mercoledì 30 novembre 2011

ETTY HILLESUM 4



Fratel MichaelDavide
Etty Hillesum: Dio matura.
Un viaggio in quaranta tappe
Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2005

Ma se anche non…

Siamo di fronte al manifesto della libertà! I giovani che dicono al re con s-frontatezza: «Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo i tuoi dei» (Dn 3,18) e Gesù che s-frontatamente dice «la verità vi farà liberi». Non c’è verità e non ci può essere libertà che nella custodia e nell’incremento della vita: «Ma intanto cercate di uccidermi» (Gv 8,37). La verità come fonte di libertà non può mai ricattare l’altro e chi è nella verità e nella libertà mai potrà piegarsi a nessun ricatto anche a costo della propria vita… eh sì della propria vita e non di quella degli altri per affermare se stessi o fuggire dalle proprie paure e dai propri fantasmi.

In realtà Nabucodonosor – e non solo lui – vive nel terrore di scoprire di essere in realtà piccolo e che ci possano essere un Dio e degli uomini - che lo servono e lo adorano - i quali non saranno mai nelle sue mani: «Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?» (Dn 3,15). E questi giovani con la loro risposta vera e libera si dimostrano all’altezza di Dio, del Dio vivo e vero assolutamente incommensurabile e im-prendibile.

Questa marcia verso la libertà attraverso la coltivazione della verità di se stessi nel più profondo di sé, fu il grande travaglio della vita di Etty continuamente attenta a poter – nonostante il lento processo interiore di maturazione e il tremendo aggravarsi delle minacce esterne – dire: «Di fuori non cambia nulla, naturalmente, ma dentro sono più libera» (76). Continuamente Etty deve confrontarsi e sottrarsi a quell’«istinto di conservazione» (147) che comprensibilmente sembra conquistare e affermarsi come logica nel campo di Westerbork. Ma proprio quando questo spazio sempre più limitato e limitante cerca di imporsi come negazione di libertà e come insulto alla verità dell’essere uomini in un mondo creato per la vita, si fa urgente – unico baluardo alla barbarie – fare appello alla propria anima capace di interpretare – animare – un reale sempre più insostenibile: «E per il resto: diversi suicidi stanotte prima che partisse il treno, con rasoi ecc…eppure stamattina mentre mi lavavo insieme con una collega, le ho detto dal profondo del cuore pressappoco così: I domini dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppo importanza, io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà, e non c’è nessuno che mi può fare veramente del male» (80).

Etty vive sempre di più e sempre più profondamente regalmente e principescamente nei «domini dell’anima!» Questo però non toglie tutto il peso e il fardello della materia del suo vivere che non è altro che un tenere «duro da una parte e dall’altra del filo spinato» (116). Tutto è assai difficile eppure non impossibile: «Quando mi sveglio alla mattina mi sento come dentro un bozzolo – è un ricco risveglio sai! Ma poi comincia a volte una piccola passione» (117). E così conclude e commenta continuando la sua lettera all’amica Maria Tuinzing: «Sai, se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi alle apparenze come a pittoreschi accessori che non intaccano il grande splendore (non mi viene in mente un’altra parola) che può essere un parte inalienabile della tua anima – allora è proprio una situazione disperata» (117).

Ma come riuscire ad avere accesso e a dimorare stabilmente in questa "parte inalienabile" della propria anima fino ad essere capaci di sfidare la morte come il Signore Gesù, come i giovanetti? Un primo passo è proprio quello di non dare troppa importanza alla propria vita come numero di giorni e atti compiuti e segni lasciati: si tratta di maturare un’umiltà che sola può generare quella libertà come indice di verità. Bisogna autocomprendersi in un mistero ben più grande del nostro piccolo grande mistero personale: «c’è bonaccia di nuovo… su di me cala un velo attraverso cui la vita filtra più mite, e spesso più ridente. Sento allora di essere tutt’uno con la vita. Inoltre: che non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente ed eterna – e se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente, ed eterna corrente, che è appunto la vita» (86).

La finale del testo di Daniele dice che l’angelo «rese l’interno della fornace un luogo dove soffiasse un vento di rugiada» (Dn 3, 49). Come poteva essere diverso? Nel cuore di questi giovanetti la paura era stata vinta dalla gioia di essere fino in fondo fedeli a se stessi "anche se" (Dn 3,18) Dio non fosse intervenuto, anche se Dio non intervenisse non sarebbe mai possibile cambiare opinione sul mistero che avvolge la nostra vita e la stessa vita di Dio come una grande vela. Laddove Nabucodonosor e i Giudei cercano di impaurire perché impauriti di non essere così potenti come hanno bisogno di ritenersi… i giovanetti, Gesù, Etty possono dire: «Nel mio caso funziona sempre dall’interno verso l’esterno, mai viceversa. Di solito le disposizioni più minacciose – e ce ne sono parecchie attualmente – vanno a schiantarsi contro la mia sicurezza e fiducia interiori, e una volta risolte dentro di me, perdono molto della loro carica paurosa» (121).

Bisogna risolvere dentro di noi la paura – compito non facile – fino a trasformare l’interno della fornace in spazio di cuore e non il cuore in spazio di fornace. Ma per questo – come per e nell’amore – c’è bisogno di pazienza, sono necessarie tante e varie «tappe per arrivare a questo scivolare dolcemente nella e attraverso la vita: ecco una persona deve avere pazienza. Il tuo desiderio dev’essere come una nave lenta e maestosa che naviga per oceani infiniti, e non cerca un luogo in cui gettare l’ancora… e d’un tratto, inaspettatamente, lo trova per un momento» (106).

Ma ognuno di questi momenti in cui ciascuno trova un poco il suo porto non sono che lo stimolo e la forza per navigare ancora. Questo vivere al livello profondo della propria anima, in una fedeltà alla verità di se stessi libera da ogni minaccia esterna permette a chiunque si trovi in una situazione di testimonianza/martyria di poter «dire: è come se mi librassi invece di camminare come se non vivessi dentro la realtà, come se non sapessi cosa sta succedendo» (156). Eppure «avevano acceso al massimo la fornace» (Dn 3,22) nondimeno «Essi passeggiavano in mezzo alle fiamme» (Dn 3,24). Ad Etty – a noi – non resta che dire e ripetere nell’intimo del nostro cuore: «E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza imprendibile» (171)…libera e leggera come una nave le cui vele sono gonfie di libertà… di Dio: «Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17).

Quando ti metterai in viaggio per Itaca,
devi augurarti che la strada sia lunga.

Soprattutto non affrettare il viaggio;
fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco,
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

(C. Kavafis, Itaca)

Gioia senza inizio

Il Signore Gesù riesce a parlare della gioia in un contesto di morte e di opposizione violenta alla sua persona: «Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Molto bello cogliere in Abramo questa capacità di esultanza e di gioia che si fonda sull’accoglienza di un Dio che arriva persino a cambiare il suo nome: «non ti chiamerai più Abràm ma Abraham» (Gn 17,5). La gioia radica sempre in un atteggiamento di disponibilità totale al mistero della vita e a tutte le sue sorprese. La tristezza – come spiegano i santi Padri – è sempre il segno e il frutto di un attaccamento ai proprio parametri e ai propri progetti. Il Signore Gesù svela ai Giudei il mistero del suo mistero dicendo «Prima che Abramo fosse, Io sono» (Gv 8,58) e rivela a ciascuno la via della vita e della gioia: «Se uno osserva la mia parola non vedrà la morte» (Gv 8,51).

Come per Abramo, alle prese con la sua infecondità, così ciascuno di noi rischia di appiattirsi sulle proprie difficoltà perdendo il contatto con un mondo più grande di noi stessi nella consapevolezza che la vita ha delle risorse inesauribili a cui bisogna saper attingere: «La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiati ed estraniate da tutti gli amici di prima. Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita» (41).

Come nell’espereienza di Abramo così pure un quella di Etty il filo d’oro della gioia, che è in grado di attraversare tutta la vita e tutte le situazioni più incomprensibili, è proprio l’irruzione di una presenza che non conosce tramonto né mutamento: «Eccomi, la mia alleanza è con te» (Gn 17, 4). Ciò che fa unità nella vita di Etty è proprio questa presenza di Dio sempre più interiore ed efficace che le permette di non escludere nessun elemento dell’esistenza e di non perdere, al contempo, la sua pace: «Molte persone mi dicono: "Non vogliamo ricordare niente della vita di prima, altrimenti non saremmo in grado di vivere qui". Mentre io posso vivere così bene qui proprio perché ricordo perfettamente ogni cosa di "prima" (per me non è neppure un "prima"), e intanto la vita continua» (66). Se c’è una cosa che ferisce Etty è quella di «aver solo cose tristi da dirti» (104) quando le sue lettere da Westerbork diventano un bollettino di atrocità e di paura, eppure mai questo sentimento conquista interamente il suo cuore.

Etty è stupita di se stessa quando scrive: «Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro… Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa?… Probabilmente è da lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non si inaridisce per l’amarezza che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte» (164).

Per Etty si fa sempre più chiaro e, in certo modo, sempre più imperativo il bisogno di maturare in una fedeltà al mistero della vita e di Dio capaci di andare oltre ogni condizionamento e ogni paura: «essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori» (222). La fedeltà è una risposta generosa a un dono incommensurabile che si è ricevuto e che si riceve continuamente: «La vita rimane una corrente ininterrotta, forse in questi giorni un po’ più lenta e ostacolata, ma continua tuttavia a scorrere» (112). Un simile profondo sentire non può permettere che ci «si abbandoni smodatamente alle proprie tristezze sino all’autodistruzione» (112).

Proprio il terribile e temibile lavoro di scribi e farisei sempre intenti a contare, a contrapporre va ostacolato e combattuto come si fa con le «pulci delle tante piccole preoccupazioni per il futuro che divorano le nostre migliori forze creative» (221). Mentre la tristezza di solito si organizza su tempi assai lunghi e disperanti la gioia non può che fondarsi su attimi gustati fino in fondo e capaci di dare sapore e colore all’intera vita: «si devono fare le che vanno fatte per il resto non ci si deve lasciar contagiare dalle innumerevoli paure e preoccupazioni meschine che sono altrettante mozioni di sfiducia contro Dio» (221). A Etty non sfugge affatto che la tristezza è uno dei vizi capitali: prima ancora di avere a che fare con noi stessi e con il mondo che ci circonda rappresenta, nientemeno, che una "mozione di sfiducia contro Dio" che accuseremmo appunto di non essere "con"!

Per Etty invece si tratta di fare continuamente un atto di fiducia verso Dio e concentrare tutte le forze – soprattutto le migliori come lei sottolinea spesso – sul lavoro che ci compete: «In fondo il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggiore tranquillità, fintanto che si sia in grado di irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato» (221). Era quello che continuamente ripeteva il grande staretz Serafino di Sarov: "Trova la pace e a migliaia troveranno accanto a te la salvezza". Ed era proprio a partire da questa pace, conquistata a caro prezzo, che il padre Serafino poteva rivolgersi a tutti – compresi coloro che lo avevano quasi ucciso di bastonate e agli animali della foresta russa – con questo appellativo: "Mia gioia": «però il prezzo di questo biglietto d’ingresso è alto e pesante, e lo si guadagna risparmiando a lungo, con sangue e lacrime. Ma nessun dolore e sangue sono troppo cari per questo» (130).

Misteriosamente – assai misteriosamente – Etty si ritrova ad essere annoverabile in questo tipo di persone, questa "razza" particolare di uomini e donne come la Madre di Dio aveva spiegato in sogno a Serafino mentre lo guariva nel corpo perché potesse guarire le anime: «e "lavorare a se stessi" non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ciascuno in se stesso …quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra» (127).

Terrore!

Due volti per una medesima testimonianza: Geremia e Gesù, il terrore e la fiducia. Il profeta del conflitto aperto non esista a confessare: «Terrore all’intorno!» (Gr 20,3), mentre il Signore Gesù – Messia scomodo e in-comprensibile – non esita a sfuggire «dalle loro mani» (Gv 10,39). Attorno a Geremia come attorno al Signore Gesù la minaccia si fa sempre più forte: «portarono pietre per lapidarlo» (Gv 10,31). Il terrore è un sentimento terribile per ogni creatura e non solo per gli esseri umani. Esso è legato all’essenza stessa della creaturalità, alla coscienza del proprio limite e alla consapevolezza che altri o altro – dall’esterno – potrebbero attentare alla vita.

Come trasformare il terrore in fiducia? Una domanda e ben più di una domanda che ha attraversato la vita di Etty richiedendole una risposta sempre più adeguata e autentica: «Di nuovo arresti, terrore, campi di concentramento, sequestri di padri sorelle e fratelli. Ci si interroga sul senso della vita, ci si domanda se essa abbia ancora un senso: ma per questo bisogna vedersela esclusivamente con se stessi, con Dio. Forse ogni vita ha il proprio senso, forse ci vuole una vita intera per riuscire a trovarlo» (48).

E questo senso che permette di attraversare la vita e persino il terrore di certi momenti che la caratterizzano, non può che essere trovato in un processo di maturazione forte e autentico. Riferendosi a Klaas Smelik senior – «era anche uno dei giuristi più brillanti in Olanda e i suoi articoli così intelligenti erano formulati alla perfezione» – Etty spiega accuratamente come quest’uomo che «era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui sarebbe potuto essere u perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi». Prova ne è il suo doppio tentativo di suicidio in quelli che furono i «primi giorni della guerra e ora – sopravvissuto ma morto – non aveva mai contatti amichevoli coi suoi compagni, e se questo succedeva agli altri lui li guardava di sottecchi con un’espressione così affamata». Etty non esista a cogliere l’origine di un simile atteggiamento e lo stigmatizza con chiarezza sorprendente: Era paura, tutta paura! Una paura da cui quest’uomo non ha saputo evolvere: «In certi momenti mi faceva una pena terribile. Aveva una bocca così insoddisfatta, o meglio, così infelice: era la bocca di un bambino di tre anni che non è riuscito ad imporsi a sua madre» (210-211).

Il segreto della vittoria sul terrore per Geremia è il poter dire: «poiché a te ho affidato la mia causa» (Gr 20,12) e per il Signore Gesù non è altro che il suo mistero di intimità: «il Padre è in me e io in lui» (Gv 10,38). Non diversamente per Etty la paura e il terrore non possono che vincere, appunto, quando ci isoliamo dal mistero della vita e non evolviamo docili secondo le leggi proprie della natura: «dal mio letto guardavo fuori attraverso la grande finestra aperta. Ed era come se la vita con tutti i suoi segreti mi fosse nuovamente accanto, come se la potessi toccare. Avevo la sensazione di riposare sul suo petto nudo, di sentire il battito regolare e leggero del suo cuore. Ero fra le nude braccia della vita e ci stavo così sicura e protetta». E come se non bastasse così continua: «le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo: così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele, come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso» (114-115).

Solo con questo continuo ritorno al "petto della vita" è possibile sottrarsi alla morse del terrore che consiste – appunto – nel sentirsi preda di qualcuno a cui non si può o non si riesce a sfuggire. Il terrore del sentirsi in trappola è una sentimento tremendo per le creature viventi poiché la trappola è sempre legata all’inganno e l’inganno prova gli essere viventi più della stessa morte. Infatti ogni essere vivente viene al mondo nella fiducia e dover rinunciare alla fiducia, come fondamento della vita, può essere talora più provante della stessa morte certa e imminente.

Non è certo facile andare oltre il muro del terrore anzi è difficilissimo eppure non bisogna mai dimenticare che il terrore non è eterno se non per coloro che se ne sono serviti facendone una modalità del loro essere. Il terrore è capace di rendere ciechi a tutti gli altri aspetti della vita e del senso. Nel terrore si può avvertire o l’istinto ad aggrapparsi a qualcuno o a qualcosa oppure intuire quanto, invece, «ci si debba staccare interiormente» (48) per dare meno presa possibile al terrore.

Per Etty solo la coscienza e la profonda esperienza della presenza intima di Dio può permettere di superare certi momenti in cui tutto sembra remare contro la nostra stessa vita e la nostra pace: «Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d’animo più elevato e pieno di fede. Si può essere stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te c’è qualcosa che non ti abbandonerà mai più» (137).

Vi è poi una nota di rara efficacia psicologica da parte di Etty che non si può sottovalutare. Se da una parte insiste sempre e continuamente su «la nascita di un’autentica autonomia interiore che è un lungo e doloroso processo: è la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli altri, mai. Ancora più importante è il seguito: gli altri sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi» (68). Solo il dimenticare che gli altri sono altrettanto – e talora ancora di più – vulnerabili e feriti di quanto lo siamo noi stessi può farci cedere alla pericolosa velleità di dare loro troppo peso nella nostra vita: anche quando ci stessero letteralmente schiacciando non dobbiamo perdere di vista che sono, in realtà, "insicuri, deboli, indifesi". Solo così potremo essere, eventualmente, schiacciati ma non terrorizzati (cfr. 2Cor 4,9). Non bisogna mai perdere di vista il livello di finzione (68) insito ad ogni tentativo di incutere terrore da parte di una creatura su un’altra – e questo non vale solo fra umani ma anche nei riguardi delle altre specie viventi -!

Il terrore è il mezzo che le creature più impoverite usano per cercare di possedere realtà e persone che mai si concederebbero a loro per amore e volentieri: non è forse la forma negativa del piacere nel cui Giardino Dio pose l’uomo il primo giorno della sua creazione? Per questo al fine di evitare di subirlo o, peggio ancora, di infliggerlo dobbiamo accuratamente curare la radice di questo terribile e temibile male rinunciando sempre di più od ogni brama di possesso: «Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire "oggettivo". Non volevo più possederlo» (33). E se questo vale con la natura vale ancora di più con le persone sempre terrorizzate all’idea di ritrovarsi non più amate: «Oh, lasciar completamente libera una persona che si ama, lasciarla del tutto libera di fare la sua vita, è la cosa più difficile che ci sia» (147). Ma la più bella!

Che facciamo?

Siamo oramai alla fine! Sembra di poter commentare l’evoluzione dei fatti con questa nota di Etty: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare. Per ora ci sono ancora tante piccole aperture, ma anche queste saranno turate tra breve» (153-154). Il gesto di richiamare alla vita l’amico Lazzaro che «era già di quattro giorni» rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso d’ira che pian piano si colma attorno al Signore Gesù: «Che facciamo?» (Gv 11,47).

Il Signore Gesù mette a rischio le belle pietre del santuario, e soprattutto mette a rischio la situazione di coloro che su quelle pietre hanno riposto la loro sicurezza… Gesù ricorda come e quanto la presenza di Dio in mezzo al suo popolo è la vita - «li libererò… li purificherò… sarò il loro Dio» (Ez 37,23) - e allora è meglio "che muoia" (Gv 11,50). La condanna a morte di Gesù – unitamente a quella di Lazzaro – coincide per Giovanni con l’insopportabilità per il Sinedrio di questo segno. Gesù ha allargato troppo gli orizzonti della vita, infonde troppa speranza, ha ravvivato troppo la fede rendendola profonda e autentica e quindi sembra proprio che non ci sia alternativa: «da quel giorno decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). Ma vi è un’altra domanda che attraversa il vangelo e che suona così: «Non verrà egli alla festa?» (Gv 11,56).

Quest’ultima è la domanda più adatta al nostro cuore mentre ci prepariamo ad entrare nel mistero pasquale di Cristo Signore e perché non sia solo una semplice forma di curiosità è importante che si faccia posto nel nostro cuore alla sua presenza, alla sua voce, alla sua volontà. Mai come nei prossimi giorni della Settimana Santa «ci troviamo di fronte ad interrogativi più profondi…» (131). La celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo Signore ci mette di fronte al grande interrogativo del mistero della vita che si attua attraverso la morte: «Però come è difficile morire, eh» (131).

Il momento del Getsemani ci fa contemplare la stessa fatica del Signore Gesù ad acconsentire al tipo di morte a cui ormai sa di andare incontro: una morte avvolta da profondo odio, la peggiore. Si potrebbe che per Etty il lungo tempo trascorso a Westerbork sia stato come un lungo Getsemani in cui la sua anima ha dovuto confrontarsi con il mistero di un odio crescente senza lasciare che questo odio – secondo l’esempio del Signore Gesù – penetrasse minimamente nel suo cuore sempre più docile e abbandonato: «Non devo volere le cose, devo lasciare che le cose si compiano in me ed è proprio ciò che sto facendo. Che sia fatta non la mia ma la tua volontà» (230).

Sarebbe un errore voler fare di Etty una cristiana nel senso confessionale del termine ma sarebbe ugualmente irrispettoso non cogliere nel suo «lento processo» (229) interiore una profonda compatibilità cristologica. Il Cristo compare poco negli scritti di Etty eppure la sua figura domina il tramonto a questa vita di Spier che tra le ultime cose condivise con Etty ha proprio un sogno: «ho sognato di essere battezzato da Cristo»(198). Di questo "Cristo", misteriosamente ereditato tra i beni più preziosi lasciatigli dal suo maestro, Etty si sentirà responsabile fino a pregare: «Mio Dio, mi dai dei tesori da custodire, fa’ che li custodisca e li amministri bene» (232). Si deve resistere ad ogni tentativo o tentazione di "cristianizzare" l’esperienza di Etty Hillesum! La sua è un’esperienza unica e personale impossibile da incastonare in una tradizione ben delimitata e delimitante anche se la stessa Etty ritiene il "cristianesimo" come forma privilegiata di umanesimo in relazione a un punto preciso e fondamentale: il superamento dell’inimicizia attraverso il perdono.

In una discussione con Klaas, Etty parte da un principio di base: «non si combina niente con l’odio» (210) e aggiunge: «abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi» (211). E come se non bastasse siamo come introdotti nel cuore del mistero del Crocifisso che perdona e consola perfino nel momento della cruenta morte: «E non ho neppure finito quando dico che anche fra noi esistono carnefici e persone malvagie. In fondo io non credo affatto nelle cosiddette "persone malvagie". Vorrei raggiungere le paure di quell’uomo – il noto giurista che aveva cercato di ammazzarsi – e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori» (212).

La discussione con Klaas si fa fortissima quando Etty conclude: «ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale» (212). Ecco la risposta alla domanda che si pongono i membri del Sinedrio: «Che facciamo?» (Gv 11, 47). Ogni volta che questa domanda attraversa il nostro cuore dobbiamo ri-centrare l’attenzione su noi stessi senza avere bisogno non solo di eliminare l’altro ma imparando a non avere necessità di eliminare nulla dell’altro. E Klaas risponde un po’ sconcertato: «ma questo sarebbe ancora cristianesimo!» (212) ed Etty divertita reagisce «con molta flemma: certo, cristianesimo – e perché poi no?» (212).

Si tratta di entrare in una logica del tutto nuova e assolutamente conforme a quella che guidò i passi del Signore Gesù verso Gerusalemme. La domanda riportata dal vangelo di Giovanni diventa per noi – in queste ore – un desiderio grandissimo e crescere: «Non verrà egli alla festa?» (Gv 11, 56). Egli viene ogni volta in cui facciamo posto nel nostro cuore alla logica della sua croce amorosa fonte di vita: «A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale» (45). Si potrebbe quasi dire che la nostra vita non sarebbe servita a niente.

Quando si entra invece – a pié pari – nella logica del Regno di Dio allora tutto e tutti assumono ai nostri occhi una preziosità intoccabile fino a poter parlare del luogo della propria morti-ficazione con accento innamorato: «Quella baracca talvolta al chiaro di luna, fatta d’argento e di eternità: come un giocattolino sfuggito alla mano distratta di Dio» (212). La croce assume per Etty i contorni di «una baracca di legno sotto il cielo» (213), per ciascuno di noi corrisponderà a qualcosa di unico e forse di segreto a condizione comunque che sia il luogo della celebrazione solenne del perdono sull’esempio del Cristo Crocifisso (Lc 23,34). Alla domanda "Che facciamo", c’è una sola risposta cristologicamente adeguata: «Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero: allora si conoscono tute le qualità degli uomini, buone e cattive. E se vogliamo perdonare agli altri, dobbiamo prima perdonare a noi stessi e ai nostri difetti. E’ forse la cosa più difficile, come constato così spesso negli altri e un tempo anche in me, ora non più: sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri errori. Il che significa anzitutto saperli generosamente accettare» (207)

Non abbiamo niente altro da fare!

Si comincia con l’invadenza

Per aiutarci a comprendere il grande dramma che il Signore Gesù sta per vivere – quello del tradimento – la liturgia pone il tremendo atto di Giuda in assoluto contrasto con il tenerissimo gesto di Maria di Betania. Questa donna – ben familiare a Gesù – "sei giorni prima della Pasqua" (Gv 12,1) intuisce nel suo Signore - di cui conosce l’affetto per lei e non solo per lei - qualcosa di imminente e di terribile. Forte della sua intuizione Maria esterna ciò che sta per accadere con un gesto di sconfinato e pervasivo amore che si incontra con la docile accoglienza di Gesù ma si scontra con l’invadenza di Giuda: "Perché?…" (Gv 12,5).

Il commento apparentemente sensato di Giuda in realtà rompe l’incanto di quell’amore che si sta manifestando come abbraccio totale che parte dalla punta dei piedi di Gesù e arriva alla cima dei capelli di Maria: «cosparse i piedi di Gesù e li asciugò coi suoi capelli» (Gv 12,3). Giuda tradisce questo mistero d’amore in atto il cui profumo "riempì tutta la casa"… ma non il cuore di Giuda "che era ladro" (Gv 12,6)… e la radice di questo suo difetto sta nel suo essere invadente: impudicamente viola l’intimità altrui e vuole misurare il cuore degli altri.

Maria di Betania apre l’ultimo scorcio di cammino verso Pasqua. Con lei e in lei la Chiesa pone la giusta cornice ai fatti così duri che stanno per accadere: nonostante le apparenze – nonostante la volontà degli uomini – il vero scenario della Passione è quello di un immensa tenerezza e di una intramontabile amicizia. Etty direbbe con una punta di sgomento: «Eh sì, noi donne, noi stupide, idiote, illogiche donne, noi cerchiamo il Paradiso e l’Assoluto. E col mio cervello, col mio eccellente cervello, io so bene che l’assoluto non esiste,che ogni cosa è relativa e infinitamente sfumata e in perpetuo movimento, e proprio per questo è così interessante e seducente ma anche così dolorosa. Noi donne vogliamo eternarci nell’uomo» (63).

Ma forse questo sgomento non può che trasformarsi in semplice stupore e imitazione contemplando il gesto di Maria di Betania, un gesto che non cerca solo di "eternarsi nell’uomo" ma, in realtà, di eternare l’umanità aldilà di ogni minaccia di distruzione così come il Signore stesso comprende, accoglie, ama questo gesto: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura» (Gv 12, 7). La domanda che Etty si poneva: «Forse pretendo un amore assoluto proprio perché io non ne sono capace?» (63), trova una risposta nel gesto silenzioso di Maria che, in realtà, starà - impercettibilmente ma luminosamente - sullo sfondo dorato della sua ultima parola nel suo Diario: «si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite» (239). Un ultima parola che cerca di contrastare il maligno e invadente spirito del Giuda sempre serpeggiante e che suonerebbe così davanti ad ogni gesto che vada aldilà delle necessità quotidiane: «ma tanto che cosa ce ne facciamo?». Cosa ce ne facciamo di un bel gesto come questo? Cosa ce ne facciamo di una poesia, di un’opera d’arte, di una nuvola di note? Cosa ce ne facciamo? E la risposta di Etty e chiara: «Ãˆ un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri» (239).

Giuda che apparentemente vuole risparmiare in realtà non fa che impoverire il mondo con il suo cuore miope e tapino. Maria invece arricchisce la storia con un gesto la cui portata diventa eterna e incommensurabile: «In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» (Mt 26,13). Veramente in questa donna piegata fino a terra si nasconde e si rivela al contempo quello che fu il grande desiderio di Etty via via che le tenebre si facevano sempre più fitte: essere «il cuore pensante della baracca» (196). Maria di Betania fu come il cuore pensante della "baracca di Gesù" e questo suo cuore intuì quel «gran bisogno di carezze e di tenerezza» (66) di cui questa donna per prima ha potuto ricevere il dono proprio da quel Gesù sicuramente capace – ben più di qualunque uomo di questa terra – «di trasmettere un calore e una tenerezza che non nascono dal corpo, ma dall’anima» (130).

Ciò che avviene nella casa di Betania dove «gli fecero una cena» (Gv 12,2) è lo stupendo incontro tra l’animus di Gesù e l’anima di Maria in cui la forza dell’intesa profonda si manifesta nella forma di un gesto comprensibilissimo solo a chi può com-prendere il linguaggio proprio dell’amore: per chi non lo comprende tutto ciò che avverrà non sarà che scandalo e, per lo stesso Giuda, semplice motivo di rovina. Una delle caratteristiche di questo "linguaggio nuovo" - in cui già si pratica quel «comandamento nuovo» (Gv 13,34) che sarà lasciato ai discepoli tra non molto da un Gesù scandalosamente piegato ai loro piedi proprio come questa donna - è proprio l’intuizione, la capacità di anticipare (238).

Ma per anticipare bisogna essere in grado di superare ogni condizionamento e andare oltre ogni convenzione: «Quanto siamo pieni di convenzioni, di preconcetti sui comportamenti da tenere in determinante situazioni. A volte, inaspettatamente, qualcuno si inginocchia in un angolino di me stessa» (200). Ma questa libertà non può che scandalizzare Giuda proprio mentre nel suo cuore si fa strada la notte del tradimento di chi non coglie più un futuro nell’amore del e per il Signore Gesù. L’amore sempre anticipa i gesti più adatti all’amore! Ma per anticipare bisogna «amare e hineinhorchen [ascoltare dentro] se stessi, gli altri, il contesto di questa vita… In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltare dentro me stessa, gli altri, Dio» (201).

E se il nome proprio di questo balsamo e l’essenza unica di questo profumo fossero proprio la capacità di ascoltare da dentro e di anticipare con i propri gesti i momenti più delicati della vita dell’altro quasi per renderli più dolcemente vivibili? Se tutta la nostra vita non fosse altro che stare ai piedi della storia degli uomini – loro che sono il corpo di Cristo – per preparare ogni passo perché possano percorrere agevolmente e dolcemente tutta la strada che li attende fino al compimento? Non potremmo in questo caso che sentire la dolce parola del Signore Gesù: «Lasciala fare…»: «Sai, io ho tanti amici. Alcuni vengono da me con le loro difficoltà spirituali e così dobbiamo parlare a lungo… Con te è un’altra cosa: tu esisti nella mia vita e sarebbe inconcepibile il contrario, io discorro spesso con te… io continuo a pensarti con il forte e buon sentimento di sempre….Le cose buone e umane che abbiamo condiviso sono vive nei miei sentimenti e sono sempre reali» (52).

Sia la nostra preghiera: «Signore lasciami fare!». Si può tradire solo se si pensa di possedere, chi non possiede non potrà mai tradire perché mai potrà invadere il segreto dell’altro ma solo ungerlo per conservarlo ben oltre ogni possibile morte. Ogni giorno – oggi anche a noi – è chiesto di essere meno traditori e più lenitori: «Non è meraviglioso? Non oserei dirlo a nessuno con così tante parole» (179), «sì noi tutti vogliamo eternarci in quell’uomo - in Gesù -… sì vorremmo tutti essere stupide, idiote, illogiche donne» (63).

Deciditi

Da un’intimità all’altra: da Betania al Cenacolo, dal gesto tenerissimo di piedi accarezzati con il più prezioso dei profumi al gesto intimissimo del discepolo "che Gesù amava" (13,23): solo lui può comprendere e può osare la domanda "reclinandosi sul petto di Gesù" (Gv 13,25). Nel Cenacolo il cuore del Signore Gesù effonde tutta la sua tenerezza, la sua vulnerabilità e il suo dolore: «Mentre era a mensa si commosse profondamente… uno di voi mi tradirà… prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte» (Gv 13,21. 38). Non basta essere discepoli… in certi momenti è più importante essere amici, essere oggetto di un amore unico e indicibile. Solo l’amore del discepolo che conosce la via del cuore del Signore Gesù potrà rimanere fedele sino alla fine.

Giuda e Pietro – ciascuno di noi – sono ancora discepoli troppo "esteriori" per essere in grado di sopportare il peso dell’abisso del cuore del Maestro – uno "tenendo la cassa" (Gv 13,29) e l’altro tutto intento al momento storico che sta vivendo "perché non posso seguirti ora?" (Gv 13,37) – pensano di fare o poter fare qualcosa per il Signore ma non ne hanno ancora sondato il mistero fino a farsene travolgere. Solo la mente posta sul cuore è in grado di penetrare il mistero fino a sopportare il fallimento della Croce. Di certo Etty rischia di far parte proprio di quell’"aristocrazia" su cui l’umanità si regge - come spiegava Jung – e i cui due archetipi sono proprio, nella tradizione spirituale, Maria e il discepolo amato: per costoro possono essere ben appropriate alcune frasi di Etty: «anch’io credo, so che esiste un’altra vita. Credo persino che certe persone siano in grado di vederla e di viverla anticipatamente. Quello è un mondo in cui gli eterni sussurri mistici si sono fatti viva realtà, e in cui gli oggetti e le parole comuni hanno acquistato un significato più alto» (218).

Questo tipo di persone sono capaci di andare aldilà di ciò che si vede per intravedere e sentire ciò che sta al fondo degli avvenimenti proprio come «artisti sensibili che possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profonde e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrire appoggio e protezione agli uomini smarriti?» (238). Sta di fatto che quando ritroveremo Simon Pietro dopo la Pasqua lo troveremo sempre all’ombra di questo discepolo amato il quale intuisce di più non perché ama di più ma perché si è fatto amare di più dal Maestro. Il discepolo amato assomiglia così tanto a quello «spino delle dune» (237) che Etty chiama caro quasi alla fine del suo Diario quando cita- tra l’altro una frase di F. Bierenbach – che ben si addice alla situazione del Cenacolo: «Ci sono persone che mi porto dentro come boccioli e che lascio sbocciare. Ce ne sono altre che mi porto dentro come ulcere, finché si aprono e suppurano» (238). Questa frase nella situazione del Cenacolo facilmente si sposa con la frase del Signore Gesù: "Quello che devi fare fallo al più presto" (Gv 13,27). A un certo punto è necessario decidersi e il Signore Gesù ci obbliga a prendere la nostra decisione e manifestare fino in fondo il nostro cuore per quello che è… semplicemente per quello che è! E l’amato si posa sul cuore dell’Amore come spino che ferisce teneramente ma profondamente: "Signore chi è?" (Gv 13,25).

Ci sono momenti – come quello vissuto da Giuda e da Simon Pietro e dal discepolo amato – in cui si coglie in un solo attimo il frutto di tutta una vita, in cui si assapora il gusto di tutta un’impostazione di vita: il tradimento, il rinnegamento o un contatto intimo e profondo esattamente al livello del cuore anzi – come direbbe Origene – precisamente «all’apice del cuore». Ma a questo luogo elevato, in questa «sala al piano superiore già pronta» (Mc 14,15.Lc 22,12) non si arriva certo per caso: «tutta la mia vita è un grande colloquio con te, mio Dio. Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei, ma mi sento già fin troppo al sicuro in te, mio Dio. A volte vorrei incidere delle piccole massime e storie appassionate, ma mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose. E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora» (122-123).

Non doveva essere molto diverso il sentimento di Maria durante quella cena preparata a Betania. Non doveva essere molto diverso il profondo sentire del discepolo amato mentre gli altri si agitano: «ondate del mio cuore più lunghe, mosse e insieme tranquille». In perfetta sintonia con i pacifici immensi fondali del cuore di Cristo sul cui abisso l’amato non ha timore di sporgersi quasi per lasciarsene assorbire completamente. Tutta la vita di Etty è stata come un affacciarsi sempre più coraggioso e spericolato sull’abisso di quell’Amore che si manifestò in modo del tutto unico e incomparabile nel Cenacolo. Eppure spiritualmente ogni briciolo d’amore e ogni frammento di carità disperso nell’umanità è stato attinto e ricapitolato in quel momento di grazia: «Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi – forse era la più grande paura di Giuda e di Simon Pietro – a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò "Dio", e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, "lavorando a noi stessi", allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze» (220).

Solo questa remota disponibilità ad inabissarsi totalmente nel mistero dell’Altro apre la possibilità a quell’incontro di anime che si consumò tra Gesù e il discepolo che si reclina così naturalmente sul suo petto come un bimbo/amante come un amante/bimbo fino a poter dire: "mi ha riposto nella sua faretra" (Is 49, 2). Del resto per Etty «l’età dell’anima è diversa da quella registrata all’anagrafe…si può nascere anche con un’anima che ne ha mille esistono ragazzini dodicenni in cui si sente un’anima simile». E a scanso di ogni equivoco Etty chiarisce due cose importanti. La prima: «penso che un Orientale "viva" la propria anima molto di più mentre l’occidentale non sa bene che farsene e se ne vergogna come di una cosa immorale». La seconda: «L’anima è diversa da ciò che noi chiamiamo "sentimento". Ci sono persone che hanno molto "sentimento" ma poca anima» (236).

L’anima a differenza del sentimento è la realtà che meno ci appartiene e che dobbiamo sempre di più imparare a scoprire fino ad affidarle il destino e la direzione di tutta la nostra vita profonda ed essenziale. Il sentimento dovrà imparare a farsi portavoce dell’anima per non smarrire se stesso nel dedalo di un latente egoismo. L’anima conduce la persona verso orizzonti sempre più ampi come una farfalla che si libra di fiore in fiore: «e mentre me ne sto coricata qui, non viaggio forse per il mondo? In me scorrono i larghi fiumi e s’innalzano le grandi montagne. Dietro gli arbusti della mia irrequietezza e dei miei smarrimenti si stendono le vaste pianure della mia calma e del mio abbandono. Tutti i paesaggi sono in me, ho tanto posto ora, in me c’è la terra e c’è anche il cielo» (234). E tutta questa ampiezza è misteriosamente racchiusa in quel lembo di terra che si stende tra la mia fronte e il cuore del Signore Gesù: guidati e attratti dai sussurri mistici di questo amore «devo attingere forza e amore per chiunque ne abbia bisogno» (155).

Siamo all’altezza della nostra anima? O siamo ancora stupidamente preda dei nostri sentimenti vagabondi… "ed era notte!" (Gv 13,30). Ben altra è la notte a cui sei invitata dall’Amore, per ben altra notte fosti chiamato fin "dal seno materno" (Is 49,1), deciditi!

Il giorno più buio!

Non c’è giorno più triste di questo in cui ricordiamo la "vendita" del nostro Signore e Maestro da parte di uno dei suoi, di uno di noi. Quanto profonda dovette essere la notte interiore in cui l’apostolo sprofondò quando «andò dai sommi sacerdoti e disse: "Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?"» (Mt 26,15). Per vendere qualcuno, per tradire qualcuno è necessario sentire un qualche diritto sulla persona che si tradisce…! Il tradimento tradisce sempre un attaccamento morboso e possessivo che facilmente si traduce in una frustrazione tale da esigere l’eliminazione. Con la loro autorità i sommi sacerdoti quantificano a apparentemente placano l’angoscia di Giuda: «gli fissarono trenta monete d’argento» (Mt 26,15)… il prezzo dello schiavo (Es 21,32) non certo il prezzo di un maschio libero – che vale 50 sicli - «invece per una donna, la tua stima sarà di trenta sicli» (Lv 27,4). Finalmente Giuda – ossessionata dal bisogno di stimare e valutare "trecento denari…" (Mc 14,5) – ha trovato qualcuno che gli ha "valutato" il suo Gesù… e lui stesso – finalmente è chiaro – vale di più: il tradimento nasce sempre dal complesso di inferiorità per superare la cui disperazione non rimane che s-valutare l’altro per sopravvalutare se stessi: «sarebbe meglio per quell’uomo che non fosse mai nato» (Mt 26,4).

In un passaggio molto duro del suo Diario Etty scrive così riferendosi al commento di alcuni circa la prematura morte di Spier: «Dicono che sei morto troppo presto. Bene allora ci sarà un libro di psicologia in meno ma è entrato un po’ più di amore in questo mondo». E aggiunge citando lo stesso Spier: «Questo è un peccato contro lo spirito, e si vendicherà. Ogni peccato contro lo spirito si vendica. Credo anche che ogni "peccato" contro l’amore per gli altri si vendica, nella persona stessa come nel mondo circostante» (220). L’insensibilità di Giuda al gesto di Maria di Betania e il suo rimanere cieco davanti al gesto del discepolo amato non fanno che rilevare l’assoluta chiusura di quest’uomo al linguaggio dell’amore, alla relazione vera con gli altri e quindi chiuso alla stessa relazione di crescita offertagli dal Maestro. Per questo a Giuda non resta che andare dai sommi sacerdoti…: «Ã¨ dunque così che vivono gli uomini: usano gli altri per farsi convincere di qualcosa in cui in fondo non credono; cercano negli altri uno strumento per coprire la propria voce interiore. Se ascoltassimo solo un po’ di più questa voce, se provassimo solo a farne risuonare una dentro di noi, quanto meno caos ci sarebbe» (226-227)… quanto dolore in meno!

Diverso è l’atteggiamento di Etty in perenne crescita verso un difficile ascolto di questa voce interiore a cui tutto e tutti in certo modo sembrano condurla: «Non mi ha forse sgombrato la strada che conduce direttamente a Dio, dopo avermela aperta con le sue imperfette mani umane?. Perché la cosa più importante è e rimane scoprire in me stessa che ero in grado di aprirmi completamente con qualcuno, di legarmi e di condividere con lui le necessità del momento». Per Etty la cosa più importante è che si aprano nella vita «delle porticine sul mondo, delle porticine che avevo sempre creduto sbarrate» (227). L’iniziazione alla capacità di amare non fa che lanciare Etty in una fedeltà sempre più allargata e inglobante fino a poter dire: «Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito» (172).

Ma questo amore per tutti, questo amore infinito non ha niente a che vedere con l’amore "clericale" che rischia in realtà di essere semplicemente amore per nessuno e ben limitato e limitante. Giuda cerca rifugio per la sua angoscia tra le mura del tempio di pietra e tra le pieghe dei rassicuranti abiti "sacerdotali" che gli dicono ciò che vuole sentirsi dire e nulla di più. Ma la vita non può essere colta in poche formule… la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata in "trenta monte" (Mt 26,15). Giuda fa fatica ad entrare nel mondo di Dio così vasto per cui preferisce ritornare ai confini e ai limiti già noti: «Questo voler ritornare al buio, al grembo materno, alle collettivo; invece di diventare autonoma, trovare la mia forma, strapparla al caos» (69).

Giuda non consegna Gesù, in realtà ri-consegna se stesso al caos rassicurante dell’inconscio collettivo – il "religioso" è il più negativo tra i tanti possibili – da cui la discepolanza avrebbe voluto sottrarlo per condurlo alla maturità del tratto e del gesto assolutamente personali e responsabili. Ma rimanere continuamente a contatto con la propria legge interiore non è facile: «l’unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa. E io lo dico ora con tutta umiltà e riconoscenza e sincerità» (87). Ma da dove può nascere questa sicurezza e fiducia incrollabili se non in una fondamentale esperienza di essere amati: «Le cose veramente primordiali in me sono i sentimenti umani, una sorta di amore e di compassione elementari che provo per le persone per tutte le persone… mi sembra di aver già amato, o di essere già stata amata abbastanza. Mi sento già molto vecchia» (65).

Forse ciò che mancò a Giuda fu proprio quest’esperienza di fondo! La mancanza di un’autentica esperienza di intimità può facilmente rendere traditori, in caso contrario la fiducia non può che sempre avere l’ultima parola in qualunque circostanza e a qualunque prezzo come lo fu per il Signore Gesù – l’Amato e il Diletto – sulla Croce! Per Etty questa esperienza di chiarezza e pace in me stessa è frutto di quello che chiama sfondo:«l’amico …che non ha segreti per me e a volte può ridiventare segretissimo» (74) e che le rende impossibile acconsentire a qualunque forma di odio che sarebbe come «una malattia dell’anima. Odiare non è nel mio carattere. Se, in questo periodo, io arrivassi veramente ad odiare, sarei ferita nella mia anima e dovrei cercare di guarire al più presto possibile» (30). Ma ad Etty non sfugge il segreto della radice più remota di ogni forma di "odio" che è il possesso che si può nascondere persino nel suo innato bisogno di scrivere: «Credo di capire anche questo. È un altro modo di "possedere", di attirare le cose a sé con parole e immagini… e adesso, improvvisamente, questo atteggiamento che per ora chiamo "possessivo" è cessato. Mille catene sono state spezzate» (34-35).

Una piccola – flebilissima – luce forse potrà illuminare anche il terribile e scurissimo giorno del tradimento: il desiderio più forte della notte di essere raggiunti dal nostro Maestro e Signore persino oltre il nostro tradire l’amore. Egli, il Signore, ancora e sempre ripete: «io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro… Affrontiamoci» (Is 50. 5.8) ma a viso aperto ossia senza bisogno di tradire o di nascondere la nostra frustrazione nelle cose più intime: non è mai troppo tardi per imparare a farsi accarezzare da uno sguardo che "tradisce" l’amore del cuore: «eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce… a ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non possiamo soccombere» (87).

ho fame!

Entrare nel Mistero pasquale significa - attraverso la forza trasformante dei riti - farsi carico dei nostri bisogni più fondamentali e, al contempo, dei bisogni dei nostri fratelli e sorelle in umanità. Quasi come ultima parola, come si è già avuto modo di ricordare, Etty pone come testamento della sua vita una parola non dissimile da quella del Signore Gesù: «Ho spezzato il mio corpo come fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo» (238). Ma cosa potrebbe raccontare un pezzo di pane di se stesso se non il mistero della più profonda condivisione fino all’assimilazione: «quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa?»(238). Mentre l’itinerario spirituale di Etty procedeva con forza verso il suo compimento la sua vita è divenuta misteriosamente sempre più una risposta ai bisogni primari di coloro che gli vivevano accanto in tempo di assoluta minaccia.

Eppure questa risposta di assoluta condivisione e di dono della propria vita, che fu quella di Etty, andò sempre di pari passo con la corrispondenza ancora più profonda alla sua fame interiore di senso e di presenza di un Dio sempre più nitidamente avvertito. Di questo testimonia l’ultimo biglietto lanciato da un finestrino del treno che la porterà assieme ai suoi cari verso Auscwitz: «apro a caso la Bibbia e trovo questo: il Signore è il mio alto ricetto. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci» (149).

Etty ci lascia un parola testamentaria alla fine del suo Diario e una sorta di autoscatto a conclusione delle sue Lettere. La possiamo contemplare tutta disponibile a farsi mangiare come un pane lungamente preparato "con azzimi di sincerità e verità" (1Cor 5, 8) come pure ci è dato di scorgerla alla fine proprio nella doppia luce tipica del Cenacolo: completamente sicura nel suo alto ricetto della misteriosa «sala al piano superiore della casa» (Mc 14,15) e contemporaneamente seduta nel mezzo dei suoi fratelli e sorelle "condotti al macello" (Is 53,7).

Il Giovedì santo è il grande portale di ingresso del Mistero Pasquale ed è caratterizzato dal cibo, dal pane, dall’agnello, da quel "mentre cenavano" (Gv 13,2) in cui ogni parola e ogni gesto assume una peso e un significato così sacramentale che siamo chiamati a perpetuare nella nostra vita in obbedienza a quella parola: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,14). Ma un obbedienza adeguata al comandamento del Signore Gesù sarebbe impossibile fuori da un contesto di intimità e di crescita nella comunione con il suo cuore, con la sua logica, con il suo infinito amore. Se da una parte e in tutta piena verità si potrebbe dire che le parole del Signore Gesù «anche le più semplici, sembrano più impressionanti, significative, vorrei quasi dire più "cariche" che se le dicesse un altro… perché le cose in lui sgorgano da sorgenti più profonde, più vive, e anche più profondamente umane» (95) dall’altra bisognerebbe poter sperare con tutto il cuore che il nostro camminare con lui – anche attraverso i giorni di quest’ultima quaresima – ci abbia a nostra volta "maturati e inteneriti" (105) come è capace di fare ogni relazione tra persone che sia degna del nome di "umana".

Lo spazio del Cenacolo e "l’atmosfera che emana" (94) dal Signore Gesù che si offre in cibo e lava i piedi dei suoi amici con tenerezza materna è il massimo di umanità che si possa sognare di respirare su questa terra. Se venendo nel mondo ogni creatura impara a riconoscere l’amore a partire dal cibo e dalla cosmesi del corpo allora Gesù è il volto più amabile che si possa immaginare. Possiamo dire con tutto noi stessi e senza vergogna: "Ho fame!". Il Signore ci risponde dicendo «Questo è il mio corpo che è per voi» (1Cor 11,24): mentre Mosé trasmette a nome di Dio il "modo" (Es 12,11) in cui l’agnello deve essere mangiato, il Signore Gesù ci indica il modo in cui dobbiamo lasciarci mangiare: «Se dunque, io, il Signore e il Maestro…» (Gv 13,14) non resta che "date voi stessi da mangiare" (Mc 6,37).

Davanti a questa esigenza dell’evangelo anche noi potremmo dire la frase che viene riferita a Etty da una sua amica: «Dio mi ha messo in una classe superiore, i banchi sono ancora troppo grandi» (216). Forse non fu molto diversa la sensazione provata dai discepoli davanti al gesto e al comando del loro Signore che stava ai loro piedi già pronto a farsi mettere sotto i piedi di tutti! Ma questo metterci "in una classe superiore" non è forse ancora un atto di grande fiducia in noi da parte del Signore: «sì, i banchi sono ancora un po’ troppo grandi, ogni tanto è un po’ difficile» (216) ma non possiamo nascondere quanto siamo onorati dalla fiducia che Dio ripone in noi, in ciascuno di noi per renderlo presente in mezzo all’umanità sempre più affamata e smarrita.

Con grande sorpresa ci tocca leggere una frase di Etty assai strana: «Non so se potrò essere un’amica per gli altri. E se non potrò esserlo perché non è nel mio carattere, bisogna che affronti anche questo. In ogni caso non devi mai illuderti. Devi aver misura. E tu sola puoi essere misura a te stessa». Questo dubbio di Etty ci conforta in quelli che possono essere i nostri stessi dubbi circa la capacità di amare e di farci prossimo per i nostri fratelli. Anche noi sperimentiamo a livello relazionale ciò che lei stessa dovette attraversare come pasqua quotidiana in cui immolare l’amore di se per trasformarlo in amore per l’altro: «Ãˆ come se ogni giorno io sia scaraventata in un gran crogiuolo e ogni giorno io riesca ad uscirne» (75).

Il Signore Gesù ci lascia in eredità il suo infinito amore che continuamente possiamo contemplare nell’Eucarestia che rappresenta come quell’oceano in cui giacciono immensi tesori ancora invisibili: «Ãˆ già successo che galeoni carichi di tesori naufragassero nell’oceano. L’umanità ha sempre provato a ripescare questi tesori sommersi. Nel mio cuore sono già naufragati tanti galeoni e per tutta la vita cercherò di riportare alla superficie una parte dei tesori che giacciono sul fondo» (216). Cosa potremmo chiedere alla luna pasquale - che risplende nel suo pieno fulgore - se non darci un piccolo barlume verso questo «fondo meravigliosamente immerso nella luce confortante della luna in cui tutto è di una solennità e di una pace che mi rendono muto e serio» come scriveva l’amico all’amica (214). È tempo di donarci, è tempo di spezzarci, è tempo di amare.

…ho sete!

Dall’alto della croce il Signore Gesù non esita ad esprimere il suo ultimo desiderio: "Ho sete" (Gv 19,28). È stupendo ammirare il Signore Gesù che non rinuncia fino all’ultimo né alla sua divina regalità – "io sono re" (Gv 19,37) – né alla sua vulnerabilità che lo rende bisognoso di scambio e di relazione con l’esterno per vivere e morire: dichiarazione solenne – ben più del cartiglio composto da Pilato – che fa di Dio un assetato di umanità, un perenne assetato. E quando si raggiunge un livello così raffinato nella propria umanizzazione c’è solo un rischio, uno solo: «il mio unico rischio è che il mio cuore si spezzi per l’amore che provo» (175).

Alla fine di questo lungo esodo ci ritroviamo sotto la Croce, ci ritroviamo sotto ogni croce e come Etty non possiamo che sentirci attratti da ogni «pezzetto di terra in mezzo alla brughiera in cui sono scaraventati tanti destini umani» (21). E proprio sotto la Croce possiamo assaporare il frutto più dolce del Paradiso: «Donna ecco tuo figlio… ecco la tua madre» (Gv 19,26-27). Ecco la vera (Gv1,39) in cui il Maestro ci svela il suo nascondiglio nella "cella del vino" (Ct 2,4) a lungo maturato: la casa dove abita il Maestro è la tenerezza dell’amore divinamente connaturale di una madre per un figlio e di un figlio per la madre. Sotto la croce, sotto ogni umana crocifissione non possiamo che avere il cuore della Madre e dell’Amato che ritroviamo nello stesso atteggiamento di Etty sempre più confrontata con l’assurdità del dolore: «Certi mi dicono: hai dei nervi d’acciaio. Non credo di avere dei nervi d’acciaio, credo anzi di avere nervi abbastanza sensibili, però sono in grado di "resistere". Ho il coraggio di guardare in faccia ogni dolore. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini» (233).

Non ci risulta difficile pensare al Signore Crocifisso che proprio mentre "tutto è compiuto" (Gv 19,30) osando dichiarare la sua sete di tenerezza ne inonda – ancora una volta – coloro che sono sotto il suo patibolo e non solo: voglio tanto bene agli uomini. Ed Etty ci svela quasi il significato di questo atteggiamento completamente nuovo: «Non provavo mai amarezza per quel che veniva fatto loro, sempre invece amore per come degli uomini fossero capaci di sopportare il dolore» (233). Un segno per discernere se siamo o meno sotto la Croce giusta – quella del Signore Gesù – sarà proprio questa assenza di amarezza, questa capacità di non essere "scandalizzati" dal dolore ma affinati e raffinati nella conoscenza degli uomini e dell’umanità sempre più amata, meglio amata.

Ma come affrontare il mistero del dolore se non con un atteggiamento di accresciuta e sempre crescente interiorità: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più "raccolta", concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa celle della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande, a anche un fatto sempre più oggettivo» (111). Sembra che Etty sia proprio entro i confini di questa interiorità sempre più profonda che, da una parte, si sente capace di raccogliere tutte le lacrime e le paure e dall’altra – proprio come in una sorta di alambicco interiore in cui mai il fuoco della trasmutazione si spegne né si allenta – porta a compimento la sua personale trasformazione e sublimazione per cui la sua anima si tempra senza assolutamente indurirsi: «Credo di diventare ogni giorno più temprata, a parte quell’indisciplinata vescica, ma indurita non lo sarò mai» (191) E subito dopo aggiunge: «posso imparare molto dallo spettacolo offerto dalla mia anima… è una vita che si svolge interiormente e lo scenario esteriore ha sempre meno importanza. "Temprato": distinguerlo da "indurito"» (192).

Sulla croce il Signore Gesù – già morto – conserva un cuore in cui non c’è alcuna traccia di indurimento anzi al tocco della "lancia" (Gv 19,34) si effonde ancora come casa ed eterna sorgente di tenerezza dopo aver dichiarato tutta la sua sete. Dio ha talmente sete di noi in Gesù che possiamo darci a lui per quel che siamo – in tutta la nostra mescolanza e putrescenza – egli comunque ci assorbe e trasforma quello che siamo in purissimi "sangue ad acqua" (Gv 19,34). Sempre la croce ci fa sentire un po’ più soli ma ciò che dalla Croce riceviamo in eredità non può che farci sentire più responsabili di una "testimonianza" (Gv 19,35) assolutamente necessaria. Potremmo riprendere alcune parole di Etty per rivolgerle quasi come risposta del nostro cuore al Signore Crocifisso: «Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me, e ora che te ne sei andato la mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere» (196).

Al pari della madre, come le donne, insieme all’Amato la Croce – in qualunque forma si presenti alla nostra vita e alla storia del mondo – rappresenta il tempo e il luogo della verità dell’Amore: «Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima» (161).

Un pezzetto intatto della propria anima è il dono del Crocifisso per ciascuno di noi che – come si fa nella liturgia dell’Epitaffio in Oriente questa sera – il Signore nella sua morte ci consegna come un fiore pieno di vita e di speranza. Guardiamo non solo il Crocifisso ma lasciamoci ammirare profondamente da Lui e lasciamoci interrogare: «Ma non esistono forse altre realtà, oltre a quella che si trova sui giornali e nei discorsi vuoti e infiammati di uomini "intimoriti"? Esiste anche la realtà del ciclamino rosso-rosa e del grande orizzonte, che si può scoprire dietro il chiasso e la confusione di questo tempo» (215) … di ogni tempo! Ed ecco la nostra preghiera sotto la Croce, una preghiera che potrà sembrare inadeguata ma forse è l’unica degna del Cuore Trafitto di Cristo: «Dammi un piccolo verso la giorno, mio Dio, e se non potrò sempre scriverlo perché non ci sarà più carta e perché mancherà la luce, allora lo dirò piano, alla sera al tuo gran cielo» (215). Un verso attraverso cui si possa offrire "un tetto" (202) a Dio come all’ospite più importante. Si tratterà di partire sempre e solo «dal principio di aiutare Dio il più possibile» (164) a placare quella sete di tenerezza di cui ha bisogno per essere Dio:

Tra chi va per silenti case
sei il più silente.
Sei un capriolo luminoso e corri
Io sono buio e sono un bosco.

(Rilke, Stunden-Buch, I)

…ho sonno!

Il Sabato Santo è consegnato all’assoluto Silenzio, all’assoluta Nudità: il Verbo che si fece carne si è fatto Silenzio! Nel nostro cuore si fa forte la percezione di un certo vuoto, di una strana assenza, di un profondo abisso come ogni esperienza di morte produce in coloro che sopravvivono a coloro che muoiono cosa che, spesso, accadde di sperimentare ad Etty nel campo di Westerbork: «Ogni tanto qui muore qualcuno perché il suo spirito è a pezzi e non riesce più a capire, in genere sono persone giovani» (87). Davanti a questa in-finita croce Etty poteva ancora scrivere due mesi prima della sua deportazione: «La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde – fisicamente si è forse un po’ giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte» (88) e raccomanda ai suoi amici – e perché no, anche a noi che siamo diventati suoi amici -: «rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi» (88).

Forse è proprio questa la domanda che Etty ci pone e ci lascia in eredità alla fine di questo lungo esodo verso la Pasqua vissuto in sua compagnia: «Avete il vostro posto di guardia?». Due posti sono possibili: stare davanti al sepolcro in cui dorme il re come le guardie mandate da Pilato (Mt 27,65) oppure – e sarebbe ben più augurabile - introdurci nella stesso sepolcro per stare il più vicino possibile al Signore facendo condividere alla nostra anima fedele e casta la sua stessa pace: «la sua sinistra è sotto il mio capo» (Ct, 2,6).

Ogni volta che ci tocca di attraversare il dramma di un Venerdì Santo anche a noi verrebbe da dire: «se tu sapessi che sonno che ho!» (119). Il Sabato Santo ci ricorda che il segreto di ogni giorno è dormire ogni notte! Addormentarsi significa avere fiducia che attorno a noi qualcuno veglierà sulla nostra vita anche quando non saremo in grado di fare niente per noi stessi. Il Sabato Santo ci invita a lasciarci andare al sonno e a lasciarci sorprendere dal sogno senza temere di essere condotti in terre sconosciute e persino negli abissi della terra e del cuore: «Mio Dio devo lasciarti più fare» (218) attraverso quelle «lunghe notti che saranno le mie notti migliori» (112). Come nel sonno così in ogni morte, accolta e abbracciata, si può dire: «Io dormo ma il mio cuore veglia» (Ct 5, 2). Il cuore è la nostra grande ricchezza soprattutto quando dolcemente egli continua a battere mentre tutto il resto del corpo e persino l’anima riposano lontani da ogni inutile pre-occupazione: «Quasi tutte le persone di qui sono molto più povere del necessario, perché registrano la loro nostalgia degli amici e della famiglia come una perdita nel libro dei conti della vita – mentre il fatto stesso che un cuore sia in grado di desiderare e di amare così tanto dovrebbe essere contato fra i beni più preziosi» (118).

Non fu forse per lo stesso primo Adamo il momento più magico quello in cui accettò di attraversare la notte nel cui mistero Dio diede carne e ossa all’amore (Gn 2,23)? E quest’opera non è ancora finita ed è ancora in atto in quanto «l’uomo è una strana creatura e da qualche parte in me c’è un’officina in cui dei titani riforgiano il mondo» (223). Ma questa officina è tanto più operosa quanto è più silenziosa, è tanto più feconda quanto più è nascosta, è tanto più efficace quanto più è avvolta dal mistero: «esisterà sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera» (173). Ci sono notti – questo tipo di notti! - in cui «non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare» (173).

Ma cosa è mai l’atteggiamento proprio della preghiera pura se non questa capacità di abbandonarsi nella mano di Dio accettando persino di essere sepolti in un «sepolcro nuovo» (Gv 19,41) nella consapevolezza che anche da lì «potrebbe venire fuori qualcosa di bello solo se continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me» (172). Forse la cosa più difficile è questo abbandono con-fidente! L’insonnia è diventata una malattia assai diffusa e in questo modo si manifesta la grande difficoltà della nostra generazione a lasciarsi andare e ritagliarsi di tanto in tanto un piccolo Sabato Santo: «oggi voglio ritirarmi a riposare nel mio silenzio: nello spazio del mio silenzio interiore a cui chiedo ospitalità per un giorno intero» (148) per poter dire alfine: Ho nell’anima tanta calma e dolcezza, e un senso di appagamento che riposa in Dio. Se dopo una notte passata in questa intimità rigenerante potessimo dire di ogni nostro incontro con Dio: «E sabato sera: l’anello della nostra relazione si è chiuso, così semplicemente e così naturalmente. Come se di notte non mi avesse mai ricoperta altro che una corona a fiori» (189)!!!

La Chiesa d’Oriente conclude la Celebrazione del Venerdì Santo sommergendo letteralmente di fiori e profumi la Croce e l’Epitaffio e all’alba del Sabato Santo sparge dovunque rami e foglie d’alloro per indicare la grande vittoria del Cristo su ogni inferno che possiamo sperimentare nell’abisso insondabile del cuore dell’umanità… del nostro cuore! Sapremo noi dormire in pace avvolti da questa notte? Sapremo farci ricoprire da una «corona a fiori» che potrebbe spuntare persino «su un pezzetto di duna ventosa sotto il cielo» (118)? Questa è la grande sfida pasquale per la nostra vita. Una sfida che Etty – in comunione con tanti altri uomini e donne degni di portare questo nome – ha accolto e amato fino in fondo nella sua vita facendone una grande avventura, una sorta di lungo viaggio verso il suo cuore, alla ricerca degli spazi infiniti della sua anima, immergendosi nel mistero della sua interiorità e accettando di esservi seppellita e trasformata soprattutto nelle lunghe ore trascorse accanto alla «mia cara scrivania, il più bel posto di questa terra» (148).

Abbiamo noi un pezzetto di «sepolcro nuovo» che sia per noi «il più bel posto di questa terrà»? Nell’ultimo biglietto raccolto dal vento così Etty scriveva: «Abbiamo lasciato il campo cantando… Viaggeremo per tre giorni» (149). Cosi ci congediamo da lei contemplandola in canto e in viaggio per i suoi tre giorni in attesa di raggiungerla e di raggiungere tutti coloro che ci attendono per la grande festa della Risurrezione. Non abbiamo scampo questa festa si farà come dice stupendamente Dostoievskij in un testo sicuramente letto dalla stessa Etty:

Se cacceremo Cristo dalla terra,
noi lo incontreremo sotterra!
E allora noi,
gli uomini del sottosuolo
intoneremo nelle viscere della terra
un inno tragico al Dio della gioia.

Non sappiamo nulla di più di Etty, non vogliamo saperne nulla di più: sì, viaggeremo per tre giorni!