sabato 29 ottobre 2011

XXXI Domenica del T.O. - Testi e Commenti


Di seguito i testi della liturgia di domani 30 ottobre, XXXI Domenica del Tempo Ordinario, Anno "A", con la seconda lettura dell'Ufficio e qualche commento.

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno A


Promuovere la pace

Dalla Costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Concilio ecumenico Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Nn. 78)
La pace non è semplicemente assenza di guerra, né si riduce solamente a rendere stabile l'equilibrio delle forze contrastanti e neppure nasce da un dominio dispotico, ma si definisce giustamente e propriamente «opera della giustizia» (Is 32, 17). Essa è frutto dell'ordine impresso nella società umana dal suo fondatore. E' un bene che deve essere attuato dagli uomini che anelano ad una giustizia sempre più perfetta.
Il bene comune del genere umano è regolato nella sua sostanza dalla legge eterna, ma, con il passare del tempo, è soggetto, per quanto riguarda le sue esigenze concrete, a continui cambiamenti. Perciò la pace non è mai acquisita una volta per tutte, ma la si deve costruire continuamente. E siccome per di più la volontà umana è labile e, oltre tutto, ferita dal peccato, l'acquisto della pace richiede il costante dominio delle passioni di ciascuno e la vigilanza della legittima autorità.
Tuttavia questo non basta ancora. Una pace così configurata non si può ottenere su questa terra se non viene assicurato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi in tutta libertà e fiducia le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. Per costruire la pace, poi sono assolutamente necessarie la ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli, l'impegno di ritener sacra la loro dignità e, infine, la pratica continua della fratellanza. Così la pace sarà frutto anche dell'amore, che va al di là quanto la giustizia da sola può dare.
La pace terrena, poi, che nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo che promana da Dio Padre. Infatti lo stesso Figlio di Dio, fatto uomo, principe della pace, per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio e, ristabilendo l'unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha distrutto nella sua carne l'odio (cfr. Ef 2, 16; Col 1, 20. 22). Nella gloria della sua risurrezione ha diffuso nei cuori degli uomini lo Spirito di amore.
Perciò tutti i cristiani sono fortemente chiamati a «vivere secondo la verità nella carità» (Ef 4, 15) e a unirsi con gli uomini veramente amanti della pace per implorarla e tradurla in atto.
Mossi dal medesimo Spirito, non possiamo non lodare coloro che, rinunziando ad atti di violenza nel rivendicare i loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono del resto alla portata anche dei più deboli, purché questo si possa fare senza ledere i diritti e i doveri degli altri o della comunità.

MESSALE

Antifona d'Ingresso Sal 37,22-23
Non abbandonarmi, Signore mio Dio,
da me non star lontano;
vieni presto in mio aiuto,
Signore, mia salvezza.

Colletta
Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; f
a' che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio ...

Oppure:
O Dio, creatore e Padre di tutti, donaci la luce del tuo Spirito, perché nessuno di noi ardisca usurpare la tua gloria, ma riconoscendo in ogni uomo la dignità dei tuoi figli, non solo a parole, ma con le opere, ci dimostriamo discepoli dell'unico Maestro che si è fatto uomo per amore, Gesù Cristo nostro Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura Ml 1,14-2,2.8-10
Avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento.

Dal libro del profeta Malachia
Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni.
Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione.
Voi invece avete deviato dalla retta via
e siete stati d’inciampo a molti
con il vostro insegnamento;
avete distrutto l’alleanza di Levi,
dice il Signore degli eserciti.
Perciò anche io vi ho reso spregevoli
e abietti davanti a tutto il popolo,
perché non avete seguito le mie vie
e avete usato parzialità nel vostro insegnamento.
Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?


Salmo Responsoriale
Dal Salmo 130
Custodiscimi, Signore, nella pace.

Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.

Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.

Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre.


Seconda Lettura 1 Ts 2,7-9.13
Avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.
Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti
.

Canto al Vangelo
Mt 23,9.10
Alleluia, alleluia.

Uno solo è il Padre vostro, quello celeste
e uno solo è la vostra Guida, il Cristo
.
Alleluia.


Vangelo Mt 23,1-12
Dicono e non fanno

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Parola del Signore.


* * *

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XXXI Domenica del Tempo Ordinario A

Omelia

L’odierna liturgia della parola è un forte richiamo alla conversione per tutti i credenti, ma in special modo per chi, nella comunità, ha ricevuto il compito di presidenza: i Sacerdoti. Afferma il profeta Malachia: «A voi questo monito, o Sacerdoti. […] Avete deviato dalla retta via e siete stati d'inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l'alleanza di Levi […]. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie».

La fedeltà a Dio e alla sua legge è condizione imprescindibile per esserGli graditi e per l’efficacia di ogni testimonianza cristiana. Se ciò vale per ogni battezzato, è ancora più cogente per i Sacerdoti. La fedeltà al Signore è sia dovere personale e morale, sia dovere ministeriale, per evitare di “essere d’inciampo a molti”, cioè di causare, per la propria condotta, l’allontanamento dalla Chiesa e, addirittura, da Dio.

La responsabilità nell’esercizio del ministero è quanto mai un dato da recuperare in tutta la valenza teologica e pastorale dal suo significato. Se è feconda e carica di promessa la giusta valorizzazione della comune vocazione battesimale, non è certamente da sottovalutare il ruolo preminente che la provvidenza affida ai sacerdoti in ordine alla testimonianza e all’insegnamento evangelici. Non dobbiamo mai dimenticare l’autorevole richiamo del Signore: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12, 48) e, senza timori ma nella consapevolezza della gravità della vocazione ricevuta, siamo chiamati implorare dalla divina Misericordia il dono di una luminosa fedeltà, di un impegno costante, un’attenzione vigile, un’ascesi indefessa perché sempre più efficacemente la nostra esistenza sia conformata dalla grazia a quella di Cristo crocifisso e risorto.

Lo stipendio del peccato è la morte! Il frutto dell’infedeltà è il divenire spregevoli agli occhi dei fratelli: «Vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo». Le recenti drammatiche vicende che hanno colpito il corpo Sacerdotale, arrivando in non pochi casi a sfigurarne l’immagina agli occhi dei fedeli e ad annebbiare al loro sguardo il fulgore della santità della Chiesa, sono testimonianza della verità di quanto affermato dal Profeta Malachia.

Non accada mai ad alcuno, laico o sacerdote, di cadere nell’errore stigmatizzato con tanta inequivocabile chiarezza dal Signore: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,2). L’armonia, tendenzialmente sempre più piena, tra annuncio e testimonianza, tra quanto “si dice” e quanto “si fa”, è la prima ragione di credibilità e la sola vera, universale ed efficace strategia pastorale! L’unico “piano pastorale” che con certezza porta frutti di evangelizzazione è la santità! Quella vissuta dai tutti cristiani e, tra di essi, particolarmente carica di promessa è la santità sacerdotale.

Questa santità, questa luminosa testimonianza ha un nome inequivocabile: amore.

Ci ricorda San Paolo, con commovente espressione: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2,7). È questa la “temperatura” dell’amore che nasce dalla fede! È questa la “cura pastorale” alla quale tutti i sacerdoti sono chiamati! L’amore diviene così irresistibile testimonianza e, perciò invincibile opera apostolica di evangelizzazione. Chi può resistere all’amore di una madre? Chi può rifiutare la prossimità e la testimonianza di chi è disposto ad offrire la propria vita?

Colui cha ama, conosce sempre anche il proprio posto: quello del servo. «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,12). La santità si riflette nell’amore gratuito e l’amore si traduce ed ha il suo apice nel servizio. L’appartenenza a Cristo fa di tutti i battezzati dei “servi” della fede e della felicità degli altri uomini e la configurazione ontologica a Cristo fa dei sacerdoti dei “servi speciali”, chiamati ad una particolarissima amicizia ed intimità con il loro Signore e, perciò, ad una altrettanto grande responsabilità e lealtà.

La Beata Vergine Maria, madre che più di tutte ha «cura dei propri figli», protegga tutti i Sacerdoti del mondo e ne faccia risplendere, per la fede degli uomini, la santità, l’amore ed il servizio.


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Omelia di Luciano Manicardi (Monastero di Bose)

ll’invettiva profetica contro i sacerdoti infedeli nella prima lettura risponde l’invettiva profetica di Gesù rivolta a scribi e farisei nel vangelo. Entrambi i testi denunciano non solo l’ipocrisia e la doppiezza, ma anche il potere che può essere esercitato da chi detiene un’autorità.

Ai sacerdoti il profeta rimprovera la scissione del loro insegnamento dall’ascolto della Parola di Dio, l’unica che può dare fondamento, contenuto e autorevolezza alla loro parola. Senza la Parola di Dio, il sacerdote non ha nulla da dire, essendo il suo ministero un servizio della Parola di Dio.

L’accusa contro “l’agire perfido” (Ml 2,10) colpisce il tradimento della fiducia. Chi riveste una responsabilità religiosa non può non essere cosciente della valenza simbolica della sua persona: egli deve pertanto essere fidabile e credibile. Se tradisce la fiducia che altri ripongono in lui, diviene responsabile anche dell’eventuale allontanamento da ciò egli rappresenta nel suo ministero.

Intendere la pagina di Matteo come antigiudaica e le parole di Gesù come rivolte esclusivamente a scribi e farisei, significa non comprendere l’intenzione del testo (che dal v. 8 ha di mira i discepoli e dunque i cristiani) e cadere nell’ipocrisia denunciata da Gesù stesso. Commentando i versetti 5-7 Gerolamo ha scritto: “Guai a noi, miserabili, che abbiamo ereditato i vizi dei farisei”. Le parole di Gesù colpiscono il clericalismo cristiano e riguardano vizi religiosi, non giudaici. Le situazioni denunciate da Gesù in Mt 23 sono nostre, tutte, “nessuna esclusa: da quelle ridicole, ma non per questo meno pericolose – i paludamenti, i titoli, i posti d’onore – a quelle ancor più gravi: l’intellettualismo, il verbalismo, il proselitismo, la casistica, il ritualismo, la persecuzione dei profeti vivi e la strumentalizzazione dei profeti morti” (Vittorio Fusco).

Le parole dure di Gesù, che non sono maledizioni ma invettive e lamenti al tempo stesso, parole piene di collera e di sofferenza – le due facce dell’amore tradito –, svolgono una sorta di terapia d’urto nei confronti di una distorsione del magistero e dell’autorità religiosa che occorre definire patologica..

Gesù denuncia l’irresponsabilità della parola. Irresponsabilità che consiste nel dire senza fare, quasi che il parlare di Vangelo dispensi dal viverlo o equivalga al metterlo in pratica. Irresponsabilità che è imposizione agli altri di pesi schiaccianti (l’immagine sottostante è quella dei mercanti che caricavano pesi immensi sulle loro bestie da soma perché li portassero per loro), dunque come comando che vale per l’altro e non per sé e dunque è ignorante del peso che l’altro deve portare e della sua fatica.

Dovremmo anche interrogarci sull’esibizionismo religioso (cf. Mt 23,5-6), sullo scialo di titoli onorifici(cf. Mt 23,7-10) rivolti a personalità ecclesiastiche (l’episcopale “Eccellenza” è di derivazione fascista ed è stato applicato ai vescovi per attribuire loro una dignità non minore di quella riservata da Mussolini ai suoi prefetti), sulla fastosità e ricercatezza barocca di vesti liturgiche (cf. Mt 23,5). Se il Crisostomo criticava chi onorava Cristo all’altare con “vesti di seta” mentre fuori di chiesa vi era chi moriva di freddo per la nudità, Bernardo di Clairvaux scriveva a papa Eugenio III dicendogli che “Pietro non si presentò mai in pubblico bardato di gemme o in cappe di seta o coperto d’oro” e che “sotto questo aspetto, tu non sei il successore di Pietro ma di Costantino” (De consideratione IV,3,6).

Titoli, vesti, onori: trattandosi di cose esteriori, vale la pena di perder tempo a criticare queste cose? Mi limito a citare le parole di p. Yves Congar: “Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che sono dovuti? O vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini? E essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su un piedistallo? È possibile comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?”.


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Omelia 3 - Enzo Bianchi (Monastero di Bose)

Mentre Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme affronta una serie di controversie, rispondendo ad alcune domande che gli vengono poste, «per metterlo alla prova» (Mt 22,34; cfr. 22,15), dai rappresentanti dei gruppi religiosi presenti in Israele. Le sue risposte sapienti mettono a tacere gli avversari, tanto che l’evangelista può annotare: «Da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (Mt 22,46).

A questo punto Gesù, capovolgendo la situazione che lo vede accusato dalle autorità religiose, si rivolge alla folla e ai suoi discepoli con un discorso, di cui nella liturgia leggiamo solo la prima parte, che attraversa tutto il capitolo 23 e si conclude con la sua uscita definitiva dal tempio (cfr. Mt 24,1). È un discorso duro e netto, che contiene anche i celebri sette: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!». Vale la pena ricordare in proposito che i «guai!» – una forma espressiva ben attestata nelle Scritture, in particolare nei Profeti (cfr. Is 5,8-24,4; Ger 22,13, ecc.), e ripresa anche altrove da Gesù (cfr. Mt 11,21; 18,7; Lc 6,23-26, ecc.) – non sono, come spesso si sente dire, maledizioni: no, essi sono degli avvertimenti, dei severi richiami in vista della conversione; sono invettive e lamenti accorati nello stesso tempo, pronunciati da chi spera ancora che i destinatari di queste parole possano fare ritorno a Dio…

Ma chi sono i destinatari di questi ammonimenti di Gesù? In primo luogo, evidentemente, «gli scribi e i farisei seduti sulla cattedra di Mosè», ovvero le guide religiose del tempo. Più volte Gesù ha polemizzato con gli uomini religiosi di Israele, considerandoli particolarmente esposti, per il loro ruolo «esemplare», al grave peccato dell’ipocrisia. Ma questo rischio, e i comportamenti deplorevoli a esso connessi, toccano da vicino gli uomini religiosi di ogni tempo, compresi ovviamente quelli cristiani. Basti ricordare ciò che scriveva san Girolamo con lucido realismo: «Guai a noi, miserabili, che siamo ricaduti negli stessi vizi dei farisei!». Di più, le parole di Gesù si rivolgono a ciascuno di noi discepoli appartenenti alla sua comunità di ogni epoca, sempre minacciati dalla pretesa di annunciare agli altri un Vangelo che noi stessi non viviamo in prima persona…

Gesù si scaglia innanzitutto lapidariamente contro quanti «dicono e non fanno», l’esatto contrario di ciò che egli ha testimoniato con la sua vita: egli era credibile, affidabile perché diceva ciò che pensava e faceva ciò che diceva. Ed è proprio da questa sua integrità che nasceva la sua autorevolezza, quella che induceva chi lo incontrava a «stupirsi del suo insegnamento, perché insegnava come uno che ha autorevolezza e non come gli scribi» (cfr. Mt 7,28-29). Poi Gesù precisa: «Legano pesanti fardelli e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito». Alla realtà descritta da questa immagine così espressiva si contrappone ancora una volta il comportamento di Gesù: egli è stato un maestro mite e umile di cuore, al quale potevano andare con fiducia coloro che erano stanchi e oppressi, nella certezza di trovare nel suo giogo dolce e nel suo peso leggero il vero riposo per le loro vite (cfr. Mt 11,28-30).

All’accusa di incoerenza, di doppiezza tra il dire e il fare, Gesù aggiunge poi quella di ipocrisia che, nelle sue varie forme religiose e sociali, discende da un’unica motivazione di fondo: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente». L’ipocrisia è quel terribile vizio che spinge a privilegiare l’apparire sull’essere, a costo di fingere, di simulare, di recitare una parte davanti agli altri. E questo perché si desidera apparire belli agli occhi altrui, ricevere l’applauso degli uomini, a prescindere dalla propria reale condizione interiore. Gesù, che ha sempre cercato la sua «ricompensa» solo nel segreto del suo rapporto con il Padre (cfr. Mt 6,4.6.18), è impietoso nel condannare questa patologia: nel discorso della montagna aveva detto che questi ipocriti che vogliono gloria per sé «hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6,2.5.16), sia che facciano l’elemosina, sia che preghino, sia che digiunino; qui parlerà subito dopo dei pretesi «giusti» come di «sepolcri imbiancati, che all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni impurità» (Mt 23,27).

Non stupisce che al termine di questa requisitoria Gesù si presenti ai discepoli come unico vero Maestro e Guida. Solo seguendo lui si può camminare insieme verso il nostro unico Padre, Dio; solo la sua autorevolezza, quella di chi «è venuto non per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28) e lo ha fatto con una vita integra e non auto-referenziale, è modello di ogni autorità nella chiesa.