domenica 12 febbraio 2012

Non sono i conti a posto che salvano l'uomo

Il cardinale Angelo Bagnasco


Spero davvero che la crisi ci renda più capaci di pensare e invece di deprimerci ci dia una scrollata per affrontare insieme, e non sulle barricate, il problema della disoccupazione…». Angelo Bagnasco, 69 anni, presidente della Cei, in questo colloquio con La Stampa, avvenuto a margine del convegno su Gesù che si è concluso a Roma, parla dei rapporti con il governo, il lavoro che manca, la cittadinanza agli immigrati, l’impegno sociale della Chiesa. L'autore dell'intervista è Andrea Tornielli.



* * *

Si sta per celebrare l’anniversario dei Patti Lateranensi, e lei incontrerà per la prima volta Mario Monti: come sono i rapporti con questo governo?
«I rapporti, ora come nelle altre stagioni politiche, sono ispirati sempre “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”, come recita l’articolo 1 dell’accordo tra la Chiesa e lo Stato. Il governo Monti è un esecutivo di buona volontà e riconosciuta competenza che è chiamato a sbrogliare una matassa che è andata complicandosi e richiede – in mezzo a una più generale crisi economica – di assumere decisioni rinviate per troppo tempo».

Due mesi fa lei si disse disponibile a una revisione delle norme esistenti sull’Ici. A che punto siamo?
«Confermo quanto già detto e cioè che la Chiesa non cerca per sé privilegi e non reclama trattamenti di favore. Pagare le tasse è un obbligo che non può essere evaso, per non venir meno al doveroso senso di corresponsabilità verso gli altri. Altro discorso è l’esenzione prevista dalla normativa vigente, non solo nel caso della Chiesa, ma anche di tutta una serie di realtà no profit, delle quali si è riconosciuto l’effettivo servizio reso alla società, che in quanto tale merita di essere mantenuto».

Può dire quali novità si annunciano?
«Non spetta a noi. Se il governo unilateralmente, dato che si tratta di materia che attiene alla sua responsabilità, ritiene necessario apportare dei chiarimenti alle formule oggi in vigore, le valuteremo con attenzione e senso di responsabilità. Resta però un fatto che è documentabile. Se nel giro di pochi anni sono aumentate dell’80 per cento le richieste di aiuto nei più vari settori vuol dire che la Chiesa risponde concretamente a bisogni diffusi dove non arriva nessuno. Se i centri di ascolto distribuiscono più vestiti, se le mense Caritas sfornano più pasti caldi, se in fondi anti-usura moltiplicano gli interventi, una ragione ci sarà. E non saranno certo i polveroni mediatici a risolvere i problemi di un’emergenza che ormai fa capolino dentro fasce sociali una volta garantite».

La Chiesa, in questi tempi di crisi, invita spesso alla sobrietà. Lei pensa che la sappia anche testimoniare a sufficienza, con segni concreti, a partire dai suoi vertici?
«Sto facendo la visita pastorale nel centro storico di Genova e posso assicurarle che le parrocchie non sono centri-benessere o delle isole di ricchezza, ma piuttosto luoghi di spiritualità e di solidarietà. La sobrietà nella stragrande maggioranza dei casi è una realtà che fa tutt’uno con lo stile discreto dei preti e dei religiosi in genere. Che poi ci possano essere dei casi, magari amplificati dai media per la loro singolarità, non lo nego. Quanto ai vertici mi pare che non ci sia una gran differenza con la base. E comunque siamo tutti invitati a dare ancor più segni di credibilità perché l’uso disinteressato di risorse e di mezzi è un obbligo per tutti».

Nel 1992 Mani Pulite cambiò il volto della politica. Oggi ci ritroviamo di fronte al disagio verso i partiti, all’antipolitica diffusa, alla corruzione, a una politica distante dalla sensibilità della gente: a cosa son serviti questi vent’anni?
«Ogni generazione è chiamata a ritrovare la sua libertà, specie quella rispetto alla tirannia del denaro e del potere. Non si vive di rendita, ma soprattutto nella dimensione morale dove ciascuno deve cimentarsi con tentazioni e pericoli che sono ricorrenti. Per la politica vale l’osservazione realistica di Benedetto XVI, che citando sant’Agostino ha affermato davanti al Parlamento tedesco: “Togli il diritto e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Occorre che il diritto, cioè la ricerca del bene comune e della giustizia, siano nella testa e nel cuore di chi si mette a disposizione della politica. Diversamente, perché meravigliarsi che accadano certi scandali se manca un riferimento esplicito alla verità, al bene, agli altri?».

L’Europa della moneta unica sembra cadere a pezzi, lei ha affermato che «il capitalismo sfrenato» ha dissolto «il proprio storico legame con il lavoro». Basta qualche richiamo all’etica per riformare il sistema?
«Non basta qualche vago richiamo. L’etica non è una generica esortazione alla bontà, ma è l’arte di vivere secondo il vero bene dell’uomo. Per troppo tempo si è isolata l’economia, quasi che fosse una scienza esatta. Ne è seguita l’idea che il mercato basta a se stesso e che la stessa ricchezza si distribuisce automaticamente perché, come afferma Okun, “la marea che sale solleva tutte le barche”. Sappiamo in realtà come sono andate le cose e come la ricchezza sia mal distribuita anche all’interno del nostro Paese».

Che cosa occorre fare, allora?
«C’è bisogno di ritrovare una prospettiva che rimetta al centro l’uomo e non semplicemente i risultati finanziari, e che abbia la stessa attenzione a far quadrare i conti e a salvaguardare il patrimonio umano. Qui è il punto. Se non quadrano i conti l’uomo non si salva. Ma è vero pure il contrario. Se non si rispetta l’uomo i conti presto o tardi si rivelano sballati. Non si può coltivare l’efficienza e trascurare la giustizia perché sarebbe inutile e dannoso».

Parliamo di disoccupazione: è ancora un valore il posto fisso?
«Il rischio del lavoro-campeggio, come scrive il sociologo Bauman, è reale. Il valore qui in gioco è decisivo perché senza il lavoro l’uomo non riesce ad esprimere compiutamente se stesso. Lavorare serve per campare, ma anche per esprimere le proprie potenzialità. Poi sappiamo che non tutti fanno il lavoro che vorrebbero. Ma certo tutti dovrebbero essere messi in grado di svolgere un’attività».

Oggi però un giovane su tre non trova lavoro…
«Quando questa fondamentale aspettativa viene negata, fiducia, progettualità, autostima rischiano di essere compromessi. Spero però, davvero, che la crisi ci renda più capaci di pensare e invece di deprimerci ci dia una scrollata per affrontare insieme, e non sulle barricate, un tema che appartiene a tutti».

Lei pensa che in un momento come questo la prima mossa per riformare il sistema sia quello di aumentare la libertà di licenziare?
«Licenziare è sempre una sconfitta per tutti. Ci vuole altro per accrescere la produttività e la competitività nei mercati. Ma qui entro in un ambito che non è di mia stretta competenza…».

La famiglia, da sempre un ammortizzatore sociale, per alcuni sembra diventato un fattore di freno allo sviluppo. Mi riferisco alla polemica sui «mammoni»: che ne pensa di questo giudizio?
«Non voglio alimentare polemiche perché quando la comunicazione va sopra le righe finisce per deragliare rispetto all’affronto dei problemi. Resta vero che la famiglia rappresenta lo snodo decisivo non solo per la costruzione della propria identità. A pensarci, in Italia il vero “sommerso” è la famiglia di cui si fatica a percepire il rilievo».

Può fare qualche esempio?
«Se non ci fossero i nonni che seguono i nipotini, e se le famiglie non continuassero a ospitare ben oltre il tempo della giovinezza, i problemi sarebbero enormemente più gravi.
Ciò non toglie che la maturità di una persona si raggiunge quando il cordone ombelicale viene reciso e si può scegliere un’alternativa praticabile e sostenibile».

È favorevole alla cittadinanza per i figli degli immigrati che vivono in Italia?
«Lo ius sanguinis non è più sufficiente a registrare i cambiamenti in atto sotto gli occhi di tutti. Emerge qui il problema di tanti bambini di immigrati che sono nati sul nostro suolo e che frequentano la scuola fianco a fianco dei nostri bambini, avviati nell’unico sentiero della vita. Naturalmente questo non deve rallentare l’attenzione nei riguardi del processo di integrazione che è culturale e richiede anche di risvegliare la nostra identità tenendo conto che il nostro Paese ha una storia plurisecolare, con un innegabile riferimento cristiano così radicato che alcuni lo danno quasi per scontato».

Come vedrebbe la nascita di una nuova aggregazione politica di matrice cattolica?
«In questa fase delicata la Chiesa, che evidentemente non è un “agente politico”, ha da mettere in campo la sua esperienza in fatto di umanità per riportare al centro la questione antropologica che oggi tocca l’etica della vita e quindi quella sociale. Le aggregazioni partitiche non rientrano nelle preoccupazioni della Chiesa e sono il frutto del libero dibattito democratico che deve portare a servire il diritto e a combattere l’ingiustizia».

Come crede sia vista e vissuta la Chiesa cattolica dall’opinione pubblica, di fronte alle notizie non sempre edificanti che la riguardano?
«Negli ultimi tempi si sono registrati alcuni fatti scandalosi. Alcune volte con fondate ragioni, altre volte con un evidente disegno strumentale. La gente è molto esigente nei riguardi della Chiesa e non fa sconti alla sua credibilità. Ciò prova però quanto sia alta l’aspettativa verso la testimonianza e dunque la stima per la sua missione».

Non nota l’aumento di un certo distacco verso la Chiesa, specie nell’opinione giovani generazioni?
«Non percepisco l’aumento del distacco, quanto piuttosto il rischio di una indifferenza che è il riflesso di una cultura che livella tutto e non ha più punti di riferimento. Quando però la gente si imbatte in persone, ambienti e strutture veramente ispirati della fede, allora i suoi pregiudizi si sciolgono come neve al sole e si manifesta una irresistibile nostalgia perla bellezza del Vangeloe della Chiesa».

Si è appena concluso a Roma il convegno del Progetto Culturale dedicato a Gesù. Può dire perché oggi si può ancora credere in lui e nella sua resurrezione?
«La fede preserva oggi dall’appiattimento materialista e solleva il velo del non-senso rispetto alla nostra condizione mortale. Nel caso di Gesù quello che colpisce – oltre le innumerevoli ragioni storiche – è il fatto che egli corrisponda veramente al cuore umano. Fuori di Cristo, l’uomo rischia di perdere se stesso, non sa più chi è e dove va, venendo meno il riferimento ultimo decisivo. Quella sul senso della vita e del mondo, sull’enigma del tempo e della morte è, del resto, la questione che attraversa la storia umana. E che non può essere evitata. Il genio di Van Gogh scrivendo al fratello Theo gli confida: “L’infinito e il miracoloso ci sono necessari ed è giusto che l’uomo non si accontenti o che non sia felice finché non li ha conquistati”. Gesù coincide con questa inquietudine radicalmente umana, e la sua resurrezione prova la sua origine divina, rendendolo definitivamente a noi contemporaneo a noi».