mercoledì 30 novembre 2011

ETTY HILLESUM 3



Fratel MichaelDavide
Etty Hillesum: Dio matura.
Un viaggio in quaranta tappe
Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2005

Così vicino, così lontano

Sarebbe bello sentirci dire a nostra volta da parte del Signore Gesù: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Lc 12, 34). Per ricevere l’elogio non ci resta che fare lo stesso cammino dello scriba che passa da un distinto – Dio e il prossimo – all’esigenza unica e unificante di «amarlo… amare» (Lc 12, 33). Ma come accedere a questa fecondità se non perché capaci di offrire a Dio un cuore vergine che Gli lascia tutto lo spazio, tutta l’iniziativa: «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore» (Os 14, 6). L’unico vero rischio per l’amore è che esso si inaridisca per questo l’unica speranza per il nostro amore è la promessa del Signore-Sposo: «Sarò come rugiada per Israele» (Os 15, 6).

Etty si è offerta continuamente come terra faticosamente ritornata così vergine e appena nata (159) a questa «rugiada dell’Ermon» (Sl 132, 3) capace di far rifiorire ogni deserto. Si potrebbe rileggere l’intero processo interiore di Etty come una conversione, un ritorno, una re-staurazione della verginità del suo cuore che, pian piano, re-impara il senso e il linguaggio dell’amore, l’arte di farsi amare per poter infine amare in modo tanto antico ma sempre nuovo.

L’inizio del suo combattimento spirituale è come segnato da una preghiera e da una presa di coscienza. La preghiera suona in questi termini: Mio Dio, stammi vicino e dammi forza, perché la battaglia si farà dura. La presa di coscienza in certo modo accelerata dalla passione crescente – il suo corpo e la sua bocca erano così vicini – è netta ma non facile da gestire: Ora che sto pian piano diventando più "raccolta", mi rendo conto di essere una persona terribilmente seria che non scherza con l’amore (36). Imparare a non scherzare con l’amore! Avvedersi profondamente che con l’amore non si scherza! Rendersi conto che l’amore non scherza! Un compito arduo e mai completamente portato a termine nelle nostre vite in cui il termine "amore" rischia di non corrispondere a quella citazione del Dr. Koff che, nonostante la sua apparente banalità, stupisce Etty che l’annota in una sua lettera indirizzata a coloro che erano stati la sua "tribù" ad Amsterdam: Eppure Dio è Amore (79).

Non si può assolutamente in-seguire Etty nel suo itinerario se non si coglie nella sua vita una straordinaria passionalità da lei riconosciuta, accolta, vissuta persino maldestramente ma che pure ha rappresentato l’elemento di base per una sorta di operazione alchemica che, per molti aspetti, ha condotto Etty a distillare - nell’alambicco del suo cuore - la pietra filosofale, l’aurum non vulgi cercato dagli alchimisti e dai mistici di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Questo aurum non vulgi è rappresentato per Etty da due cose: una coscienza ampliata e l’intuizione dell’esattezza dell’Inno alla Carità scritto da Paolo per i Corinti di tutti i tempi. Ella scrive con gratitudine: E’ stato un anno immensamente ricco: ogni giorno porta una nuova ricchezza. E ti ringrazio perché mi hai concesso tanto spazio da poterla accogliere tutto. Al ringraziamento fa eco una profonda meraviglia per il fatto che si possa essere un fuoco così sfavillante! (218).

La sua presa di coscienza – in cui Rilke è stato uno dei miei più grandi educatori (218) – non è per nulla intimistica ma ha una sorta di effetto cosmico: E’ probabile che a guerra finita gli uomini saranno più ricettiva a quella realtà, che l’umanità intera sarà compenetrata da un ordine superiore (219). E questo ordine superiore ha un volto e un nome preciso che Etty attinge da Paolo: E se anche… e non avessi l’amore, tutto questo non mi servirebbe a nulla (219). Eppure questa sorta di ingresso nell’ordine superiore dell’amore sarà sempre legato per Etty a quel luogo terrestre (97) la cui parte immortale (219) continua a vivere nella sua stessa vita – l’amico Spier -. Nella sua maturità spirituale Etty continuerà a ricordare la fonte, l’intermediario del suo processo di individuazione, di purificazione e di ri-conciliazione: Mio Dio ti ringrazio perché ho potuto conoscere così pienamente una delle tue creature, anima e corpo (218).

Si potrebbe qui citare la bellissima frase di Gregorio Magno «per amorem agnoscimus/ conosciamo attraverso l’amore», ma non si può fare a meno di accostarle un’altra frase dello stesso Papa in base a cui l’amore che apre alla conoscenza, che fa accedere alla coscienza deve frequentare la «doloris schola / la scuola del dolore». Per Etty l’amore e il sentimento sono abbastanza estranei tra loro, persino implacabili avversari che si spronano vicendevolmente obbligando e forzando ciascuno a crescere. L’amore è per Etty sempre legato alla capacità di soffrire fino a subire l’incontro con la morte dell’amato, la più crudele delle prove: La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Si può soffrire in modo degno e indegno dell’uomo. La maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore e così vive ossessionata da mille paure. E rincara la dose quando aggiunge: si deve anche avere la forza di soffrire da soli e di non pesare sugli altri con le proprie paure e i propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità (136).

L’amore quale frutto di una lunga e-ducazione che comincia solo nel momento in cui si accetta di essere condotti – magari forzatamente - fuori dal piccolo mondo della propria minuscola storia fatta spesso di piccinerie per allargare gli orizzonti. Etty ha conosciuto i pericoli di un amore non ancora redento da se stesso nella sua relazione con Spier pienamente cosciente del fatto che: se io riversassi tutto il mio amore e la mia forza su una persona sola, la distruggerei (61). Etty ha attraversato la fatica della trasformazione della passionalità come un semplice aggrapparsi disperato per giungere a quel mirabile breve reciproco indugiare nell’atmosfera dell’altro (103), in cui l’altro è sempre così teneramente vicino e al contempo tanto giustamente lontano. Etty si è come consumata nella fatica di apprendere «l’arte dell’amore» (Ct 8, 2) fino a sentire la necessità di poter disporre di una lingua nuova (190) per conservarne l’incontaminato profumo in se stessa e per diffonderlo a piene mani: Il nostro compito non è forse allora di «mantenere ben odorosa la nostra anima», in mezzo a quelle esalazioni visiose? (132).

Proprio quando la ferita dell’assenza della persona amata si fa più lancinante Etty ci dà un saggio di questa lingua nuova sempre tutta da creare, un presagio di questo sottilissimo invincibile profumo passando, senza soluzione di continuità, dalla nostalgia per Spier all’ammirazione per Agostino: E’ così austero e così ardente. E così appassionato, si abbandona così completamente nelle sue lettere d’amore a Dio. In fondo quelle a Dio sono le uniche lettere d’amore che si dovrebbero poter scrivere. E aggiunge parlando prima di tutto a se stessa e poi a ciascuno di noi: Chissà se la gente imparerà che l’amore per la persona reca assai più felicità e buoni frutti che l’amore per il sesso… (235). Ancora una volta l’eco di Rilke che nelle Lettere al suo Giovane Poeta auspica il passaggio dal desiderio dell’incontro tra Uomo e Donna verso l’incontro tra Umanità e Umanità. Ma per condividerla bisognerebbe averla dentro una Umanità degna di questo nome! Troppe volte si dimentica che l’amore è il frutto maturo proprio di un’Umanità coltivata a regola d’arte. Così si conclude la pagina di Etty: Congiungo le mani in un gesto che mi è divenuto caro… la preghiera è la grande porta per imparare ad amare «in spirito e verità, Dio cerca tali adoratori» (Gv 4, 23) non lontani dal suo Regno ma mai troppo vicini. Se è vero – ed è vero! – che «quando l’assoluto della separazione diventa rapporto, non è più possibile essere separati» (D. M. Turoldo).

Distanza di sicurezza

A metà del cammino quaresimale siamo posti di fronte al mistero del fariseo e del pubblicano che si recano – ambedue – al Tempio per pregare ma in modo così profondamente diverso. Il problema del fariseo – che è spesso il nostro – non è quello di presentarsi davanti a Dio con il diplomino da bravo ragazzo bensì il bisogno quasi ossessivo di com-misurare gli altri a partire da se stesso mettendosi così – tanto inconsciamente – proprio al posto di quel Dio a cui si vorrebbe rivolgere: al centro del mondo.

Il pubblicano invece «fermatosi a distanza» (Lc 18, 13) non potrebbe neanche immaginare una preghiera come quella che davanti a sé sale dal cuore del fariseo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri…» (Lc 18, 11). Il povero fariseo pensa di sapere tutto di sé, tutto degli altri e tutto – ahimé! – del suo piccolo dio che rischia di assomigliargli così tremendamente ma inutilmente. La distanza invece che il pubblicano è quasi costretto a mantenere gli permette di dire la cosa più certa su se stesso - «sono un peccatore» - aprendosi così alla grande sorpresa di un Dio che «verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera, che feconda la terra» (Os 6, 3)… come una grande sorpresa!

Se vediamo spesso Etty in atteggiamento – crescente e approfondito – di preghiera non la cogliamo mai in piedi ma sempre e solo in ginocchio e persino un po’ vergognosa e un tantino umiliata dal suo modo di pregare: Nell’alba grigia di oggi, in un moto di irrequietezza, mi sono trovata improvvisamente per terra, in ginocchio tra il letto disfatto di Han e la sua macchina da scrivere – sarebbe difficile immaginare niente di meno convenzionale -, tutta rannicchiata con la testa che toccava il pavimento. Forse un gesto per estorcere pace (90).

Non è difficile ravvisare in Etty una degna figlia di Abramo che quando osa la preghiera lo fa per estorcere qualcosa per gli altri. Quanto Abramo cerca di estorcere la salvezza degli abitanti di Sodoma e Gomorra si fa tutt’uno con il suo essere «polvere e cenere» (Gn 18, 27). E’ impossibile ravvisare in Etty un atteggiamento minimamente approssimato a quello del fariseo descritto da Gesù, la sua è una preghiera intimissima – lo abbiamo già rilevato: più intima dei gesti dell’amore -, e non c’è in essa nulla da mostrare ma tutto da ri-velare continuamente: E a Han che entrava in quel momento e sembrava un po’ stupito di quella scena, ho detto che cercavo un bottone – ma non era vero (90).

Mentre il fariseo nella preghiera prende le distanze dai suoi fratelli in umanità sottolineando quanto la sua vita sia differente dalla loro, Etty – invece - alla scuola della preghiera pura e purificante che ha appreso con l’aiuto di Spier diventerà sempre più presente e solidale alla vita dei suoi fratelli e sorelle fino a non ritenere – mai e poi mai - la sua vita né più degna né più preziosa di quella di chiunque altro persino di quella del suo persecutore. Nel momento supremo della morte della sua S si attua in Etty uno scatto in avanti nel suo rapporto con Dio e contemporaneamente nel suo rapportarsi ancora più profondamente – si potrebbe dire essenzialmente – con l’umanità a cui chiede il permesso di fungere da anima: Spesso a Westerbork mentre andavo in giro con quei chiassosi e litigiosi membri del Consiglio Ebraico mi veniva da pensare: su, lasciatemi essere la baracca in cui si raccoglie la parte migliore, che esiste sicuramente in ognuno di voi. Io non ho bisogno di far così tanto ho solo bisogno di esserci. Lasciatemi essere l’anima in questo corpo (199). Come non pensare all’autocoscienza dei cristiani del II secolo di essere per il mondo quello che l’anima è per il corpo (Lettera a Diogneto)?

Siamo agli antipodi dell’atteggiamento del fariseo che ha bisogno non solo di fare ma anche di elencare ciò che fa e, ancora di più, siamo diametralmente all’opposto del suo evidenziare il peggio di chi gli sta accanto. Etty ha conosciuto l’esperienza dell’essere toccata nel profondo (34), passaggio che ha risvegliato le sue forze migliori nel suo contatto con Spier e, per questo, sente il dovere di vivere nella stessa capacità di attivare il meglio che c’è in ciascuno. Per Platone compito degli amici è quello di aiutarsi a diventare migliori, a dare il meglio di sé. In tal senso quella tra Spier ed Etty fu vera amicizia!

Mentre si appresta – per il funerale della sua S - a sedere per la prima volta in una vettura con le tendine nere sorge spontanea dal cuore di Etty una preghiera inestricabilmente connessa ad un impegno: Concedimi pazienza, mio Dio, concedimi una pazienza del tutto nuova… farò del mio meglio. Molti uomini sono ancora geroglifici per me, ma pian piano imparo a decifrarli. E’ la cosa più bella che conosca: leggere la vita degli uomini (204). Quella di Etty è una lettura, un continuo decifrare geroglifici in attesa di imparare la lingua nuova della carità e dell’amore universali.

E l’Accademia per questo apprendimento, per questo raffinamento delle capacità di "lettura" di Etty non sarà altro che il campo di Westerbork dove è come se mi trovassi davanti al nudo steccato della vita. Davanti alla sua ossatura, libera da qualsiasi costruzione esterna. Mio Dio, ti ringrazio perché mi insegni a leggere sempre meglio (204). Sembra che ad Etty non sia sufficiente essere sempre più in grado di porsi davanti all’umanità come davanti ad una misteriosa stele tutta da decifrare, in lei si fa urgente il desiderio di comunicare questa capacità, questo atteggiamento di lettura accurata, scevra da ogni pre-giudizio e pre-comprensione: Come posso far sì che anche altri leggano dentro a tutte quelle persone – persone che devono essere decifrate come geroglifici, tratto dopo tratto - finché non ci si trovi davanti ad un unico, grande e comprensibile insieme, incorniciato da cielo e brughiera? (208).

Westerbork rappresenta il Tempio aperto in cui la sua anima si è aperta a Dio attraverso la sua immagine impressa indelebilmente su ogni volta e in ogni storia. Non troviamo mai in Etty un attitudine che si possa definire "cultuale" eppure è come se tutta la sua vita – giorno dopo giorno – si svolgesse in un’atmosfera indubitabilmente sacrale. Si potrebbe dire che Etty ha incontrato il Mistero nel Tempio in-delimitabile nell’Amore e nel Dolore: Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore (205). Questo interminabile dolore non scandalizzerà mai Etty ma la renderà sempre più grata per il dono della vita da lei ritenuta sempre e solo buona e bella non perché lo sia ma perché – misteriosamente – lo sta diventando sotto i nostri occhi attraverso il nostro proprio cuore: Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità (209). E’ lo sguardo del pubblicano che sa di essere peccatore e che, pur a distanza di sicurezza per non contaminare niente e nessuno, non rinuncia comunque all’umile gesto della preghiera: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore». Quando un primo geroglifico dell’umanità finalmente viene amorevolmente e onestamente interpretato - il geroglifico che indica l’abisso del proprio cuore – allora si può dire con serena sicurezza e nonostante tutto: «guarda… l’umanità sta crescendo!».

Primavera

Ieri sera, mentre andavo con lui in bicicletta, avevo dentro un grande e dolce desiderio di primavera. E mentre pedalavo sognando sull’asfalto della Larissestraat tutta impaziente di vederlo, d’un tratto mi sono sentita accarezzare da una tiepida aria di primavera e ho pensato: anche questo va bene.

Perché non si potrebbe provare un grande e tenero trasposto amoroso per una primavera, per tutti gli uomini? E si può anche fare amicizia con un inverno, con una città o con una campagna. Mi ricordo il faggio rosso-vino della mia adolescenza. Avevo un rapporto speciale con quella pianta. Alla sera ero capace improvvisamente di provarne nostalgia e allora andavo a cercarla, facevo mezz’ora di bicicletta e poi le giravo intorno, presa e incantata dalla vista di quell’albero rosso-sangue.

Sì perché non si potrebbe avere un’esperienza amorosa con una primavera?

E la carezza di quell’aria era così tenera e così universale che le mani di un uomo, anche le sue, mi sembravano ruvide al confronto. (105-106)

Buona Primavera!

Tramonto in-finito

Strana notazione cronologica quella che ritroviamo nel vangelo di Giovanni: «S’informò a che ora avesse cominciato a stare meglio… "Ieri un’ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato"» (Gv 4, 52). Cammino di un giorno intero quello percorso da questo padre in pena per il proprio figlio. Un cammino sostenuto da una sola parola e nulla di più: «Tuo figlio vive!» (Gv 4,50). Nella parola del Signore Gesù si realizza pienamente tutta la promessa del profeta: «Non ci sarà più un bambino che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza» (Is 65,20). Il Signore Gesù inaugura i suoi miracoli a Cana di Galilea e lo fa restituendo all’umanità la possibilità di vivere fino in fondo e pienamente le due realtà più belle e più umane della vita: la sponsalità e la fecondità, un fiore per la vita e un frutto oltre la morte!

Nella nostra vita – in molteplici modi – portiamo la dolce ferita di questa pienezza ma, comunque, dopo le zenit del mezzogiorno comincia a declinare verso il tramonto che – pur nella suo dolce attrattiva – pure ci spaventa soprattutto se non ne abbiamo ancora conosciuto e gustato la pienezza. Sempre portiamo nel nostro intimo un figlio, un bimbo che anela a vivere in tutta la sua pienezza: è il nostro io profondo, la nostra anima. E il Signore, in certo modo, sempre acconsente a fermare il sole (Gs 10,12) per darci il tempo necessario a portare a maturazione il frutto del nostro grembo spirituale perché non sia come un libro – e quale libro! – in cui io sia rimasta a metà (226).

Etty dovette misurarsi ampiamente e drammaticamente con questo travaglio. Il rifiuto di acconsentire ad una maternità non desiderata e interrotta camminò di pari passo con una cura audace della sua interiorità che la rese al contempo – difficile parlarne – vergine da ogni ansia di sopravvivenza e di possesso e madre nella pura gratuità di una presenza forte e distaccata a cui si darebbe volentieri il nome di custodia: Quando capitava che una donna o un bambino affamato si mettessero a piangere dietro uno dei nostri tavoli di registrazione, mi mettevo dietro di loro, quasi a proteggerli, le mie braccia incrociate sul petto, sorridevo un pochino e dentro di me dicevo a quell’esserino rannicchiato e smarrito: tutte queste cose non sono poi così gravi, non sono proprio così gravi. Rimanevo lì e c’ero, si poteva far altro? (233).

Etty guarderà continuamente Westerbork e il suo fiume di dolore in particolare attraverso le persone più deboli e più impreparate, primi fra tutti gli anziani e i bambini: Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli angoli e le fessure della baracca illuminata in modo spettrale, è quasi insopportabile. Nella mia mente affiora un nome: Erode (134). Eppure questo nome affiora in modo quasi sereno come se Etty coltivasse oltre il «grido di Rachele che piange i suoi figli» (Mt 2,18) l’atteggiamento di Maria e di Giuseppe silenziosamente in cammino in obbedienza ad eventi e a segni difficilmente comprensibili. Sarebbe impossibile pensare ad Etty come esente dall’orrore che simili tragedie – soprattutto il dolore innocente degli innocenti – innescano come uno degli istinti umani più naturali, eppure è come se questa donna continuasse a sussurrare - dal profondo della sua anima in crescita - una indicibile nenia: sorridevo… dentro di me dicevo a quell’esserino smarrito: queste cose non sono poi così gravi, non sono poi così gravi (233).

L’assurdità e l’inaccettabilità di ciò che sta avvenendo sono chiare al cuore di Etty che scrive realisticamente: L’inferno di Dante è davvero un’operetta frivola al confronto. «Questo è l’inferno»… certe volte la mia testa si sente urlare, mugghiare, e fischiare intorno, e i cieli si stendono così bassi e minacciosi sopra di me (176). Eppure il suo cuore è sempre capace di cogliere - quasi carpire furtivamente - al reale la sua radice di speranza. Subito dopo aver menzionato Erode immediatamente aggiunge: Sulla barella che porta al treno cominciano le doglie, e allora è permesso portare quella donna in ospedale invece che nel treno merci, il che può essere annoverato fra i gesti più umani che siano stati compiuti stanotte (134).

Etty si fa carico di registrare quei rarissimi gesti più umani che strappano all’Inferno la sua vittoria. In questo suo stare alle spalle – come un angelo custode - capace di sorridere a neonati terrorizzati e a vecchi umiliati, Etty traduce l’evangelico sorso d’acqua di cui parla il Signore Gesù: potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro (233). Laddove il gridare, il protestare, il recriminare, l’odiare non farebbero che rendere l’Inferno più riarso ecco che un sorso d’acqua, in certo modo, lo rende provvisorio e comunque perituro e, certamente, non parola ultima sulla vita.

Mentre cresce il contatto con la sua anima e si fa più cosciente il senso di piccolezza unitamente alla certezza della fine che si fa evidente - Mio Dio è proprio vero che tutte quelle porte si chiudono? Sì, è così. Le porte si chiudono sulle moltitudini cacciate indietro e pigiate nei vagoni merci (143) – Etty fa pure un’altra esperienza non meno forte e, di certo, più importante: Ci sono dei momenti in cui mi sento come un uccellino nascosto in una grande mano protettiva. E aggiunge quasi per non perdere il contatto con il dramma di un continuo combattimento: Ieri il mio cuore era come un uccello preso in trappola, ora è di nuovo libero e vola indisturbato dappertutto. Oggi c’è il sole. Preparo i miei panini e mi metto in cammino (190).

Il sole è per Etty una sorta di garanzia che la vita continua e che c’è sempre una forza interiore che non solo ne può arrestare il corso (Gs 10, 12) ma, ancora più radicalmente e misteriosamente, può farlo sorgere di nuovo dopo una lunga notte: il vero miracolo è quest’ultimo ed è quotidiano e straordinariamente ordinario. Si tratta di imparare proprio dal sole sempre in viaggio, sempre in cammino, sempre morente e per questo perennemente ri-sorgente. Avere occhi di sole significa non disperare mai ma – come quel padre del vangelo – acconsentire al cammino pur con l’angoscia e il terrore nel cuore. Etty non cerca di fermare la notte – il suo grande maestro Rilke le ha insegnato a cantarla e ad amarla – ma prende amorevolmente il suo posto di guardia tra i merli di tutte le pene notturne e le solitudini di un’umanità sofferente che attraversano il mio piccolo cuore e lo fanno dolorare (215): «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,11-12). La notte obbliga alla conversione!

In una medesima lettera Etty annota i segni dell’invincibile speranza nella vita: Una volta, nel cuore della notte, una gatta randagia è entrata nella nostra baracca, le abbiamo messo una cappelliera sul gabinetto e là ha avuto i suoi piccoli. Certe volte mi sento proprio come un gatto randagio senza cappelliera. E subito dopo: Stanotte è nato il figlio di Jopie. Si chiama Benjamin e dorme nel cassetto di un armadio (117). No, l’ultima parola sulla storia non sarà mai la follia di Erode ma la parola del Signore che continua a dire «Và tuo figlio vive» (Gv 4, 50). E perché il miracolo della vita possa rinnovarsi attorno a noi dobbiamo trasformare il nostro cuore in un tramonto in-finito per essere sempre di più come un centro di tranquillità in quel manicomio (177) che sembra essere il mondo… non ci vuole molto basta una cappelliera o un semplice cassetto di armadio… in un’altra non tanto dissimile Notte non bastò forse una "mangiatoia" (Lc 2, 12)?

Inguaribili?

«da trentotto anni era malato» (Gv 5, 5) e dal testo si può presumere che da così tanto tempo – una vita! – quest’uomo aspetta di guarire. Ma perché il Signore Gesù si rivolge proprio a quest’uomo a dispetto del «gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici» (Gv 5, 3)? Forse la risposta del paralitico ci svela il mistero di questa predilezione. Gesù chiede «Vuoi guarire?» e si sente rispondere: «Signore, io non ho nessuno…» (Gv 5, 7). Che cosa ci può essere di più terribilmente paralizzante di questa percezione profonda e terribile: «Io non ho nessuno!» e per questo non ho nessuna speranza perché per guarire c’è bisogno che qualcuno «mi immerga nella piscina» (Gv 5, 7). «Io non ho nessuno» facilmente diventa "Io non sono nessuno".

Interessante notare come tutto il processo di spiritualizzazione (65) di Etty cominci da un insegnamento fondamentale di Spier attraverso una sua paziente-allieva: «non si è soli al mondo» (25). A questo insegnamento seguirà un esperienza forte di relazione che curerà in Etty una sorta di malattia del desiderio che le diviene sempre più chiara quando scrive: «Io voglio qualcosa e non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca, tutto è in tensione nella mia testa… e ora mi ritrovo in mezzo agli arbusti… l’irrequietezza ha preso a salirmi da ogni parte come i vapori di una palude» (39).

Dall’inizio alla fine del suo Diario Etty è continuamente confrontata con una vitalità crescente – «pare che sia in un periodo di grande fioritura… irradio luce in tutte le direzioni» (97) - unita a momenti in cui il suo corpo si fa portavoce di un disagio dando voce alle paure più ancestrali di cui conosciamo cosi poco il linguaggio: «Ma vorrei tanto star bene» (229). Continuamente e fino alla fine Etty deve lottare un po’ con la sua salute che la immobilizza, la paralizza nel suo letto costringendola a stare immobile (229) fino a farle dire malgrado tutto: Ora mi arrendo completamente. Una resa non semplicemente rassegnata ma grata: Sono così riconoscente di poter stare coricata qui, di poter essere tranquillamente malata e che mi si voglia curare. Prima devo guarire bene, altrimenti sarò solo un peso per una compagnia. Credo proprio di essere un po’ malata dalla testa ai piedi, stretta in una corazza di debolezza e di vertigine (231).

L’ultimo periodo vissuto da Etty a Westerbork ce la mostra piena di una energia fisica e spirituale del tutto straordinaria: La donna che fa pulizia da Kormann mi ha appena detto: "Lei ha un’aria così raggiante" (73). Eppure questa forza non è per Etty un semplice dono della natura ma il frutto di un lungo e doloroso cammino che va dall’accettazione, passa per la nominazione giungendo infine alla trasformazione della sua debolezza fisica di cui non le sfugge – certo - quella che lei stessa chiama una radice psicologica (184) dei suoi molteplici malanni (cfr. 226). Per questo si costringe ad una cura ben precisa: mi ritiro nella mia pace interiore fintanto che il sangue non mi scorra di nuovo regolarmente nelle vene (184). Con coraggio e con verità Etty cerca di chiamare per nome non solo i suoi momenti migliori ma anche i suoi momenti peggiori anche quando sono legati alla più naturale delle cose che possono succedere ad una donna della sua età: Trovo certo che parlare della mia pancia è ben al di sotto della mia dignità spirituale eppure se io volessi scrivere qualcosa dei miei umori di ieri sera, dovrei innanzitutto notare con molta schiettezza e obbiettività: era un giorno prima delle mestruazioni, e allora sono responsabile a metà (125).

Etty non teme di fare riferimento ad una sorta di resto di masochismo con cui si riesce a celare malamente l’esistenza nella propria vita – quella che si svolge più a livello di pancia e non di testa – di un pullulare di piante velenose che devono essere sradicate. E parlando a se stessa non bada certo a tenere da parte il bastone quando si tratta di andare a curare quella "famosa" radice psicologica dei suoi malanni: E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi. Una persona dev’essere semplice anche nella tristezza, altrimenti la sua è solo isteria (124). Contro quella che definisce la tua mezza franchezza e la tua mezza enfasi (124) Etty prospetta come rimedio due medicine: E vergognati ben bene a cui si aggiunge un simpatico invito peraltro assai ricorrente: Dovresti rinchiuderti in una cella spoglia, e startene sola con te stessa finché tu non sia nuovamente in chiaro e tutte le isterie non ti siano passate (124).

Quando Etty parla di malattia lo fa in riferimento allo stato della sua anima in particolare nel suo rapportarsi a Spier la cui presenza normalmente avvertita come una persona che guarisce (89) altre volte invece mi fa sentir malata (62). Etty non disconosce mai che il rapporto con Spier – la sua S. come viene sempre e solo indicato nel testo – mi ha resa più ricca ma in qualche modo mi ha inferto un piccolo colpo, una piccola ferita che non è ancora del tutto guarita (43). Una ferita che non guarirà mai ma che pure diventerà per Etty una vera e propria feritoia – soprattutto dopo la morte di Spier – attraverso cui la luce di un senso sempre più adeguato della vita e dell’amore continuerà a fluire così mirabilmente da inondare ogni frammento delle sua vita e delle sue relazioni.

L’esperienza "terapeutica" vissuta in prima persona convince Etty del fatto che, in realtà, tutte le persone hanno bisogno di un contatto carico di una umanità che sia capace di curare. Un atteggiamento che vale nei confronti de i bambini di pochi mesi strappati dalle loro culle nel cuore della notte per essere trasportati verso un paese lontano (129), ma anche – forse ancora di più – per quel ragazzo infelice della Gestapo - dall’ aria così tormentata e assillata, del resto anche molto sgradevole e molle – a cui avrebbe voluto chiedere: "hai avuto una giovinezza così triste o sei stato tradito dalla tua ragazza?". Etty non pose questa domanda ma raggiunse comunque nell’intimo del suo cuore una conclusione: «Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, me che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull’umanità» (102).

Che si tratti della propria punta di isteria, che si tratti delle grida penetranti dei bambini o che riguardi invece persino il proprio aguzzino o più semplicemente del fatto di cominciare a soffrire di insonnia (228) si esige comunque una scelta di campo precisa e netta: cercare in tutti i modi di guarire, di lasciarsi guarire e di aiutare a guarire. Il primo passo in questo cammino faticoso (97) è senz’altro quello di accogliere la debolezza come parte integrante della vita senza farsene paralizzare: Certo però che la mia tristezza è diversa da quello di un tempo. Non cado più così in basso, e nella mia tristezza è già insita una possibilità di ripresa. Una volta, quando ero triste, pensavo che avrei continuato ad esserlo per tutta la vita: ora so che anche quei momenti fanno parte del mio ritmo vitale, e che è bene che sia così (98).

Non siamo inguaribili ma siamo semplicemente in guarigione soprattutto se ci lasciamo raggiungere da quel verso di Rilke che starebbe così tanto bene sulla labbra del Signore Gesù che si aggira tra i portici della Porta delle Pecore: E sentì stranamente uno straniero dire: "Io sono con te"(43): la piscina si trasforma così in un fiume sulle cui sponde «crescerà ogni sorta di alberi» (Ez 47, 12). Anche la nostra vita paralizzata – talora persino paralizzante – ricomincia a fremere quando qualcuno ci chiede: «Vuoi guarire?» e la guarigione comincia con una piccola grande confessione: «Signore io non ho nessuno»… ma mentre lo stiamo dicendo non è più già vero e – dopo trentotto anni – stiamo già guarendo solo per il fatto di avere acconsentito ad una domanda!

Mai, sempre!

Anche per noi risuona la parola del Signore Gesù: «e voi ne resterete meravigliati» (Gv 5, 20), meravigliati del fatto – incomprensibile e inaccettabile per il fariseo che si nasconde del nostro cuore – semplice, nudo ma rivoluzionario che «il Padre infatti ama il Figlio» e che questo amore è talmente e realmente trasformante che Gesù non ha altra scelta se non chiamare Dio «suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5, 18). Tutti i mistici rivendicano questa intimità trasformante in cui e per cui «O Notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata» (Giovanni della Croce, Notte Oscura, 5).

Quale meraviglia è per noi scorrere le pagine lasciateci in eredità da Etty e imbatterci continuamente con la presenza di Dio, di un Dio che non corrisponde a nessuno schema perché li supera tutti: un Dio così presente eppure così imprendibile: «non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io i trovi qui, a questa scrivania così terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre» (167).

Non era forse questa sicurezza del Signore Gesù a rendere furiosi i suoi nemici che vedevano - nella sua intimità con Dio - una minaccia al loro bisogno di controllo e di potere persino sulla intimità altrui? L’invito del profeta «Venite fuori» (Is 49, 9) - che il Signore Gesù riprenderà con forza travolgente davanti alla tomba di Lazzaro (Gv 11, 43) - è l’invito costante a uscire da ogni immagine impositiva di Dio per imparare a sentirci nelle sue braccia come un bambino a cui, sempre e comunque, viene ripetuto: «io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15).

Etty imparerà a vivere e ad amare la vita proprio imparando a riconoscere dentro di sé, nel più profondo di se stessa – fedele eco di tutta quella Mistica del Nord Europa che sta dietro alle più belle "pagine" della Riforma – questa presenza di Dio che abbraccia e custodisce ma che, al contempo, ha come bisogno di essere abbracciato e custodito in una mirabile – caratteristica propria dei mistici – reciprocità di relazione. Così scrive in una delle sue ultime lettere: solo facciamo in modo che, malgrado tutto, Dio sia al sicuro nelle nostre mani (148). Per Etty Dio è la realtà irrinunciabile in cui si può giocare al massimo delle sue potenzialità la nostra umanità: Mio Dio, ancora non si rendono conto che tutte le cose di qui sono sabbie mobili tranne te. Mi è sfuggito (112).

Anche per noi si fa urgente l’obbedienza all’invito del profeta: «Venite fuori!». Si fa urgente anche per noi non marcire come Lazzaro nel sepolcro dei nostri schemi preconfezionati su noi stessi, sul mondo, su Dio… bisogna lasciarsi dietro tutto un mondo di convenzioni (116) talora capaci di creare convinzioni così lontane dalla fede pura nel «Signore che consola il suo popolo» (Is 49,13). Per Etty la vita, nel suo essere mistero ed "enigma" (194) diventa il luogo di una rivelazione intima di Dio, così personale da essere necessariamente universale: Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande, sereno e riconoscente, che non voglio neppure provare ad esprimere in una parola sola. In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio. Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua – di Spier – : «riposare in se stessi» e forse sarebbe anche la definizione più completa di come io sento la vita: io riposo in me stessa. Ma nulla di meno intimistico e autoreferenziale o, peggio ancora, di ripiegamento: E questo «me stessa», la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo «Dio» (201).

Naturalmente si potrebbe tacciare tutto ciò di soggettivismo e persino di panteismo così come si fece, a suo tempo, per Meister Eckart… non mancherebbero le ragioni ma il frutto è tale da costringerci ad un atteggiamento di silenzio e di imitazione. Non siamo lontani dalle dispute contro l’esicasmo e contro ogni forma di vita contemplativa profondamente personale che, anche senza volerlo, rende il rapporto con Dio più grande, maggiormente avvolto dal mistero e sempre meno controllabile o manipolabile dall’esterno.

L’esperienza che Etty fa di Dio è sicuramente eminentemente psicologica ma non per questo illusoria. Nell’esperienza spirituale di Etty il rapporto con Dio è personale, più precisamente da persona a persona e – perfino – attraverso la mediazione delle persone – in modo emblematico quella di Spier – e che ha come frutto naturale un’apertura al mondo: «Eppure ti sono grata perché non mi hai permesso di rimanere seduta a questa tranquilla scrivania, ma mi hai portato in mezzo al dolore e alle preoccupazioni di questo tempo. Un idillio con te in una stanza di studio ben protetta non sarebbe proprio tanto difficile, ora invece è importante che io ti porti con me, intatto attraverso tutte queste vicissitudini, e che ti rimanga fedele così come ti ho sempre promesso» (181). Misteriosamente troviamo nel profondo di Etty la medesima vena aurifera che nutre nella stessa situazione storica la riflessione di Bonhoeffer e di Edith Stein: il dramma del Nazismo è stato il luogo non solo di una Shoah ma anche di una purificazione della nostra immagine di Dio e di una sorta di "progresso" della e nella Rivelazione la cui portata forse non abbiamo ancora misurato abbastanza, soprattutto nella linea della profondità e del rapporto sempre più personale che la relazione a Dio esige.

La lezione di Spier rimane per Etty programmatica per il suo stesso itinerario verso Dio: «In te c’erano tutto il male e tutto il bene che possono esserci in un uomo. I demoni, le passioni, la bontà e l’amore per gli uomini, tutto era in te, cha sapevi tanto capire, che sapevi cercare e trovare Dio. Hai cercato Dio dappertutto, in ogni cuore umano che ti si e aperto – quanti ce ne sono stati -, e dappertutto hai trovato un pezzetto di lui» (198). La ricerca di Dio non può che essere che «infinitamente paziente» (198): paziente in questo quotidiano sensibilizzarsi alla presenza di Dio nell’intimo del proprio cuore e nel cuore degli altri come dell’universo intero. Etty è la prima a meravigliarsene: «Pensare che un piccolo cuore umano possa provare così tanto, mio Dio, possa soffrire ed amare a tal punto. Ti sono così riconoscente perché hai scelto proprio il mio cuore, di questi tempi» (194). Ma perché le visite di questo Dio non passino inosservate è necessario acquisire quella che Etty chiama «una pazienza del tutto nuova» (194) unita ad un dialogo ininterrotto: «Parlerò con te mio Dio. Posso? Col passare delle persone, non mi resta altro che il desiderio di parlare con te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore mio Dio» (194).

Il credere per Etty è frutto di un amore profondo ed è premessa di un amore altrettanto profondo che la rende responsabile della «parte migliore e più nobile dell’uomo che ti ha risvegliata in me» (194), di se stessa e del progressivo ampliarsi della sua anima, come pure responsabile verso il meglio che c’è negli altri. Ma tutto questo non significa altro che sentirsi responsabile di Dio, obbligata a difendere fino all’ultimo la tua casa in noi (169). Tutto questo porterà Etty ad una intimità spirituale che la renderà testimone di una presenza di Dio persino nella bufera più terribile: Una volta, nel cuore della notte. Siamo rimasti solo Dio e io. Non c’è più nessun altro che mi possa aiutare. Non mi sento affatto impoverita, ma ricca e in pace. Siamo rimasti solo Dio e io (232). Come non sentire l’eco, attraverso i secoli, dell’esperienza di un Giovanni della Croce che nel carcere di Toledo - vittima della persecuzione da parte dei suoi stessi confratelli - componeva a memoria – non aveva diritto allo stilo – i suoi intramontabili versi: «In una notte oscura, con ansie, dal mio amor tutta infiammata, oh sorte fortunata!, uscii, né fui notata, stando la mia casa al sonno abbandonata» (Notte Oscura, 1). Quale meraviglia mai per chi ama ma quale scandalo sempre per chi non conosce le vie dell’intimità ma solo i labirinti dell’esteriorità.

La gloria…

Tra i tanti rimproveri del Signore Gesù ve n’è uno che li supera tutti per la sua capacità di toccare la radice di ogni ipocrisia nella nostra esistenza: «E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5, 44). L’esempio del Battista e quello di Mosè aiutano a capire che cosa significhi cercare la «gloria che viene da Dio solo». Da una parte pagare di persona come una «lampada che arde e risplende» (Gv 5, 35) consumandosi inevitabilmente e, dall’altra, la resistenza opposta a Dio stesso – percepito quasi come un tentatore – di avere accesso ad una gloria separata dalla solidarietà con tutto il «popolo che tu hai fatto uscire» (Is 32, 11). Ma la solidarietà di Mosé non è che il frutto maturo della sua fedeltà al "Dio solo" di cui non ha in nessun modo paura.

La grazia dell’elezione, la coscienza di essere in un rapporto particolare con il Signore conduce Mosé, il Battista e – nella pienezza dei tempi – il Signore Gesù a non sottrarsi al destino comune ma a illuminarlo con la loro presenza. Etty si riconosce tra gli eletti – ne aveva la ragioni – ma non si lascia né ingannare né adulare: «Voglio vivere ancora a lungo e voglio condividere il destino riservato a tutti noi …Eppure sono una dei tuoi eletti, mio Dio, perché mi concedi di prendere tanta parte a questa vita, e perché mi hai dato abbastanza forza per sopportare tutto quanto» (178). La coscienza di un accesso particolare al mistero della vita e di Dio per Etty si identifica con la capacità di sopportare di più e non di essere esentata – secondo la logica della gloria del mondo – dalla sofferenza, dalla fatica, dal peso dell’enigma che raggiunge l’acme nel momento dell’agonia di Spier: «ti ringrazio perché tu lasci che poche cose mi passino accanto senza toccarmi» (178).

L’atteggiamento degli scribi e dei farisei – che si annida continuamente nel cuore di ciascuno di noi – è proprio quello di non lasciarsi toccare per una falsa e assai comoda idea di purezza, di santità, di spiritualità (Mt 23,4; Lc 10,31-33). Proprio la percezione di una presenza particolare di Dio nella sua vita induce Etty – non molto differentemente da Mosè – ad opporsi con tutte le sue forze all’idea di una salvezza "particolare" senza gli altri o persino a loro scapito degli: «Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice» (171). Per Etty è chiaro che non tutto ciò che sembra essere salvezza lo sia veramente e che, anzi, può invece essere la "perdizione" di tutto ciò che rende bella e degna la vita. E continua: «questo stare tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingere a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno… e poi questo spingere a me non piace» (171).

Senza mezze misure e in tutta chiarezza Etty contrappone a questo atteggiamento di pseudo-salvezza che taccia senza complimenti dell’epiteto chiaro di indegno, l’atteggiamento che fa onore e che corona di gloria le persone degne di questo nome: Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un poco sull’oceano, stese sul dorso e con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Gli occhi rivolti diritto al cielo e non conficcati morbosamente e tristemente in quello del prossimo a cui ci si aggrapperebbe semplicemente nella speranza che ci renda il suo pezzo di legno. Etty aggiunge a scanso di equivoci due note assai importanti e significative: «Io non posso fare diversamente e ancora Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei propri demoni» (171).

Nel momento in cui il nemico ha un volto preciso e assolutamente minaccioso Etty trova ancora la forza e la lucidità per parlare dei propri demoni che rappresentano l’unico vero nemico che può realmente portare tutta la vita ad un completo fallimento. Per Etty non c’è scampo dall’interiorità: è nel profondo – nell’abisso più profondo – della propria anima che si attua il combattimento ed eventualmente la glori-ficazione: «Molti di coloro che oggi s’indignano per certe ingiustizie, a ben guardare si indignano solo perché quelle ingiustizie toccano proprio loro: quindi non è un’indignazione veramente radicata e profonda» (146).

Un’idea assai chiara per Etty che la ripete in una lettera dicendo: «Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti» (51). Una simile convinzione diventerà per Etty un programma di vita a cui sarà fedele fino alla fine: «Io credo che nella vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori» (27) perfino col minacciare in certo modo lo stesso Dio con quell’atteggiamento ineguagliabile che fu di Mosè che protesta e grida: «se, no cancellami dal tuo libro» (Es 32, 32). Neanche a Dio si potrebbe permettere di disonorare la nostra umanità inestricabilmente legata alla vita di ogni altra creatura risparmiandoci… non è questa la grande rivelazione del Golgota…?!

Per Etty sempre più abituata alla gloria di una intima relazione con Dio, capace di dare senso e significato pieno anche a tempi tanto angosciosi, la cosa più indegna che possa accadere è lo spettacolo – comprensibilissimo ma dis-umano – di persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolvere forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te mio Dio (169-170). L’unica realtà che bisogna salvare è quell’unica realtà che ci può salvare pur nell’esperienza della totale distruzione: «Dio che abita nel cuore dell’uomo come nel suo più proprio territorio» (170). Proprio mentre la vita è minacciata come un gelsomino sciupato dalla pioggia, Etty scrive in un trasporto invidiabile: «Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. E sottolinea: Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure ma ti porto persino – in questa mattina grigia e tempestosa – un gelsomino profumato. Non solo: Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me» (171).

Da chi mai si potrebbe ricevere una gloria così grande come quella di far stare bene lo stesso Dio della nostra vita nella nostra vita? Quale carico più prezioso potremmo portare dentro di noi di questa presenza che ci permette di avere occhi puri per ogni creatura: «Spesso mi sono sentita, a ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare, dappertutto. Dobbiamo essere la nostra propria patria» (206)… la nostra propria gloria tutta e totalmente a bordo della nostra minuscola vita.

L’olio della mitezza

Mentre la Pasqua si fa sempre più vicina si fa sempre più forte e chiaro che non è una fatalità o un incidente di percorso bensì un evento a lungo preparato nel cuore e attraverso i passi del Signore Gesù: «nessuno riuscì a mettergli le mani addosso perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30). Nessuna pasqua – né quella del Signore Gesù né la nostra – potrebbe compiersi senza una remota e profonda preparazione in cui maturi il dono della propria vita libero e totale… fino a dire «sono io… prendete me» (Gv 18,8).

Proprio mentre «gli empi dicono tra sé» (Sap 2,1) «tendiamo insidie al giusto» (Sap 2,12) illudendosi di avere presa e potere sulla sua vita… il giusto non fa altro che affinare ulteriormente «la mitezza del suo carattere» (Sap 2,19) fino a rendersi im-prendibile. L’olio della mitezza non può che rendere imprendibili come l’olio rendeva più difficile abbattere nella lotta un gladiatore. Anche noi siamo chiamati a vivere la nostra personale Pasqua! Anche a noi tocca il compito di renderci impermeabili al male attraverso quell’olio di mitezza e di dolcezza capace di renderci immuni ad ogni empio ragionamento e vivendo, invece, nell’umiltà dell’evidenza.

L’ultima parola del Diario di Etty suona come parola ultima sulla sua intera vita: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite» (239). Ma la preparazione di questo balsamo - che non solo fu di dolce sollievo a quanti incrociarono Etty sul loro cammino verso lo sterminio ma lo è ancora oggi per molti di noi – ha esigito la lunga preparazione per essere infine «una composizione aromatica secondo l'arte del profumiere, salata, pura e santa» (Es 30,35). Il 5 luglio 1943 mentre Etty viene presa dalla voglia di farla finita e scrive: «Ogni tanto mi viene voglia di preparare di nascosto lo zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non deve neppure cercare di rendersi la vita troppo facile» (90), subito annota la conclusione di uno dei suoi compagni di Westerbork che, ormai pronto a partire, ci lascia intravedere l’opera che si va segretamente compiendo anche nel cuore di Etty: «L’ho aiutato a fare i bagagli e ho ancora attaccato qualche bottone al suo abito, lui diceva tra l’altro: In questo campo mi sono addolcito, tutte le persone sono diventate uguali per me sono steli che si piegano sotto la tempesta e si coricano sotto l’uragano». Ha anche detto: «Se sopravviverò a questi tempi, sarò una persone più profonda e matura; e se morirò, morirò da per persona più profonda e matura» (91-92).

La conclusione del Diario, le sue ultime lettere e il resoconto della sua partenza da parte dell’amico e "compagno d’armi" ci assicurano che fu questo il grande cammino di Etty: un cammino di addolcimento, una sorta di crescita nella capacità di essere plasmabile fino ad essere spalmabile come lo può essere un unguento preparato a lungo e a regola d’arte. La donna irrequieta, avida e instabile che passa da un abbraccio all’altro senza essere ancora capace di amare diventa – pagina dopo pagina – una sorta di olio capace di aprire e accompagnare dolcemente verso il compimento la propria e l’altrui vita in modo mirabilmente umile, impercettibile eppure efficace: «Quanto sono grandi le necessità delle tue creature terrestri, mio Dio. Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti e d’un tratto viene fuori tutta la loro pena, e si scopre una povera creatura che non sa come vivere» (202).

E davanti a questo bisogno di accoglienza, di cui Etty è stata la prima beneficiaria nel suo rapporto con Spier, ecco una sorta di impegno umile ma forte al contempo: «Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per fare questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano, un esperto psicologo: rapporti con padre e madre, ricordi giovanili, sogni, sensi di colpa, complessi di inferiorità, insomma tutto quanto… - e aggiunge sempre in forma di preghiera – In ogni persona che viene da me io mi metto ad esplorare con cautela» (202).

Il cuore di Etty si offre come luogo di rifugio e di guarigione in una delicatezza che sarà la grande conquista della sua vita. Sapienza e delicatezza sono il frutto di un lungo cammino verso la vera umiltà e mitezza del cuore: «Una volta mi sentivo in dovere di concepire molti pensieri geniali al giorno, ora mi sento non di rado come una terra incolta su cui non cresce assolutamente niente, ma su cui si stende un cielo alto e tranquillo» (139). Questa autocoscienza redenta nella consapevolezza di un nulla – il proprio – su cui si stende tutta la grandezza di Dio stesso conduce Etty verso una capacità - assai rara - di abitare la propria anima fino a renderla completamente fedele alla sua propria vocazione di creare relazioni: «Un’anima è fatta di fuoco e di cristalli di rocca. E’ una cosa molta severa e dura in senso veterotestamentario, ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta della sue dita sfiorava le mie ciglia».

Etty cammina verso se stessa, verso la profondità della propria anima che diventa sempre di più il luogo autentico della sua vita ma questo non si attua fuori dalla storia ma dentro e come lievito buono che accetta di perdersi in essa (Mt 13,33). Senza illusioni Etty scrive: «Certo è il nostro annientamento! Ma sopportiamolo con grazia» (230). Sopportare con grazia il proprio annientamento non può che rendere vano ogni progetto di annientamento. Questo "sopportare con grazia" diventa per Etty una sorta di vocazione - proprio quando si deve confrontare con il terrore di donne e ragazze che piangevano silenziosamente – e davanti alla cui disperazione reagisce con uno struggente desiderio: «a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti e pensavo: Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca. Ora voglio esserlo un’altra volta. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento» (230).

Etty alla fine non vuole essere altro che un cuore che pensa all’interno di un sistema che tenta proprio di annientare l’umanità privandola – molto prima di eliminarla fisicamente – della capacità di sentire e quindi in certo modo di soffrire: «non vogliamo pensare», «non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze» (230). Davanti a questa deriva dell’umanità da cui è circondata, Etty si pone come una diga che accoglie, raccoglie e instrada i frammenti di umanità devastati verso un ulteriore compimento: «A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per i corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po’ diverso ma in fondo è uguale alle altre, di ognun si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio» (202).

E con quale olio, con quale crisma potremmo mai consacrare ognuna di queste case a Dio? Non sarà forse il balsamo delicato e penetrante dell’invisibile ma efficace olio della nostra mitezza - la virtù dei forti - di quanti hanno ridotto in polvere ogni inutile durezza: «io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono così tante case vuote, te le offro come all’ospite più importante» (202) delicatamente…! Ma quanto ancora ci resta da macerare in quest’olio capace di esaltare infine le qualità di ogni pianta, di ogni pietra, di ogni riflesso degli astri sulla nostra povera terra… lasciamoci andare, lasciamoci marcire, lasciamo che si esalti attraverso di noi ciò che è più grande di noi stessi nel mortaio e nell’alambicco del nostro cuore. Prepariamoci all’Ora in cui ci sarà richiesta solo una goccia di mite dolcezza, profondo e maturo balsamo per molte ferite… a cominciare da quella che segretamente sanguina dentro – nel più profondo – di ciascuno di noi. Quale altare e quale tempio più adatto per un Dio trafitto come il nostro Dio?!

Ad occhi aperti

Attorno al Signore Gesù la baruffa aumenta sempre di più: «e nacque dissenso tra la gente riguardo a lui» (Gv 7,43). Aldilà degli apprezzamenti - «mai un uomo ha parlato come quest’uomo» (Gv 7,46) – e dei rifiuti netti - «studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea» (Gv 7,52) – rimane la profezia che si compie pienamente nel consapevole e libero cammino del Signore Gesù verso la sua Ora: «Il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; allora mi ha aperto gli occhi sui loro intrighi» (Gr 11,18).

Il Signore Gesù ci spiana la via verso la pienezza perché ci indica il modo di portare a compimento il nostro cammino ad occhi aperti, senza stordimento alcuno e in piena coscienza: «Si vedono molti visi sfiniti, pallidi e sofferenti. Un altro pezzo del nostro campo è stato amputato, la prossima settimana toccherà al prossimo pezzo, qui si vive così da più di un anno, settimana dopo settimana» (143) dopo questo primo sguardo riassuntivo Etty apre ancora di più i suoi occhi e aggiunge: «non sappiamo niente del loro destino. Forse lo sapremo presto, ognuno a suo tempo, perché quello sarà anche il nostro destino – non ne dubito nemmeno un istante» (144).

La chiarezza di ciò che sta succedendo non paralizza Etty né tanto meno la rende assolutamente sensibile a qualsivoglia forma di illusione. Da parte sua cerca di affrontare il momento presente con tutta la presenza possibile e, al contempo, animata da un dovere di registrazione del reale cerca di assicurare che nulla vada perso: «Ho già detto altre volte che non ci sono parole o immagini per descrivere una notte come questa. Eppure devo annotare qualche cosa per voi – ci si sente sempre occhi ed orecchi di un pezzo di storia ebraica, talvolta si prova anche il bisogno di essere una piccola voce». E come sempre la sua piccola esperienza diventa emblematica e per questo, in certo modo, eterna e un prezioso bagaglio per l’umanità nella sua interezza: «Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti di questo mondo e ognuno deve portare il proprio sassolino, per farlo combaciare con gli altri del mosaico che a guerra finita coprirà tutta la terra» (129).

Mentre la vita è in pericolo lo sguardo del cuore di Etty va lontano, sempre più lontano verso il futuro – che materialmente non c’è – e verso tutta la terra che si riduce al mezzo chilometro quadrato circondato da filo spinato. Ma in Etty il futuro è la forma reale del presente che – se vissuto nella giusta modalità – ha comunque un avvenire: «In futuro voglio visitarli tutti , uno per uno, gli uomini che a migliaia sono finiti in quel pezzo di brughiera, passando per le mie mani. E se non li troverò, troverò le loro tombe. Non potrò mai più rimanere tranquillamente seduta alla mia scrivania. Voglio andare per il mondo, vedere coi miei occhi e sentire coi miei orecchi com’è andata a tutti coloro che abbiamo fatto partire» (228).

Le persone che passano per le sue mani, il dolore che passa sotto i suoi occhi diventa per Etty parte irrinunciabile della sua stessa intima esistenza. Ma come hanno potuto i suoi occhi non solo vedere tanto dolore ma, persino, amarlo talmente fino a desiderare di non perderlo di vista e quasi di rincorrerlo attraverso lo spazio e il tempo come la cosa più amata? L’unica risposta possibile a tutto ciò è l’esperienza fondamentale di Etty: si è lasciata guardare dentro il proprio cuore e ha imparato a guardare con gli occhi del cuore. L’esperienza della propria interiorità è la sola a permettere di sopportare l’inenarrabile con una grazia e una dolcezza imparata a lungo in ogni momento della vita: «Ecco, l’albero è sempre lì, l’albero che potrebbe scrivere la mia biografia. Però non è più lo stesso albero – o forse sono io che non sono la stessa persona?» (195).

Aver imparato a farsi guardare da un albero, ad amare una primavera e a lasciarsi accarezzare da un bocciolo di rosa e, persino, da un solo petalo di essa… ha messo Etty davanti al grande passo della sua vita: «Bisogna saper sopportare i tuoi misteri» (195). Ed è proprio questo sguardo del cuore posato sempre più delicatamente sul mistero di un Dio circondato dai suoi massimi enigmi a dare ad Etty la giusta modalità di essere presente alla storia… con la stessa soavità di quell’albero che avrebbe potuto scrivere la sua biografia e testimoniare del suo processo interiore di crescita.

Ma vivere con questo sguardo sempre più limpido e puro non è cosa facile: «il medico diceva ieri che ho una vita interiore troppo intensa, che vivo troppo poco sulla terra, anzi, che vivo quasi ai confini col cielo, che il mio fisico non può reggere a tutto ciò». Etty non esclude che il medico abbia ragione ma pure si chiede: «E perché poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perché non ci si potrebbe vivere? E si corregge: Il cielo vive dentro di me!» (195). Ma è proprio in questo cielo, in cui la sua anima si va inesorabilmente trasformando, che Etty si ritrova misteriosamente capace di cogliere con la soavità dello specchio quel dolore che sarebbe altrimenti insopportabile perché indegno dell’umanità: «la nostra pazienza aumenta… e se si distruggono i preconcetti che imprigionano la nostra vita come inferriate, allora si libera la vita e la vera forza che sono in noi, e allora si avrà la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità» (224).

Etty non rinuncia a toccare la storia né tanto meno accetterebbe mai di chiudere gli occhi davanti al reale: «Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti… e così questi occhi scuri col loro sguardo buono dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivo, allora tuta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi» (165). Ma dove mai questa forza potrà essere attinta se non nella preghiera, nella calma, nell’interiorità continuando «indisturbati a percorrere i vasti e sgombri paesaggi del proprio cuore» (222)? Vedere col cuore – lo insegnava già Giovanni Climaco – e non preoccuparsi di ciò che si dice di noi dall’esterno ma di ciò che viene testimoniato all’interno della nostra casa interiore da cui si devono tenere, accuratamente, lontane «le molte preoccupazioni come si farebbe con dei pericolosi parassiti» (161).

La sfida è lasciar dire e continuare a porre su tutto e tutti uno sguardo puro, vero, vivo. Si tratta di lasciare che venga preparato persino il patibolo… interiormente pronti a salirvi ad occhi aperti avendo il coraggio di rifiutare persino l’aceto mescolato a fiele con cui si vorrebbe stordire la mente a annebbiare la vista. Una parola dentro potrà fluire come sorgente di pace: «a te ho affidato la mia causa» (Gr 11, 20). Sì cercheranno di abbattere «l’albero nel suo rigoglio» (Gr 11,19)… sì cercheranno di farlo così ciecamente da pensare di averlo stroncato… e invece lo si renderà testimone di una vittoria più grande quella della libertà di non essere ingabbiati in nessuna "casa" (Gv 7,53) che non sia quella preparata per me dall’eternità: «Ã¨ proprio come se la vita mi fosse divenuta trasparente e così anche il cuore umano, e io vedo e vedo e capisco sempre di più, e dentro di me sono sempre più in pace» (160). Donami, mio Dio, occhi di pace: pace negli occhi e occhi solo per la pace!

Spaccati in due

Il castigo «ti spaccherà in due» (Dn 13, 55.59) con cui Daniele punisce ciascuno degli anziani «invecchiati nel male» (Dn 13, 52) non è altro che il modo per evidenziare il delitto di questi uomini che, nonostante tutte le apparenze , non hanno «il dono dell’anzianità» (Dn 13, 50) ma sono inadeguati a se stessi e perfino rabbiosi per una giovinezza che non hanno più fino ad inventarne una da condannare: «quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei» (Dn 13, 57). Noi sappiamo che nessun giovane si è introdotto nel giardino di Susanna, ma dobbiamo riconoscere, al contempo, che i due vecchi si erano nascosti nell’intento di far finta di essere giovani nell’intimità come fanno finta di essere anziani davanti al popolo: spaccati in due non potranno che essere spaccati in due.

Ma Daniele salvando Susanna conclude: «così facevate con le donne di Israele ed esse per paura si univano a voi» (Dn 13,57). Con queste parole ci viene svelato il nome proprio della castità: il non avere paura nemmeno davanti alla morte. E il Signore Gesù non esita ad affermare per negare al contempo svelando il tranello sempre in agguato nel cuore ipocrita dell’uomo – nel nostro cuore - «nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera» (Gv 8,17). Ma attenzione bisogna avere prima le due "persone" che abbiano raggiunto questa "personalità" sempre unica. Bisogna aver raggiunto l’anzianità del giovane Daniele e l’abbandono fedele alla verità di se stessa davanti a Dio della casta, libera e sovrana Susanna: «Dio eterno che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai…» (Dn 13,42-43).

Per certi aspetti Etty ha condiviso – solidale col suo popolo e con tanti altri – quella tristissima processione che conduceva Susanna al supplizio. E non possiamo che ammirare anche in Etty – e attraverso di lei in tanti altri – una sorta di accoglienza del reale: «il letto traballa come una nave nella tempesta. E di notte ci sono topi che attaccano le provviste e i letti in una situazione un poco inquietante» (30) eppure nessun moto di ribellione verso Dio ma l’accoglienza piena e coraggiosa del fatto che «tutto avviene proprio secondo leggi imperscrutabili».

Etty nel suo realismo non chiude gli occhi sulla realtà e per certi aspetti la vive un po’ con gli occhi e il cuore del giovane Daniele quando scrive: «Ci si vergogna di essere stati presenti senza averlo potuto impedire» (47). Questa frase di rammarico è posta proprio nel contesto che Etty definisce a più riprese «il capitolo più triste della storia di Westerbork certamente quello dedicato agli anziani» (46). Proprio di questi anziani da una parte Etty coglie con grande compassione i loro gesti smarriti e i loro visi spenti (47), ma di coloro da cui ci si aspetterebbe una anzianità di cuore e una maturità Etty registra tristemente la verità che proprio Westerbork mette a nudo: «Su quell’arido pezzo di brughiera naufragano anche diversi protagonisti delle vita culturale e politica delle grandi città. Tutte le scene che li circondavano sono state bruscamente abbattute con un solo colpo potente, ed essi stanno ancora un po’ tremanti e spaesati» (50).

Terribile epilogo di una vita sarebbe non lo sterminio ma lo s-mascheramento del fatto che la propria persona sia rimasta solo e solamente una maschera/(persona in latino)… non un maschera per imparare lentamente ma decisamente a ricoprire il proprio ruolo fino in fondo ma solo e solamente una maschera: «La loro ben forgiata armatura di posizione, reputazione e proprietà s’è sfasciata, e ora essi sono rivestiti soltanto dell’ultima camicia della loro umanità. Si trovano in uno spazio vuoto delimitato da cielo e terra, dovranno riempirli da soli con le loro potenzialità interiori – là fuori non c’è niente» (51).

Tutta la vita di Etty fu invece un deciso lavoro per invecchiare bene e in solitudine – non in modo fusionale e in-individuato come quei due vecchi che Daniele si preoccupò di separare accuratamente -: «A volte mi sento proprio come una pattumiera: sono così torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso di inferiorità. Ma in m c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno» (53). Lungi dal giocare a mettere su una sorta di scena sulla cui ribalta cercare di far apparire la propria persona nella migliore luce possibile, Etty ingaggia una lotta profonda con il suo cuore e nel suo intimo. Senza mezze parole e senza mezze misure ingaggia una «lotta contro la propria sensualità» (37) come pure sa di dover cominciare a lottare contro il mio desiderio di avventure e contro la mia curiosità erotica. Con la sua coraggiosa capacità di dare un nome preciso al suo vissuto Etty non esita a scrivere: «Debbo anche vincere quella paura indefinita che mi porto dentro. La vita è difficile davvero è una lotta di minuto in minuto (non esagerare tesoro) ma è una lotta invitante» (38). E ogni volta che questa lotta conosce qualcuna delle sue epopee annota: «E’ stata un’altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con un pezzetto di maturità in più» (48).

La cosa fondamentale per Etty è maturare, è crescere, è attraversare la vita senza finzione ma nel coraggio di una verità su se stessi talora assai dura: «Sto proprio rischiando di rovinare questa amicizia con l’erotismo» (47). Non servirebbe a nulla mentire a se stessi come dei bambini viziati, non ci si può auto-mentire meno di quanto si possa mentire agli altri: «Certo che ero stata toccata nei miei istinti erotici!» (40).

Sempre onesta con se stessa nella speranza di poter, onestamente e amorevolmente, occupare il suo posto nella storia Etty consuma le sue forze migliori nel cercare di fare unità nel proprio cuore e nella propria vita: «Le numerose contraddizioni della vita devono essere accettate, tu invece vorresti fonderle in un unico insieme e in qualche modo semplificarle dentro di te, così ti semplificheresti pure la vita. Ma il fatto è che al vita è composta di contraddizioni, che queste vanno accettate tutte come sue parti integranti, e che non si può accentuarne una a spese di un’altra. Lascia che il tutto giri e forse diventerà un unico insieme» (58). Etty è certa che questo lavoro di unificazione interiore è l’unico degno di assorbire le sue migliori energie e, forse, proprio per questo non riuscirà mai a scandalizzarsi o spaventarsi eccessivamente per quello che capita fuori di lei e attorno a lei: è così presa dalla grande battaglia che si attua nel suo cuore…!

Solo questa unificazione interiore – dura e lunga – può condurre non solo all’unificazione ma pure – e questo è più mirabile – ad una compagnia interiore in cui Animus e Anima sono interiorizzate nell’intimo del cuore e non più in perenne ricerca l’uno dell’altra all’esterno: «D’un tratto avevo avuto la sensazione di non essere sola ma "in due": come se fossi composta di due persone che si stringessero affettuosamente e che stessero bene così, al caldo. Un forte contatto con me stessa e perciò un buon caldo dentro, un senso di autosufficienza. Chiacchieravo animatamente fra me e me e trotterellavo con gran piacere…» (59)

Quel misterioso piacere provato anche minimamente ma fortemente da Adamo quando era solo nel Paradiso, solo ma già com-portante Eva nel suo fianco, nel più profondo di sé (Gn 2). Ma Adamo non seppe avvertire questa presenza così intima e confuse l’appello all’interiorità con una condanna alla solitudine… Dio non poté che lasciarlo placidamente addormentare per dare forma visibile ed esterna a quella dolcezza che portava dentro come un favo il suo miele … cosa avrebbe potuto fare Dio?!

… Da allora una grande lotta attraversa il nostro cuore, una grande nostalgia ci abita, un grande compito ci attende: quotidianamente ritrovare e ricreare l’equilibrio tra solitudine e relazione, tra castità e intimità… ma possiamo sperare di ritrovare la pace e la gioia nella capacità di essere veri in noi stessi e discreti con i nostri compagni di viaggio: «vivo nella comunità ma anche molto per me stessa e questo mi riesce benissimo, sebbene qui si stia addosso e sopra e sotto e in mezzo agli altri» (147)… insieme ma non spaccati, soli ma sempre almeno in due… ma per tutto questo possiamo contare solo e solamente sull’«intelligenza dell’anima» (236).

Guarda lassù

Mentre il viaggio di Gesù verso il compimento si fa sempre più deciso attorno a lui –come serpenti sibilanti – si scatenano i sospetti e le domande: «Tu chi sei?» (Gv 8,25). Gesù obbliga i Giudei a porre questa domanda… loro che solitamente sanno tutto… di tutti… sempre! I Giudei del tempo di Gesù – noi stessi! – non sono diversi da quelli che camminavano nel deserto: «il popolo non sopportò il viaggio» (Nm 21,4). Quando il viaggio, il cammino, la fatica dell’andare avanti ci diventa pesante ecco che il nostro sguardo si appiattisce su quel prossimo passo che dovremmo fare e che non abbiamo più voglia di fare… o paura di fare. Ed ecco che «il Signore mandò serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero di israeliti morì» (Nm 21,6).

Sempre tra noi, in noi ci sono serpenti velenosissimi che rischiano di ucciderci con il veleno dell’immobilità e della paralisi. Animali pericolosissimi i serpenti che ci obbligano a guardare sempre per terra costringendoci in certo modo a condividere la loro propria maledizione «sul tuo ventre camminerai e povere mangerai» (Gn 3,14). Il veleno del serpente è la paura di ogni passo ad ogni passo: il viaggio dunque diventa estenuante. Ma ecco che il Signore trova una soluzione: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita» (Nm 21,8).

Nel campo di Westerbork – come in ogni "campo" della vita – il grande veleno da cui si può essere uccisi è proprio quello di farsi ridurre a non avere più occhi per il cielo acconsentendo a delle "vite impoverite… povere e aride vite" ogni qual volta si arriva a dire: «una volta avevo sempre la casa piena di fiori ma ora non ne ho più voglia» (221). Etty scrive con un certo umorismo: «Gli ebrei nel deserto, è un paesaggio che conosciamo bene» (86) e con ancora più grande realismo smaschera il lavoro di dis-umanizzazione portato avanti dalla macchina nazista: «Stanno giocando un bel giochetto con noi, ma noi lo consentiamo, e la nostra vergogna rimarrà incancellabile per tutte le generazioni future» (94). Per Etty giorno dopo giorno si fa sempre più evidente il gioco perverso che sta alla base dello sterminio e le diventa sempre più chiaro che il preoccuparsi della vita riducendosi alla sopravvivenza significa far vincere questa terribile logica a cui «bisogna reagire, bisogna sapersi isolare da quel chiasso sterile che si diffonde come una malattia contagiosa» (221). Da parte sua tutto lo sforzo è quello di rimanere fedele a se stessa e al suo viaggio interiore: «A volte quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che scorrono da una profonda emozione e riconoscenza» (122).

Mentre la terra fruibile per gli ebrei diventerà sempre minore, a causa delle restrizioni nei loro confronti, il cielo diventerà sempre più ampio e più importante. Etty annota uno stralcio tratto da una lettera di suo padre «nel suo umorismo inimitabile: Oggi è cominciata l’era delle non- biciclette… non dobbiamo più temere che le nostre biciclette vengano rubate. Per i nostri nervi è un grande vantaggio. Anche nel deserto abbiamo dovuta farne a meno, per ben quarant’anni» (132). Ed Etty in certo modo continua ad imparare la grande lezione del deserto: guardare sempre avanti senza fermarsi e guardare il cielo come amava fare il padre Abramo a cui Dio non trova di più bello da dire se non «conta le stelle!» (Gn 15,5). Dopo l’inevitabile momento di sconcerto Etty ritrova forza e decisione: «si può "lavorare" alla propria pace interiore, e continuare ad essere produttivi e fiduciosi dentro di noi malgrado le paure e le voci che circolano. Che possiamo costringerci ad inginocchiarci nell’angolo più remoto e tranquillo del nostro essere, e rimanerci fintanto che su di noi non si stenda nient’altro che un purissimo cielo» (222).

Questo purissimo cielo a cui faceva riferimento già Kant quando diceva «la legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi», non è per Etty che il riflesso della stessa terra, quasi in una sorta di inversione dell’approccio platonico del reale. Questo sguardo al cielo è per Etty non una fuga dalla terra ma un più profondo radicamento in essa, nel suo fango mortifero: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so!» (138). E detto questo il suo sguardo invece di essere "amareggiata" si fa più profondo: «La vita, la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi – il dramma del deserto è quanto mai presente – estenuati nel camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto» (139).

Guardare in alto significa per Etty sempre guardare profondamente tutto e ogni aspetto della vita senza cercare la strada più facile neanche quella di una morte più facile. Per lei l’inasprirsi della prova e il chiarirsi del destino diventano il luogo di una discesa nel mistero più profondo di se stessa: «Ãˆ vero ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno e la terra e la via e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori, ma abbiamo tutto in noi stessi… e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo» (139). Etty è ben conscia che «per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono le piuttosto le mille preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti» (170). Davanti al rischio di cadere nella trappola della mille preoccupazioni Etty si auto-impegna: «oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto della tua giornata e rendila fruttuosa» (170).

Quest’adesione al momento presente e questa capacità di fare continuamente ritorno al cielo del proprio cuore è per Etty l’unico modo per guarire dal morso dei parassiti e del veleno dei serpenti. Guardare in alto significa sempre guardare nel profondo (cfr Lc 5,4) di se stessi per trovarvi la casa di Dio in noi che è l’unico cielo degno di questo nome: «Se vuoi proprio guarire devi vivere diversamente: devi tacere per giorni interi e rinchiuderti in camera tua e non lasciare entrare nessuno, è l’unico modo» (231). Nella solitudine si potranno recuperare quegli «occhi incantati» (232) capaci di leggere nei cuori, di sondare le profondità rispecchiando lo stesso cielo come «occhi azzurri dolci e sognanti» (234) a cui tutto diventa chiaro: «era proprio come se la vita mi apparisse altrettanto chiara e trasparente nei suoi mille dettagli, nelle sue svolte e nei suoi movimenti. Come se avessi davanti un oceano e ne potessi distinguere il fondo, guardando attraverso l’acqua trasparente come cristallo». Tutto si ricongiunge nella pace: «Sei seduta per terra in un angolino della stanza dell’uomo amato, rammendi delle calze e allo stesso tempo sei seduta sulla riva di un mare immenso, e questo mare è così limpido e trasparente che puoi distinguerne il fondo. A un certo momento tu senti la vita così ed è indimenticabile» (192-193).

La vita è possibile solo per coloro che osano levare lo sguardo verso l’alto che è tanto più altro quanto è più profondo. La croce di Cristo vuole essere per noi proprio questa speranza radicale e radicata pur nella disperazione strisciante. Quando il veleno cerca di paralizzarsi e di arrestare il cammino non ci resta che fidarci di una parola: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete» (Gv 8, 28). Che non tocchi anche a noi il rimprovero del maestro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù» (Gv 8, 23). Camminiamo con volto ben fiero e levato e facciamo rumore col nostro passo svelto e sicuro: il serpente fuggirà! Del resto Etty ce lo testimonia: «Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata» (172).