martedì 13 dicembre 2011

Testimoni di una esperienza.


Di seguito il Vangelo di oggi, 14 dicembre, mercoledi della III settimana di Avvento, con un commento, un testo del beato Giovanni Paolo II e la catechesi che questa mattina ha tenuto il Papa durante la consueta Udienza del mercoledi.


Oggi l'appello alla conversione,
che i missionari rivolgono ai non cristiani,
è messo in discussione o passato sotto silenzio.
Si vede in esso un atto di «proselitismo»;
si dice che basta aiutare gli uomini
a essere più uomini o più fedeli alla propria religione,
che basta costruire comunità capaci di operare
per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà.
Ma si dimentica che
ogni persona ha il diritto di udire la «buona novella» di Dio
che si rivela e si dona in Cristo,
per attuare in pienezza la sua propria vocazione.

Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, n.46





Lc 7,18b-23


In quel tempo, Giovanni chiamò due dei suoi discepoli e li mandò a dire al Signore: “Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?”.
Venuti da lui, quegli uomini dissero: “Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”
In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi.
Poi diede loro questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!”.


IL COMMENTO


Che cosa abbiamo visto e udito nella nostra vita? Non è una questione di poco conto. Senza aver udito e visto non si può credere. Non si è certi di aver incontrato Colui che abbiamo sempre atteso senza l'esperienza concreta e raccontabile del suo amore. I discepoli di Giovanni racconteranno quello che hanno visto e udito. Come gli apostoli di Gesù sino ad oggi. Testimoni di un'esperienza. Giovanni Battista, cugino di Gesù, che ancora nel grembo di Elisabetta ha esultato alla voce di Maria, che ha visto scendere lo Spirito Santo come una colomba su Gesù, aveva ancora dubbi. Così nella nostra vita, percezioni, sentimenti, ma non basta. Anche Pietro ha confessato Gesù come l'Inviato, il Figlio di Dio, ed un istante dopo s'è perso nei pensieri della carne. Occorre qualcosa in più, vedere e udire, e il sigillo dello Spirito su quanto visto e udito.


Gesù è il Messia, Gesù è il Signore grida la Chiesa da duemila anni. Ma per noi oggi, è Gesù il Salvatore? O dobbiamo aspettare qualcun altro? Ecco la nostra vita, ecco le nostre infermità, le catene, i peccati. Eccoli in fila, sono più numerosi del nostro capo. Ecco la nostra triste miseria d'ogni giorno. Ed ecco il Messia, Lui nella nostra vita. L'agnello immolato che prende su di sé le nostre infermità e i nostri peccati. E ridona la vista, fa nuove tutte le cose, crea in noi un cuore nuovo. Non sono parole, fantasie, e neanche semplici intuizioni. No. Sono fatti. Davanti ai nostri occhi, come nelle nostre orecchie risuona anche oggi la Parola di Vita della Buona Notizia. La Parola che ha il potere di realizzare ciò che annuncia.


I pastori andarono senza indugio alla Grotta di Betlemme e videro esattamente come avevano udito dalla voce degli angeli. C'è anche per noi una grotta, una stalla e una mangiatoia. Gli angeli appaiono anche oggi sul nostro cammino, gli apostoli che instancabilmente riannunciano il Vangelo ad ogni creatura. Andiamo a Betlemme, andiamo al fondo della nostra vita, lì dove più povero, bistrattato è il nostro cuore. Andiamo senza indugio alla mangiatoia, lì dove hanno mangiato animali d'ogni tipo, lì dove la carne l'ha fatta da padrona. Lì dov'è la fonte dei nostri peccati e dove ogni giorno s'ingrassa il nostro uomo vecchio. Andiamo ad incontrare il Messia, laddove è abbondato il peccato, per sperimentare la sovrabbondanza della misericordia. Non temiamo di scoprirci incapaci di perdonare, di dimenticare. Andiamo a vedere, nella nostra debolezza, il suo potere. Sarà Lui a perdonare in noi, e non ce ne accorgeremo... Così come in ogni altra nostra assoluta impotenza, la stalla dove non siamo capaci di aprirci ad una nuova vita, a donare il nostro tempo, ad accettare la malattia, il licenziamento. Lui nascerà nella mangiatoia dove, sino ad ora, abbiamo mangiato povera paglia incapace di trasformarci.


I nostri occhi posati oggi sul nostro cuore per sperimentare la beatitudine di chi non si scandalizza della Croce, della totale debolezza nella quale è deposta la forza infinita dell'amore. Beato chi crede, come un bambino, al potere dell'annuncio del Vangelo. Che da esso si lascia sedurre e che in esso scopre il segno dell'avvento del Messia. Beato chi non si scandalizza della stoltezza della predicazione, che non ha bisogno di altri segni, di mezzi umani e astuzie mondane. Beato chi, all'ascolto della Buona Notizia smette di aspettare un altro e accoglie l'unico inviato alla propria vita. Non esiste e non esisterà mai un'altra moglie, un altro marito, un altro figlio, un altra storia, un altro se stesso: esiste, è autentico solo quanto oggi ci è dato da Dio: alla povertà, alla cecità, alla sordità, alla lebbra, alla morte che oggi costituisce la nostra vita è inviato il Signore, nella semplicità e nella stoltezza della predicazione della Chiesa. Anche oggi, sospinti dalla Grazia, siamo chiamati ad ascoltare, accogliere e credere, perchè la nostra vita, questa e nessun'altra, sia colmata del suo amore ed in esso trasfigurata. Beati noi se, dinanzi a Cristo e Cristo crocifisso, non ci scandalizziamo esigendo un salvatore a la carte, una sorta di Aladino capace di risolvere i nostri problemi. Beati noi se, così come siamo, ci lasciamo attirare dall'amore infinito annunciato dalle sue braccia distese per accoglierci senza condizioni.


E' preparata per noi la beatitudine di chi è giunto al rifugio, di chi finalmente riposa dalle proprie opere e gusta il sabato della gratuità. La debolezza, l'Astheneia - la fiacchezza del corpo e dell’anima, la precarietà, l’incapacità di compiere il bene - non è un ostacolo, è il segno della forza di Dio! Nel suo libro “Gesù di Nazareth” Papa Ratzinger scrive: “I criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo. Proprio coloro che secondo i criteri mondani vengono considerati poveri e perduti sono i veri fortunati, i benedetti e possono rallegrarsi e giubilare nonostante tutte le loro sofferenze….”. E' la mangiatoia del Natale del Messia. E' lì che ci aspetta, è lì che ci sazia. Al fondo più buio di noi stessi la Luce dell'amore di Dio, proprio ciò che il nostro cuore da sempre desidera: essere amato senza finizioni e ipocrisie. E' l'unico amore dell'unico nostro Salvatore. E' il Suo avvento di oggi per noi.





Beato Giovanni Paolo II (1920-2005), papa
Enciclica « Dives in Misericordia » § 3 (trad. © copyright Libreria Editrice Vaticana)


«Ai poveri è annunziata la buona novella»


Dinanzi ai suoi compaesani a Nazareth, Cristo fa riferimento alle parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19). ... Mediante quei fatti e quelle parole Cristo rende presente il Padre tra gli uomini. È quanto mai significativo che questi uomini siano soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono privi della libertà, i ciechi che non vedono la bellezza del creato, coloro che vivono nell'afflizione del cuore, oppure soffrono a causa dell'ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre...


È significativo che, quando i messi inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?», egli, rifacendosi alla stessa testimonianza con cui aveva inaugurato l'insegnamento a Nazareth, abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella», ed abbia poi concluso: «E beato è chiunque non si sarà scandalizzato di me!».


Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la «condizione umana» storica, ... la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che morale. Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore viene denominato nel linguaggio biblico «misericordia».


* * *

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 14 dicembre 2011

La preghiera di fronte all'azione benefica e sanante di Dio

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei riflettere con voi sulla preghiera di Gesù legata alla sua prodigiosa azione guaritrice. Nei Vangeli sono presentate varie situazioni in cui Gesù prega di fronte all’opera benefica e sanante di Dio Padre, che agisce attraverso di Lui. Si tratta di una preghiera che, ancora una volta, manifesta il rapporto unico di conoscenza e di comunione con il Padre, mentre Gesù si lascia coinvolgere con grande partecipazione umana nel disagio dei suoi amici, per esempio di Lazzaro e della sua famiglia, o dei tanti poveri e malati che Egli vuole aiutare concretamente.

Un caso significativo è la guarigione del sordomuto (cfr Mc 7,32-37). Il racconto dell’evangelista Marco – appena sentito – mostra che l’azione sanante di Gesù è connessa con un suo intenso rapporto sia con il prossimo - il malato -, sia con il Padre. La scena del miracolo è descritta con cura così: «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, “Apriti”» (7,33-34). Gesù vuole che la guarigione avvenga «in disparte, lontano dalla folla». Ciò non sembra dovuto soltanto al fatto che il miracolo deve essere tenuto nascosto alla gente per evitare che si formino interpretazioni limitative o distorte della persona di Gesù. La scelta di portare il malato in disparte fa sì che, al momento della guarigione, Gesù e il sordomuto si trovino da soli, avvicinati in una singolare relazione. Con un gesto, il Signore tocca le orecchie e la lingua del malato, ossia le sedi specifiche della sua infermità. L’intensità dell’attenzione di Gesù si manifesta anche nei tratti insoliti della guarigione: Egli impiega le proprie dita e, persino, la propria saliva. Anche il fatto che l’Evangelista riporti la parola originale pronunciata dal Signore - «Effatà», ossia «Apriti!» - evidenzia il carattere singolare della scena.

Ma il punto centrale di questo episodio è il fatto che Gesù, al momento di operare la guarigione, cerca direttamente il suo rapporto con il Padre. Il racconto dice, infatti, che Egli «guardando … verso il cielo, emise un sospiro» (v. 34). L’attenzione al malato, la cura di Gesù verso di lui, sono legati ad un profondo atteggiamento di preghiera rivolta a Dio. E l’emissione del sospiro è descritta con un verbo che nel Nuovo Testamento indica l’aspirazione a qualcosa di buono che ancora manca (cfr Rm 8,23). L’insieme del racconto, allora, mostra che il coinvolgimento umano con il malato porta Gesù alla preghiera. Ancora una volta riemerge il suo rapporto unico con il Padre, la sua identità di Figlio Unigenito. In Lui, attraverso la sua persona, si rende presente l’agire sanante e benefico di Dio. Non è un caso che il commento conclusivo della gente dopo il miracolo ricordi la valutazione della creazione all’inizio della Genesi: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37). Nell’azione guaritrice di Gesù entra in modo chiaro la preghiera, con il suo sguardo verso il cielo. La forza che ha sanato il sordomuto è certamente provocata dalla compassione per lui, ma proviene dal ricorso al Padre. Si incontrano queste due relazioni: la relazione umana di compassione con l'uomo, che entra nella relazione con Dio, e diventa così guarigione.

Nel racconto giovanneo della risurrezione di Lazzaro, questa stessa dinamica è testimoniata con un’evidenza ancora maggiore (cfr Gv 11,1-44). Anche qui s’intrecciano, da una parte, il legame di Gesù con un amico e con la sua sofferenza e, dall’altra, la relazione filiale che Egli ha con il Padre. La partecipazione umana di Gesù alla vicenda di Lazzaro ha tratti particolari. Nell’intero racconto è ripetutamente ricordata l’amicizia con lui, come pure con le sorelle Marta e Maria. Gesù stesso afferma: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). L’affetto sincero per l’amico è evidenziato anche dalle sorelle di Lazzaro, come pure dai Giudei (cfr Gv 11,3; 11,36), si manifesta nella commozione profonda di Gesù alla vista del dolore di Marta e Maria e di tutti gli amici di Lazzaro e sfocia nello scoppio di pianto – così profondamente umano - nell’avvicinarsi alla tomba: «Gesù allora, quando … vide piangere [Marta], e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35).

Questo legame di amicizia, la partecipazione e la commozione di Gesù davanti al dolore dei parenti e conoscenti di Lazzaro, si collega, in tutto il racconto, con un continuo e intenso rapporto con il Padre. Fin dall’inizio, l’avvenimento è letto da Gesù in relazione con la propria identità e missione e con la glorificazione che Lo attende. Alla notizia della malattia di Lazzaro, infatti, Egli commenta: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,4). Anche l’annuncio della morte dell’amico viene accolto da Gesù con profondo dolore umano, ma sempre in chiaro riferimento al rapporto con Dio e alla missione che gli ha affidato; dice: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate» (Gv 11,14-15). Il momento della preghiera esplicita di Gesù al Padre davanti alla tomba, è lo sbocco naturale di tutta la vicenda, tesa su questo doppio registro dell’amicizia con Lazzaro e del rapporto filiale con Dio. Anche qui le due relazioni vanno insieme. «Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato”» (Gv 11,41): è una eucaristia. La frase rivela che Gesù non ha lasciato neanche per un istante la preghiera di domanda per la vita di Lazzaro. Questa preghiera continua, anzi, ha rafforzato il legame con l’amico e, contemporaneamente, ha confermato la decisione di Gesù di rimanere in comunione con la volontà del Padre, con il suo piano di amore, nel quale la malattia e la morte di Lazzaro vanno considerate come un luogo in cui si manifesta la gloria di Dio.

Cari fratelli e sorelle, leggendo questa narrazione, ciascuno di noi è chiamato a comprendere che nella preghiera di domanda al Signore non dobbiamo attenderci un compimento immediato di ciò che noi chiediamo, della nostra volontà, ma affidarci piuttosto alla volontà del Padre, leggendo ogni evento nella prospettiva della sua gloria, del suo disegno di amore, spesso misterioso ai nostri occhi. Per questo, nella nostra preghiera, domanda, lode e ringraziamento dovrebbero fondersi assieme, anche quando ci sembra che Dio non risponda alle nostre concrete attese. L’abbandonarsi all’amore di Dio, che ci precede e ci accompagna sempre, è uno degli atteggiamenti di fondo del nostro dialogo con Lui. Il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta così la preghiera di Gesù nel racconto della risurrezione di Lazzaro: «Introdotta dal rendimento di grazie, la preghiera di Gesù ci rivela come chiedere: prima che il dono venga concesso, Gesù aderisce a colui che dona e che nei suoi doni dona se stesso. Il Donatore è più prezioso del dono accordato; è il “Tesoro”, ed il cuore del Figlio suo è in lui; il dono viene concesso “in aggiunta” (cfr Mt 6,21 e 6,33)» (2604). Questo mi sembra molto importante: prima che il dono venga concesso, aderire a Colui che dona; il donatore è più prezioso del dono. Anche per noi, quindi, al di là di ciò che Dio ci da quando lo invochiamo, il dono più grande che può darci è la sua amicizia, la sua presenza, il suo amore. Lui è il tesoro prezioso da chiedere e custodire sempre. (*)

La preghiera che Gesù pronuncia mentre viene tolta la pietra dall’ingresso della tomba di Lazzaro, presenta poi uno sviluppo singolare ed inatteso. Egli, infatti, dopo avere ringraziato Dio Padre, aggiunge: «Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Gv 11,42). Con la sua preghiera, Gesù vuole condurre alla fede, alla fiducia totale in Dio e nella sua volontà, e vuole mostrare che questo Dio che ha tanto amato l’uomo e il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito (cfr Gv 3,16), è il Dio della Vita, il Dio che porta speranza ed è capace di rovesciare le situazioni umanamente impossibili. La preghiera fiduciosa di un credente, allora, è una testimonianza viva di questa presenza di Dio nel mondo, del suo interessarsi all’uomo, del suo agire per realizzare il suo piano di salvezza.

Le due preghiere di Gesù meditate adesso, che accompagnano la guarigione del sordomuto e la risurrezione di Lazzaro, rivelano che il profondo legame tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo deve entrare anche nella nostra preghiera. In Gesù, vero Dio e vero uomo, l’attenzione verso l’altro, specialmente se bisognoso e sofferente, il commuoversi davanti al dolore di una famiglia amica, Lo portano a rivolgersi al Padre, in quella relazione fondamentale che guida tutta la sua vita. Ma anche viceversa: la comunione con il Padre, il dialogo costante con Lui, spinge Gesù ad essere attento in modo unico alle situazioni concrete dell’uomo per portarvi la consolazione e l’amore di Dio. La relazione con l'uomo ci guida verso la relazione con Dio, e quella con Dio ci guida di nuovo al prossimo.

Cari fratelli e sorelle, la nostra preghiera apre la porta a Dio, che ci insegna ad uscire costantemente da noi stessi per essere capaci di farci vicini agli altri, specialmente nei momenti di prova, per portare loro consolazione, speranza e luce. Il Signore ci conceda di essere capaci di una preghiera sempre più intensa, per rafforzare il nostro rapporto personale con Dio Padre, allargare il nostro cuore alle necessità di chi ci sta accanto e sentire la bellezza di essere «figli nel Figlio» insieme con tanti fratelli. Grazie.



Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto la comunità dei Legionari di Cristo, presenti numerosi a questo incontro, insieme con i rappresentanti dell’Associazione Regnum Christi, venuti a Roma per l’ordinazione di cinquanta nuovi sacerdoti. Il Signore vi sostenga nel vostro ministero, affinché possiate attuare con gioia e fedeltà la vostra missione a servizio del Vangelo. Saluto la comunità del Seminario Vescovile di San Miniato, qui convenuta con il Vescovo Mons. Fausto Tardelli, la Comunità del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma e i rappresentanti della Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche.

Saluto e ringrazio quanti hanno promosso, finanziato, e realizzato il restauro della celebre scultura denominata “La Resurrezione” del maestro Pericle Fazzini, che il Servo di Dio Paolo VI ha voluto in quest’Aula e che potete vedere davanti a voi. Dopo un periodo di accurati lavori, oggi abbiamo la gioia di ammirare in tutto il suo originario splendore quest’opera d’arte e di fede.

Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. A voi, cari giovani, auguro di disporre i vostri cuori ad accogliere Gesù, che ci salva con la potenza del suo amore. A voi, cari malati, che sperimentate ancor più il peso della croce, le prossime feste natalizie apportino serenità e conforto. E voi, cari sposi novelli, crescete sempre più in quell'amore che Gesù nel suo Natale è venuto a donarci.

* * *


(*): Lectio sul tema:

Il Dono nel Vangelo di San Giovanni

Il discorso della malattia dell’uomo
nel contesto di una scena tipicamente evangelica

Il cap. 5, 1-18 di Giovanni:
«[1]Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. [2]V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, [3]sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [[4]Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto]. [5]Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. [6]Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: Vuoi guarire? [7]Gli rispose il malato: Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me. [8]Gesù gli disse: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. [9]E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare.
Quel giorno però era un sabato. [10]Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio. [11]Ma egli rispose loro: Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina. [12]Gli chiesero allora: Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina? [13]Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. [14]Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio. [15]Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. [16]Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato. [17]Ma Gesù rispose loro: Il Padre mio opera sempre e anch’io opero. [18]Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio».
C’è un elemento di questo racconto che m’interessa molto e allora mi sono fermato un po’ sopra.
Partiamo dalla scena: a Gerusalemme, piscina di Betzaetà presso la porta delle Pecore, e nel contesto di una festa. Che festa sia san Giovanni non lo dice, e quindi è meglio non cercare di indovinarlo, perché vuole dire che non è importante dal suo punto di vista, però è importante che sia una festa. Il contesto dovrebbe essere così, quindi anche gioioso, un richiamo «alle grandi opere di Dio», perché le “feste” sono sempre quelle: sono memoria di quello che Dio ha compiuto.
Ebbene, la scena ci fa vedere una:
«piscina con cinque portici, [3]sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici».
È una scena significativa, e si potrebbe dire: è proprio una scena evangelica.

1. L’uomo che s’incontra per la strada nella logica del Vangelo è malato, e una delle immagini caratteristiche di Gesù è proprio quella del medico.

Ha detto un commentatore, e credo giustamente, che se uno si chiede, chi sia l’uomo?, e se va a porre questa domanda al Vangelo, la risposta che il Vangelo gli dà è fondamentalmente che l’uomo è un malato.
Se la domanda viene posta ad un filosofo, naturalmente vi dà l’immagine dell’uomo perfetto, che fisicamente, psicologicamente, spiritualmente e culturalmente è realizzato, è compiuto diremmo noi; l’uomo per il filosofo è quello lì, per chi ragiona in astratto.
Ma il Vangelo non ragiona in astratto, non parla dell’idea di uomo, che evidentemente è perfetta, ma parla dell’uomo che s’incontra per la strada.
E l’uomo che s’incontra per la strada nella logica del Vangelo è malato.
Tutti quelli che Gesù ha incontrato fondamentalmente erano, da un certo punto di vista o dall’altro, malati, o malati fisicamente o spiritualmente. E quando pensavano di essere integri spiritualmente, come il “giovane ricco” (cfr. Mt 19, 16-22), vengono fuori dall’incontro con Gesù che si capisce bene che sono malati, che quindi c’è qualche cosa, magari nascosto, che però non funziona bene.
Allora, questa scena piena di infermi, ciechi, zoppi e paralatici è effettivamente una scena tipicamente evangelica.
D’altra parte una delle immagini caratteristiche di Gesù è proprio quella del medico, del guaritore. Quando Pietro fa quello straordinario discorso di evangelizzazione in casa di Cornelio, dice che:
«[38] (…) Gesù è passato facendo del bene e sanando – rendendo sano – tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 38).

2. Quando la malattia è significativa, quello che è in gioco è il senso della vita della persona.

Il che ci aiuta anche a capire che la malattia non è semplicemente un fatto fisico. È vero che è malato il fegato o lo stomaco o i polmoni… ma in realtà la malattia è sempre qualche cosa di molto più profondo; s’intende quando è una malattia grossa, se è un’influenza non ci si bada forse neanche. Quando è una malattia significativa, quello che è in gioco è il senso della vita della persona.
La malattia è in qualche modo un anticipo della morte, e quindi una diminuzione di speranza di vita, di quella pienezza di vita a cui l’uomo si sente effettivamente chiamato. Quindi ammalarsi è effettivamente entrare in una crisi, e non semplicemente fisica, ma del modo di intendere noi stessi, del modo di vederci, di comprendere chi siamo e che cosa stiamo vivendo. Molte volte la malattia ripiega la persona su di sé: “perché è così assorbente dal punto di vista psicologico che faccio fatica a vedere il resto del mondo, faccio fatica a vedere se il sole si alza al mattino, e quindi se c’è un cammino di vita che si manifesta nella natura, nella creazione, negli altri”. Perché la mia malattia diventa in qualche modo il punto di riferimento, il punto da cui vedo il mondo che lo vedo a partire da lì. Quindi dentro c’è effettivamente un discorso grande e difficile.
Riuscire a vivere la malattia – non semplicemente come un momento vuoto, tra un periodo di sanità prima e un periodo di guarigione che speriamo ci sia dopo – trasformandola in una prestazione umana, cioè in qualche cosa che vivo con quel briciolino di libertà che mi rimane (quando uno è ammalato è diminuita la libertà, perché molte cose non le può fare) – il riuscire a gestirla con tutto me stesso, con tutto il mio impegno, cercando di vivere autenticamente, e non semplicemente di sopravvivere, è una prestazione difficile.
E proprio per questo il discorso della malattia nel Vangelo ha una importanza così grande.

3. L’essere così dentro la propria malattia da non riuscire nemmeno più a desiderare

Tra questa schiera di ammalati, che riempie la piscina:
«[5]Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato».
Il testo è un po’ più oscuro.
  • Non dice semplicemente che «era malato».
  • Ma che «stava da trent’anni dentro la sua malattia».
Come se la malattia fosse una specie di ambiente che lo circondava da tutte le parti, ci abitava dentro, ormai lui e la malattia erano diventati una cosa sola. Il “trentotto anni” hanno evidentemente pesato e molto, tanto hanno pesato che a prendere l’iniziativa deve essere Gesù.
  • Non è uno di quelli che si presentano al Signore e chiedono:
    • “Signore, abbi pietà di me!”.
    • “Cosa vuoi?”.
    • “Che io sia guarito! Che io sia mondato! Che io possa vedere!”.
No, questo qui è semplicemente “dentro la sua malattia”, sembra che non ci sia per lui altro.
Tanto che, dicevo, Gesù prende l’iniziativa e gli pone quella domanda semplicissima:
«Vuoi guarire?», «Vuoi diventare sano?».
E la stranezza è che questo ammalato non dice: “Sì!”. Che sarebbe la risposta naturale, la più semplice; uno è ammalato da trentotto anni: – “Che cosa vuoi?”. – “Guarire!”.
No, la sua risposta è: «[7] (…) Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me».
Che è come dire: – “Ormai non ci spero più”; – “Vuoi guarire?” – “Non ci spero più!”.
È un uomo che si sente solo, non ha nessuno che lo aiuti, proprio nessuno, neanche un cane che gli stia vicino e lo aiuti nel momento in cui possa averne bisogno.
Anzi, gli altri li vede come un ostacolo: “quando sta per scendere nella piscina c’è qualcun altro che ci arriva prima di lui”, e quindi gli porta via la guarigione. “Gli altri” sono evidentemente un impedimento, questo uomo non vive più il rapporto con gli altri. Attenzione, non lo vive più come un rapporto umano, non vede negli altri delle persone che possono comprenderlo e aiutarlo; l’unica immagine che ne può avere è quella di una opposizione, di un ostacolo, da parte di qualcuno.
Insomma, è così messo dentro la sua malattia, che non sa più nemmeno quello che vuole, che non riesce nemmeno più a desiderare.
Ed è significativo che anche il Vangelo non dia un ritratto così preciso di quest’uomo. Generalmente dico che è un paralitico, perché quel «prendi il lettuccio a va a casa tua», potrebbe corrispondere a qualche altra immagine. Ma il Vangelo non lo dice che tipo di malattia avesse, semplicemente è una malattia che lo legava al suo lettuccio. Ma che cosa avesse non si sa, è un tutto confuso dentro l’esperienza di questa persona; appunto si vede solo la malattia, le qualificazioni più precise sono cancellate.

3.1. Dietro la figura di un malato cronico dovete vedere la psicologia di un malato che ormai non ha più nemmeno il desiderio di guarire

E probabilmente dietro a questa figura dovete vedere la psicologia di un malato cronico che ormai non ha più nemmeno il desiderio di guarire, può capitare anche questo.
È vero che la guarigione è sempre un desiderio fondamentale dell’uomo, perché l’uomo può vivere solo mantenendo aperta la speranza, e quindi mantenendo aperto il desiderio.
Però capita che in alcune situazioni l’uomo nella sua malattia ci fa il “nido”, perché per certi aspetti la malattia è anche una protezione: mi dà la possibilità di non assumermi delle responsabilità, di non dovere vivere dei rapporti che sono anche faticosi delle volte. E dopo un po’ che uno nella malattia c’è, questo atteggiamento può diventare prevalente e togliere o corrodere pian piano il desiderio di vivere, quindi il desiderio di amare, di ascoltare, di parlare, di capire, di entrare in rapporto.

4. Chiediamo al Signore di guarire, però con delle riserve, cioè non disposti a mettere in gioco tutto.

E questo non m’interessa dal punto di vista della malattia fisica perché non è il problema. Però m’intersa dal punto di vista della malattia spirituale, perché questo succede. Succede che noi spiritualmente siamo ammalati: è difficile che uno sia proprio integro e perfetto e sano, e quindi ami l’amore e viva e con perseveranza e con impegno l’amore.
Generalmente abbiamo una serie di limiti e di malattie, e capita delle volte che con qualche limite o malattia ci scontriamo davvero. Per cui ci rendiamo conto che lì c’è una partita decisiva da giocare, per fare un passo avanti, per crescere nell’amore del Signore e nell’amore degli altri, per dare alla nostra vita una forza di servizio, un significato di disponibilità più intensa.
Però capita (non dico a voi, ma a me capita qualche volta) di giocare con la richiesta della guarigione: chiediamo al Signore di guarire, però con delle riserve, cioè non disposti a mettere in gioco tutto.

4.1. “Convertimi, Signore, ma non subito”, vuole dire che la volontà e il desiderio non è autentico.

Quando sant’Agostino faceva quella bellissima preghiera, “convertimi, Signore, ma non subito”, faceva venire alla superficie quello che in noi molte volte è nascosto. Il “convertici Signore” lo diciamo, solo che dentro c’è anche il “non subito”.
Sappiamo che lì c’è la strada della vita, della gioia e della santità, che è l’unico senso che può avere la nostra vita. Però ci rendiamo conto che c’è anche un prezzo da pagare, che è il prezzo di una rinuncia, di un non riconoscimento, di qualche cosa che si perde… È vero che sono piccole gratificazioni quelle che si perdono, non sono cose immense, ma noi siamo così piccoli che anche alle piccole gratificazioni ci siamo attaccati, e il riuscire ad accettare il distacco, il taglio, ci costa.
Per cui quel “non subito” ci sta dentro molte volte nella nostra preghiera. E il “non subito” vuole dire evidentemente che la volontà e il desiderio non è autentico, non va fino in fondo, fino al centro della libertà.
E la conversione, il cambiamento, avviene lì, e bisogna riuscire a fare questo passo.

- II -
Il Signore continua l’attività creatrice del Padre

1. È Gesù che prende l’iniziativa per la conversione di questo infermo; e Gesù giustifica il suo comportamento come un prolungamento dell’attività creatrice di Dio.

Chi fa fare questo passo della conversione, nel racconto di questo infermo, è il comando del Signore, perché anche se questo uomo non ha chiesto di guarire, Gesù prende l’iniziativa e gli dice:
«Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. [9]E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare».
C’è quindi una parola di Gesù, una serie di imperativi: tre, uno dopo l’altro. E questi tre imperativi creano qualche cosa di nuovo; creano la guarigione, la vita, l’energia e la forza in quest’uomo: – “alzati, – “prendi su”, – “cammina”.
Quel rapporto stretto che il Vangelo pone – tra il comando del Signore, l’obbedienza, e quello che avviene – ha fatto pensare ad alcuni allo schema della creazione:
«[3]Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Gen 1, 3).
Dove c’è una parola di Dio, è parola creatrice, lì la creazione nasce, si manifesta.
E di fatto, nel discorso che poi seguirà (e che non commenteremo), il riferimento alla creazione c’è. Gesù giustifica il suo comportamento come un prolungamento dell’attività creatrice di Dio:
«[17] (…) Il Padre mio opera sempre e anch’io opero».
Quindi, l’attività del Signore continua prolungare l’attività creatrice del Padre, che vuole dire: c’è una creazione ma non corrisponde ancora al disegno, o al sogno di Dio, non è così come Dio la vorrebbe; c’è ancora qualche cosa da fare, c’è da prolungare e da completare l’opera, o da purificare la creazione perché corrisponda al disegno di Dio; e Gesù fa esattamente questo.
Le guarigioni che Gesù compie prendetele così: è Gesù che rende bella la creazione, che la purifica da quella schiavitù a cui è sottomessa per un potere di male del satana:
«[38] (…) risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 38).
“Dio era con lui”, vuole dire: è un’opera da Dio quella che Gesù sta facendo, è un’opera da Creatore, e la sta facendo perché c’è un potere di satana che deve essere vinto e superato. Quindi avviene qualche cosa di bello:
«[9]E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare».
È il mondo che nasce, e nasce bello, che nasce sano e integro.

2. L’azione creatrice del Signore non suscita una risposta di gioia da parte di nessuno, anzi sembra suscitare una risposta negativa di rifiuto.

Ebbene, di fronte ad un fatto del genere dovrebbero gioire e cantare tutti i figli di Dio, tutti gli angeli del cielo, tutte le creature… Invece nel Vangelo c’è silenzio, nessuno dice niente… né il guarito comincia a saltare; come nel cap. 3, 1-10 degli Atti degli Apostoli, quando quel paralitico, che era alla porta Bella del tempio, è stato guarito, ha cominciato a saltare nel tempio, a lodare e a benedire Dio, e ha fatto salti di gioia.
Qui niente! E neanche la gente intorno non dice niente, non loda Dio, non dice: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7, 37).
No, non dice niente! Sembra che il contesto sia un “contesto di freddo”, di indifferenza. Questa azione creatrice del Signore non suscita una risposta di gioia da parte di nessuno, né del guarito né delle persone che stanno intorno.
Anzi, sembra suscitare una risposta negativa di rifiuto, perché continua san Giovanni:
«Quel giorno però era un sabato. [10]Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: È sabato e non ti è lecito prendere su il tuo lettuccio».
Di sabato non si possono sollevare pesi, tanto meno s’intende un letto, un peso di questo genere. Quindi i Giudei pongono questa obiezione all’uomo guarito:
«[11]Ma egli rispose loro: Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina. [12]Gli chiesero allora: Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina? [13]Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo».
Dunque, ci sono due cose da considerare:
  • Primo, che un uomo malato è guarito.
  • Secondo, che questa guarigione è avvenuta di sabato.
Ebbene, i Giudei si accorgono molto bene della guarigione avvenuta di sabato, ma sembra che non si accorgono che c’è stata una guarigione; per cui esaminano la possibilità che di sabato sia portato un letto, ma non stanno a riflettere sul fatto che di sabato un uomo sia stato guarito.
Insomma, vedono molto bene la Legge, ma non riescono a vedere l’opera di Dio. È così grande l’opera di Dio che sembra sfuggire alla loro attenzione, di quello non si interessano, anzi sembra addirittura che non lo vedono.

2.1. I Giudei non riescono vedere la guarigione, la creazione, l’opera di Dio.

Questa è una piccola osservazione, dopo la potete anche dimenticare.
  • La seconda volta che i Giudei parlano all’uomo guarito gli dicono: «[12] Chi è che ti ha detto (…)».
  • E non poi come dice la traduzione italiana «[12] (…) Prendi il tuo lettuccio e cammina».
  • Ma il testo dice semplicemente: «[12] (…) Prendi su e cammina». Hanno cancellato “il letto”! Non lo “vedono più”. Perché il “letto” in qualche modo ricorda la guarigione.
  • Invece, è diventato solo un “peso”: «[12] (…)Chi è che ti ha detto: Prendi su un peso e cammina?».
Insomma, hanno una scotosi. C’è qualche cosa nel mondo che loro non riescono a vedere, ce l’hanno davanti, il resto lo vedono, ma quella realtà lì, no! La guarigione, la creazione, l’opera di Dio, no! Riescono a vedere solo il resto.

2.2. L’atteggiamento di fondo del guarito non è corretto, è la condizione di un uomo che non ha ancora la sua piena umanità e maturità

È significativa anche la risposta del guarito.
  • Domanda: “Non ti è lecito portare il tuo letto”.
  • Risposta: “Non è colpa mia! Me l’ha detto quello che mi ha guarito”.
L’atteggiamento di fondo evidentemente non è ancora corretto. Perché il discorso del guarito è un dare la colpa a Gesù, è un sottrarsi alla responsabilità, in fondo era lui che portava il lettuccio – anche se è vero che Gesù ha detto: «prendi il tuo lettuccio e cammina» –, quindi la responsabilità ce l’aveva lui, se non altro la responsabilità di obbedire.
Ma sembra – e corrisponde all’immagine che abbiamo visto prima – la condizione di un uomo che non ha ancora la sua piena umanità, la piena maturità. In qualche modo si nasconde. Prima si nascondeva nella malattia, adesso si nasconde nella responsabilità di qualcun altro, non è ancora in grado di vivere in pienezza la sua esistenza.
Di fatto, quest’uomo è stato guarito da Gesù. Ma l’uomo guarito non lo sa chi sia:
«Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina? [13]Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse».
Infatti, era avvenuta una cosa, che “Gesù si era ritirato dalla folla”. La folla si è in qualche modo allontanata da Lui.
Gesù che si ritira fa parte un po’ di quel distacco a cui il Vangelo di Giovanni incomincia ad alludere (cfr. Gv 14, 27-29).
In fondo, lo ricordavamo prima, il comportamento di Gesù non è stato capito né accettato, non è diventato motivo di lode e di ringraziamento.

3. Il discorso va nella direzione del peccato, proprio perché Gesù è venuto per dare all’uomo la capacità di amare e di santità

L’ultima scena.
«[14]Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio. [15]Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. [16]Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato».
Allora, Gesù ritrova quest’uomo nel tempio, e gli si presenta con un discorso che per certi aspetti è anche un po’ strano, perché incomincia a dire: «Ecco che sei guarito». Sembra quasi che quell’uomo non se ne sia ancora accorto di essere guarito, che i “trentotto anni di malattia” abbiano creato un abito così costante che la guarigione non l’ha ancora assorbita.
Bisogna che qualcuno glielo dica: “Bada che sei guarito!”. Infatti dice:
“Stai attento a «non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio»”.
Il che sottintende che dietro l’atteggiamento di quest’uomo ci fosse qualche cosa di non sano, nemmeno dal punto di vista spirituale.
Comunque in tutti i modi, il discorso va nella direzione del peccato, perché anche fosse solo la guarigione fisica, entra nei segni di quella guarigione integrale dell’uomo che è evidentemente lo scopo dell’attività di Gesù.
Gesù è venuto perché l’uomo sia uomo, siccome vale quella affermazione di sant’Ireneo che “la gloria di Dio è l’uomo vivente”, quindi Dio è glorificato quando l’uomo vive, Dio è glorificato nella libertà dell’uomo, nella sua responsabilità.
Ebbene, Gesù è venuto proprio per dare all’uomo quella libertà e responsabilità e capacità di amare e capacità di santità che permettono all’uomo di essere tale davanti a Dio, e permettono a Dio di essere glorificato nell’uomo e dall’uomo. Quindi il discorso del peccato è sempre ultimo e decisivo.

4. L’uomo guarito, che non si assume mai la sua responsabilità, viene condotto fino a diventare testimone

«[15]Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo».
Conclusione un poco strana e anche un po’ ambigua, nel senso che non si capisce che cosa voglia dire. Perché può volere dire due cose:
  1. Può volere dire che questo uomo è andato a fare la spia, a dire ai Giudei che tutta la colpa di quello che era avvenuto (il sabato e il lettuccio, ecc.) era colpa di Gesù. Siccome prima non era stato in grado di spiegarlo, e quindi di giustificarsi del tutto, va a giustificarsi in modo definitivo ma accusando Gesù. Di fatto, quello che viene dopo può essere inteso così:
«[16]Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato».
Quindi, in qualche modo ha scatenato la persecuzione dei Giudei.
  1. Però potete anche essere più buoni, e pensare che in realtà questa sia una testimonianza, che questo uomo finalmente guarito – che ha raggiunto dopo le ultime parole del Signore una consapevolezza di sé, della sua guarigione, di quello che di bello e di positivo è avvenuto nella sua vita – va ad annunciare ai Giudei quello che Gesù ha compiuto. Quindi una testimonianza, e una testimonianza evangelica bella e positiva.
Quale delle due sia l’interpretazione giusta lo decidete voi. E le potete prendere anche tutte e due, perché tutte e due hanno per noi un significato grosso.
  • Sia quella dell’uomo che non si assume mai la sua responsabilità ed quindi fa pagare gli altri.
  • Sia quella di chi partendo dalla condizione di malattia, che è così profonda che l’uomo non ha più nemmeno il desiderio di guarire, però pian piano attraverso l’incontro con Gesù, viene condotto fino a diventare testimone.
Dicevo, ci stanno bene tutte e due le letture, e vanno bene per noi. Alla fine la seconda lettura è consonante, il dire:
“È vero, un poco ci siamo anche noi nella condizione spirituale di questo uomo, che nelle nostre malattie spirituali ci facciamo un poco il nido, l’abitudine. Venirne fuori lo desideriamo teoricamente, facciamo fatica però a dire di sì con tutto il cuore, a pagare il prezzo. Però attraverso l’incontro con il Signore, con il suo imperativo, con le difficoltà anche di assumerci la responsabilità di figli di Dio, pian piano forse si apre anche per noi quel cammino della testimonianza che va fino a raccontare le grandi opere di Dio che sono state compiute in noi”.

- III -
Il senso dell’azione del Signore come continuazione
dell’attività di creazione del Padre

Dopo di che c’è un lungo discorso che, come dicevo, non riusciamo a commentare (per mancanza di tempo). Però varrebbe la pena che si leggesse e ritrovaste, attraverso questo discorso, il senso dell’azione del Signore come continuazione dell’attività di creazione del Padre:
«[17] (…) Il Padre mio opera sempre e anch’io opero».
Gesù si giustifica in questo modo perché, secondo la teologia ebraica, è vero che il libro della Genesi dice che il sesto giorno Dio si è riposato, però gli Ebrei dicono tranquillamente che anche in quel settimo giorno l’opera creatrice di Dio continuava. Perché anche nel settimo giorno c’è gente che nasce e che muore, e il Signore dona la pioggia dal cielo; quindi ci sono tutte una serie di attività che continuano anche nel settimo giorno e fanno parte dell’opera creatrice di Dio.
La cosa interessante è che Gesù collochi la sua attività nella continuazione dell’opera creatrice di Dio.

1. L’attività di Gesù è giustificata e spiegata da quel rapporto di comunione perfetta che c’è tra Lui e il Padre, questo è molto “cattolico” e fondamentale per noi.

Dopo bisognerà spiegare questo, e si spiegherà con quel rapporto di amore e di intimità intenso che c’è tra il Padre e il Figlio, per cui il Padre dà al Figlio tutto quello che ha, e il Figlio compie tutto e solo quello che vede compiere dal Padre. C’è una serie di attività di Gesù (che è bellissima almeno mi sembra):
«[19] (…) In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. [20]Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati. [21]Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5, 19-21).
Cioè, l’attività di Gesù è giustificata e spiegata da quel rapporto di comunione perfetta che c’è tra Lui e il Padre.
Dicevo, questo credo sia molto bello e sia molto “cattolico”. Cioè il fatto che dentro la storia del mondo, dentro al tessuto degli avvenimenti mondani, ci siano azioni, parole, gesti e decisioni nelle quali Dio passa, Dio si manifesta. Questo (almeno a me sembra) è fondamentale per noi, e provo a spiegarmi.

2. Attraverso l’Incarnazione del Figlio di Dio, la presenza di Dio nella storia del mondo c’è e rimane nella vita che Lui ha compiuto

Ogni tanto viene riporta o richiamata quella teoria della cabala, secondo cui quando dio ha creato il mondo lui si è ritirato. La creazione del mondo è come un ritiro di dio: dio che riempie tutto, si è tirato da parte per lasciare spazio al mondo. E da una teoria di questo genere, che in origine è della cabala, viene fuori (o molti tirano fuori l’idea) che il mondo è staccato, separato, da dio; va avanti senza che la presenza di dio nel mondo sia rilevabile, perché appunto dio si è tirato indietro, per lasciare spazio al mondo dio ha tolto un po’ della sua potenza perché il mondo potesse avere lo spazio per respirare.
Ora, una visione di questo genere è lontanissima dalla visione cattolica delle cose. Perché, è vero che il mondo non è Dio, ci mancherebbe altro, la creazione vuole proprio dire questo: che non è una emanazione di Dio, che non c’è una visone panteistica, per cui il mondo e la natura sono dio, che si identificano con dio; ci mancherebbe altro!
Però la presenza di Dio nel mondo ci sta e profondamente; il senso dei Sacramenti è quello. Se non c’è una presenza di Dio nel mondo, che cosa allora significano i Sacramenti? Che cosa allora significa la parola di Dio?
Se quando annuncio il Vangelo dico alla fine: Parola del Signore! Bisognerà pure che ci sia una presenza del Signore dentro la nostra storia, perché qui l’abbiamo incontrato.
E da dove allora viene la capacità di amare se Dio si è ritratto dal mondo? se non c’è una comunicazione tra Dio e il mondo?
È vero che nel mondo ci sono tante miserie e sofferenze e ingiustizie e tanti peccati che questo mi angoscia, e può darmi l’impressione che Dio non intervenga con quella pienezza che io desidererei, che io mi aspetterei. Ma da questo a dire che non c’è una presenza di Dio nel mondo, e il mondo va avanti per una autonomia assoluta, c’è un passo grosso da fare, e credo sia un passo che un cristiano non possa fare.
L’Incarnazione del Figlio di Dio non vuole dire solo che in quei trent’anni c’è stata una presenza di Dio in mezzo al mondo; ma vuole dire che, attraverso l’Incarnazione del Figlio di Dio, la presenza di Dio nella storia del mondo c’è e rimane nella vita che Lui ha compiuto, ma nella vita che sono chiamati a compiere tutti gli uomini, tutti i credenti, in modo che:
  • «Cristo diventi il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm 8, 29),
  • «il mondo sia ricapitolato in Cristo» (Ef 1, 10).
E così via…
Allora m’interessa soprattutto questo discorso. Il resto lo potete leggere per conto vostro. Questo 5° capitolo è molto bello e anche teologicamente ricchissimo.

- IV -
L’esercizio da fare

Nella seconda Meditazione abbiamo fatto l’esercizio fondamentalmente del “raccontare i doni di Dio nella nostra vita”, quindi raccontare la nostra vita dall’ottica della misericordia, della generosità infinita di Dio.

1. Una riflessione sulla nostra “malattia”, interrogare il nostro cuore se vuole davvero guarire, e trasformarla in una preghiera.

Adesso l’esercizio fa fare, sarebbe quello di diagnosi, del rivedere dentro di noi… quindi si potrebbe raccontare nella prospettiva delle nostre malattie, di quelle realtà della nostra esperienza spirituale che hanno dimensioni di debolezza, di miseria, di falsità… di malattia in genere. Notando i sintomi, quindi bisognerebbe riuscire non solo a fare la malattia in modo astratto, ma a vedere i sintomi, le cose in cui questa malattia si esprime, e evidentemente anche le cause.
E poi bisognerebbe fare un passettino in più, e interrogare il nostro cuore, e chiedere al nostro cuore se vuole davvero guarire, se quando chiediamo al Signore che ci perdoni, e quindi ci guarisca, lo chiediamo davvero, cioè se c’è in noi la disponibilità a quella novità di vita che scaturisce dalla guarigione.
Oppure, se invece siamo ancora, e non ci sarebbe niente di strano perché c’è stato sant’Agostino, nell’atteggiamento di dire: “Convertimi ma non subito, ma non ora”. Però dobbiamo rendercene conto se c’è questo meccanismo. Dicevo, non è stranissimo perché fa parte della condizione dell’uomo, però è un meccanismo che bisogna smascherare, perché fin che è nascosto è un pasticcio. Quando lo vediamo in faccia, non dico che lo abbiamo superato, questa sarebbe una visione un po’ freudiana, ma riusciamo a controllarlo meglio; e la sincerità con il Signore ci può aiutare a percorrere un cammino di guarigione.
E il trasformare tutta questa riflessione sulla nostra “malattia” o su quello che abbiamo nel cuore in una preghiera. La preghiera come volete, la scrivete o non la scrivete.
* Cv. Documento rilevato come amanuense dal registratore, scritto in uno stile didattico e con riferimenti biblici, ma non rivisto dall’autore.