mercoledì 25 gennaio 2012

25 gennaio: Conversione di san Paolo

Di seguito il Vangelo di oggi, 25 gennaio, festa liturgica di san Paolo Apostolo, con un commento e qualche testo per la meditazione.





Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere 
non fu frutto di un processo psicologico, 
di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, 
ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, 
ma dell’incontro con Cristo Gesù. 
In questo senso non fu semplicemente una conversione, 
una maturazione del suo "io", 
ma fu morte e risurrezione per lui stesso: 
morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto.  
Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, 
è la chiave per capire che cosa era successo: 
morte e risurrezione
rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. 
In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. 
Questo incontro è un reale rinnovamento 
che ha cambiato tutti i suoi parametri. 
Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, 
è diventato per lui "spazzatura"; 
non è più "guadagno", ma perdita, 
perché ormai conta solo la vita in Cristo.

Benedetto XVI




Dal Vangelo secondo Marco 16,15-18.


Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 


IL COMMENTO


Un uomo lanciato in uno zelo smisurato, e un amore più grande d'ogni entusiasmo. Un amore d'acciaio che arriva come un fendente, e rovescia la vita: tutto quello che è stato - certezze che sembravano granito, la storia, i Padri, le tradizioni, l'ardore a difesa dell'elezione - tutto travasato nel buio della cecità da una voce che scandisce una presenza e che trapassa il cuore. E poi, anni di silenzi, il deserto, occhi poggiati sul nulla, e quella voce che risuona dentro insieme alle voci amiche di chi era stato nemico a raccontare l'amore che ha vinto la morte. La vita di Saulo era precipitata in un frullatore che rimestava ogni molecola; il ricordo vivo di pietre e sangue e il volto come quello di un angelo piegato sulle ginocchia, una sapienza sconosciuta che consegnava la vita per lui. Moriva quel gemello fedele dell'eretico di Nazaret, e sussurrava le stesse, strane parole, moriva perdonando, e non era cosa di questo mondo. Quell'immagine, quell'uomo piagato eppure sfolgorante di Cielo gli si era conficcata nella memoria, e s'intrecciava con quella voce che lo aveva afferrato e scaraventato giù dalla vita.


Saulo di Tarso, quello che uccideva i cristiani era lì, in quell'eremo d'Arabia, ridiventato bambino, la mano stretta in quella di Anania, a camminare a ritroso nella storia dei suoi: ogni passo scioglieva un frammento di buio, e le cose si facevano chiare, e poi vere, e poi nette come un mattino sferzato di tramontana. E sempre e di nuovo Stefano impresso nella memoria, la sua voce così simile a quella voce che lo aveva rapito e sconvolto, il suo volto così uguale a quello che lo aveva sedotto sulla via di Damasco. Era Stefano, era il Profeta di Nazaret, erano i piccoli che stava per mettere in catene. Non capiva, e intuiva. E poi la luce, un abbaglio più intenso ed ecco tutto era chiaro. La Verità aveva bussato, senza preavviso, se non quel volto tumefatto di chi, morendo, lo aveva scusato, perdonato, amato; ora comprendeva, ora che quella misericordia senza condizioni, quel non tener conto delle intenzioni malvage, degli errori, dei peccati lo aveva raggiunto e chiamato a diventare come l'eretico giustiziato, ora ci vedeva e capiva perchè il volto di Stefano gli era sembrato come quello di un angelo del Cielo. Era vero quel morire come un agnello, era vero che il Messia doveva essere il Servo, era vero che il Crocifisso era risorto.


Eccola la Storia di salvezza, le promesse, l'Alleanza, la Terra, la Legge, la Pasqua, le tradizioni: tutto parlava di Lui, lo annunciava e lo attendeva; come lui stesso, sbagliando mira, aspettava la redenzione, il compimento, il Messia. Saulo non lo aveva capito, era impossibile, eppure era proprio così: correva verso Damasco, correva ad incarcerare e a uccidere i discepoli di colui che il suo cuore desiderava più d'ogni altra cosa al mondo. Per il Messia Saulo averebbe considerato tutto spazzatura; per l'atteso del suo popolo avrebbe consegnato la vita, sino all'ultimo respiro. Per questo correva verso Damasco, voleva estirpare la spazzatura che si opponeva all'avvento del Messia, bruciava di desiderio e doveva cancellare ogni menzogna ed eresia, non v'era posto per i falsi profeti. Ma Saulo non poteva prevedere che dietro a quel suo zelo si nascondeva il bisogno bambino di essere amato, salvato, rigenerato. Giudicava senza pietà perchè cercava pietà; voleva estirpare la menzogna perchè bramava la Verità; correva e cercava perchè voleva essere trovato; era certo di non sbagliare perchè desiderava qualcuno che lo amasse quando sbagliava; era geloso delle sue cose perchè cercava un fondamento più forte di se stesso. Saulo era come ciascuno di noi, fieri e certi in apparenza, ma in realtà pavidi e insicuri. Come lui anche noi cerchiamo, ci affanniamo, lottiamo, ci indignamo e giudichiamo, ci appassioniamo e ci spendiamo, soffriamo e sudiamo per nulla, incapaci di afferrare l'unico che il nostro cuore davvero desidera. Come Saulo non ci rendiamo conto di cercare proprio quello che stiamo rifiutando, la verità e l'amore che si celano in tutto quello che mettiamo a morte ogni giorno.


Ma proprio sulla via dell'ennesimo tentativo di far giustizia della propria vita, sull'orlo dell'abisso, appare Gesù, l'amato del suo cuore, che aveva cercato senza incontrare; ora era Lui ad averlo trovato, fermato, perdonato, amato. Gesù, vivo in tutti quelli che Saulo stava per consegnare alla morte; Gesù e quel suo "perchè?" che gli spalanca tutta la sua vita e la illumina come un'unica, spesso disperata ricerca d'amore. Perchè mi perseguiti? Perchè dai calci contro il pungolo? Perchè vuoi uccidere l'amore che cerchi? E quello stesso perchè bussa alla nostra vita. Perchè corriamo per mettere in galera la moglie, il marito, il capoufficio, o la fidanzata? Perchè pretendiamo vita e ce la prendiamo incatenando chi ci è intorno, soddisfando i nostri desideri, esigendo comprensione, reclamando giustizia. Perchè? Perchè siamo ciechi e non abbiamo compreso che in tutto ed in tutti si nasconde il Messia, Colui che il nostro cuore desidera ardentemente. Per questo oggi appare di nuovo Cristo nella nostra vita, ci parla e il suo amore ci tramortisce, illuminando la storia e le persone di una luce sconosciuta. Perseguitando chi ci è vicino, perseguitiamo Lui, l'unica salvezza; rifiutando gli eventi e lottandoci contro, gettiamo fuori dalla nostra vita Cristo, l'unica fonte di gioia e pace. 


In quelle poche parole del Maestro piombate su Saulo come un dardo improvviso sin dentro le midolla, in quel "perchè mi perseguiti?" c'era tutto: la Chiesa, la Vita, la Verità, la Via, il perdono, l'amore. Quell'amore s'era impadronito di lui, ed era fuoco, ormai incontenibile. E allora diviene naturale, un dovere impellente, un incarico improcastinabile, partire, correre, e annunciare. Non era possibile arrestare quel fiume in piena, l'amore si faceva gratitudine e poi avventura, e lingue nuove da parlare in ogni centimetro del mondo e dei secoli; e serpenti tra le mani, e veleni nella gola, e nulla poteva recare danno al vangelo; persecuzioni dietro ad ogni angolo, ed il dolore più grande, lancinante, come quello che aveva trapassato il costato del suo nuovo Signore: i fratelli, il suo stesso sangue, che s'eran fatti nemici; e poi malati guariti, e comunità fondate in ogni città.


Era vivo Gesù, era vivo in Lui, era vittorioso e vinceva, nelle sue parole, ogni demonio. La conversione è ritorno, è teshuvà, è un cammino, sin dentro le radici, per scoprire un'elezione ed un amore eterni. Paolo, santo nella santità di Dio, come ciascuno di noi, lanciato nello zelo delle proprie idee, delle proprie storie, sino all'incontro decisivo, che disarciona dai giumenti delle certezze per abbandonarci ad un amore più grande, che illumina ogni rivolo delle nostre vite, che svela il senso misterioso di chi ha perduto la vita per noi. Un incontro, e la scintilla della conversione, una dolcezza ferma e vera che seduce e accompagna nel cammino alla Verità. Il ritorno più autentico, alle radici d'ogni nostra unica e irripetibile vita. Alle origini, nell'eterno che ci ha generati vi è il suo amore eterno, in esso, e solo in esso, è racchiuso il senso che colma l'esistenza. E allora è zelo nuovo che straripa da un cuore ricreato, il cuore di Cristo al posto della pietra, il volto presentato ai flagellatori invece delle pietre scagliate contro l'Agnello. E la vita scoperta come una missione meravigliosa, amore che colma e che si fa annuncio, ovunque, sino al dono totale di sé. San Paolo e ciascuno di noi nel cammino di conversione, il cammino della Vita vera, tutto a tutti per e in Colui che si è fatto tutto per ciascuno di noi.

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San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelia su san Paolo, 4, § 1-2


« Che devo fare, Signore ? »


Il beato Paolo, che ci raduna oggi, ha illuminato la terra. Nell’ora della sua chiamata è stato accecato ; eppure questa cecità ha fatto di lui una fiaccola per il mondo. Vedeva chiaro per fare il male ; nella sua sapienza, Dio lo ha accecato per poi rischiararlo per il bene. Dio non gli ha semplicemente manifestato la sua potenza ; gli ha anche rivelato il cuore della fede che avrebbe dovuto predicare. Occorreva cacciare lontano da lui tutti i suoi pregiudizi, chiudere gli occhi e abbandonare le false luci della ragione per scorgere la retta dottrina, « farsi stolto per diventare sapiente », come egli dirà più tardi (1 Cor 3,18)… Nessuno creda tuttavia che questa vocazione gli fosse stata imposta ; Paolo era libero di scegliere…


Ardente, impetuoso, Paolo aveva bisogno di un freno energico per non disprezzare, travolto dalla foga, la voce di Dio. Dio quindi ha prima represso tale impeto ; mentre lo colpisce di cecità, placa la sua ira ; poi gli parla. Gli fa conoscere la sua sapienza ineffabile, perché riconosca colui che prima combatteva e capisca che non può più resistere alla sua grazia. Non è la mancanza di luce che lo ha accecato, bensì la sovrabbondanza di luce.


Dio ha scelto proprio il momento ; Paolo è il primo a riconoscerlo : « Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio » (Gal 1, 15)…Impariamo dunque per bocca stessa di Paolo che nessuno ha mai trovato Cristo per mezzo del proprio spirito. È Cristo ad essersi rivelato e fatto conoscere. Così dice il Salvatore : « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi » (Gv 15,16).


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APPROFONDIMENTI





Benedetto XVI, La conversione di San Paolo

Cari fratelli e sorelle,
la catechesi di oggi sarà dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di Damasco, nei primi anni 30 del secolo I, e dopo un periodo in cui aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare "perdita" e "spazzatura" tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, quasi la ragion d'essere della sua esistenza (cfrFil 3,7-8). Che cos’era successo?
Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco: appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo definitivo "sì" a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere.
Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche "illuminazione", perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11).
Il secondo tipo di fonti sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia, tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: "Ultimo fra tutti apparve anche a me" (1 Cor 15,8). Così fa capire che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: "Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato" (cfr Rm 1,5); e ancora: "Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro?" (1 Cor 9,1), parole con le quali egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-17: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco". In questa "autoapologia" sottolinea decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione ricevuta immediatamente dal Risorto.
Possiamo così vedere che le due fonti, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul punto fondamentale: il Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione, con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: "Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto" (15, 11). C’è solo un annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo.
Come si vede, in tutti questi passi Paolo non interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo "io", ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo.
Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n'è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva essere l'apostolo dei pagani.
Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo. Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come ha fatto con Paolo per farne l'apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel nostro mondo l'incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.

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Benedetto XVI. La Chiesa deve annunciare il Vangelo a tutti

Discorso introduttivo all'Angelus per la Giornata Missionaria Mondiale - ROMA, domenica, 18 ottobre 2009.
Cari fratelli e sorelle! Oggi, terza domenica di ottobre, si celebra la Giornata Missionaria Mondiale, che costituisce per ogni comunità ecclesiale e per ciascun cristiano un forte richiamo all’impegno di annunciare e testimoniare il Vangelo a tutti, in particolare a quanti ancora non lo conoscono. Nel Messaggio, che ho scritto per questa occasione, mi sono ispirato a un’espressione del Libro dell’Apocalisse, che a sua volta riecheggia una profezia di Isaia: "Le nazioni cammineranno alla sua luce" (Ap 21,24). La luce di cui qui si parla è quella di Dio, rivelata dal Messia e riflessa sul volto della Chiesa, rappresentata come la nuova Gerusalemme, città meravigliosa dove risplende in pienezza la gloria di Dio. E’ la luce del Vangelo, che orienta il cammino dei popoli e li guida verso la realizzazione di una grande famiglia, nella giustizia e nella pace, sotto la paternità dell’unico Dio buono e misericordioso. La Chiesa esiste per annunciare questo messaggio di speranza all’intera umanità, che nel nostro tempo "conosce stupende conquiste, ma sembra aver smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza" (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2).
Nel mese di ottobre, specialmente in questa Domenica, la Chiesa universale pone in rilievo la propria vocazione missionaria. Guidata dallo Spirito Santo, essa sa di essere chiamata a proseguire l’opera di Gesù stesso annunciando il Vangelo del Regno di Dio, che "è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). Questo Regno è già presente nel mondo come forza di amore, di libertà, di solidarietà, di rispetto della dignità di ogni uomo, e la Comunità ecclesiale sente premere nel cuore l’urgenza di lavorare, affinché la sovranità di Cristo si realizzi pienamente. Tutte le sue membra ed articolazioni cooperano a tale progetto, secondo i diversi stati di vita e i carismi. In questa Giornata Missionaria Mondiale voglio ricordare i missionari e le missionarie - sacerdoti, religiosi, religiose e laici volontari - che consacrano la loro esistenza a portare il Vangelo nel mondo, affrontando anche disagi e difficoltà e talvolta persino vere e proprie persecuzioni. Penso, tra gli altri, a don Ruggero Ruvoletto, sacerdote fidei donum, recentemente ucciso in Brasile, al Padre Michael Sinnot, religioso, sequestrato pochi giorni fa nelle Filippine. E come non pensare a quanto sta emergendo dal Sinodo dei Vescovi per l’Africa in termini di estremo sacrificio e di amore a Cristo e alla sua Chiesa? Ringrazio le Pontificie Opere Missionarie, per il prezioso servizio che rendono all’animazione e alla formazione missionaria. Invito inoltre tutti i cristiani a un gesto di condivisione materiale e spirituale per aiutare le giovani Chiese dei Paesi più poveri. Cari amici, quest’oggi, 18 ottobre, è anche la festa di san Luca evangelista che, oltre al Vangelo, ha scritto gliAtti degli Apostoli, per narrare l’espandersi del messaggio cristiano fino ai confini del mondo allora conosciuto. Invochiamo la sua intercessione, insieme con quella di san Francesco Saverio e di santa Teresa di Gesù Bambino, patroni delle missioni, e della Vergine Maria, affinché la Chiesa possa continuare a diffondere la luce di Cristo tra tutti i popoli. Vi chiedo, inoltre, di pregare per l’Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, che in queste settimane si sta svolgendo qui, in Vaticano.

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Omelia di Giovanni Paolo II in occasione della festa della Conversione di san Paolo




CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA FESTIVITÀ
DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Venerdì, 25 gennaio 1985
“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133, 1).
1. Con questi sentimenti di ammirazione e di letizia, espressi dal salmista, mi rivolgo a tutti voi, qui riuniti per incontrare il Signore nella sua parola e nel suo corpo. Ci incontriamo con lui, nostro unico Salvatore, nostro unico Maestro, ma ci incontriamo anche fra di noi, in questa celebrazione conclusiva della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
La gioia di questo incontro con il Signore e fra i fratelli è reso più vivo dalla presenza dei pastori e di numerosi fedeli delle altre Chiese e comunità ecclesiali presenti a Roma. A loro tutti il mio speciale saluto e il mio ringraziamento per avere voluto prendere parte a questo intenso momento di unione spirituale.
Uniti quindi spiritualmente con tutte le Chiese locali del mondo, nelle quali in questo Ottavario è stata intensificata la preghiera e la riflessione fraterna tra i fedeli di diverse confessioni, e uniti come membri della diocesi di Roma, concludiamo insieme questo itinerario di diverse iniziative di preghiera e di incontri fraterni qui, nella basilica dell’apostolo Paolo, dopo opportune iniziative alle quali in modo particolare hanno preso parte i giovani, impegnandosi anche in concreti gesti di carità a favore dei fratelli bisognosi, specialmente di quelli privi di un tetto e di una famiglia, che hanno sofferto per il freddo e la neve degli scorsi giorni.
Queste iniziative sono state sostenute dalla quotidiana preghiera, resa più intensa in questa basilica dall’adorazione Eucaristica quotidiana, che ha avuto inizio con questa Settimana di preghiere e che continuerà per il futuro, grazie alla partecipazione di monaci, religiosi, famiglie, gruppi parrocchiali del settore Sud di Roma; iniziative, alle quali esprimo oggi tutto il mio più vivo compiacimento ed incoraggiamento.
2. Per felice consuetudine, la conclusione della Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani viene celebrata in questa basilica nella festa della conversione di San Paolo, evento centrale non solo per l’apostolo, ma per tutta la Chiesa delle origini. Siamo perciò sollecitati a fissare il nostro sguardo sulla figura di Paolo di Tarso, sulla Settimana di preghiera e, infine, sulla relazione dell’uno e dell’altra con l’impegno solenne assunto dalla Chiesa cattolica di lavorare instancabilmente alla ricomposizione dell’unità di tutti i cristiani.
Nella prima lettura (At 22, 3-16) abbiamo ascoltato Paolo narrare, nel tempio di Gerusalemme, ai suoi fratelli ebrei, la vicenda sconvolgente della sua conversione. Come affermano gli altri due racconti dell’evento, contenuti nel libro degli Atti (At 9, 1-8; 26, 2-18) Saulo-Paolo attribuisce la propria radicale trasformazione alla visione di Gesù Nazareno, che egli si accaniva a perseguitare e che gli si para davanti, sulla strada verso Damasco.
Se ogni conversione, o metànoia, è opera della grazia divina, cioè dell’intervento immediato e radicale di Dio nel cuore dell’uomo, quella di Paolo lo è in sommo grado. Il Signore Gesù si è mostrato a Paolo e ha preso a dialogare con lui, che, già convinto fariseo, impreparato a questa manifestazione e ad essa ostile, non ha potuto opporvi resistenza. Abbiamo ascoltato nella lettura la voce stessa di Paolo, che avvia lo straordinario dialogo: “Che devo fare, o Signore?”. La risposta di Gesù, non ancora esplicita ma già risolutiva, lo incita a dirigere i suoi passi verso la Chiesa di Damasco: “Là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia” (At 22, 10).
Questa esperienza, che trasforma Saulo in Paolo apostolo, ci insegna, ancora una volta, come i grandi eventi, determinanti per la vita della Chiesa, scaturiscano dalla grazia del Signore, il quale interviene nella nostra vita personale, nei nostri cuori, plasma la storia della Chiesa, come e quando egli vuole. Così, contrariamente ad ogni aspettativa e a quelle dello stesso Paolo, la vicenda della sua conversione è celebrata da secoli, nella liturgia della Chiesa, come avvenimento miracoloso.
3. Durante questa Settimana e dappertutto nel mondo, si è pregato per la piena unità e la perfetta comunione di tutti i credenti in Cristo. Si è pregato traendo ispirazione dalle stesse parole dell’apostolo, con il testo scelto dal Segretariato per l’unione dei cristiani e dal Consiglio ecumenico delle Chiese, quale tema della Settimana di quest’anno: “Dalla morte alla vita con Cristo” (cf. Ef 2, 4-10). Dal brano, sopra citato, che ha guidato la nostra riflessione durante la Settimana, sorgono verità fondamentali, come il passaggio dalla morte alla vita, che Dio solo può operare in noi.
Solo la misericordia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo potrà concedere l’ineffabile grazia della piena comunione ai cristiani, che, rinati per il tramite del Battesimo, dalla morte alla vita, professano Cristo figlio di Dio e Salvatore, anche se non vivono ancora in piena comunione di fede e di vita cristiana. Questa comunione perfetta è dono divino: per essa Gesù ha pregato, come abbiamo ascoltato dal Vangelo (Gv 17, 20-26) appena proclamato.
4. Il fatto che l’unità sia esclusivamente dono divino non vanifica il nostro slancio, anzi lo fonda, lo giustifica e gli conferisce vero significato. Le nostre azioni per il ristabilimento dell’unità possono sembrare non adeguate e i nostri sforzi impari per raggiungerla; i mezzi possono apparire inadeguati, e deboli i risultati raggiunti. Così può sembrare lento il ritmo impresso all’opera a favore dell’unità, specie se paragonato al tempo di rapidi cambiamenti in cui siamo chiamati a vivere, in questo scorcio del XX secolo.
Impressione non del tutto falsa. Infatti, le iniziative varie, i dialoghi intrapresi, le relazioni nuovamente instaurate, un certo modo di crescere insieme come Chiesa, e persino la comune testimonianza data al nome dell’unico Cristo per la salvezza dell’umanità, per fronteggiare i problemi e le necessità del mondo di oggi, pur essendo indispensabili e forieri dell’unità futura, e pur derivando da una comunione già esistente, sono di per sé insufficienti a raggiungere tale unità.
Lo stupendo “edificio”, la “casa” evocata dal salmista e nella quale sarà “dolce” e “gioioso” per “i fratelli essere insieme” (Sal 133(132), 1), sarà “edificata” solo dal Signore (Sal 127(126), 1). La liturgia di oggi ci sollecita, pertanto, in modo del tutto speciale, a elevare la nostra umile e fervida supplica per ottenere questa grazia suprema dell’unità per mezzo di Cristo, nostro unico mediatore, che offre il suo unico sacrificio nella celebrazione eucaristica.
5. Se il significato della Settimana di preghiere è esattamente compreso e vissuto, la preghiera quotidiana per l’unità deve occupare il primo posto non solo durante la Settimana ad essa dedicata, ma ogni giorno della nostra vita. Ogni cristiano, convinto che l’impegno per l’unità è primario nel suo cammino verso Cristo, e volendo restare fedele a questo impegno, sa bene che qualsiasi azione intrapresa, individualmente o assieme agli altri, ha di per sé bisogno della preghiera al comune Signore, affinché fecondi ogni parola e ogni gesto, in modo che questi ricevano da lui il loro vero valore e possano farci progredire verso l’unità.
La Settimana di preghiere deve costituire il culmine di una preghiera ininterrotta. Poiché è preghiera comune, fatta dai cristiani ancora divisi, ma già uniti dallo stesso Battesimo e dalla comune fede in Cristo, unico Salvatore, essa è, ogni anno, un passo avanti nel cammino dell’unità, una felice anticipazione di quel traguardo supremo; è, infine, testimonianza della comune convinzione che l’unità è dono gratuito del Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo.
6. A conclusione di questa Settimana di preghiere, durante la quale abbiamo voluto rivivificare e ritemprare il nostro impegno ecumenico di fronte al Signore, non è inutile ribadire tale principio.
L’unità a cui aspiriamo, per la quale operiamo e soffriamo e soprattutto preghiamo, rivolgendoci con umile supplica alla santissima Trinità, è l’unità perfetta, improntata all’esempio e al modello della suprema unità divina, nella distinzione delle tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. È unità nella fede, unità nei sacramenti, unità di magistero, unità di guida pastorale.
Unità delle menti e dei cuori, ma anche unità visibile. Unità tra i cristiani, ma anche tra le Chiese e comunità ecclesiali. L’unità più radicale e più profonda che ci sia mai concessa nell’opacità e tra le debolezze di questa nostra storia.
Questa unità, che abbiamo connotato, non deve essere confusa con l’uniformità, con l’appiattimento dell’individualità e dell’identità di ciascuna legittima tradizione cristiana. L’unità che ricerchiamo non consiste nell’identificazione di una tradizione con un’altra; nell’accomodamento di una tradizione all’altra. Essa è tensione verso il raggiungimento, per dono di Dio, di quella totale fedeltà a tutto il suo disegno, così come è espresso nei Vangeli, come ci parla attraverso la grande tradizione ecclesiale, come si professa nell’unica fede, nella celebrazione degli stessi sacramenti, nella comunione con tutti i vescovi stabiliti per pascere il popolo di Dio (cf. At 20, 28) e uniti tra loro intorno al successore di Pietro. E tutto ciò nel rispetto dei valori e delle ricchezze di ogni tradizione particolare e di ogni cultura, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo, di cui ricordiamo il ventennale della promulgazione.
7. Cari fratelli e care sorelle, ho voluto ricercare con voi, in questa circostanza, il volto dell’unità per cui oggi preghiamo, rievocando l’esperienza e meditando l’esempio dell’apostolo Paolo, del quale celebriamo oggi l’ingresso nella Chiesa.
In questo giorno conclusivo della Settimana di preghiere per l’unità, la celebrazione dell’Eucaristia ci riconduce al cuore stesso del mistero della nostra riconciliazione con il Padre e della riconciliazione degli uni con gli altri.
Sentiamo ancora più dolorosamente gli ostacoli, che non ci permettono di partecipare insieme a questa Eucaristia e rinnoviamo la nostra volontà di fare tutto quanto è in nostro potere perché si avvicini il giorno benedetto in cui tutti i credenti in Cristo potranno trarre nutrimento dalla stessa sorgente d’unità. Facciamo nostra la preghiera di Gesù, che è stata appena proclamata e che egli ci ha lasciato nel Vangelo dell’apostolo Giovanni: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola.
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21). Amen.
Al termine di questa celebrazione eucaristica nella festività della conversione di San Paolo, che ci vede riuniti presso il trofeo glorioso dell’apostolo, a conclusione dell’Ottavario di preghiere per l’unione dei cristiani, un ricordo si affaccia impellente alla coscienza di tutti noi.
Quest’anno cade il ventesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, il cui primo annuncio, come ben ricordiamo, fu dato dal mio predecessore Giovanni XXIII di venerata memoria proprio da questa basilica e in questo stesso giorno, il 25 gennaio 1959. Il Vaticano II resta l’avvenimento fondamentale nella vita della Chiesa contemporanea: fondamentale per l’approfondimento delle ricchezze affidatele da Cristo, il quale in essa e per mezzo di essa prolunga e partecipa agli uomini il “mysterium salutis”, l’opera della redenzione; fondamentale per il contatto fecondo col mondo contemporaneo al fine dell’evangelizzazione e del dialogo a tutti i livelli e con tutti gli uomini di retta coscienza. Per me, poi – che ho avuto la grazia speciale di parteciparvi e di collaborare attivamente al suo svolgimento – il Vaticano II è stato sempre, ed è in modo particolare in questi anni del mio pontificato, il costante punto di riferimento di ogni mia azione pastorale, nell’impegno consapevole di tradurre le direttive in applicazione concreta e fedele, a livello di ogni Chiesa e di tutta la Chiesa.
Occorre incessantemente rifarsi a quella sorgente. E tanto più quando date tanto significative, come quella di quest’anno, si avvicinano e riaccendono ricordi ed emozioni di quell’evento veramente storico. Pertanto oggi, festività della conversione di San Paolo, con intima gioia e commozione indìco un’assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi, che si celebrerà dal 25 novembre all’8 dicembre del corrente anno, e alla quale parteciperanno i patriarchi e alcuni arcivescovi delle Chiese orientali e i presidenti di tutte le Conferenze episcopali dei cinque continenti.
Lo scopo dell’iniziativa è non solo quello di commemorare il Concilio Vaticano II a vent’anni di distanza dalla sua chiusura, ma anche e soprattutto: rivivere in qualche modo quell’atmosfera straordinaria di comunione ecclesiale, che caratterizzò l’assise ecumenica, nella vicendevole partecipazione delle sofferenze e delle gioie, delle lotte e delle speranze, che son proprie del corpo di Cristo nelle varie parti della terra; scambiarsi e approfondire esperienze e notizie circa l’applicazione del Concilio a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari; favorire l’ulteriore approfondimento e il costante inserimento del Vaticano II nella vita della Chiesa, alla luce anche delle nuove esigenze.
Attribuisco a questa assemblea straordinaria del Sinodo un’importanza particolare. Per tale motivo ne ho voluto dare oggi pubblica notizia da questa basilica, ove risuonò per la prima volta l’annuncio del Concilio ecumenico del nostro secolo. L’intento che mi muove si colloca nella scia di quello dei miei venerati predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI: contribuire a quel “rinnovamento di pensieri, di attività, di costumi e di forza morale, di gaudio e di speranza, ch’è stato lo scopo stesso del Concilio” (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 746).
Affido fin d’ora la realizzazione del Sinodo straordinario dei vescovi alle preghiere della Chiesa e alla potente intercessione dei santi Pietro e Paolo; e con voi soprattutto imploro la Vergine Immacolata, Madre della Chiesa, affinché ci assista in quest’ora e ci ottenga quella fedeltà a Cristo, della quale ella è modello incomparabile per la sua disponibilità di “serva del Signore”, per la sua costante apertura alla parola di Dio (cf. Lc 1, 38; 2, 19.51). In questa fedeltà totale e perseverante la Chiesa di oggi vuol proseguire il suo cammino verso il terzo millennio della storia, in mezzo agli uomini e insieme come partecipe delle loro stesse speranze e attese, seguendo la via tracciata dal Vaticano II, e sempre in ascolto di “quanto lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2, 7.11.17.26; 3, 5.13).

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CARD. C. CAFFARRA. OMELIA PER LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO

25 gennaio 1996
1. “Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà”. Siamo venuti per lodare, con profonda gratitudine, la Misericordia del Padre che ha predestinato Paolo ad essere “testimone davanti a tutti gli uomini” del Vangelo della grazia. Celebriamo precisamente il momento in cui Colui che scelse Paolo fin dal seno materno lo chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in lui il suo Figlio, perché lo annunciasse ai pagani (cfr. Gal. 1,15-16). L’evento della conversione di Paolo fa conoscere a noi, come fece indelebilmente sperimentare a lui, il “Vangelo della grazia” che è in Cristo Gesù.
E’ il Vangelo della misericordia che salva per puro amore. Scrivendo al suo discepolo Tito, gli ricorderà che il Padre “ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia ... nello Spirito Santo, effuso da Lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo” (Tito 3,5-6). La conseguenza di questa scoperta sconvolgente, la scoperta della misericordia del Padre, ha cambiato completamente la sua esistenza. Da quel momento, quello che poteva essere per lui un guadagno, lo ha considerato una perdita a motivo di Cristo. “Anzi - egli scrive ai cristiani di Filippi - tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil. 3,7-8).
Ma l’apostolo nel momento della sua conversione, scopre anche il contenuto del progetto di salvezza e la forma della sua realizzazione. Alla domanda di Paolo: “Chi sei, o Signore?” si sente rispondere: “...che tu perseguiti”. Dunque, la comunità cristiana, la Chiesa (che Paolo di fatto perseguitava) è Cristo stesso: esiste una identificazione misteriosa, ma reale di Cristo colla sua Chiesa. Il mistero della misericordia del Padre è precisamente questo: che tutti, anche noi pagani, “sono chiamati, con Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo” (Ef. 3,6), il Corpo di Cristo che è la Chiesa. Il disegno di Dio, nel suo contenuto e nella sua forma, è l’unità di ciascuno di noi e di tutti in Cristo così da essere un solo Corpo. L’apostolo non dimenticherà mai più quelle parole e sentirà quest’unità come una realtà reale e drammatica nello stesso tempo. Egli ne trarrà le più radicali conseguenze. Ai cristiani che sono inquieti sulla sorte dei defunti dirà semplicemente che se i morti non risorgono, neppure Cristo è risorto, poiché noi siamo il corpo di Cristo; ai cristiani che offrono il loro corpo all’impurità dirà con una formula sconvolgente: “non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta?” (1 Cor. 6,15); ai cristiani che si dividono in fazioni, dirà: “Cristo è stato forse diviso?”
2. Allora comprendiamo perché proprio facendo memoria della conversione di Paolo noi preghiamo questa sera per l’unità della Chiesa. E’ stato attraverso di lui che ci è stato rivelata la vera missione della Chiesa “inviata al mondo per annunciare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce”. Allora, come non mai, questa sera la divisione deve fare piaga dentro il nostro cuore poiché è il segno che Cristo non è pienamente in noi, che la misericordia del Padre non ci ha ancora convertiti. Credere in Cristo è volere l’unità è volere la Chiesa, volere la Chiesa è volere che la vita eterna che è l’unità del Padre, del Figlio, dello Spirito .
Come si deve esprimere questa volontà? si esprime nella preghiera per l’unità, nella profonda conversione del cuore a Cristo, nella obbedienza alla verità della fede escludendo ogni riduzionismo ed ogni concordismo.
“Testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo”: abbiamo chiesto questa grazia al Signore, all’inizio di questa Eucarestia. L’unità della Chiesa si costruisce nella testimonianza della verità e nella fedeltà della vita al Vangelo della grazia”. Così sia per ciascuno di noi.

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La conversione di san Paolo secondo P. Cantalamessa



PAOLO, MODELLO DI VERA CONVERSIONE EVANGELICA

"QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO L'HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO"
L'anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell'omelia stessa in cui ha indetto l'anno paolino e nell'udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: "È questo il fine dell'anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo".
È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all'assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero.
L'Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno "più grande di lui", di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l'offesa più grave che si possa fare all'apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: "Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor 1,13).
Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d'inverno che illumina ma non riscalda. L'intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all'amore e alla passione per Cristo.
A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest'anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l'avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.
1. La conversione di Paolo vista da dentro
La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere "battezzati nella morte di Cristo" "sepolti insieme con lui" per risorgere con lui e "camminare in una vita nuova" (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita (cf. Atti 9,18).
Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l'evento sulla via di Damasco e l'inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d'anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite.
L'Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo.
Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l'evento, per così dire, dall'esterno, in chiave storica e un'altra che descrive l'evento dall'interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell'evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24).
Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l'Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l'incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo su questo testo che, per analogia con l'opera agostiniana, potremmo definire "le confessioni di S. Paolo".
In ogni cambiamento c'è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L'Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima:
"Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3, 4-6).
Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l'ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell'ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola...".
Invece c'è nel testo un punto a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un "ma" avversativo che crea un contrasto totale:
"Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo" (Fil 3, 7-8).
Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L'incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l'unico testo dove l'apostolo usa il singolare "mio", non "nostro" Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: "Saulo, Saulo!" "Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù!". Una "rivelazione", la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo.
2. Un cambiamento di mente
Proviamo ad analizzare il contenuto dell'evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l'osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, "non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede" (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.).
Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un'immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l'alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore, e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua.
Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il "suo vangelo", al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la "Illuminazione". Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia.
C'è posto - e come - per i doveri e l'osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva perle buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l'hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita.
3. "Convertitevi e credete al vangelo"
Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l'inventore di questo messaggio? Se esso fosse l'Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l'inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini e di parabole.
Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre "tornare indietro" (come indica lo stesso termine ebraicoshub); significava tornare all'alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. "Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso", diceva Dio nei profeti (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).
Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all'inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.
Convertirsi non significa più tornare indietro, all'antica alleanza e all'osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. "Convertitevi e credete" non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! "Prima conversio fit per fidem", dirà san Tommaso d'Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1).
Dio ha preso, lui, l'iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l'uomo deve solo accogliere, nella fede, l'offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull'uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: "Venite, tutto è pronto!". È l'appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l'ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l'occasione!
L'Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L'unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede "nel Vangelo" ("credete al Vangelo"), ora si configura come fede "in Gesù Cristo", "nel suo sangue" (Rm 3, 25).
Quello che l'Apostolo esprime mediante l'avverbio "gratuitamente" (dorean) o "per grazia", Gesù lo diceva con l'immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull'amore di Dio, come i bambini fanno leva sull'amore dei genitori.
Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di "chiamata", anziché di conversione. C'è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2).
A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c'è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: "Convertitevi e credete al vangelo"? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l'Apostolo con le parole: "Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso" (2Cor 3,16).
La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell'accettare Cristo, nel "rivolgersi" a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.
4. Un'esperienza vissuta
Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l'arcivescovo di Uppsala nel 1999, c'è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato.
La ricorrenza dell'anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d'ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest'uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po' e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s'intende, con la preghiera - i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi - diceva - te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3).
La storia ci serve in questo momento per l'idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c'è la fede-assenso dell'intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione!
Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io - dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che "Cristo Gesù ... è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso!
San Cirillo di Gerusalemme esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell'Antico Testa-mento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un'ora . Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5).Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un'immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un'epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l'assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c'è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l'incoronazione dell'amico, in tal caso quell'uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l'otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato - pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza.
La liturgia di Natale ci parlerà del "santo scambio", del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo. La legge di ogni scambio si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E' questo il colpo d'ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all'inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano.
Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l'esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: "O Dio, abbia pietà di me peccatore" e, come il pubblicano, me ne torno a casa "giustificato" (Lc 18,14), perdonato, con l'anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale.
Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.
(1) S. Tommaso d'Aquino, S. Th., I-IIae, q. 113,a.4.
(2) Cf. J.M.Everts, Conversione e chiamata di Paolo, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo 1999, pp. 285-298 (riassunto delle posizioni e bibliografia).
(3) Cf. Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù.
(4) In Cant. 61, 4-5; PL 183, 1072.
(5) Catechesi,. 5, 10; PG 33,517.
(6) Cf. N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 5; PG 150,517.
(7) N. Cabasilas, Vita in Cristo IV, 6 (PG 150, 613).