo è il capitolo finale di Zaccaria. Si vede prima "posare i suoi piedi sul Monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme sul lato dell'Oriente" (XIV, 5). Poi si dice che "delle acque vive usciranno da Gerusalemme" (XIV, 8). Ma soprattutto noi vediamo "tutte le nazioni salire a Gerusalemme per celebrare la festa dei Tabernacoli" (XIV, 16).

Così la festa dei Tabernacoli appare come una figura del regno messianico. Gli altri due tratti sembrano farvi riferimento: il dilagare delle acque vive è in rapporto con i riti della festa e il Monte degli Ulivi è il luogo ove si raccoglievano i rami per le capanne 8. Quest'ultimo punto sarà interessante quando dovremo accostare l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, proveniente dal Monte degli Ulivi, e la festa dei Tabernacoli.

D'altra parte possediamo un salmo che appartiene alla liturgia post-esilica della festa, il cui carattere messianico è evidente: è il Salmo 117. Era cantato durante la processione solenne in cui, l'ottavo giorno, gli Ebrei si muovevano attorno all'altare portando il lulab. È a questa processione che allude il versetto: Constituite diem solemnem in condensis usque ad cornu altaris. Ora questo salmo indica il Messia come colui che deve venire: Benedietus qui venit in nomine Domini. E invoca la sua venuta con il grido dell'Osanna : 0 Domine salvum me fac. Il salmo contiene anche un altro testo messianico, che il Nuovo Testamento applicherà al Cristo. È il versetto: "La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo" (CXVII, 22). Tutti questi passi ci mostrano che la liturgia dei Tabernacoli era un luogo privilegiato dell'attesa messianica.

Questa interpretazione messianica della festa è proseguita nel giudaismo fino ai primi secoli cristiani. San Girolamo, commentando Zaccaria, XIV, 6, espone che gli Ebrei vedono nella festa dei Tabernacoli "attraverso una fallace esperienza, l'immagine delle cose che accadranno nel regno millenario" (III, 14; P. L., XXV, 1536 A). Essi interpretano nello stesso modo il dilagarsi delle acque vive e la ricostruzione di Gerusalemme (1529 A-C). Così per gli Ebrei la festività dei Tabernacoli, in cui ognuno mangiava e beveva con la sua famiglia nella propria capanna adornata di rami vari, appariva come una prefigurazione delle gioie materiali nel regno messianico. Le speranze messianiche che la festa alimentava possono spiegarci perché questa sia stata l'occasione di una certa agitazione politica e perché i Padri della Chiesa pongono particolarmente in guardia i cristiani contro di essa 9.

Ma il testo di Girolamo riveste un altro interesse, ossia quello di mettere la festa in rapporto con i Mille anni. Sappiamo infatti che l'espressione ha un significato paradisiaco. Mille anni è l'età che avrebbe vissuto Adamo se fosse rimasto fedele, e che i suoi discendenti non hanno mai più raggiunto a causa del peccato originale 10.

Così la festa dei Tabernacoli si carica di un nuovo simbolismo, che ritroveremo più in là nei Padri e che d'altronde ci è attestato nel giudaismo. Il suo quadro arborescente evoca il giardino originale. Le sue festività annunciano l'abbondanza materiale del regno messianico. Gerusalemme restaurata è il Paradiso ritrovato. L'acqua viva è quella della sorgente paradisiaca, che si espande nelle quattro direzioni. L'etrog portato in mano alla fine della festa è il simbolo dell'Albero della Vita (Girolamo, loc. cit., 1357 A). Del resto si sa quanto i temi messianici ed i temi paradisiaci siano uniti nel giudaismo.

Che Girolamo testimoni di una tradizione antica, ne abbiamo la prova nel fatto che questa interpretazione millenarista della festa dei Tabernacoli si trova già in Metodio. Questi, interpretando in un senso escatologico la fuga dall'Egitto, scrive: "Essendomi messo in cammino anch'io ed essendo uscito dall'Egitto di questa vita, giungo dapprima alla risurrezione, alla vera festa dei Tabernacoli. Là, avendo costruito il mio tabernacolo il primo giorno della festa, quello del giudizio, io celebro la festa con il Cristo durante il millenario del riposo, chiamato i sette giorni, il vero sabbat. Poi, mi metto in cammino verso la terra promessa, i cieli" (Conv., IX, 5; G. C. S., 120).

La festa dei Tabernacoli significa dunque il regno terrestre del Messia, prima della vita eterna. L'interesse di questo testo sta nel fatto che ci mostra che questa concezione millenarista della festa esisteva anche presso alcuni cristiani, come d'altronde Girolamo dichiara (1529 A). Sappiamo del resto che Metodio si ricollega alla teologia asiatica, ed è in questa, nell'Apocalisse di Giovanni e in Papia che appare il millenario contemporaneamente alla prima simbolica escatologica cristiana dei Tabernacoli. I cristiani la prendevano dagli Ebrei e questo ci permette dunque di risalire, attraverso questi, ai tempi apostolici.

D'altra parte i dati archeologici ebraici ci portano una conferma decisiva di questo. Basta leggere l'opera di Erwin Goodenough 11 sul simbolismo giudaico all'epoca greco-romana, per constatare che i terni più frequentemente rappresentati sono in relazione con la festa dei Tabernacoli. Questo è evidente per il lulab e l'etrog. Ma la questione si può porre anche per la menorah. Si sa che la festa dei Tabernacoli era una festa delle luci. Il sophar si ricollega alla festa di Rosh-ha-shana, che fa parte dello stesso simbolismo; ugualmente il sacrificio di Isacco. Almeno per una parte, questi simboli sono in rapporto con la speranza escatologica. Se questa speranza sia messianica o riferita all'aldilà, è un quesito che affronteremo trattando del senso di questi differenti simboli.

Un caso particolarmente interessante è quello della sinagoga di Dúra-Europos. Molti affreschi che essa contiene sono messi in rapporto con la festa dei Tabernacoli, come per l'affresco W. B. I, secondo il parere di Mesnil du Buisson. Ma questa opinione non sembra poter essere condivisa 12. Per contro Kraeling ritiene che alcuni dei tratti dell'affresco S. B. I, che rappresenta la dedica del Tempio, sono improntati alla festa dei Tabernacoli. Infatti la dedica del Tempio sotto Salomone ebbe effettivamente luogo durante la festa. Un aspetto interessante è la presenza di fanciulli, che noi ritroviamo all'ingresso di Cristo in Gerusalemme. Se questo affresco ha un significato messianico, così come lo pensa Kraeling 13, la festa dei Tabernacoli, legata all'edificazione del Tempio, vi assumerebbe un'interpretazione di questo tipo.

Ma l'affresco senza dubbio più interessante per il nostro argomento, è l'insieme che attornia la nicchia della Torah e che ha dunque un'importanza capitale. Nella parte inferiore, noi abbiamo al centro una rappresentazione schematizzata del Tempio, contornata a sinistra dal candelabro a sette braccia (menorah), con il lulab e l'etrog, e a destra dal sacrificio di Isacco. Tutto ciò si riferisce alle feste di Tischri. La parte superiore, nella sua forma più antica, presenta, secondo Kraeling, l'Albero della Vita contornato da un tavolo e da un trono, avendo tutti questi simboli un senso messianico.

Ci possiamo quindi giustamente chiedere se non sia lo stesso per il Tempio, per il lulab e l'etrog, per la menorah. Per l'appunto Rachel Wischnitzer non esita ad accostare questa rappresentazione a Zaccaria, XIV, 16, ed a vedere, nel tempio, il Tempio escatologico 14. E conclude l'insieme del suo studio: "La sola festa indiscutibilmente designata con i simboli del culto, il lulab e l'etrog, è la festa dei Tabernacoli. Ma è concepita simbolicamente come una festa messianica e associata con la pittura centrale del Tempio messianico e l'idea di salvezza" 15.

Da questa prima indagine risulta che la tradizione ebraica, dal tempo dei Profeti fino al IV secolo dopo Cristo, ha dato alla festa dei Tabernacoli un'interpretazione messianica. Quanto abbiamo mostrato per la festa nel suo insieme, dobbiamo riprenderlo adesso per i diversi elementi che la compongono. Da un lato vi troveremo una conferma di ciò che abbiamo anticipato, e d'altra parte saremo condotti a chiarire i diversi simbolismi escatologici che questi elementi hanno ricoperto nel giudeo-cristianesimo durante il periodo che ci interessa. Ci riferiremo, alla fine, ai dati letterari ed archeologia ebraici, ma anche ai dati giudeo-cristiani, che appaiono semplicemente l'eco di un simbolismo anteriore.

Un primo elemento è quello delle capanne di fogliame, le skenai, i tabernacoli. È senza dubbio uno degli elementi il cui significato messianico risale a più lontano. È forse a essi che Isaia (XXXII, 18) allude, rappresentandoci la vita dei giusti nel regno messianico come un'abitazione nei tabernacoli, raffigurati dalle tende del soggiorno nel deserto: "Il popolo sarà assiso nel riposo (anapausis) e nella pace e dimorerà con fiducia nei tabernacoli (skenai)"

È a partire da questo tema che, come lo ha visto Harald Riesenfeld, un significato messianico sarà dato alla festa dei Tabernacoli: "Le capanne furono concepite non soltanto come reminiscenza della protezione divina nel deserto, ma anche come prefigurazione dei sukkoth, nei quali i giusti abiteranno nei secoli a venire. Così appare che un significato escatologico molto preciso era collegato al rito più caratteristico della festa dei Tabernacoli, così come era celebrata ai tempi del giudaismo" 16.

È in questa stessa prospettiva che si deve senza dubbio spiegare, nel Nuovo Testamento, "i Tabernacoli eterni" (aionioi skenai) di cui si parla in Luca, XVI, 9. Ugualmente l'espressione skenai è frequente nell'Apocalisse per designare l'abitazione dei giusti nel cielo (VII, 1 5; XII, 12; XIII, 6; XXI, 3). Ora noi vedremo che l'Apocalisse è piena di allusioni alla festa dei Tabernacoli. Ma sopratutto sembra proprio che possiamo, con Riesenfeld, vedere nella simbolica escatologica delle capanne, la chiave di un episodio capitale del Nuovo Testamento, quello della Trasfigurazione. Un certo numero di elementi orientano infatti verso un rapporto fra l'episodio e la festa dei Tabernacoli.

Il primo è cronologico: Marco e Matteo dicono che la Trasfigurazione ebbe luogo "sei giorni più tardi" (Matteo, XVII, 1; Marco, IX, 2), mentre Luca la fissa "pressappoco otto giorni più tardi" (IX, 28). La fluttuazione stessa indica che si tratta di una circostanza dell'anno in cui l'intervallo da sei a otto ha una portata speciale. Ora questo va bene particolarmente per la festa dei Tabernacoli, che durava otto giorni, e in cui l'ottavo giorno aveva una speciale importanza.

Un secondo elemento, geografico, è quello della Montagna. Orbene, noi abbiamo rilevato il legame particolare fra la festa e il Monte degli Ulivi. In Zaccaria, la gloria di appare sul Monte degli Ulivi: così il Cristo si manifesta nella sua gloria sulla Montagna non identificata della scena. La nube è in rapporto con il culto del Tempio. Essa è qui l'espressione dell'abitazione di tra i giusti nel mondo a venire. Riesenfeld indica ugualmente che l'espressione: "È bello per noi stare qui" (Luca, IX, 37) potrebbe essere l'espressione del riposo dell'anapausis escatologica, di cui abbiamo visto prima in Isaia il collegamento con l'abitazione nei Tabernacoli 17.

Adesso un ultimo elemento, il più misterioso, si chiarisce: quello delle capanne (skenai) che Pietro propone di costruire per il Messia, Mosè ed Elia. Sembra proprio, infatti, che si debba vedere in queste capanna un'allusione alla festa dei Tabernacoli. La manifestazione della gloria di Gesù appare a Pietro come il segno che i tempi messianici sono giunti. Ora uno dei caratteri dei tempi messianici era l'abitazione dei giusti nelle capanne, che prefiguravano le capanne della festa dei Tabernacoli. Il gesto di Pietro si spiega dunque molto chiaramente: esprime la sua fede nel compimento attuale dei tempi messianici sotto la forma dei riti della festa dei Tabernacoli 18. Il passo si comprende ancora meglio se la scena ha avuto effettivamente luogo all'epoca della festa dei Tabernacoli. È comunque un punto sul quale torneremo più in là.

Rimane un'ultima osservazione da fare sul significato escatologico delle capanne: quella del loro simbolismo. Metodio vi vede il simbolo dei corpi risuscitati durante il millenario (Conv., IX, 9; G. C. S., 120). Il confronto del corpo con un tabernacolo si trova in Sapienza (IV, 1 5), in II Corinzi (IV, 2-8), in Il Pietro (1, 13). Ma il problema del suo rapporto in questi testi con la festa dei Tabernacoli, è discusso; anche qui, vi ritorneremo.

Uno dei testi biblici più antichi, ove i cristiani avevano associato l'idea della risurrezione a quella di un tabernacolo innalzato, è Amos, IX, Il: "Rialzerò (anastesomai) la tenda di Davide". Il testo si trova nelle Testimonia utilizzate da Ireneo (Dem., 38 e 62) come profezia della risurrezione di Cristo. E si trovava già nelle Testimonia di Qumrán, ma senza riferimento alla risurrezione (C. D. C., VII, 14-19). Non appare dunque che il rapporto delle capanne della festa con i corpi risuscitati sia anteriore al cristianesimo.

Di contro noi incontriamo nel giudaismo un altro simbolismo che concerne non le capanne stesse, ma gli ornamenti che le ricoprono. Riesenfeld nota, infatti, che l'idea che l'addobbo dei padiglioni futuri sia in rapporto con le azioni dell'uomo durante la sua vita terrena, è familiare ai Midrashim 19. Questo orienta verso un simbolismo che ritroveremo per il lulab e l'etrog.

È per noi interessante notare che questo simbolismo dei padiglioni si ritrova nella tradizione cristiana, che qui dipende certamente da un simbolismo rabbinico. Metodio dice: "lo festeggerò Dio solennemente [durante il millenario] avendo ornato il tabernacolo del mio corpo [= il corpo risuscitato] di belle azioni. Esaminato il primo giorno della risurrezione, io porto ciò che è prescritto per me se sono ornato dei frutti della virtù. Se la Scenopegia è la risurrezione, ciò che è prescritto per l'ornamento delle capanne sono le opere della giustizia" (Conv., IX, 17; G. C. S., 116, 23-27). Dal canto suo Ephrem scrive: "Ho visto (in Paradiso) le tende (o"vaí) dei giusti irrorate di profumi, coronate di frutti, inghirlandate di fiori. Quale è stato lo sforzo dell'uomo, tale sarà il suo tabernacolo" (Hymn. Parad., V, 6; Beck, Studia anselmiana, 26, pag. 41). Beck nota espressamente che i tabernacoli sono in rapporto con l'omonima festa (ibid., pag. 3).

Questo ci conduce a una seconda serie di simboli, il cui significato messianico ed escatologico nel giudaismo contemporaneo del Cristo è certo, il lulab e l'etrog. Qui ci troviamo in presenza dei soggetti più frequentemente rappresentati sui monumenti ebrei. Goodenough ha consacrato loro un lungo studio (IV, pp. 145-166). Si rileverà innanzitutto il loro rapporto con la speranza messianica. Riesenfeld ha attirato l'attenzione su un passaggio del Testamento di Nephtali (V, 4). Si tratta di una visione di Nephtali, che ha per luogo il Monte degli Ulivi e dove Levi, avendo trionfato sul sole, diviene egli stesso brillante come il sole. Gli vengono allora consegnate dodici palme. Se ci ricordiamo dei collegamenti della festa dei Tabernacoli e del Monte degli Ulivi con l'attesa messianica, l'apparizione del Messia alla festa dei Tabernacoli sul Monte degli Ulivi non può vedersi qui che come un sole levante, e le palme sono allora il segno della sua vittoria20. Come non accostare l'episodio della Trasfìgurazione del Cristo sul Monte degli Ulivi con il suo ingresso trionfante? È sempre in tal senso che si deve interpretare il lulab e l'etrog nel pannello centrale di Dúra.

Ma accanto a questo senso messianico ve ne è uno molto più importante, che concerne la speranza escatologica nell'aldilà, e in effetti è questo che spiega la frequente presenza del lulab e dell'etrog nei monumenti funerari. Goodenough ne cita innumerevoli esempi. Qui il simbolismo non è quello della vittoria, ma della risurrezione 21, ed è rimarchevole che la palma si trovi su una stele giudeo-cristiana, di cui il P. Testa mi ha inviato una riproduzione. È in questa prospettiva che assume un suo senso la presenza delle palme nelle mani dei martiri, vincitori della morte, tale quale la troviamo già nell'Apocalisse (VII, 9).

Si potrebbe obiettare che, sia in questo passo che sui monumenti, si tratta di palme e non del lulab propriamente detto. Ma Goodenough osserva che la palma era l'elemento più caratteristico e rappresentativo del lulab, e simbolizza qui la speranza dell'immortalità 22.

Si deve anche osservare un altro simbolismo del lulab, che si aggiunge a quanto dicevamo a proposito dei rami che ornavano le capanne: è quello che indica le buone opere che saranno ricompensate all'ultimo giorno. Durante un rito della festa, il primo giorno gli Ebrei dovevano presentare il loro lulab affinché si potesse controllare se i rami che lo componevano erano in buono stato 23. Sembra che un passo del Pastore di Erma, il cui carattere giudeo-cristiano è noto e nel quale il rapporto con la festa dei Tabernacoli mi appare evidente, ci fornisca il simbolismo di questo rito. Vi si vede l'Angelo glorioso distribuire dei rami di salice alla folla, e poi richiederli a ognuno; egli consegna delle corone a coloro i cui rami sono coperti di germogli e rimanda indietro quelli i cui rami sono secchi. L'Angelo ci spiega quindi che i rami sono la Legge, e coloro i cui rami sono secchi sono quelli che l'hanno trascurata (Sim., VIII, 2, 1-4). Abbiamo modo di vedere il persistere di questo simbolismo presso i cristiani.

Fin'ora abbiamo parlato solo del lulab, ma l'etrog condivide la stessa simbolica escatologica, accompagnando frequentemente il lulab sui monumenti funerari con l'identico significato di immortalità. I Padri della Chiesa ravviseranno nell'etrog il simbolo del frutto dell'Albero della Vita paradisiaca ed a loro volta molti testi ebraici o giudaico-cristiani vedono nel frutto dell'Albero della Vita l'espressione della vita eterna 24

Ma vi è già nel giudaismo una relazione fra questo simbolismo e quello dell'etrog 25? A questo proposito, è interessante confrontare Ezechiele, XLVII, 12, e Zaccaria, XIV, 16, in quanto i due capitoli sono evidentemente dipendenti l'un dall'altro. Si parla dell'acqua viva che scenderà dalla nuova Gerusalemme attraverso il Monte degli Ulivi (Ezechiele, XVII, 8 e Zaccaria, XIV, 4 e 8): sulla sponda di questo torrente Ezechiele ci mostra degli alberi della vita.

Lo stesso tema sarà ripreso nell’Apocalisse, XXII, 2, ed a ciò corrisponde in Zaccaria la festa dei Tabernacoli. In entrambi i casi si tratta del Monte degli Ulivi, la cui relazione con la festa dei Tabernacoli ci appare ora chiara ed evidente.

Possiamo quindi concludere che la festa dei Tabernacoli, si rivela come una immagine del Paradiso in cui l’etrog simbolizza il frutto dell’albero della vita.


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1. "Les Quatre-Temps de semptembre et la fête des Tabernacles", La Maison Dieu, 46 (1956), pp. 114-136; "La fête des Tabernacles dans l'exégèse patristique", Stud. Patrist., I, Berlino 1957, pp. 262-279

2. J. Pedersen, Israël, II, Londra 1940, pp. 418-425; H. J. Kraus, Gottesdienst in Israël, Studien zur Geschichte des Laubhüttenfestes, Monaco 1954, J. Van Goudoever, Biblical Calendars, Leyde 1959, pp.30-36

3. Cfr. Strack-Billerbeck, Kommentar zum N.T., II, pp 774-812

4. Ibid., II, 778

5. Teodoreto, Quaest. Ex. 54; P.G., LXXX, 276 B-C; Gerolamo, In Zach, 3, 14; P.L. XXV, 1536

6. Teodoreto la chiama festa della consumazione (sunteleias) alla fine dell'anno (Quaest. Ex. 34; P.G. LXXX, 276 B)

7. N. H. Straith, The Jewish New Year Festival, Londra 1947, pp. 75-80

8. Cfr. Neemia, VIII, 15: "Andate sulla montagna e riportate dei rami per fare i tabernacoli"

9. Cfr. M. Simon, Verus Israël, Parigi 1948, p. 338

10. Cfr. Jean Daniélou, Theologie du Judéo-christianisme, Parigi 1959, pp. 353-358

11. Jewish simbols in Greco-Roman Period, 8 vol., New York 1953-1959

12. C. H. Kraekling, The Excavations of Dura Europos, Final Report, VIII, I, New Haven 1956, pp. 118 e seguenti

13. Op. Cit., p. 117

14. The Messianic Theme in the Painting of the Dura Sinagogue, Chicago 1948, p.89

15. Rachel Wischnitzer, op. cit., p. 101

16. Jésus transfiguré, Coopenhagen 1947, p.189. Cfr. J. Bonsirven, Le Judaisme palestinien au temps de Jésus-Christ, 11, Parigi 1945, p. 522; R. Sahlin, Zur Typologie des Johannesvangeliums, Upsala 1959, p. 54

17. Op. Cit., p. 258

18. B. Zielenski, "De sensu Transfigurationis", Verb. Dom., 26 (1948), pag. 342

19. Op. Cit., pag. 197

20. Cfr. Strack-Billerbeck, 11, pp. 789-790

21. Riesenfeld, op. cit., pag. 24

22. Cfr. Goodenough, op. cit., pag. 165

23. Cfr. Starck-Billerbeck, 11, pp. 792-793

24. I Hén., XXV, 4-5; Test. Lev., XVIII, 11; Apoc., II, 7; XXII, 2

25. Cfr. Riesenfeld, op. cit., pp. 24-25


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[*] Tratto da J. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, Edizioni Arkeios