sabato 24 dicembre 2011

NATALE DEL SIGNORE 2011 - MESSA DELLA NOTTE

Le icone di Bose - stile copto - tempera all’uovo su tavola cm 49x32




MESSA DELLA NOTTE

Antifona d'Ingresso  Sal 2,7
Il Signore mi ha detto:
«Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato».


Oppure:
Rallegriamoci tutti nel Signore,
perché è nato nel mondo il Salvatore.
Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo.

 

 
Colletta
O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo. Per il nostro Signore...



LITURGIA DELLA PAROLA


Durante la recita del Credo, al “Per opera dello Spirito Santo”... e nel credo in latino: “Et incarnátus est”, ci si genuflette. 


Prima Lettura  
Is 9,1-6
Ci è stato dato un figlio
 

Dal libro del profeta Isaia
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Màdian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.


Salmo Responsoriale  
Dal Salmo 95
Oggi è nato per noi il Salvatore.

 
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta.

Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli.
 Seconda Lettura  Tt 2,11-14
E' apparsa la grazia di Dio per tutti gli uomini.
 

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.


Canto al Vangelo  
 Cf Lc 2,10-11
Alleluia, alleluia.

Vi annunzio una grande gioia:
oggi vi è nato un Salvatore: Cristo Signore.

Alleluia.
 
  
 
Vangelo  
Lc 2,1-14
Oggi vi è nato il Salvatore.
 

Dal vangelo secondo Luca

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». Parola del Signore.

* * *



La sua condizione di Bambino 
ci indica come possiamo incontrare Dio 
e godere della Sua presenza. 
E’ alla luce del Natale 
che possiamo comprendere le parole di Gesù: 
«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, 
non entrerete nel regno dei cieli». 
Chi non ha capito il mistero del Natale, 
non ha capito l’elemento decisivo dell’esistenza cristiana. 
Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, 
non può entrare nel regno dei cieli.

Benedetto XVI, Udienza del 23 dicembre 2009



COMMENTO


Qual'è il mio posto? Dove, come, perchè vivere? Tutto quello che agita i nostri cuori e le nostre menti si può riassumere in questa domanda: Qual'è il mio posto? In famiglia, a scuola, al lavoro, con gli amici, nella chiesa, nella società. Un posto per me, un luogo dove essere. E scoprire di non saper e non poter rispondere a questa domanda. Scoprire d'essere stranieri ovunque, mendicanti d'un guscio dove riposare, dove essere amati. E' forse il marito, o la moglie il mio luogo? E' forse il fidanzato? Sono i figli? Gli amici? Il lavoro? Lo sport, lo svago, lo studio, il fisico, i progetti, la casa? No, tutto scorre e si mostra effimero, anche se intenso, e coinvolgente, al fondo sempre quel senso d'inappagamento. 


E pensare e scrutare il cammino alla propria realizzazione, il sentiero alla pace, alla certezza, ad un luogo che sia e non passi più. E fermarsi e gauardarsi intorno e toccare la notte. E' buio anche questo giorno, sfolgorante di schioppettii, fuochi d'artificio che, come flash, illuminano istanti e volti e cose, per richiudere tutto in un secondo nel cassetto del nulla. E' notte per il mondo, oppresso dagli inganni e dall'odore di morte. E' buio intorno a ciascuno di noi. E' buio dentro di noi. Se così non fosse, se oggi non avessimo coltri di nero a farci piccoli, incapaci, deboli, disarmati, umili, non sarebbe Natale. E' paradossale forse, ma è così. La luce brilla in una notte, ed è la nostra notte, quella di chi non ha un luogo dove riposare e trovare felicità vera e consistenza e senso alla propria vita. La notte di duemila anni fa e i passi di una Famiglia santa a mendicare un luogo nel proprio villaggio, nella sua casa, e doglie di una Madre e ansie di un Padre, e nessun posto se non una stalla, un anfratto sporco, freddo, anonimo, l'ultimo posto di questa terra. Ecco il Natale: l'ultimo posto


Ecco la gioia annunziata dagli angeli a ciascun uomo di ogni dove: la Gloria di Dio scende sull'ultimo posto della terra. Sul nostro posto, sino ad ora non-luogo, ricettacolo di fallimenti e dolori, paure e fughe, alienazioni e peccati. Sì, il nostro vagare è il luogo della Gloria, della Shekinà, della presenza di Dio. E' ora, in questo istante, in questa notte della nostra esistenza che scende l'amore di Dio che si fa carne in un Bimbo adagiato nelle mangiatoie sporche dove non abbiamo potuto saziarci. E' ora nella nostra vita che scende la Vita, quella eterna che sola può saziarci. Non esiste domani, non esiste altro luogo, perchè il nostro posto è quest'ultimo posto, questo rifiuto, questa angoscia, questo timore, questo vuoto che ci veste i giorni, santificato, reso prezioso, inimitabile, bellissimo e dolcissimo, zampillante gioia e pace, perchè sfiorato dalle membra santissime del Bimbo Gesù. 


E' questa nostra vita la sua dimora, la sua culla, è qui, all'ultimo posto che noi disprezziamo e rifiutiamo, il luogo dove Dio ha voluto nascesse Suo Figlio. Non ha nulla un presepe, una stalla sporca e maleodorante, schizzi di sterco e paglia e fango, nulla d'importante da esporre con cura e amore al centro delle nostre case. Nulla davvero, anzi, la sporcizia andrebbe nascosta. Ma è questo nulla riempito dal Tutto il luogo più bello della terra, che commuove e stringe il cuore. Il Bambino nato nella nostra vita, Dio incarnato nella nostra carne di oggi, a rendere meravigliosa la nostra vita. Anche se sporca, disordinata, maleodorante. E' qui ed ora che Dio adagia il Suo Corpo che vince la morte. E' qui che giunge Sua Madre, la Chiesa, ad annunciarci e a donarci l'evento che fa di ogni ultimo posto il primo posto, che solleva i miseri dall'immondizia, che fa del rifiuto il dono più grande. E che trasforma le nostre vite in quelle di figli di Dio, colmi di dignità e pace, di amore e di misericordia. Questa notte l'ultimo posto riservato al Figlio e ai suoi fratelli è il primo posto agli occhi di Dio, lì alla Sua destra a saziarsi d'amore. Queste nostre vite visitate da Maria e Giuseppe, fatte grembo della Vita che vince il peccato e la morte, queste vite adagiate con Lui in una mangiatoia son trasformate in pane per ogni uomo. E' questa la gioia che vince il timore. In Dio fatto uomo, in Cristo Gesù la nostra vita ricolma d'amore si fa dono per tutti, amore puro e crocifisso, il luogo per cui siamo nati.


ALTRI COMMENTI

1. CONGREGAZIONE PER IL CLERO

«Oggi è nato per noi il Salvatore». Così canta il ritornello del Salmo responsoriale nella Messa della Notte e così afferma sempre la Liturgia: non duemila anni fa Cristo è nato, è morto, è risorto... ma oggi! Nel Mistero della Divina Liturgia, Cristo veramente oggi è nato. E, nella Messa dell’Aurora, il ritornello del Salmo fa da controcanto: «Oggi la luce risplende su di noi».
La Liturgia, perciò, si caratterizza come scuola della fede. Solo l’occhio della fede sa vedere questo «oggi»: solo chi crede riconosce che il Natale non è un ricordo nostalgico, una favola puerile o, peggio, un’illusione consolatoria. La fede vede che oggi è nato il Salvatore.
Ma la fede non è una scelta irrazionale, senza fondamento nel pensiero e nella parola, perché il cristianesimo è fede nel Logos: il Pensiero-Parola in Dio, fattosi uomo per la nostra salvezza. Nella seconda lettura della Messa della Notte, san Paolo dice: «è apparsa la grazia di Dio». E il Salmo della Messa dell’Aurora afferma: «Tutti i popoli vedono la sua gloria», cioè la gloria di Dio.
Per definizione, la grazia è invisibile, come può dunque essere apparsa? E come si può vedere la gloria di Dio? Entrambe si possono vedere sul volto umano di Cristo. Siamo ancora lì, al tema della fede: solo chi guarda al Bambino di Betlemme con fede non vede solo l’uomo, ma vede il Dio invisibile fatto visibile, il Verbo fatto carne, la Grazia in Persona che si dona alla natura umana.
La credibilità della fede riposa sulla credibilità di Gesù Cristo, sull’unicità della sua Parola, sui segni che la accompagnano e la dimostrano quale Parola vera ed efficace di Dio. Per questo, «I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Vangelo della Messa dell’Aurora). Noi non glorifichiamo più un Dio sconosciuto ed enigmatico: noi adoriamo ciò che conosciamo, ciò che abbiamo veduto e toccato, perché la Vita si è resa visibile.
Il Natale ci insegna la concretezza del cristianesimo, che non è un sentimento, bensì una relazione di mente e di cuore con una Persona, Gesù Cristo, il Verbo incarnato, cui è dedicato il mirabile inno giovanneo della Messa del Giorno.

* * *

2. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano
(da una intervista a Sussidiario.net)


L'INTERVISTA/ Scola: chi è l’uomo che non desidera capire se stesso fino in fondo?

Chi è l'uomo che non desidera capire se stesso?
Una lezione profonda e al tempo stesso confidenziale sulla «notizia» più grande di tutta la storia: l’evento del Natale, nel quale «Dio si fa bambino per accompagnare la vita singolare e personale di ciascuno di noi». Nel suo pomeriggio fitto di impegni, il cardinale Scola ha dedicato un’ora del suo tempo ai giornalisti. Per continuare una «tradizione» che ho iniziato a Venezia, dice, un momento di incontro e dialogo al quale tengo molto.
Un dialogo a tutto campo, ma dove tutti i temi affrontati dal cardinale trovano senso nell’unico evento che redime il tempo, la festa cristiana del Natale. Al temine, il cardinale ha risposto brevemente anche alle domande del Sussidiario. Come può l’evento del Natale, eminenza, toccare anche al vita dei non credenti? «Per il semplice fatto» risponde Scola «che l’evento di Gesù non è qualcosa che si aggiunge all’esperienza dell’uomo. Facendosi carne, assumendo la nostra carne mortale, Gesù spiega compiutamente la nostra vita. La domanda diventa: chi è l’uomo che non ha il desiderio di capirsi fino in fondo? Ecco, il paragone con Gesù è la grazia donata all’uomo di tutti i tempi per capire il senso della propria vita». Non finiremo mai di immedesimarci in questo mistero. È questo il Natale, dice Scola: «Un Dio che si fa piccolo per raccogliere la nostra piccolezza, in questo scambio misterioso assumere la nostra umanità, in tutto, tranne che nel peccato, per consentirci di vivere nella speranza certa dell’eternità. Ma donandoci fin d’ora un anticipo dell’eternità stessa: un modo più gustoso di amare, di lavorare, di riposare, di costruire la città dell’uomo, di affrontare la nostra fragilità».
Ne ha avuto per tutti, il cardinale. Anche per chi gli ha chiesto un piccolo «bilancio» di questi suoi primi mesi nella nuova diocesi. «Sono stanco, ma al tempo stesso sempre più a mio agio. Sono tornato a casa mia, in un certo senso, questo di solito fa sempre piacere e credo che piaccia a ciascuno di voi». E ancora: «Ho trovato negli incontri che ho fatto finora un popolo di Dio molto solido. Il mio desiderio è uno solo: far fronte come posso, al di là dei miei limiti e delle mie capacità, al compito che il Signore mi ha dato, accompagnare il popolo di Dio che è in Milano a vivere secondo la bellezza, la bontà e la verità del Dono che ha ricevuto».
Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole» aveva detto Scola durante il suo primo discorso in occasione della solennità di sant’Ambrogio. «Bisogna che chi è convinto di questo, si giochi» ha ripetuto ieri in privato il cardinale Scola. «Quell’insieme è un contagio. Ma può contagiare solo chi è già stato “contagiato”. È come una grande catena: la catena della solidarietà della grande famiglia umana».
«Non credo nei progetti e nei piani pastorali» spiega il cardinale, rispondendo a una domanda sul dono vivo del carisma nella Chiesa. «Io stesso mi propongo di assecondare la vita della Chiesa di Dio, che è fatta ultimamente dallo Spirito del Risorto il quale suscita doni, nelle persone e nelle realtà associate. Il compito di chi guida è dare un orientamento, in modo tale che ognuno trovi il suo posto e al tempo stesso possa concorrere al bene della Chiesa. Concorrere al bene della Chiesa domanda all’uomo di essere in un adeguato rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio, di essere capace di virtù teologali  – fede, speranza e carità – ma anche di virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Un uomo simile, come diceva Péguy, è anche un cittadino eccellente».

Il cardinale insiste su questo punto. «Come il nostro io comunica attraverso il corpo, anche la Chiesa – come ogni realtà umana  – comunica se stessa attraverso lo strumento in senso nobile dell’istituzione. Ma se la struttura prevale sulla vita come espressione della totalità dell’io e mette da parte la potenza creativa di una razionalità commossa, radicata nel profondo del cuore nostro, e prende il sopravvento allora uccide la vita. non ho mai visto nascere la vita se non da una vita già in atto: lo vediamo, innanzitutto, nel rapporto tra l’uomo e la donna. Quindi non può mai essere l’organizzazione a far nascere la vita, mai. Ma più è debole, nelle nostre realtà associate, ivi compresa la Chiesa, la consistenza dell’io e delle sue azioni, più è debole ilper chi il nostro io si muove, più noi saremo tentati di consegnare alla struttura organizzativa la totalità della nostra vita, personale ed associata».

Il cardinale viene invitato a suggerire «segni di speranza» da guardare in un tempo che vede esplodere la crisi e il dramma della povertà. Anche Gesù in fondo è nato povero. Sì, ammette Scola. L’Altissimo entra nel tempo per abbracciare l’umile, il povero, ma povero è tutto l’uomo, per natura mendicante. «Il suo primo motivo di speranza è che Gesù nasce! Ma poiché Gesù è venuto fisicamente nel mondo duemila anni fa, quando lo pensiamo viene naturale per noi fare nostra la mentalità illuministica, quella per cui Lessing si chiedeva: chi colmerà questo terribile fossato che ci separa da Gesù? Siamo tentati di ricacciarlo nel passato, perché non assecondiamo fino in fondo il messaggio che la Chiesa – madre e maestra – ci ripropone. Non a caso» continua Scola «l’avvento ambrosiano dal suo inizio situa subito il Natale nella giusta prospettiva. La venuta nella carne di Gesù si collega alla Sua venuta finale. Non possiamo vivere il Natale in termini integrali se non aspettiamo il Gesù glorioso che viene a chiudere la storia e a compiere la giustizia. Se questo secondo polo dell’attesa lo dimentichiamo, il Natale sarà per noi un mito o una favola. Però non è questo il senso cristiano della nascita. Esso chiama subito in campo il fine, nel duplice valore di termine e di senso. Qui trova le sue radici la speranza cristiana».

Ma c’è anche un terzo avvento, indispensabile, spiega Scola. Che cita san Bernardo: «All’avvento della carne e all’avvento finale san Bernardo aggiungeva l’avvento di Gesù nel cuore di ogni cristiano che lo segue con umiltà. E questo produce conseguenze. Se non credete a me, credete almeno alle mie opere, diceva Gesù. Le tante opere della nostra Chiesa e della nostra società, le energie che tante donne e tanti uomini dedicano alla condivisione del bisogno dell’altro, danno vita a una infinità di segni di speranza, che dobbiamo guardare e seguire».

C’è il rischio per i cattolici di essere così «laici» tanto da incorrere nell’errore di separare la fede dalla vita? Scola lo aveva detto nel suo discorso in occasione di sant’Ambrogio, citando Paolo VI: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». «Oggi il rischio più grave di tutte le comunità a tutti i livelli» dice l’arcivescovo al Sussidiario «è proprio il dualismo, la separazione, come diceva già Paolo VI, tra la fede e la vita. Pensare che la fede sia qualcosa che riguardi la sfera individuale, il mondo delle mie intenzioni, delle mie belle anche giuste aspirazioni, ma che la vita poi sia un’altra cosa. Da cristiani, noi non ci possiamo stare». Viene in aiuto la grazia della Chiesa: «partecipando dell’eucarestia, partecipiamo all’evento storico, singolare, irripetibile della passione, morte, e risurrezione di Gesù. Ma l’eucarestia non è un culto separato. Gesù, nel mistero del Natale, ha rotto la distinzione tra fanum, il sacro epro-fanum, il profano, ciò che sta davanti-al-sacro. Bisogna che l’eucarestia passi nella vita. Ma come? Ripetendo il gesto. Solo ripetendo i gesti una creatura come noi può approfondire il mistero del Dio che si fa carne. Allora il modo in cui affrontiamo le circostanze della vita sarà radicalmente nuovo».

* * *

3. Giacomo Tantardini
(Fidenza, 20 dicembre 2006)





Innanzitutto grazie per avermi ancora una volta invitato in questa stupenda cattedrale, anche perché questo rinnovato invito mi sembra l’accadere di quella «comunione di spirito», come dice san Paolo, che quando accade gratuitamente «rende piena la gioia». Così Paolo scrivendo ai Filippesi (Fil 2, 1-2). Grazie anche perché quando sono entrato mi ha accolto il parroco di questo duomo, e, dopo la genuflessione davanti al tabernacolo, mi ha condotto così semplicemente nella cripta, per farmi venerare il corpo del martire, san Donnino, su cui è costruita questa cattedrale. Questo fatto così semplice mi ha commosso, perché i tesori di una chiesa sono due. Primo, il tabernacolo dove c’è Gesù: io ricordo ancora la mia povera mamma, quando piccolo bambino mi portava nella chiesa del mio paese, e mi indicava: «Là c’è Gesù»; e: «Manda un bacio a Gesù». Non sapeva la mia povera mamma che mandare un bacio vuol dire adorare. In latino adorare vuol dire baciare1. E questo mandare un bacio a Gesù adesso commuove e conferma la mia fede più che i libri di teologia. Il secondo tesoro che c’è in una chiesa sono i corpi dei martiri. Questo, per uno come me che ha avuto la grazia di nascere e di diventare prete nella diocesi di Milano, di fare il seminario a Venegono, è di una evidenza solare. Il momento più bello dell’episcopato di sant’Ambrogio a Milano è stato quando ha trovato i corpi dei martiri Gervaso e Protaso – e infatti si è fatto seppellire (andate nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano dove il vescovo Ambrogio è seppellito) tra questi due martiri. «Nequimus esse martyres, sed invenimus martyres / Non abbiamo avuto la grazia di essere martiri, ma abbiamo trovato i martiri»2. Era solo per dire grazie per avermi dato questa occasione.


«L’umanità di Cristo è la nostra felicità»: non è una frase mia. È la frase con cui san Tommaso d’Aquino inizia la parte della Summa theologica in cui parla di Gesù3. Dice proprio così: «Ad hunc finem beatitudinis / Al loro destino di felicità [perché questo, la felicità, è il destino dell’uomo: ad hunc finem beatitudinis] / homines reducuntur per humanitatem Christi / gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo». Per aiutare a vivere il santo Natale, a vivere questi giorni, a viverli, come tenterò di suggerire, nella preghiera (perché la parola preghiera indica tutto, indica la posizione dell’uomo nei confronti del Mistero di Dio, del Mistero che, come accennava la frase di Giussani che è stata letta prima, si affaccia in ogni esperienza umana), vorrei partire da una frase di un’omelia del Natale di sant’Antonio da Padova, che è dottore della Chiesa, quindi un santo che la Chiesa riconosce come insegnamento sicuro e che edifica la fede. Antonio, che aveva anche esperienze mistiche del suo rapporto col bambino Gesù, ha iniziato l’omelia dicendo: «Natale: ecco il paradiso». Ecco il paradiso. Quando duemila anni fa a Betlemme Maria l’ha partorito: ecco il paradiso. La felicità non più promessa, non più attesa, non più sperata, non più intravista da lontano. La felicità fatta carne era presente. Era visibile. Quando è uscito dal ventre di Sua madre, visibilmente la felicità, cioè il paradiso, il sommo piacere (come dice Dante: «sì che ’l sommo piacer li si dispieghi»4), il sommo piacere era venuto Lui stesso incontro all’uomo: ecco il paradiso.


E così questa frase di sant’Antonio (come l’espressione di san Tommaso d’Aquino: «Gli uomini sono ricondotti», ri-condotti) richiama innanzitutto alla creazione di Dio, al fatto che la creazione di Dio è buona. È buona la creazione di Dio, la creazione di Dio è molto buona (cfr. Gen 1, 31). Dio si è stupito della Sua creazione. Dio si è stupito della bellezza della Sua creazione. «Pulchritudo eorum, confessio eorum» dice sant’Agostino: «La bellezza delle stelle è il riconoscimento, la testimonianza del Creatore»5. Dio stesso si è stupito della bellezza della Sua creazione e della bellezza della Sua creatura al vertice della Sua creazione: la bellezza dell’uomo e della donna. E non solo si è stupito di questa bellezza, ma ha rivestito di grazia, cioè di una bellezza ancor più gratuita, questa bellezza. Tanto è vero che, secondo l’immagine poetica della Genesi, ha posto Adamo ed Eva nel paradiso, nel paradiso terrestre, e nel paradiso terrestre il rapporto col Creatore era immediato. Questa immediatezza di rapporto è descritta poeticamente dalla Bibbia come il passeggiare di Dio con Adamo ed Eva (cfr. Gen 3, 8). Dice Péguy: tutto lì era stupore, un clima di stupore, un clima di grazia6. Questo è il paradiso, questo è il destino di felicità.


Ma è intervenuto il peccato, un grave peccato.
Perché è così grande, anche nelle sue conseguenze che paghiamo tutti, il peccato originale? Sant’Agostino dice: perché era così facile non peccare7. Nel paradiso terrestre era così facile non peccare perché la presenza del Mistero era così vicina, era così immediata, perché lo stupore di questa presenza si rinnovava continuamente. Era così facile non peccare. Per questo è stato così grave quel peccato. Era così facile non acconsentire al tentatore. Era così facile accorgersi che la felicità non stava nel diventare Dio (cfr. Gen 3, 5) ma che la felicità stava nell’essere con Dio: era così facile questo! Proprio perché era così facile non peccare, il peccato è stato così grande. Ma è rimasto il cuore. Questo è importante. Anche sant’Agostino, che con così grande forza, seguendo innanzitutto ciò che Ambrogio testimone della Tradizione gli aveva insegnato a Milano8, sottolinea il peccato originale, afferma che l’immagine di Dio, pur ferita, rimane nell’uomo9. Il cuore, pur ferito mortalmente – tanto è vero che si muore –, il cuore, pur ferito mortalmente, rimane attesa di felicità, rimane desiderio di felicità, il cuore rimane capace della felicità. «Capax Dei / capace di felicità»10. E questa bontà della creazione è testimoniata anche in segni così umani. Il sorriso del bimbo che sorride al papà e alla mamma è segno che Dio non ha abbandonato la Sua creazione. Il venire al mondo di un figlio è una cosa bella. La natura umana, pur ferita dal peccato, rimane segno della bellezza e della bontà del Creatore. Attende la felicità. Rimane attesa della felicità.


E così il Signore è intervenuto, è intervenuto innanzitutto... Com’è bello nella festa dell’Immacolata, leggendo il brano della Bibbia sul peccato originale, sentire la promessa, quella bella promessa: «Io porrò inimicizia», dice il Signore al serpente, al tentatore, al diavolo, «tra te e la donna, tra la tua stirpe», coloro che appartengono a satana, al diavolo, «e la sua stirpe: questa ti schiaccerà il capo» (Gen 3, 15). La stirpe della donna ti schiaccerà il capo. Anche la donna (come indica l’immagine della Madonna Immacolata nella cappella dell’eucaristia in questa cattedrale) ti schiaccerà il capo.


Il Signore, per sostenere questa promessa, ha dato al Suo popolo la legge. E la legge è per la felicità. Anche questo è bello: tutti i comandamenti di Dio sono per la felicità. «Fa’ questo per essere felice» (cfr.Dt 6, 3. 18. 24). I dieci comandamenti sono per la felicità. La legge indica la strada. E questa è la cosa che l’apostolo Paolo soprattutto nelle sue lettere ai Galati e ai Romani più evidenzia: la legge dà la conoscenza della strada, ma la legge non fa camminare sulla strada. E quindi la felicità rimane lontana. La legge indica dov’è la felicità. La legge e i profeti hanno indicato dov’è la felicità: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 72, 28). Così il salmo 72, che è bellissimo. È il salmo che parte dal fatto che i cattivi prosperano, dalla domanda posta dal fatto che chi nega praticamente Dio prospera. E il salmista rimane sconvolto da questa prosperità dei cattivi. E dice: «Io non capivo, davanti a Te ero come una bestia» (Sal72, 22). Poi uno scopre che «il mio bene è stare vicino a Te» (Sal 72, 28), che stare vicino a Te è la mia felicità. Ma un conto è saperlo e un conto è viverlo. È tutto qui, vedete, in fondo, il mistero dell’uomo e il mistero della risposta cristiana: un conto è sapere dov’è la felicità e un conto è essere felici, un conto è sapere la strada per andare alla felicità e un conto è camminare sulla strada che porta alla felicità. E se l’uomo è ferito mortalmente sul ciglio della strada – come l’immagine della parabola del buon samaritano documenta (cfr. Lc 10, 25-37) – l’uomo da solo non può camminare verso la felicità, anche quando sa che la felicità è il Signore, anche quando sa che la felicità è stare con Dio, anche quando sa. In questo, credo che l’esperienza di sant’Agostino sia paradigma per sempre. Agostino sapeva che la felicità era lo stare con Dio, Agostino sapeva che la felicità era l’unità col Creatore. E dice: «Io ero certo di questo»11. E aggiunge: «Questa verità vinceva, ma i piaceri del mondo avvincevano»12. I piaceri del mondo sono più avvincenti anche di una verità certa. I piaceri del mondo, qualunque tipo di piaceri del mondo. L’uomo segue ciò che gli piace di più13. I piaceri del mondo sono più avvincenti. Ancora nelle Confessioni dice: «Che la felicità vera fosse l’unità con Dio mi era evidente, ma dalle immagini dei piaceri parziali la volontà non si distoglieva»14. L’evidenza della verità non ha la forza di distogliere la volontà dalle immagini – come è realistica questa osservazione! – dei piaceri mondani, dei piaceri parziali, dei piaceri che Agostino riconosceva essere parziali, non veri. Eppure l’evidenza della verità non ha la forza di distogliere la volontà dalle loro immagini. Al massimo, ed è questo il massimo di moralità farisaica, Platone dice che quando parliamo della verità ci dimentichiamo anche delle donne. Al massimo, in quel momento, c’è una dimenticanza. Il cristianesimo non dimentica niente. L’abbraccio della grazia dà la possibilità di voler bene in modo casto, non di dimenticare. Comunque il massimo della moralità platonica è la dimenticanza, in quel momento, di una certa immagine di piacere.
La legge è buona, indica la strada. Ma c’è un mare, dice ancora Agostino con un’immagine facile da cogliere, c’è un mare infinito tra la legge che indica la felicità e la felicità. L’uomo non è capace di attraversare questo mare15.


Duemila anni fa, allora, la felicità è venuta: ecco il paradiso. La felicità è venuta: non più promessa, non più indicata come termine del cammino umano. La felicità è venuta, il paradiso è venuto. È venuto nella carne così che fosse visto, così che fosse toccato, così che fosse abbracciato. Così che Agostino potesse dire: «Io sapevo che la felicità era Dio, ma non godevo di Te [perché non si gode del sapere, si gode quando si è abbracciati], ma non godevo di Te finché umile non abbracciai il mio umile Dio Gesù»16. Questa è l’esperienza della felicità sulla terra: abbracciare umile il mio umile Dio Gesù. Non Dio destino lontano, ma Dio fatto bambino, piccolissimo bambino: così il paradiso, la felicità è venuta incontro, così la felicità si è fatta vicina, così si è fatta a portata di occhi, a portata di cuore, a portata delle mani, delle mani che la possono abbracciare. Il paradiso in terra è Lui: «Fedele è Dio...». Come mi ha colpito prima, recitando i vesperi, questa frase che avevo messo sull’immaginetta della mia ordinazione sacerdotale. Ma le cose si capiscono quando il Signore le fa capire... «Fedele è Dio dal quale siete stati chiamati alla comunione delFiglio suo Gesù Cristo nostro Signore» (1Cor 1, 9). La comunione è col Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore. È la comunione del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore. È Gesù Cristo la felicità dell’uomo. È quell’uomo, nella sua singolarità, direi nella sua individualità17: quell’uomo. La comunione del Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore.


C’è un anticipo di questo paradiso, di questa possibilità di abbraccio, di questa possibilità di familiarità con Gesù Cristo; con il paradiso che ha un nome, un volto, una carne: Gesù Cristo. Questo anticipo è l’Immacolata Concezione. Perché sedici anni prima (avrà avuto quindici anni Maria quando ha concepito Gesù), quando Gioacchino e Anna, in modo naturalissimo – come ciascuno di noi è stato concepito –, hanno concepito questa piccola creatura, questa piccola creatura non è stata segnata dal peccato originale. Da quell’istante, da quel primo istante in cui fu concepita è stata amata. È stata amata. È stata prediletta. È una cosa dell’altro mondo, in questo mondo, che ci sia una creatura che è stata sempre amata. Perché bisogna partire da qui per capire la Madonna: una creatura che è stata sempre amata, che non ha mai avuto la ferita dell’estraneità nei confronti della felicità, che è stata sempre amata dalla felicità che è il Signore, che è stata sempre amata. È stata sempre amata, perché è stata preservata, anche in quel primo istante, dal peccato. Non per lei. Perché anche lei è stata redenta. Maria è redenta come è redento ciascuno di noi dall’unico Redentore. Pio IX quando ha definito il dogma dell’Immacolata Concezione ha riconosciuto due cose: primo, che è redenta, secondo, che è stata redenta in modo unico, in modo più eminente, dice il Concilio ecumenico Vaticano II18, è stata redenta in anticipo, preservata dal peccato originale19. È stata preservata dalla ferita del peccato, cioè è stata sempre amata, per il sangue di suo Figlio, per quel sangue che ha dato lei a suo Figlio. In previsione della morte di suo Figlio, dice il dogma. In previsione di quel sangue versato sulla croce, in previsione di quel sangue che era di suo Figlio e che gli aveva dato lei in quei nove mesi che Lo ha portato nel suo ventre. In previsione di quel sangue che era di Gesù ed era da Maria20. In previsione di quel sangue di Gesù è stata sempre amata, è stata redenta dal primo istante, dal primo istante della sua esistenza preservata dal peccato.
Così sant’Ambrogio descrive, secondo me in un modo mirabile, questa piccola creatura, questa piccola bambina che si chiama Maria. La descrive così: «Virgo erat Maria / Era vergine Maria / corde humilis / ed era umile di cuore / in prece pauperis spem reponens / e poneva tutta la sua speranza nella preghiera del povero, nella domanda del povero»21. Questa creatura, per la sua pienezza di grazia, la pienezza di grazia di cui era stata riempita dal primo istante della sua esistenza, viveva così. Viveva come vergine, cioè come essere sempre amata. La verginità è quella gratuità che l’essere amati dona alla vita. Quella possibilità di gratuità, e quindi di possesso, che l’essere amati in anticipo dona alla vita umana. Viveva come vergine. Dal cuore umile, perché era stata sempre amata. Non si era data lei questo essere sempre amata. Non ci si può dare l’essere amati, si può solo ricevere. Era di cuore umile e poneva così tutta la sua speranza, tutta la speranza della sua vita nella preghiera del povero, nel domandare che questo amore fosse rinnovato in ogni istante, che questa pienezza di grazia fosse rinnovata continuamente. Perché anche in paradiso domanderemo sempre, come l’anno scorso a Colonia in maniera stupenda ha detto il Papa22: anche in paradiso domanderemo sempre. In paradiso domanderemo sempre. Anche nel mistero della Trinità il Figlio riceve sempre tutto l’essere dal Padre e, se così possiamo dire, per sovrabbondanza infinita di dolcezza lo domanda sempre. Tanto è vero che dice: «Il Figlio da sé non può fare niente» (Gv5, 19. 30). Come mi piace, come mi conforta questa frase di Gesù ripetuta due volte nel Vangelo di Giovanni: «Il Figlio da sé non può fare niente». «Non è possesso geloso» (Fil 2, 6) la sua divinità: è dono perenne la divinità del Figlio di Dio: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre.


Vorrei adesso accennare a quello che più stupisce dell’accadere del paradiso: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth a una vergine» (Lc 1, 26-27). A una vergine: quante volte il Vangelo lo ripete! A una vergine: nel cuore e nel corpo; nel corpo perché nel cuore, ma nel corpo! Bisogna accettare la dottrina della fede: che è rimasta sempre vergine nel cuore e nel corpo. Perché è la salvezza della carne questa pienezza di grazia. «A una vergine sposa ad un uomo di nome Giuseppe della casa di Davide. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei le disse: “Gioisci o piena di grazia [“chàire kecharitomène / gioisci o piena di gioia”], il Signore è con te”» (Lc 1, 27-28).
«Virgo Verbum concepit / la Vergine ha concepito il Verbo / Virgo permansit / è rimasta vergine /Virgo genuit Regem omnium regum / la Vergine ha partorito il Re di tutti i re». Questa è l’antifona che da piccolo, quando sono entrato nel seminario di San Pietro martire a Seveso, in quarta ginnasio, alla domenica si cantava ai vesperi nella Basilica dove c’è il coltello con cui questo domenicano è stato ucciso. Il martirio di questo domenicano è stato una cosa sconvolgente per la Chiesa nel Medioevo. In terra cristiana era un fatto straordinario un martirio. Quindi quando Pietro da Verona, venendo da Como a Milano, è stato ucciso nei boschi vicino a Seveso, il suo martirio è stato una cosa sconvolgente per la cristianità di quel tempo23. Dicevo che, entrato in seminario in quarta ginnasio, alla domenica nella Basilica si cantavano i vesperi della Madonna e i vesperi della Madonna nella liturgia ambrosiana terminano con questa piccola antifona: «Virgo Verbum concepit...».
Ha detto fiat, eccomi. «Eccomi, sono la serva del Signore, mi accada secondo la tua parola» (Lc 1, 38). «Eccomi» è una preghiera. «Eccomi, avvenga, accada»: è una preghiera. Perché solo Dio crea, solo il fiatdi Dio è creatore. Il fiat di Maria, quel fiat che ha concepito il Figlio unigenito di Dio, quel fiat era una preghiera. Non era eroismo suo, non era capacità sua, era una preghiera: «eccomi, avvenga, accada». «Che accada» è un domandare. E così verginalmente Lo ha concepito, come verginalmente Lo ha partorito. Come è importante la virginitas in partu di Maria. Come è importante accettare la certezza della fede che Lo ha partorito verginalmente. Perché non viene dal travaglio la salvezza! La salvezza viene dalla grazia. La salvezza viene dalla grazia, non viene dal travaglio, la salvezza viene dall’essere amati, non viene dal dolore dell’uomo, la salvezza! Viene dalla felicità di Dio, viene dalla pienezza della felicità di Dio, la salvezza! La salvezza viene dall’essere amati. Che Lo abbia partorito con un parto senza dolore24, che Lo abbia partorito con un parto senza violenza, che Lo abbia partorito verginalmente, cioè nello stupore, è segno che la salvezza viene dall’essere amati. La certezza di fede circa il parto verginale è raccolta da Pio XII nella Mystici Corporis in questa espressione: «Con un parto stupendo». Mentre ciascuno di noi è venuto al mondo in un parto di dolore, quel parto è stato un parto di stupore, senza dolore, senza violenza: perché la salvezza viene dalla grazia. La salvezza non nasce dal peccato, la salvezza non nasce dal deserto: fiorisce nel deserto, fa rifiorire il deserto, ma viene dall’essere amati. L’essere amati nasce dalla felicità di Dio. Si è amati per la sovrabbondanza di felicità che è la Trinità, si è amati per la sovrabbondanza di corrispondenza che è l’eterno Amore del Padre e del Figlio che chiamiamo Spirito Santo. Si è amati per grazia. Il parto di Maria, il parto stupendo di Maria è il segno fisico, è il segno carnale che la salvezza non viene da noi, che la salvezza non viene dal travaglio, che la salvezza non viene dal dolore, che la salvezza non viene dal grido dell’uomo. La salvezza viene per grazia di Dio, felicità infinita, per sovrabbondanza di felicità, per sovrabbondanza di grazia.


E così la verginità di Giuseppe. E così il fatto che Maria sia rimasta sempre vergine si può intuire per esperienza: non avendo l’esperienza del paradiso, del paradiso sulla terra, non si può intuire che la carità, cioè il paradiso presente, è più potente, è più potente, come attrattiva, della pur naturale attrattiva dell’uomo e della donna. Dice san Tommaso d’Aquino che la carità, come attrattiva, per l’uomo pur ferito dal peccato, è più potente, come intensità di attrattiva e di diletto, che qualunque attrattiva naturale25. La carità è imparagonabile, come attrattiva avvincente, rispetto all’attrattiva naturale dell’uomo verso la donna. Non avendo esperienza di questo, forse, hanno dipinto san Giuseppe come una persona anziana, quasi per difendere così la verginità della Madonna. Invece era il paradiso presente, era il di più presente che rendeva verginale, così umano quel rapporto: nessun uomo ha voluto bene alla sua sposa come Giuseppe ha voluto bene a Maria. Perché era un amore che nasceva dalla felicità, non nasceva da una mancanza, come tante volte è il nostro povero affetto. Quando nasce da una mancanza, l’affetto inevitabilmente è segnato da un’ultima violenza. Nasceva da una pienezza di felicità: questo era l’amore di quell’uomo, di quel povero uomo di nome Giuseppe verso la più bella delle creature che era Maria. Sarebbe stato un di meno se non fosse stato verginale il loro rapporto. Sarebbe stato un di meno. Un di meno di piacere. Era umanamente impossibile non gioire in pienezza del paradiso presente. E questo non elimina nulla dell’umanità. I vesperi di Natale della liturgia ambrosiana si concludono con questa antifona: «Ioseph conturbatus est de utero virginis / Giuseppe fu turbato quando si accorse che il ventre di Maria si ingrossava perché era incinta». Una delle cose a livello esegetico che ha confortato la fede mi è stata suggerita dal povero don Saldarini quando spiegava, in prima teologia, il Vangelo di Matteo che dice che «Giuseppe essendo giusto voleva rimandare Maria in segreto» (Mt 1, 19). Voleva rimandarla non perché dubitasse di Maria, ma perché si era accorto che era presente e agiva il Mistero. La giustizia per gli ebrei, di fronte al Mistero che agisce, consiste nello stare a distanza (cfr. Es 3, 5). Giuseppe non ha dubitato mai di Maria, non ha dubitato quando si è accorto che il ventre di Maria si ingrossava perché era incinta, non ha mai dubitato. Soltanto che, essendo giusto, non voleva interferire col Mistero presente, col Mistero del Dio infinito che si faceva visibile, tangibile nella sua sposa. Allora pensò di licenziarla in segreto. E l’angelo appare a Giuseppe e gli dice: «Non temere, Giuseppe, di prendere con te Maria tua sposa perché quello che è nato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20). Uno dei versetti più belli dell’Inno di Natale di sant’Ambrogio dice: «Non ex virili semine / Non da seme di uomo / sed mystico spiramine / ma per soffio di grazia / Verbum Dei factum est caro / il Verbo di Dio si fece carne / fructusque ventris floruit/ e il frutto del ventre di Maria fiorì»26. «Fiorì», come ha detto Giussani il 24 dicembre 2004, due mesi prima di morire: «In quel luogo [Betlemme] fiorì»27. Il ventre di Maria fiorì, il frutto del ventre fiorì.


Una settimana fa ho suggerito a un giornalista di 30Giorni di telefonare a Gerusalemme al cardinale Martini per chiedere se poteva inviarci una meditazione sul Natale. Subito, dopo ventiquattro ore, il giorno dopo, il cardinale Martini ha mandato da Gerusalemme una meditazione bellissima. Così bella che ancheLa Stampa di Torino ieri l’ha pubblicata integralmente con richiamo in prima pagina28. È tutta bella questa meditazione del cardinale Martini. C’è una frase che tutto riassume. Se il Natale è così semplice, se è la semplicità di un bambino che nasce, che nasce in modo stupendo, ma che nasce da donna come ciascuno di noi (cfr. Gal 4, 4), se il Mistero è così umano, deve essere umano, deve essere semplice anche il riconoscerlo. La fede non può che essere semplice. Se è venuto in modo così semplice, non può essere venuto per complicarci la vita. Se la felicità è venuta, non può che essere semplice abbracciare la felicità, non può che essere semplice essere contenti abbracciando la felicità. Altrimenti sarebbe bastata la legge per indicare come raggiungere la felicità, come andare in paradiso (cfr. Mt 19, 17). Per questo bastava Mosè (cfr. Gv 1, 17). Sarebbe stato inutile che la felicità stessa venisse, se poi non la si può facilmente, semplicemente abbracciare, se poi non si può facilmente, semplicemente riconoscere. «Mestier non era» direbbe Dante «parturir Maria»29. E infatti per i pastori è stato semplice riconoscerLo. È stato semplice, udito l’annuncio degli angeli, riconoscere quel bambino. Non hanno riconosciuto che era la Seconda Persona della Santissima Trinità fatta uomo. No. Hanno soltanto scoperto che una cosa così bella e una felicità così umana non l’avevano mai provata nella vita. Hanno riconosciuto questo. Di fronte a quel bambino, di fronte a Giuseppe e a Sua madre Maria hanno riconosciuto che un’esperienza così non era mai capitata loro. Hanno riconosciuto che una corrispondenza così al loro cuore non era mai accaduta.
Così voglio leggere un brano, che, secondo me, è uno dei più belli e più riassuntivi di Giussani, in cui dice che cosa è questo rapporto umile con l’umile Gesù, questo abbraccio umile con l’umile Gesù, questo abbraccio umile con la felicità qui sulla terra, questa comunione del Figlio suo Gesù Cristo, questa possibilità di familiarità col Figlio suo Gesù Cristo. Dice Giussani: «Il tuo rapporto con Cristo non deve essere evoluto, scaltro, maturo, perché la tua personalità ne nasca e la tua personalità da esso sappia creare compagnia [sappia volere bene. Quando si è amati gratuitamente si può liberamente cioè gratuitamente volere bene]. Basta la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea [che sono stati i primi due che, all’inizio della Sua vita pubblica, Lo hanno incontrato], che non capivano niente [che non capivano niente eppure avevano capito tutto, tanto è vero che Andrea incontra il fratello Pietro e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1, 41). Ciò che attendevano, l’avevano trovato, e quindi tutto, perché ciò che attende il cuore è tutto, e quindi avevano capito tutto. Basta la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea, che non capivano niente]; basta la sorpresa, basta l’accenno di devozione, basta lo stupore. Più precisamente: basta il chiederlo...»30. È stato così anche per i Magi. Com’è bello il fatto dei Magi che partono non per un annuncio. I pastori corrono a Betlemme perché gli angeli annunciano, quindi vanno per una parola ascoltata. Invece i Magi vanno per un indizio intravisto. «Sic Magi ab ortu solis / per sideris indicium»: così l’inno Mysterium Ecclesiae dei vesperi della Madonna che, bambino, cantavo alla domenica nel seminario di San Pietro martire. Per un indizio, per l’indizio di una stella. Come dice il cardinale Martini nell’articolo di 30Giorni che vi invito a leggere. Bastano piccoli indizi per credere, tanto è vero che Giovanni quando corre al sepolcro la mattina di Pasqua crede vedendo soltanto la sindone ripiegata in un modo tale che faceva intravedere che il Signore era risorto: è stato questo piccolo indizio. I Magi partono per un piccolo indizio, una stella, e continuano il viaggio seguendo questa stella. Ma a un certo punto la stella non la vedono più. Ed è bellissimo che, non vedendola più, domandano. Quando non si vede più la stella, non si può fare altro che domandare. Non possiamo possedere noi la grazia, non la possiamo possedere. Non è una scienza che si possiede. Quando non si vede più la grazia che precede si può solo domandare. Hanno domandato, hanno domandato persino a Erode, hanno solo domandato. Si segue la grazia, e quando la stella della grazia non è evidente si può solo domandare. E poi – «videntes stellam Magi gavisi sunt gaudio magno valde»31 (cfr. Mt 2, 10) – quando l’hanno rivista, come nuovo inizio, quando l’hanno rivista (le parole della liturgia non sanno come esprimere questa gioia di un nuovo inizio, perché è ancora più bella questa gioia, «gavisi sunt gaudio magno valde») hanno gioito di una gioia, di una gioia più grande ancora, di una gioia più bella ancora. Continua Giussani: «Più precisamente: basta il chiederlo [perché lo stupore lo fa chiedere], basta quell’embrionale percezione di quel che Lui è che te lo fa chiedere, per cui lo chiedi»32. Per iniziare l’esperienza della felicità sulla terra, per abbracciare la felicità sulla terra, per abbracciare, umile, l’umile mio Gesù, basta quell’embrionale percezione per cui Lo chiedi, quell’embrionale stupore, quell’embrionale dolcezza per cui Lo domandi. Basta questo per iniziare sulla terra ad abbracciare la felicità.


E così finisco suggerendo una cosa che è l’ultima cosa che il Signore mi ha dato di intuire come passo di un cammino che Lui dona. Perché Lui dona le cose a suo tempo, a suo tempo! Non si può anticipare nulla, si può solo ringraziare delle cose che accadono. E le cose che accadono, mentre accadono, rendono evidente quel filo d’oro che è la predilezione del Signore. Predilezione che comincia dal venire al mondo, e da quel venire alla vita di grazia che è il battesimo, per cui diventa bellissimo anche il venire al mondo. La gratitudine verso il padre e la madre che ti hanno messo al mondo, che mi hanno messo al mondo, è imparagonabilmente resa più semplice, più cara, più vicina quando mi accorgo che è attraverso loro che sono stato portato al fonte battesimale. E dopo il battesimo, come mi ha raccontato una volta la mia povera mamma – anzi, l’ha raccontato alle mie sorelle che poi me l’hanno raccontato –, dopo il battesimo mi ha portato all’altare della Madonna per offrirmi alla Madonna. È imparagonabile l’affetto che uno ha verso sua madre che gli ha dato la vita, conoscendo questo gesto così cristiano e così umano di offrire il primo figlio che aveva alla Madonna.
Voglio dire che quando la vita si riconduce a preghiera e quindi si riconduce al fatto che «di me ha cura il Signore» (Sal 39, 18) – perché la preghiera, quell’abbraccio che si rinnova umile all’umile Gesù, dona alla vita questa serena sicurezza del bambino che «di me ha cura il Signore» – e quando questo «di me ha cura il Signore» abbraccia veramente la nostra povera persona, allora uno inizia a scoprire che il Signore ha cura di tutti. E allora la misericordia verso tutti diventa come l’ultima grazia, come l’ultimo cammino di grazia che il Signore dona. Perché tante volte ho ripetuto con gratitudine fino alla commozione delle lacrime che «di me ha cura il Signore». Ma può essere come quando si è bambini, non bambini piccoli piccoli, ma bambini di cinque, sei, sette anni, che si gioca e si vuole vincere (e questo è proprio dell’uomo, è desiderio naturale dell’uomo il vincere, e questo desiderio naturale sarà perfetto in paradiso. «Infelici quelli che» dice sant’Agostino «preferiscono la lotta continua alla vittoria, mentre si può lottare solo per vincere»33). Quando si è bambini di quattro, cinque, sei anni si vuole vincere, ma si vuole anche che gli altri perdano, si vuole anche che gli altri siano sconfitti. Invece quando si è piccoli piccoli, quando si è piccoli piccoli si vuole solo vincere. Quando piccoli piccoli ci si addormenta in braccio al papà e alla mamma non si può avere neppure il problema che gli altri perdano, che gli altri siano sconfitti. E questo è l’inizio di quel «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36) «che fa sorgere il sole sui giusti e gli ingiusti» (Mt 5, 45) e dona la vita, e nella sua misericordia, magari nell’istante ultimo, la vita eterna anche alle persone più cattive. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro». E questo nasce dal fatto di essere così amati, nasce dal fatto che «di me ha cura il Signore». Se ha veramente cura dell’anima e del corpo – perché ha cura di tutto il Signore, «di me ha cura il Signore» –, allora come è bello che abbia cura di tutti! Come è bello, come dice Manzoni ne La Pentecoste, come è bello che «sia divina ai vinti mercede il Vincitor», che non ci sia nessuno sconfitto in modo cattivo, ma che tutti siano vinti da questo essere così amati, vinti da questa felicità alla portata di occhi, alla portata di cuore, alla portata di abbraccio. Che «sia divina ai vinti mercede il Vincitor», ai vinti sia divino premio il Vincitore, la felicità stessa, il Vincitore, Colui che solo vince, che solo ha vinto perché solo avvince, avvince il cuore come sommo piacere, Colui che solo avvince in pienezza di corrispondenza il cuore e in paradiso lo avvince per sempre.


Finisco leggendo un brano di Agostino sulla bellezza di Gesù: «Per noi dunque che Lo riconosciamo, il Verbo di Dio ci venga incontro in ogni occasione bello / pulcher Deus, Verbum apud Deum, / bello quale Dio, Verbo presso Dio, / pulcher in utero virginis, / bello nel ventre della Vergine, dove non abbandonò la divinità e assunse l’umanità, bello bambino appena nato; perché, anche mentre era bambino che succhiava il latte e mentre veniva portato in braccio, di Lui i cieli hanno parlato, Lui piccolo bambino gli angeli hanno lodato, a Lui una stella ha condotto i magi, Lui è stato adorato nella mangiatoia, cibo dei miti. Bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel ventre di Maria, bello preso in braccio dai genitori [da Maria e Giuseppe], bello nei miracoli, bello anche nella flagellazione. [Sì, anche nella flagellazione perché – dice Agostino – nella flagellazione, quando era tutto sfigurato, se consideri perché era diventato così, perché si era lasciato battere dai flagelli così, se consideri la misericordia per cui per te, per tuo amore si era fatto ridurre così, è bello anche nei flagelli. Quando Maria Lo ha preso in braccio sotto la croce morto («vidit suum dulcem Natum morientem desolatum / ha visto il suo dolce nato, dolce figlio, morire solo, solo sulla croce»34), quando Lo ha preso in braccio, non c’era cosa più bella di quel suo figlio, di quel suo figlio sfigurato. Così quando il buon ladrone gli ha detto: «Gesù, ricordati di me quando sarai in paradiso» (Lc 23, 42), non aveva mai in tutta la vita incontrato una cosa così bella come in quel momento, nel momento della morte, quando si è sentito dire: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43)]. Bello nei miracoli, bello nella flagellazione, bello quando invitava a seguirlo, bello quando non ha di­sdegnato la morte, bello quando è spirato, bello quando è risorto / pulcher in ligno, pulcher in sepulcro, pulcher in coelo / bello sulla croce, bello anche nel sepolcro, bello nel cielo»35.
Grazie.


Note
1 Cfr. Benedetto XVI, omelia nella santa messa a Colonia il 21 agosto 2005, in Tutti i discorsi di Benedetto XVI a Colonia, supplemento a 30Giorni, n. 9, settembre 2005, pp. 31-35.
2 Ambrogio, inno Grates tibi, Iesu, novas; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo sanctorum Gervasii et Protasii martyrum (19 giugno).
3 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III q. 9 a. 2.
4 Dante, Paradiso XXXIII, 33.
5 Agostino, Sermones 241, 2.
6 Cfr. Ch. Péguy, Eva, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1991, p. 13.
7 Cfr. Agostino, De civitate Dei XIV, 15, 1.
8 Cfr. Agostino, Contra Iulianum opus imperfectum VI, 21.
9 Cfr. Agostino, De Trinitate XIV, 8, 11.
10 Ibid.
11 Agostino, Confessiones VIII, 5, 12.
12 Ibid.
13 Cfr. Agostino, In Evangelium Ioannis XXVI, 4.
14 Agostino, Confessiones X, 22, 32.
15 Cfr. Agostino, In Evangelium Ioannis II, 4.
16 Agostino, Confessiones VII, 18, 24.
17 Cfr. L. Giussani, «“A me pare che non cerchino Cristo”», in L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 148.
18 Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 53; Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 30 giugno 1968.
19 Pio IX, bolla Ineffabilis Deus (Denzinger 2803).
20 Cfr. Liturgia delle ore, solennità di Maria Santissima Madre di Dio, Ufficio delle letture, seconda lettura: dalle Lettere di sant’Atanasio vescovo.
21 Ambrogio, De virginibus II, 2; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo Praesentationis Beatae Virginis Mariae (21 novembre), ad Matutinum, lectio III.
22 Cfr. Benedetto XVI, incontro con i vescovi della Germania a Colonia il 21 agosto 2005, in Tutti i discorsi di Benedetto XVI a Colonia, op. cit., pp. 39-45.
23 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera al cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini nel 750° anniversario del martirio di san Pietro da Verona, 25 marzo 2002.
24 Cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in festo Septem Dolorum Beatae Mariae Virginis (15 settembre), antiphona ad Laudes: «Maria virgo quos in partu dolores effugerat...»; innoDum vitam in ara Golgothae: «Mater doloris nescia / Gavisa partum viderat».
25 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II q. 23 a. 2.
26 Ambrogio, inno Veni Redemptor gentium; cfr. Antico Breviario Ambrosiano, in Nativitate Domini.
27 L. Giussani, Un Essere nuovo in quel luogo fiorì, in G. Tantardini, Memoria di incontri, in30Giorni, n. 3, marzo 2005, p. 42.
28 C. M. Martini, Presepio, un piccolo segno che ci invita a credere, in La Stampa, 19 dicembre 2006, p. 47; Id., Semplicità del Natale, in 30Giorni, n. 11, novembre 2006, pp. 47-54.
29 Dante, Purgatorio III, 39.
30 L. Giussani, «Riandare al primo incontro», in L’attrattiva Gesù, op. cit., p. 23.
31 Antico Breviario Ambrosiano, in Epiphania Domini, ad Vesperas, psallenda II.
32 L. Giussani, «Riandare al primo incontro», in L’attrattiva Gesù, op. cit., p. 23.
33 Agostino, De vera religione 53, 102.
34 Iacopone da Todi, Stabat Mater; cfr. Chi prega si salva, 30Giorni, Roma 2001, p. 60.
35 Agostino, Enarrationes in psalmos 44, 3.

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4. Giacomo Biffi





ROMA, sabato, 24 dicembre 2011 - È uscito cinque anni fa ma la sua attualità non è in discussione, trattando un argomento attuale da venti secoli: il Natale. Un Natale vero? (ESD, 2006) è l’istant book che raccoglie le 41 omelie natalizie tenute dal cardinale Giacomo Biffi durante i suoi vent’anni da arcivescovo di Bologna (1984-2003).
Riflessioni tanto chiare quanto profonde, nelle quali l’acuta intelligenza di uno dei più illustri porporati italiani, si confronta con le problematicità del nostro tempo, alla luce della realtà lietissima della venuta al mondo di Nostro Signore Gesù Cristo nel bambinello di Betlemme.
Le parole di Biffi sulla Natività “muovono l’anima”, afferma Giuseppe Barzaghi OP, nella prefazione. Le riflessioni dell’arcivescovo emerito di Bologna, “sono attente alle circostanze storiche in cui risuonano” ma soprattutto “fanno risuonare nella situazione il valore divino di ciò che è eterno”, aggiunge il prefatore.
Nelle sue omelie Biffi si sofferma sempre su risvolti mai banali di un Natale sempre visto alla luce della tradizione e della dottrina cristiana più rigorosa.
Toccanti sono le parole che il cardinale dedica al presepe, descritto come un autentico avamposto contro la disumanizzazione dell’era contemporanea: una vera e propria “lezione di vita”, con Maria, serena e dal “cuore gonfio d’amore”, immagine che sfida “la frenesia sessuale che gabellata per culto della libertà e della schiettezza, sta ossessionando e avvilendo il nostro tempo”.
Gesù Bambino, debole, indifeso e innocente nella sua mangiatoia, “senza astuzia, senza aggressività”, è “emblema di mitezza” contro il “mito scellerato” della violenza, dell’aggressività ideologica e della guerra.
La stalla, infine, è una vera propria provocazione alla “adorazione della ricchezza”, tipica del nostro tempo, una sfida alla presunzione “dell’onnipotenza e dell’intangibilità delle leggi economiche, quasi fossero più grandi e venerabili dell’uomo”: parole pronunciate nel Natale 1985 e che dimostrano la straordinaria lungimiranza del cardinale Biffi.
Scorrendo le 176 pagine del volumetto, il lettore troverà decine di spunti di riflessione e di chiavi di lettura sempre estremamente credibili e stimolanti: il Natale come sconfitta della solitudine, come festa della vita e trionfo della luce, momento culmine dell’amore, della gioia, della speranza e della giustizia.
Nelle sue riflessioni Biffi lascia intendere che tutte le impalcature apparentemente “secolarizzanti” del Natale (le luci, i regali, la convivialità) non nascono da sé ma sono comunque una derivazione della festa cristiana più autentica: la luce divina che fa la sua apparizione nel mondo, il dono – il più grande di tutti – del Figlio da parte del Padre celeste a tutti gli uomini, la condivisione dei frutti del nostro lavoro quotidiano.
Il Natale è quindi una grande occasione per tutta l’umanità, l’Occasione per eccellenza. Questa festa, tuttavia, nota Biffi, comporta anche un rischio altrettanto alto: quello di lasciarci vincere dalla nostra cecità e rifiutare un dono così grande.
Il rischio di finire per rifiutare questa immensa grazia, potrà essere scampato se l’uomo conserva lo stupore per un mistero che si rinnova oggi, accettando di condividere con Cristo che nasce “la sua stessa condizione di figlio, erede dell’immortalità e della gioia di Dio”.

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Di seguito una meditazione sul Natale
                          
di Giacomo Biffi *

L’evangelista Luca, cominciando il racconto della nascita - povera e umile - di Gesù a Betlemme, evoca addirittura il celebre e potente imperatore di Roma: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra» (Lc 2,1). La terra aveva dunque un padrone; un padrone che un bel giorno decide di contare gli uomini di sua proprietà. L’impero – come si vede – era popolato di sudditi, sui quali uno solo da Roma signoreggiava e dava ordini. Ma proprio allora, tra quei sudditi ed entro quell’impero, nasce un uomo libero. La nascita di un uomo veramente e interamente libero è un prodigio così grande da riempire il cielo di gloria divina e la terra di una promessa di pace: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace per gli uomini che egli ama» (Lc 2,14). 

Ancora oggi noi ricordiamo quell’avvenimento - la nascita di un bimbo in una stalla di Betlemme - nella gioia e nella speranza. Perché quell’uomo libero viene dall’alto, dal mistero stesso di Dio: è il Verbo eterno del Padre che «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (cf. Gv 1,14). Egli viene a condividere la nostra sorte e a partecipare a tutti i disagi della nostra condizione. Ma nessuno dei mille legami che ci imprigionano riesce a impacciare la sua libertà, nemmeno nel primo giorno di vita. La sua stessa nascita sembra una sfida a tutte le dipendenze nelle quali l’uomo si è andato a impigliarsi: nasce senza un letto, senza una casa, senza assistenza. Pare quasi che egli voglia sottrarsi fin dal primo momento alla tirannia degli uomini e delle cose. 

Ed è uno stile, questo, che contrassegnerà poi tutta la sua vita. Nessun uomo ha mai avuto l’audacia della sua libertà. E’ libero di fronte alle autorità religiose e politiche del suo paese, che egli riconosce e rispetta, ma alle quali sa parlare con impavida chiarezza. E’ libero nei confronti dei suoi oppositori, che non riescono mai a intimidirlo. E’ libero dall’attaccamento interessato dei suoi parenti (cf. Mt 12,46) e dall’affetto un po’ intrigante dei suoi amici (cf. ad esempio Mt 16,23). E’ libero anche dalle esigenze più elementari: più degli uccelli del cielo che sono legati al loro nido, più delle volpi del bosco che dispongono sempre di qualche tana. 

Ma la sua non è la libertà senza contenuto e senza scopo, che tanto spesso è esaltata dagli uomini come se fosse un valore. Non è l’abbandonarsi, come foglia senza volontà, a ogni vento di piacere. Non è l’atteggiamento del superuomo, distaccato e senza misericordia. Non è l’indifferenza dell’intellettuale, che non si lascia coinvolgere nella vicenda dei comuni sentimenti umani. Non è la gelida autonomia di un cuore spento e inaridito. 

Al contrario, egli è libero da tutto per donarsi tutto nell’amore del Padre e nell’amore appassionato e fattivo degli altri. Egli è libero per liberarci. Il Natale di Cristo è il natale della vera libertà. Non capiremmo il senso autentico della culla di Betlemme, se ci dimenticassimo che questo bambino ha una missione da compiere e un dono da portare. Con la sua nascita, con l’intera sua vita, con la sua morte redentrice, il Signore Gesù ci ha liberati «perché restassimo liberi» (cf. Gal 5,1). 


LIBERTA' DALLA "VUOTEZZA" 

La venuta tra noi del Figlio di Dio è stata liberatrice prima di tutto perché ha colmato l’intrinseca «vuotezza» del nostro esistere, che è la fonte della più sottile schiavitù. L’esistenza è «vuota» quando è senza meta e senza significazione. L’uomo che non sa darsi un «perchè» del suo vivere è tanto più schiavo, quanto più ha l’impressione di essere padrone di sé. Troppo spesso ci viene proposta come conquista di emancipazione la perdita di ogni finalità, il ripudio di ogni radice, il disconoscimento di ogni attenzione all’essere delle cose. Molti che si presentano come profeti di libertà – appunto per questa «vuotezza» di cui si fanno incauti annunciatori – sono invece i maestri del nulla e i cantori della servitù dello spirito. Al contrario, il Signore Gesù è l’approdo e il senso della nostra vita. Nessuna nostra giornata è vana, se è spesa per lui; nessuna esperienza è amara e vacua, se è compiuta nella sua luce. Perciò alla sua nascita gli angeli hanno cantato di gioia. 


LIBERTA' DALL'ERRORE E DALLA MENZOGNA 

La venuta tra noi del Figlio di Dio è liberatrice anche perché ci ha fatto conoscere la verità. Una seconda fonte di schiavitù è infatti la falsa visione delle cose. La presenza della menzogna e dell’errore è il segno nel mondo dell’artiglio di Satana, che – ha detto Gesù – è il «padre della menzogna» (cf. Gv 8,44). Noi siamo immersi nella falsità. La falsità ci viene predicata da tutte le parti: falsità circa l’uomo, il suo destino, la sua natura; falsità morale, che presenta il male come bene e propone comportamenti contrari ai principi fondamentali e alla stessa dignità intrinseca delle creature umane; falsità nel presentare la Chiesa, la sua opera, le sue intenzioni, la sua storia. Il Signore ha detto: «La verità vi farà liberi» (cf. Gv 8,32). E la verità è lui. Se prendiamo l’abitudine di esaminare criticamente alla luce del suo mistero – cioè della sua persona, delle sue azioni, del suo magistero – ogni idea che ci viene conclamata, ogni proposta che tenta di farsi accogliere, ogni avvenimento in cui ci imbattiamo, allora la menzogna dileguerà nel cielo della nostra anima, come le nebbie del mattino al sorgere dell’unico sole. 


LIBERTA' DAL PECCATO

Una terza fonte di schiavitù è il peccato. «Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (cf. Gv 8,34), ha detto il Bambino di Betlemme allorché ha cominciato a insegnare. E la quotidiana esperienza dell’uomo – quando non è censurata dalla cultura dominante – comprova da sempre questa chiara e tagliente affermazione di Cristo. L’uomo che si abbandona alla prevaricazione, credendo di affermarsi come autonomo signore dei propri atti, diventa alla fine lo zimbello delle forze del male. E di ciò ai nostri giorni abbiamo chiari e tristissimi esempi. Ma per quanto possa essere disastrata la vita di un uomo, il Salvatore che nella notte di Natale ci è stato manifestato, è sempre più forte. Non c’è trasgressione, non c’è abitudine personale, non c’è sfacelo morale, che non possa essere vinto e risanato dalla sua grazia. Non c’è colpa che, se c’è pentimento sincero, non trovi perdono. Davvero all’umanità intera nel silenzio di una notte palestinese è stata annunziata «una grande gioia» (cf. Lc 2,10): la gioia di una vera e sostanziale libertà. 

*: Cardinale, arcivescovo emerito di Bologna