martedì 25 ottobre 2011

"Regno di Dio" vuol dire: Dio c'è!

Di seguito il Vangelo di oggi, 25 ottobre, martedi della XXX settimana del T.O., con un commento e qualche testo patristico.


Nagasaki, 17 marzo 1865. Padre Petitjean "scopre" i cristiani nascosti giapponesi.
Dopo trecento anni avevano conservato la fede.



La fede ci dà già ora qualcosa della realtà attesa,
e questa realtà presente costituisce per noi
una «prova» delle cose che ancora non si vedono.
Essa attira dentro il presente il futuro.
Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente;
il presente viene toccato dalla realtà futura,
e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future.
Il suo regno non è un aldilà immaginario,
posto in un futuro che non arriva mai;
il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge.

Benedetto XVI, Spes salvi





Lc 13,18-21


In quel tempo, Gesù diceva: "A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell'orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami".
E ancora: A che cosa rassomiglierò il regno di Dio? È simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata".


IL COMMENTO



E' l'insignificanza che redime la vita, il paradosso di quel sepolcro che ha aperto le fauci e ha inghiottito il Signore. Egli ha deposto il Regno di Dio - il destino eterno per il quale siamo stati creati - al di là dell'ultimo gradino che l'uomo possa discendere. Dal momento in cui Cristo è stato adagiato nella tomba, ogni tomba è divenuta Regno di Dio. La domanda che si pone Gesù stesso, rivela l'assoluta novità annunciata dal Vangelo: "A che cosa paragonerò il Regno di Dio? A cosa lo rassomiglierò?" Non dice a che cosa paragonerò il principio del Regno, la sua crescita, il suo compimento. Dice: il Regno di Dio è simile a un granello di senapa, è simile a un po' di lievito. Il Regno di Dio è già compiuto nel suo inizio, e in tutta la sua storia. Il Regno di Dio è qui ed ora. In altre parabole il Signore descrive il suo diffondersi, ma con le parole di oggi ci svela una notizia capace di cambiare radicalmente la nostra vita. Il granello di senapa, il più piccolo tra i semi, è immagine dell'estrema piccolezza cui si avvia la nostra vita, la situazione nella quale viviamo oggi, esito dell'umiliazione cocente subita. Il lievito, farina vecchia e putrida, è immagine di quanto, nella nostra vita, si sta oggi corrompendo. Il Regno di Dio è l'esatto contrario di ciò che immaginiamo, e si nasconde dove meno ce lo aspettiamo: "Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri" (Isaia 56,8-9).

"Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia" (J. Ratzinger, Discorso al Convegno dei catechisti, 10 dicembre 2000). Questa realtà si rivela presente e decisiva nella morte. Come per il seme, come per il lievito. Come per Gesù. Il Regno è laddove tutto scappa dalle mani e non si può più controllare; laddove non si comprende nulla di quanto sta accadendo, al limite esatto oltre il quale ci attendono la disperazione, l'esaurimento, la resa. Il Regno di Dio è Cristo stesso adagiato su quel limite, il suo sepolcro che si fa terra e farina, ciò che sono, oggi, le nostre esistenze.

Il chicco caduto in terra infatti, se non muore resta solo. Il Signore gettato in questo mondo come un banalissimo chicco di Vita, abbandonato in un giardino, giustiziato su una croce, sepolto in una grotta, ha salvato una moltitudine immensa, e tra questa anche noi. E' Lui che fa della nostra vita il suo Regno, proprio laddove essa ci viene strappata. Gesù ci attende oggi al capolinea dei sogni e dei progetti, dell'amore e degli affetti, degli ideali e delle filosofie, della politica e della finanza; Egli ci attende per riscattarci, per colmarci di Lui, della Sua vita piena ed eterna. Non è morte, è vita! Non è sepolcro, è Regno di Dio! "La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare" (J. Ratzinger, Omelia per il Sabato Santo).

Il granello di senapa, il lievito, l'umana e carnale insignificanza, costituiscono l'autenticità del nostro essere; spogliati di ogni orpello sperimentiamo che non viviamo di pane e che siamo nati per divenire pane; laddove tutto ci è tolto si erge, vittorioso, l'amore di Cristo, quale unica fonte e ragione di vita. Gettati nella storia come un granello di senapa, impastati nei giorni come lievito, siamo chiamati ad essere, in Cristo, cittadini del Regno di Dio: esso è in noi e con noi visita la storia, i luoghi della nostra vicenda umana, per divenire un albero capace di accogliere - tra le nostre braccia crocifisse - gli uccelli del cielo, immagine biblica dei popoli pagani. La nostra insignificanza redenta fermenta i mille non senso che atterriscono gli uomini, schiudendo loro le porte del Regno. Così, il martirio silenzioso di ogni giorno che ci attende, incruento e quindi neppure eroico, rivela l'autenticità e il valore della nostra vita.


Facciamo un esempio.In Giappone la Chiesa vanta decine di migliaia di martiri. Essa ha conosciuto quasi trecento anni di solitudine, stretta da una persecuzione feroce. Nulla che lasciasse presagire un cambiamento. Non fu una settimana, un mese, un anno. Furono migliaia di giorni, e generazioni che sorgevano e tramontavano nella cappa asfissiante di una vita nascosta, nel timore delle delazioni, ogni preghiera sussurrata, le feste celebrate con gli abiti di ogni giorno: niente sacerdoti, niente sacramenti dopo il battesimo, niente chiese. Solo la propria vita dentro un'interminabile e buia catacomba. Ma il Regno di Dio era lì, nascosto, invisibile, disciolto come lievito nella storia comune di ogni giorno. Insignificanti, i kakure kiristan (cristiani nascosti) hanno vissuto aggrappati alla promessa dei missionari: “torneremo un giorno...”. La fede è stata l'unica roccia cui aggrappare la loro vita. Moltissimi di loro, i più, non hanno visto quel giorno con gli occhi della carne. Ma il regno di Dio non si è mai allontanato dal Giappone: in mezzo alle persecuzioni, nell'insignificanza e nel disprezzo, nel dissolversi quotidiano di ogni speranza umana, esso ha fecondato quella terra, ha fermentato quel popolo. In quei giorni intrisi di fede Dio era presente in loro, nascosto con loro. Nessuno poteva sapere o immaginare. Anche a Roma erano convinti che non vi fossero più cristiani in Giappone. Invece, un giorno di marzo del 1865, a Nagasaki dove aveva costruito una cappella per i commercianti stranieri, ancora vigente l'editto di persecuzione, un missionario francese è raggiunto da una notizia sconvolgente: "abbiamo lo stesso cuore!". Erano un pugno di uomini e donne, un granello di senapa, un po' di lievito. Erano i discendenti dei martiri, nascosti nella terra, nella farina, nella solitudine di ogni giorno. Ed ora erano lì, pronti a stendere ancora le braccia, ad offrire la propria vita, con lo stesso cuore di Cristo. L'insignificanza aveva partorito il senso autentico e profondo celato in essa. Molti di essi morirono martiri poco tempo dopo, testimoniando l'amore di Dio sino alla fine. E' questa è la comunità cristiana, la Chiesa di Cristo: braccia distese sulla Croce della misericordia, distese verso ogni uomo, il peggiore, il più peccatore, il più perduto.


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ABBIAMO LO STESSO CUORE! IL SEME DI NAGASAKI HA DATO IL SUO FRUTTO


Il chicco di grano caduto in terra a Nagasaki e scoperto, ormai albero forte e robusto, quando si pensava fosse ormai seccato.



A Nagasaki, quel 17 marzo del 1865, sembrava una giornata come qualsiasi altra. Padre Petitjean, dopo aver finito il pranzo, prese un panno asciutto ed entrò nella nuova cappella di Oura, nel quartiere di Murakami. Come ogni giorno, poteva scorgere, attraverso la porta parzialmente aperta, la folla di spettatori che lo scrutavano con curiosità. A causa del divieto del magistrato, i giapponesi non avrebbero fatto un ulteriore passo avanti verso la chiesa. Quando ebbe finito le pulizie, si inginocchiò davanti all'altare e strinse le mani. Pasqua era vicina.

Erano appena passate le dodici e trenta quando udì un lieve rumore dietro di lui; si voltò, e vide quattro o cinque giapponesi in silenzio intenti a fissarlo. Gli uomini indossavano abbigliamento trasandato e le loro facce sembravano cotte al sole. Lo guardavano timidamente, i loro occhi erano come quelli dei topi quando scrutano l'ambiente circostante; ma quando Padre Petitjean girò la testa verso di loro, si ritirarono velocemente. Con un sorriso forzato congiunse di nuovo le mani e riprese la sua preghiera.
Ancora una volta udì un debole rumore. Questa volta però rimase inginocchiato e non prestò attenzione ai curiosi, così da offrire loro del tempo per guardare l'altare e le statue di Gesù e Maria. Gli uomini presero un po' di coraggio: sentì dei passi, i giapponesi sembravano venire ancora più vicino. "Queste cose strane in fila qui. . . Sai come si chiamano? ". Erano ormai tanto vicini da poter ascoltare la loro conversazione. Padre Petitjean Era così nervoso da trovarsi sul punto di piangere.

Ad un tratto una donna gli chiese: «Signore. . . Dove si trova la statua di Santa Maria? "

Padre Petitjean cercò di alzarsi, ma non riusciva a rimettersi in piedi. L'intensità di quelle emozioni gli rendeva impossibile muoversi. "La statua. . . di Santa Maria", sussurrò. "Vieni con me". Padre Petitjean condusse la donna alla base della statua della Madonna a destra dell'altare. La giovane Madre sorrideva, aveva una corona sulla testa e il bambino Gesù in braccio. [La statua stessa è ancora in mostra oggi nella cattedrale di Oura a Nagasaki.]
La donna, insieme ad altri uomini e donne nel gruppo, sollevò gli occhi per guardare dove Petitjean stava indicando. Stettero in silenzio per un po’ di tempo, finché la donna mormorò, quasi come un sospiro o un gemito, "E’ così bella!". Anche gli altri sospirarono. Poi, con alcuni di loro, gli chiese se fosse per caso sposato. E ancora, se lo avesse inviato lì il Papa di Roma.

Poi, una voce di donna si udì scandire alcune parole: "Signore . . Abbiamo lo stesso cuore".

Era la voce di una donna di mezza età. Si fermò dietro di lui, sussurrando dolcemente come a svelare un importante segreto. "Signore . . Abbiamo lo stesso cuore". Padre Petitjean ne rimase talmente sbalordito che non potè cogliere immediatamente il significato di quelle parole. Ma nell'istante in cui il loro significato gli divenne chiaro, si sentì come colpito da un fulmine. Erano loro! Erano apparsi finalmente! Erano i cristiani!

Padre Petitjean allora chiese con voce rauca: "Sei Kirishitan. . . ? ". Aveva la gola riarsa.

"Sì", rispose un giovane di fronte al gruppo.

Petitjean avrebbe voluto dire loro che era un sacerdote. Ma non c'era ancora una parola giapponese per dire "prete". "Petitjean. Petitjean". Indicò il naso e ripetè il suo nome. Poi chiese al giovane: "Da dove vieni?" Questi rispose: "Urakami".

Proprio in quel momento, una voce gridò dall'ingresso, "Presto! Sta arrivando un ufficiale!", Quelli nella cappella si allontanarono rapidamente sparendo come fumo attraverso l'uscita.

Petitjean rimase immobile nella cappella vuota. Ondate di emozioni inesprimibili si infrangevano nel suo cuore. Aveva voglia di urlare. Voleva gridare al Padre Furet: “Vedete! Sono qui a Nagasaki! Essi esistono davvero! Che splendida città è questa!”. Attraverso 200 anni di persecuzione spietata e feroce oppressione, i cristiani giapponesi, come un unico albero, avevano subito un acquazzone, e alcuni di loro erano ancora rimasti vivi!. “Abbiamo lo stesso cuore!”.



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Sant'Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento al Vangelo di Luca, 7, 176-180


Il granellino di senapa


Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede pari a un granellino di senape, direte a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile" (Mt 17,20)... Orbene, se il regno dei cieli è come un granellino di senape e anche la fede è come un granellino di senape, la fede è certamente il regno dei cieli, e il regno dei cieli è la fede. Quindi, chi ha la fede ha il regno dei cieli... E infine Pietro, che aveva tutta la fede, ricevette le chiavi del regno dei cieli, per aprirne le porte agli altri (cfr. Mt 16,19).


Consideriamo ora, tenendo conto della natura della senape, la portata di questo paragone. Il suo granello è senza dubbio una cosa modesta e semplice, ma se si comincia a tritarlo, diffonde il suo vigore. E così la fede sembra semplice di primo acchito, ma triturata dalle avversità, diffonde il suo vigore... Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabor e Vittore : essi avevano il profumo della fede, ma li si ignorava. Venne la persecuzione; essi deposero le armi, porsero il collo e, abbattuti dal fendente della spada, diffusero la grazia del loro martirio per tutto il mondo, tanto da potersi dire giustamente: "La loro eco si è propagata per tutta la terra" (Sal 19,5).


Lo stesso Signore è un granello di senape. Egli non aveva subito ingiurie, ma, come il granello di senape, prima di essersi accostato a lui, il popolo non lo conosceva. Egli volle essere stritolato...; volle essere premuto, sicché Pietro disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia" (Lc 8,45); ed infine volle essere anche seminato come il granello che fu « preso e gettato da un uomo nel suo orto ». Infatti in un orto Cristo fu catturato e poi seppellito; in un orto crebbe, dove pure risorse... Dunque, anche tu semina Cristo nel tuo orto... Tu semina il Signore Gesù: egli è un granello quando viene arrestato, un albero quando risuscita, un albero che fa ombra a tutto il mondo. È un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo.



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San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d'Antiochia poi di
Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelie sul Vangelo di Matteo, 46, 2


«Finché sia tutta fermentata»


Il Signore presenta poi l'immagine del lievito... Come il lievito diffonde la sua forza in tutta la pasta, così anche voi trasformerete tutto il mondo. (Considerate la sapienza del Salvatore. Egli vuol far intendere questo: come è impossibile che i fatti naturali non si realizzino, così quanto io ho preannunciato avverrà infallibilmente)... Il lievito fermenta
la massa quando lo si accosta alla farina; e non semplicemente lo si accosta, ma lo si mescola. Gesù non dice che la donna mette il lievito nella farina, ma che lo nasconde dentro, impastandolo con essa.


Così anche voi, quando sarete spinti dentro e vi troverete in mezzo alle folle che da ogni parte vi faranno guerra, allora le vincerete. Il lievito si nasconde nella massa, ma non va perduto; anzi, a poco a poco, le comunica la sua forza: lo stesso avviene per il messaggio evangelico. Non abbiate quindi timore delle numerose difficoltà che vi ho preannunciato: è
in questo modo che risplenderà la vostra forza e vincerete.


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Simeone il Nuovo Teologo (circa 949-1022), monaco
Inno 17


Il regno di Dio


Ti mostrerò chiaramente che ti occorre ricevere quaggiù tutto il Regno dei cieli, se vuoi entrarvi anche dopo la tua morte. Ascolta Dio che ti parla in parabole : « A che cosa è simile il Regno dei cieli ? È simile, ascolta bene, ad un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto ; poi è cresciuto e, in verità, è diventato un albero ». Questo granellino, è il Regno dei cieli, è la grazia dello Spirito divino, mentre l’orto, è il cuore di ogni uomo, là dove, chi l’ha ricevuto, nasconde lo Spirito nel profondo del suo animo, nei recessi delle sue viscere, perché nessuno possa vederlo. E lo custodisce con ogni cura perché cresca, e diventi un albero e si innalzi verso il cielo.
Se dunque dici : « Non quaggiù, ma dopo la morte, riceveranno il Regno coloro che l’avranno desiderato con fervore », sconvolgi le parole del Salvatore nostro Dio. E se non prenderai quel granellino, quel granellino di senapa, come egli ha detto, se non lo gettera i nel tuo orto, rimarrai completamente sterile. In quale altro momento, se non ora, pensi di poter ricevere quel seme ?
« Quaggiù, ricevi il pegno, dice il Maestro ; quaggiù, ricevi il sigillo. Fin da quaggiù accendi la tua lampada. Se avrai buonsenso, per te, quaggiù, diventerò la perla (Mt 13,45), quaggiù sarò il tuo chicco di grano e come il granellino di senapa. Quaggiù divento per te il lievito che fa lievitare la pasta. Quaggiù sono per te come acqua e divento un dolce fuoco. Quaggiù divento il tuo vestito e il tuo cibo e la tua bevanda, se lo desideri ». Questo dice il Maestro : « Se dunque, fin da quaggiù, mi riconoscerai come tale, lassù allora mi possederai ineffabilmente, e diventerò tutto per te ».



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«Gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra»


Sant’Ambrogio nel quarto secolo

Il Signore stesso è un granello di senapa... Se Cristo è un granello di senapa, in quale modo egli è il più piccolo, e come cresce? Non nella sua natura egli cresce, ma secondo l’apparenza. Volete sapere come egli è il più piccolo? “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2). Imparate che egli è il più grande: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3). Infatti colui che non aveva apparenza né bellezza è diventato superiore agli angeli (Eb 1,4) superando tutta la gloria dei profeti di Israele... Egli è il più piccolo di tutti semi, perché non è venuto con la regalità, né con le ricchezze, né con la sapienza di questo mondo. Ora, come un albero, ha fatto crescere l’alta cima della sua potenza, cosicché diciamo: “Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo” (Ct 2,3).
Secondo me, sovente sembrava contemporaneamente albero e seme. È seme quando dicono: “Non è egli forse il figlio del carpentiere,” (Mt 13,55). E proprio durante queste parole é improvvisamente cresciuto: “Da dove mai viene a costui questa sapienza? ” (vs. 54). Nel fogliame dei suoi rami potranno ripararsi con sicurezza l’uccello notturno nella sua dimora, l’uccello solitario sopra il tetto (Sal 101,7), quello che fu rapito fino al terzo cielo (2 Cor 12,3), e quello che sarà “rapito tra le nuvole, nell’aria” (1 Tes 4,17). Là riposeranno anche le potenze e gli angeli dei cieli e quanti hanno, grazie alle loro azioni spirituali, preso il volo. San Giovanni vi si è riparato quando riposava sul petto di Gesù (Gv 13,25)...
E noi che “eravamo lontani” (Gal 2,13), radunati da mezzo alle nazioni, a lungo sballottati nel vuoto del mondo dalle tempeste dello spirito del male, spiegando le ali delle virtù, dirigiamo il nostro volo affinché questa ombra dei santi ci ripari dal caldo soffocante di questo mondo.


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APPROFONDIMENTI

Le parabole del Regno, il granello di senapa e il seme gettato. Commenti patristici

1. I tempi della semina e i tempi del bene

Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!

Gregorio Magno, In Exod., II, 3, 5 s.


2. Il granello di senape (Lc 13,18-19)

"A che cosa somiglia il regno di Dio, a che cosa dirò che è simile? È simile a un granello di senape, che, preso e gettato da un uomo nel suo orto, crebbe ed è divenuto un albero, e gli uccelli del cielo si sono posati sui suoi rami" (Lc 13,18-19).

Questo passo ci insegna che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Vuoi esser certo che bisogna avere una grande fede? Leggi l’Apostolo: "E se avessi così tanta fede da trasportare le montagne" (1Co 13,2).

Orbene, se il regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il regno dei cieli, e il regno dei cieli è la fede. Quindi, chi ha la fede ha il regno dei cieli; e il regno dei cieli è dentro di noi come dentro di noi è la fede. Leggiamo infatti: "Il regno dei cieli è dentro di voi" (Lc 17,21); e altrove: "Abbiate la fede in voi" (Mc 11,22). E infine Pietro, che aveva tutta la fede, ricevette le chiavi del regno dei cieli, per aprirne le porte agli altri.

Consideriamo ora, tenendo conto della natura della senape, la portata di questo paragone. Il suo granello è senza dubbio una cosa modesta e semplice, ma si comincia a tritarlo, diffonde il suo vigore. E così la fede sembra semplice di primo acchito: ma triturata dalle avversità, diffonde la grazia della sua virtù, in modo da penetrare del suo profumo anche coloro che leggono o ascoltano.

Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabor e Vittore. Essi avevano il profumo della fede, ma li si ignorava. Venne la persecuzione; essi deposero le armi, porsero il collo e, abbattuti dal fendente della spada, diffusero la grazia del loro martirio per tutto il mondo, tanto da potersi dire giustamente: "La loro eco si è propagata per tutta la terra" (Ps 18,5).

Ma la fede talvolta è tritata, talvolta premuta, talvolta seminata.

Lo stesso Signore è un granello di senape. Egli non aveva subito ingiurie, ma, come il granello di senape, prima di essersi accostato a lui, il popolo non lo conosceva. Egli volle essere stritolato, in modo che noi potessimo dire: "Noi siamo per Dio il buon profumo di Cristo" (2Co 2,15); volle essere premuto, sicché Pietro disse: "La folla ti preme intorno" (Lc 8,45) ed infine volle essere anche seminato come il granello che fu «preso e gettato da un uomo nel suo orto». Infatti in un orto Cristo fu catturato e poi seppellito; in un orto crebbe, dove pure risorse. È divenuto un albero, così come sta scritto: "Come un albero di melo tra gli alberi della foresta, così è mio fratello tra i giovani" (Ct 2,3).

Dunque, anche tu semina Cristo nel tuo orto - l’orto è un luogo pieno di fiori e di frutti diversi - in modo che vi fiorisca la bellezza della tua opera e profumi l’odore vario delle diverse virtù. Là dunque sia Cristo, dove c’è il frutto. Tu semina il Signore Gesù: egli è un granello quando viene arrestato, un albero quando risuscita, un albero che fa ombra a tutto il mondo. È un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo...

Vuoi sapere che Cristo è il granello, e che è stato seminato? "Se il granello di grano non cade in terra e vi muore, esso resta solo: ma quando è morto produce molto frutto" (Jn 12,24). Non abbiamo dunque sbagliato dicendo ciò che egli stesso ha già detto. Egli è anche il granello di grano, perché fortifica il cuore degli uomini (Ps 103,14-15), e granello di senape, perché accende il cuore degli uomini. E, sebbene sia l’una che l’altra similitudine appaiano adatte, egli sembra tuttavia il granello di grano quando si tratta della sua risurrezione: egli è infatti il pane di Dio disceso dal cielo (Jn 6,33), affinché la parola di Dio e il fatto della risurrezione nutrano l’anima, accrescano la speranza e consolidino l’amore. È invece granello di senape, affinché sia più amaro e austero il discorso sulla passione del Signore: più amaro, perché spinga alle lacrime, più austero perché generi commozione. Così, quando leggiamo o ascoltiamo che il Signore ha digiunato, che il Signore ha avuto sete, che il Signore ha pianto, che il Signore è stato flagellato, che il Signore ha detto al momento della passione: "Vigilate e pregate per non entrare in tentazione" (Mt 26,41), noi, colpiti, per così dire, dall’aspro sapore di questo discorso, siamo spinti a moderare la troppo gradevole dolcezza dei piaceri del corpo.

Dunque, chi semina il granello di senape, semina il regno dei cieli.

Non disprezzare questo granello di senape: "È certamente il più piccolo di tutti i semi, ma diviene, una volta cresciuto, il più grande di tutti gli ortaggi" (Mt 13,32). Se Cristo è il granello di senape, in che modo egli è il più piccolo, e in che modo cresce? Non è nella sua natura, ma secondo la sua apparenza che cresce. Vuoi sapere in qual modo è il più piccolo? "Lo abbiamo visto e non aveva né bella apparenza né decorosa" (Is 53,2). Apprendi ora come è il più grande: "Risplendeva di bellezza al di sopra dei figli degli uomini" (Ps 44,3). Infatti colui che non aveva né bella apparenza né decorosa, è stato fatto superiore agli angeli (He 1,4), oltrepassando tutta la gloria dei profeti...

Cristo è il seme, in quanto è seme di Abramo: "Poiché le promesse furono fatte ad Abramo e al suo seme. Egli non dice: ai suoi semi, come parlando di molti; ma, come parlando di uno solo: al suo seme, che è il Cristo" (Ga 3,16). E non soltanto Cristo è il seme, ma è il più piccolo di tutti i semi, perché non è venuto né nella regalità, né nella ricchezza, né nella sapienza di questo mondo. Orbene, subito egli ha allargato, come un albero, la cima elevata della sua potestà, in modo che noi possiamo dire: "Sotto la sua ombra con desiderio mi sedetti" (Ct 2,3).

Sovente, credo, egli appariva contemporaneamente albero e granello. È granello quando si dice di lui: "Non è costui il figlio di Giuseppe l’artigiano?" (Mt 13,55). Ma, nel corso di queste stesse parole, egli subito è cresciuto, secondo la testimonianza dei giudei, perché essi non riescono neppure a toccare i rami di quest’albero divenuto gigantesco: "Donde gli viene" - essi dicono - "questa sapienza"? (Mt 13,54).

È dunque granello nella sua apparenza, albero per la sua sapienza. Tra le foglie dei suoi rami, l’uccello notturno nel suo nido, il passero sperduto sul tetto (Ps 101,8), colui che fu rapito in paradiso (2Co 12,4), e colui che dovrà essere trasportato sulle nubi in aria (1Th 4,17), hanno ormai un luogo sicuro dove riposare. Là riposano anche le potenze e gli angeli del cielo, e tutti coloro che per le azioni spirituali meritarono di volare. Vi riposò san Giovanni, quando reclinava la testa sul petto di Gesù, o meglio, egli era come un ramo nutrito dal succo vitale di quest’albero. Un ramo è Pietro, un ramo è Paolo "dimenticando ciò che sta dietro e tendendo a ciò che sta davanti" (Ph 3,13): e noi, che eravamo lontani, che siamo stati radunati dalle nazioni, che per lungo tempo siamo stati sballottati nella vanità del mondo dalla tempesta e dal turbine dello spirito del male, spiegando le ali della virtù, voliamo nel loro seno e come nei recessi della loro predicazione, affinché l’ombra dei santi ci protegga dal fuoco di questo mondo.

Così, nella tranquillità di un sicuro riposo, la nostra anima, che una volta era curva, come quella donna, sotto il peso dei peccati, «scampata come un uccello dalle reti dei cacciatori» (Ps 123,7) si è levata sui rami e i monti del Signore (Ps 10,1).

Ambrogio, Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186


3. Il seme più piccolo per l’evento più grande

"Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo" (Mt 13,31). Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra.

Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. "È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami" (Mt 13,32). Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo.

Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 46, 2


4. La parabola del granello di senapa (Mt 13,31-32)

La fede quanto un granellin di senapa,

Simbolo del tuo Regno,

Io non l’ho accolta dentro la mia anima,

Perché le perverse montagne fossero spostate (Mt 17,20).

E neppure, come uccel del cielo,

Mi son posato sui rami del precetto,

Dove le anime pure si riposano,

Eredi del santo Tabernacolo dei cieli.

Né mi son reso aspro al palato,

O troppo duro alla bocca dei vermi;

Sbriciola i lor dentini, te ne prego,

Ricollocami sui rami dell’albero.

Nerses Snorhali, Jesus, 477-479

* * *

Marco 4,26-34. Commento di san Beda Il Venerabile

In Marci evangelium expositio,I,4 PL 92,172-174.

L'uomo getta il chicco nel terreno, quando affida al suo cuore generose risoluzioni. Poi dorme, perché riposa già nella speranza di un'opera buona. Tuttavia, egli si alza di notte e di giorno, perché deve procedere in mezzo a circostanze felici o avverse.

Il seme germoglia e viene su senza che egli sappia come, giacché la virtù, una volta concepita, progredisce senza che sia possibile misurarne l'avanzamento.

La terra da se porta frutto, perché la grazia preveniente di Dio aiuta l'uomo a far spuntare buone opere.

La terra dapprima produce erba, poi la spiga, e infine il grano pieno nella spiga. L'erba rappresenta i teneri inizi del bene; la spiga significa che la virtù concepita nell'animo sta facendo progressi; il grano maturo vuoi dire che l'impianto della virtù è abbastanza robusto per compiere un lavoro consistente e accurato.

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Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura.

Allorché l'Onnipotente ha fatto maturare il grano, vale a dire quando dirige ognuno verso la sua perfezione, da mano alla falce, pronunziando il suo giudizio e mettendo termine alla vita mortale; poi miete per ammassare il frumento nei granai del cielo.

Quando concepiamo buoni desideri, gettiamo in terra il chicco; dando inizio al bene, siamo erba; crescendo nelle buone opere diventiamo spiga, e consolidandoci nella perfezione arriviamo ad essere la spiga turgida di chicchi.

Se dunque noti qualcuno ancora incerto nel bene, come grano in erba, non lo canzonare, perché in lui sta spuntando il frumento di Dio.Gesù dice ancora: A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso e come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra. e il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra.

Il regno di Dio rappresenta la predicazione del vangelo e la conoscenza delle Scritture, che sono la via verso la vita. Gesù parlava di questo allorché affermò ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo: Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.1( Mt 21,43 ) Il Regno è perciò davvero simile a un granellino di senapa che il seminatore getta nel suo campo.

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Solitamente si dice che il seminatore della parabola raffigura Cristo Salvatore, perché egli semina la salvezza nell'anima dei fedeli. Un'altra interpretazione vede nel seminatore l'uomo stesso che getta il chicco nel terreno del suo cuore.

La nostra anima riceve il grano della predicazione, lo semina nel cuore, lo conserva in vita e lo fa moltiplicare grazie al calore della fede.

Questo seme è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.

La predicazione del vangelo è la più modesta di tutte le dottrine filosofiche. Essa annunzia lo scandalo della croce, e in priorità insegna la fede nella morte e nella risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, uomo e Dio.

Se paragoni questa dottrina a quella dei filosofi, ai loro sistemi, al loro volumi, allo splendore dell'eloquenza e allo sfoggio di cultura dei loro discorsi, vedrai subito come il vangelo sia il più piccolo fra tutti i semi.

Eppure tutte quelle dottrine non hanno nulla di vivo, di concreto o di essenziale, ma si esauriscono facilmente, diventando flaccide e marce come ortaggi e verdure che avvizziscono e sono gettati via.

La predicazione evangelica, al contrario, pur sembrando minuscola in apertura, spuntando contemporaneamente nell'anima del fedele e nel mondo intero, non secca come l'erba ma cresce a misura di albero.

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Il chicco di senape, seminato in terra o nel campo del Signore, non da un ortaggio ma cresce e si trasforma in albero. Il suo sviluppo supera in altezza, dimensione e longevità tutte le piante ortofruttifere.

Lalbero della predicazione evangelica si pianta, elevando gli spiriti degli ascoltatori e facendo loro desiderare le realtà suprerme. Quest'albero stende lunghi rami, perché i predicatori annunziano il vangelo nel mondo intero. Esso eccelle per durata di vita, dato che la verità che i predicatori annunziano non avrà mai fine.

Sotto la sua ombra nidificano gli uccelli del cielo, perché le anime dei fedeli sono avvezze a volare verso l'alto con il desiderio e a fissare lassù il cuore, dimentiche di quello che passa, secondo questa parola del salmista: Sotto le sue ali troverai rifug io. 2 ( Sal 90,4 )

Lo stesso la sposa del Cantico dei cantici cioè la Chiesa, composta dalle anime dei santi proclama con fierezza: Alla sua ombra., cui anelavo mi siedo e dolce e il suo frutto al mio palato. 3 ( Ct 2,3 ) Cio significa in altri termini:

Abbandonando ogni consolazione, mi sono posta sotto la protezione di Dio che desideravo vedere. E' tale l'allegrezza di vederlo e la sua presenza è cosi dolce al mio cuore che forzatamente devo disprezzare, anzi rigettare, tutto quello che non è l'amato.

* * *

LA SENAPE

da “La vita in Cristo e nella Chiesa” – Anno LVII, n°9.


Nell'alimentazione umana hanno sempre avuto molta
importanza tutte quelle sostanze che, aggiunte in minime
quantità, permettono di migliorare il sapore delle vivande.
Un gruppo di piante speziali (spezie) come la senape, i
capperi o l'erba cipollina contengono composti di zolfo, i
quali determinano un sapore particolarmente piccante. Di
origine esotica, questi prodotti vegetali giungevano sui
mercati europei attraverso l'Asia e il Medio Oriente.
La senape è originaria dell'Asia, dove cresceva
spontanea. Si pensa che sia stata coltivata per la prima
volta nel 3000 a.C. in India, e poi esportata in Occidente
come spezia pregiata. Era infatti già nota ai Greci e ai
Romani, i quali utilizzavano i semi pestati da cospargere
sui cibi per renderli più appetitosi.
Tutte le varietà di senape appartengono alle «crocifere»,
famiglia molto numerosa, comprendente generi e specie
di piante erbacee coltivate come ortaggi (rape, ravanelli
ecc.) e come erbe aromatiche e medicinali (la senape
appunto).
Esse hanno fiori con quattro sepali e quattro petali,
disposti a croce e un frutto tipico detto siliqua, un
bacinelle affusolato diviso da un lungo setto centrale che
separa il vano interno in due settori dove alloggiano i
semi.
I semi vengono piantati in primavera e producono un fiore
giallo a giugno. Il frutto che si sviluppa è un baccello che
contiene i semi, che vengono raccolti a fine estate.
Esistono diversi tipi di senape: quelle utilizzate in cucina
sono la «senape bianca» (Sinapis alba), che produce
semi più grossi e bianchi e la «senape nera» (Sinapis
nigra), i cui semi sono marroni-nerastri. In entrambi i casi
i semi sono molto piccoli (1-2 mm di diametro).
Triturando i semi si produce la farina di senape o senape
in polvere che, opportunamente trattata, emana un odore pungente, dal sapore aspro e irritante. I precotti a base di senape sono dette senapi o più propriamente mostarde. Con il termine «senape», infatti, si intende solo la farina di senape che di solito è formata da una miscela dei due tipi di semi. Plinio, nella sua «Historia naturae» (20,236-240), annovera la senape tra le piante coltivate ma, a differenza di altre erbe medicinali, essa non abbisogna di alcuna coltura. Oltre ai semi, si mangiavano anche le foglie bollite, come verdura. La senape nera è stata ben nota nell'antichità anche per le sue proprietà farmaceutiche: gli impiastri di senape venivano applicati sui malati in caso di bronchiti; l'azione revulsiva di senapismi applicati sulla pelle e sugli organi malati attiva la circolazione del sangue. Una terza variante di senape, la Sinapis arvensis, cresce spontaneamente ed è considerata infestante dal contadino.


UNITA' DI MISURA

La senape era, in un certo modo, anche una unità di misura. Sebbene l'Antico Testamento non menzioni mai questa pianta, la senape, come attesta la letteratura tardogiudaica, era ben nota in Palestina.
Essa non era considerata semplicemente una pianta da orto, ma veniva coltivata anche nei campi. Al momento della raccolta, veniva messa in cesti, che quindi risultavano pieni di questi piccolissimi granelli.
I rabbini, che discutevano quanto dovesse durare il periodo del nazireato, erano soliti dire: «Se qualcuno ha fatto voto di nazireato (di 30 giorni) a cesto pieno - cioè di osservare il nazireato tante volte quanti sono gli oggetti che un cesto può contenere - si consideri allora (quale possibilità più rigorosa) che il cesto sia pieno di semi di senapa: in questo caso sarà nazireo per tutta la vita».

Nel Nuovo Testamento, il termine di paragone «come granello di senape» è adoperato dai sinottici per illustrare due diversi concetti teologici: il primo è inserito nel discorso parabolico (Mc 4,1-34; Mt 13,1-52; Lc 13,18-20) che pone Gesù seduto davanti alla folla, intento a spiegare ai suoi uditori il mistero del regno; mentre il secondo è incentrato sulla fede, la quale, pur microscopica, se autentica ha la forza di sradicare anche un albero (Lc 17,5-6; Mt 17,14-20): «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò?
È simile a un granellino di senape, che un uomo ha preso e gettato nell'orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto» (Lc 13,18-19a).
Per illuminare concetti astratti. Gesù prende spunto dall'esperienza agraria ben conosciuta all'epoca. Il regno di Dio paragonato a un granello di senape mette in risalto il contrasto tra la piccolezza del chicco e lo stadio finale della sua crescita. Il regno di Dio non ha apparenza eclatante, eppure esso è già vicino e presente ma nell'aspetto insignificante di un granello di senape. Proprio a partire da quella minuscola entità si sviluppa una grande realtà di vita. Dio opera cose mirabili servendosi di strumenti e materiali umili che portano in sé
un potenziale e un dinamismo travolgente. La parabola poteva terminare con l'immagine dell'albero anche senza alcun ulteriore rinforzo, ma Gesù continua: «... e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami» (Lc 13,19b).
Più di ogni altro arbusto, nel caso della senape, colpisce la proporzione che prende la pianta: essa diventa un albero reale, dal rifugio sicuro per i volatili. L'immagine dell'albero sui cui rami gli uccelli fanno il nido è classico nei profeti, per designare l'uno o l'altro dei grandi regni del loro tempo. Gesù aggiunge questo «di più», alludendo chiaramente all'apologo del cedro di Ez 17,22-24 che descrive la prosperità e l'estensione universale del regno di Dio: «Dice il Signore Dio: lo prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami
coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d'Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all'ombra dei suoi rami riposerà».
In Cristo ogni predizione di salvezza dell'Antico Testamento ha trovato la sua realizzazione. Il regno di Dio diventa iperbolicamente un arbusto dalle dimensioni gigantesche e giungerà ad abbracciare e salvare i popoli del mondo intero. Attraverso questa parabola Gesù spiega che il regno ha una logica diversa e superiore a quella umana e che esso si manifesta in modo imprevedibile e inesorabile, accompagnato dalle sue parole e opere. Il granello di senape, ossia la predicazione di Gesù, non è appariscente, eppure reca in sé il mistero dell'agire divino, di ampiezza universale.

«L'agire divino non è misurabile con criteri umani dell'efficienza e del successo. Dio fa storia con il piccolo resto operando in forma oscura e inferiore, sollecitando gli uomini a fargli credito anche contro le apparenze. È un chiaro invito alla fiducia e alla speranza» (Ravasi).

* * *

J. Ratzinger. Il Regno di Dio e la nuova evangelizzazione

GIUBILEO DEI CATECHISTI E DEI DOCENTI DI RELIGIONE

INTERVENTO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
DURANTE IL CONVEGNO DEI CATECHISTI
E DEI DOCENTI DI RELIGIONE

Domenica, 10 Dicembre 2000




Per il regno di Dio e così per l'evangelizzazione, strumento e veicolo del regno di Dio, vale sempre la parabola del grano di senape (cfr Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Nuova evangelizzazione non può voler dire: Attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. No - non è questa la promessa della nuova evangelizzazione. Nuova evangelizzazione vuol dire: Non accontentarsi del fatto, che dal grano di senape è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, non pensare che basti il fatto che nei suoi rami diversissimi uccelli possono trovare posto - ma osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello lasciando a Dio, quando e come crescerà (Mc 4, 26-29). Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri. Nella sua visione del processo dell'evoluzione Teilhard de Chardin parla del "bianco delle origini" (le blanc des origines): L'inizio delle nuove specie è invisibile ed introvabile per la ricerca scientifica. Le fonti sono nascoste - troppo piccole. Con altre parole: Le realtà grandi cominciano in umiltà. Lasciamo da parte, se e fino a che punto Teilhard ha ragione con le sue teorie evoluzioniste; la legge delle origini invisibili dice una verità - una verità presente proprio nell'agire di Dio nella storia: "Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario - sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo..." dice Dio al popolo di Israele nell'Antico Testamento ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza: Certo, Dio non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell'agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore: Tutto questo - tutti i regni del mondo - ti do... (Mt 4, 9). Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l'impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri secolari. In realtà furono il germe che penetra dall'interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo (cfr Mt 13, 33). Un vecchio proverbio dice: "Successo non è un nome di Dio". La nuova evangelizzazione deve sottomettersi al mistero del grano di senape e non pretendere di produrre subito il grande albero. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell'impazienza di avere un albero più grande, più vitale - dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano. Nella storia della salvezza è sempre contemporaneamente Venerdì Santo e Domenica di Pasqua...

Gesù predicava di giorno, di notte pregava - questo non è tutto. La sua intera vita fu - come lo mostra in modo molto bello il Vangelo di s. Luca - un cammino verso la croce, ascensione verso Gerusalemme. Gesù non ha redento il mondo tramite parole belle, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola.

Il Signore stesso - estendendo ed ampliando la parabola del grano di senape - ha formulato questa legge di fecondità nella parola del chicco di grano che muore, caduto in terra (Gv 12, 24). Anche questa legge è valida fino alla fine del mondo ed è - insieme col mistero del grano di senape - fondamentale per la nuova evangelizzazione. Tutta la storia lo dimostra. Sarebbe facile dimostrarlo nella storia del cristianesimo. Vorrei ricordare qui soltanto l'inizio dell'evangelizzazione nella vita di s. Paolo. Il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo (cfr 1 Cor 2, 1-5; 2 Cor 5, 7; 11, 10s; 11, 30; Gal 4, 12-14). "Nessun segno sarà dato, se non il segno di Giona profeta" ha detto il Signore. Il segno di Giona è il Cristo crocifisso - sono i testimoni, che completano "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24). In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: È un seme il sangue dei martiri.

Sant'Agostino dice lo stesso in modo molto bello, interpretando Gv 21, dove la profezia del martirio di Pietro e il mandato di pascere, cioè l'istituzione del suo primato sono intimamente connessi. Sant'Agostino commenta il testo Gv 21, 16 nel modo seguente: "Pasci le mie pecorelle", cioè soffri per le mie pecorelle (Sermo Guelf. 32 PLS 2, 640). Una madre non può dar la vita a un bambino senza sofferenza. Ogni parto esige sofferenza, è sofferenza, ed il divenire cristiano è un parto. Diciamolo ancora una volta con parole del Signore: Il regno di Dio esige violenza (Mt 11, 12; Lc 16, 16), ma la violenza di Dio è la sofferenza, è la croce. Non possiamo dare vita ad altri, senza dare la nostra vita. Il processo di espropriazione sopra indicato è la forma concreta (espressa in tante forme diverse) di dare la propria vita. E pensiamo alla parola del Salvatore: "...chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà..." (Mc 8, 36).



2. Il Regno di Dio

Nella chiamata alla conversione è implicito - come sua condizione fondamentale - l'annuncio del Dio vivente. Il teocentrismo è fondamentale nel messaggio di Gesù e dev'essere anche il cuore della nuova evangelizzazione. La parola-chiave dell'annuncio di Gesù è: Regno di Dio. Ma Regno di Dio non è una cosa, una struttura sociale o politica, un'utopia. Il Regno di Dio è Dio. Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio non è una lontana "causa ultima", Dio non è il "grande architetto" del deismo, che ha montato la macchina del mondo e starebbe adesso fuori - al contrario: Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia. Nella sua conferenza di congedo dalla sua cattedra nell'università di Münster il teologo J.B. Metz ha detto delle cose inaspettate dalla sua bocca. Metz in passato ci aveva insegnato l'antropocentrismo - il vero avvenimento del cristianesimo sarebbe stata la svolta antropologica, la secolarizzazione, la scoperta della secolarità del mondo. Poi ci ha insegnato la teologia politica - il carattere politico della fede; poi la "memoria pericolosa"; finalmente la teologia narrativa. Dopo questo cammino lungo e difficile ci dice oggi: Il vero problema del nostro tempo è la "Crisi di Dio", l'assenza di Dio, camuffata da una religiosità vuota. La teologia deve ritornare ad essere realmente teo-logia, un parlare di Dio e con Dio. Metz ha ragione: L'"unum necessarium" per l'uomo è Dio. Tutto cambia, se Dio c'è o se Dio non c'è. Purtroppo - anche noi cristiani viviamo spesso come se Dio non esistesse ("si Deus non daretur"). Viviamo secondo lo slogan: Dio non c'è, e se c'è, non c'entra. Perciò l'evangelizzazione deve innanzitutto parlare di Dio, annunciare l'unico Dio vero: il Creatore - il Santificatore - il Giudice (cfr il Catechismo della Chiesa cattolica).

Anche qui è da tener presente l'aspetto pratico. Dio non si può far conoscere con le sole parole. Non si conosce una persona, se si sa di questa persona solo di seconda mano. Annunciare Dio è introdurre nella relazione con Dio: Insegnare a pregare. La preghiera è fede in atto. E solo nell'esperienza della vita con Dio appare anche l'evidenza della sua esistenza. Perciò sono così importanti le scuole di preghiera, di comunità di preghiera. C'è complementarità tra preghiera personale ("nella propria camera", solo davanti agli occhi di Dio), preghiera comune "paraliturgica" ("religiosità popolare") e preghiera liturgica. Sì, la liturgia è innanzitutto preghiera; la sua specificità consiste nel fatto che il suo soggetto primario non siamo noi (come nella preghiera privata e nella religiosità popolare), ma Dio stesso - la liturgia è actio divina, Dio agisce e noi rispondiamo all'azione divina.

Parlare di Dio e parlare con Dio devono sempre andare insieme. L'annuncio di Dio è guida alla comunione con Dio nella comunione fraterna, fondata e vivificata da Cristo. Perciò la liturgia (i sacramenti) non è un tema accanto alla predicazione del Dio vivente, ma la concretizzazione della nostra relazione con Dio. In questo contesto mi sia permessa una osservazione generale sulla questione liturgica. Il nostro modo di celebrare la liturgia è spesso troppo razionalista. La liturgia diventa insegnamento, il cui criterio è: farsi capire - la conseguenza è non di rado la banalizzazione del mistero, la prevalenza delle nostre parole, la ripetizione delle fraseologie che sembrano più accessibili e più gradevoli per la gente. Ma questo è un errore non soltanto teologico, ma anche psicologico e pastorale. L'onda dell'esoterismo, la diffusione di tecniche asiatiche di distensione e di auto-svuotamento mostrano che nelle nostre liturgie manca qualcosa. Proprio nel nostro mondo di oggi abbiamo bisogno del silenzio, del mistero sopra-individuale, della bellezza. La liturgia non è l'invenzione del sacerdote celebrante o di un gruppo di specialisti; la liturgia (il "rito") è cresciuta in un processo organico nei secoli, porta in sé il frutto dell'esperienza di fede di tutte le generazioni.

Anche se i partecipanti non capiscono forse tutte le singole parole, percepiscono il significato profondo, la presenza del mistero, che trascende tutte le parole. Non il celebrante è il centro dell'azione liturgica; il celebrante non sta davanti al popolo nel nome proprio - non parla da sé e per sé, ma "in persona Cristi". Non contano le capacità personali del celebrante, ma solo la sua fede, nella quale si fa trasparente Cristo. "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

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LA CLELIA BARBIERI, PARABOLA EVANGELICA SULLA UMILTÀ. Paolo VI

SOLENNE BEATIFICAZIONE DI CLELIA BARBIERI

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 27 ottobre 1968

LA PARABOLA EVANGELICA SULLA UMILTÀ

«A che cosa paragoneremo il regno di Dio? O con quale similitudine lo figureremo? Esso è simile a un granello di senapa, il quale, quando si semina in terra, è più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma, seminato che sia, cresce e diventa più grande di tutti. gli erbaggi e fa dei rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (Marc. 4, 30-32).

A queste parole del Signore correva il Nostro pensiero, mentre porgevamo ora il Nostro atto di venerazione alla nuova Beata, sembrando a Noi, come supponiamo che quanti oggi la onorano vadano pensando, di ravvisarle riflesse tali parole evangeliche nell’umile ed eletta figura di Clelia Barbieri. Perché la prima impressione che la sua vita offre al nostro sguardo, abituati, come tutti siamo, a osservare e misurare gli uomini secondo la loro statura nel contesto storico e sociale, è quella della piccolezza. Qual è la sua storia? Si dura fatica a rintracciarla e a descriverla per la scarsezza di dati di cui si compone, per un primo motivo, quello della brevità del suo soggiorno terreno: di soli ventitre anni! Vero è che nei fasti della santità Clelia Barbieri non è sola a raggiungere il paradiso in così giovane età; a raggiungerlo, diciamo, con i segni anche a noi visibili della gloria. Non consideriamo ora il caso di bambini e di fanciulli e di giovani che giungono alla salvezza proprio in virtù dell’integrità della grazia battesimale e della loro naturale innocenza, senza aver subito alcuna profanazione, che una più lunga durata della loro terrena esistenza e una più piena esperienza delle avversità del pellegrinaggio nel mondo avrebbero forse loro arrecata. Ma ciò che ora interessa la nostra attenzione è il fatto che la brevità della vita sia illustrata in alcuni casi da uno straordinario complesso di virtù personali, di grazie spirituali e di circostanze biografiche da conferire alla giovane vita l’aureola più gloriosa e più difficile a conseguirsi quella della santità.

MERAVIGLIE DELLA GIOVINEZZA CONSACRATA AL SERVIZIO DI DIO

La santità nella giovinezza sembra a Noi un fenomeno umano ed agiografico degno del più grande interesse, per la sua precocità (non è una delle curiosità moderne quella dei «fanciulli-prodigio», o dei giovanissimi atleti, o artisti, o scienziati, o eroi, che, superando gli indugi dello sviluppo e i ritmi del tempo, raggiungono in anticipo una pienezza naturale sbalorditiva?); e sembra un fenomeno mirabile per la ricchezza di doni soprannaturali, che l’acerbità stessa dell’età mette in evidenza. Chi non ricorda, ad esempio (e restiamo nel giardino femminile), l’elogio di S. Ambrogio per Agnese, la giovinetta vergine e martire da lui magnificata: «Ella, come si narra, aveva dodici anni quando subì il martirio» (Haec duodecim annorum martyrium fecisse traditur - De virgin. 1, 7).

Voi Bolognesi, subito in Cuor vostro commentate: anche la nostra beata Imelda Lambertini, fiore della santa Eucaristia, aveva tredici anni. Potremmo ricordare che Giovanna d’Arco chiuse la sua vita avventurosa, mistica, militare ed eroica a diciannove anni, A trentatré Santa Caterina da Siena. E Santa Bartolomea Capitanio, ch’ebbe una vita sotto molti aspetti simile alla nostra Clelia Barbieri, pochi decenni prima, meritò ella pure d’essere fondatrice d’una fiorente famiglia religiosa nel breve spazio di ventisei anni. Ricordiamo tutti che S. Teresa del Bambin Gesù mori a ventiquattro anni. Potremmo continuare. Ma ora ci basta fermare lo sguardo sulla nostra Beata, traendo conferma dalla brevità stessa del suo passaggio nel tempo che la santità, anche quella meritevole del suffragio ufficiale della Chiesa, è possibile alla gioventù; ed inoltre, a tutto ben considerare, quando i carismi della grazia e l’intelligenza del Vangelo le siano assicurati, potremmo dire che meglio si addice la perfezione cristiana alla giovane età che non ad altro periodo dell’umana esistenza.

CRISTO NEI SUOI SEGUACI PIÙ GENEROSI E FEDELI

Ma la giovane età segna indubbiamente un limite di piccolezza, se non al valore, alla storia d’una breve vita. Ed altro limite riscontriamo in Clelia nella scena umana in cui quella vita si svolge: l’umiltà dell’ambiente, quello d’una modesta ed ignota Parrocchia rurale, le Budrie di S. Giovanni in Persiceto, dove all’occhio curioso di valori culturali e civili nulla appare di notevole, e dove invece è giustamente notata la deficienza economica e sociale, propria delle popolazioni rurali di quel tempo.

Certo, un occhio più attento ai valori morali e religiosi può scoprire le meraviglie di quel quadro umano, in cui la nostra civiltà cristiana ha modellato, composto, ornato il costume degnissimo dell’umile gente, dove la laboriosità, la sobrietà, l’onestà, la modestia, la bontà, il senso del dovere, il timor di Dio, il rispetto per tutti sono così penetrati nella mentalità e nelle abitudini della tranquilla e travagliata popolazione contadina da trarne stupendi e quasi campestri fiori di gentilezza, di abnegazione, di candida semplicità, di sensibilità morale, di spiritualità cristiana, che indarno cercheremmo in tanti altri ambienti più evoluti, e ormai prevalenti nella nostra moderna società. Occorre finezza manzoniana per apprezzare simile scena, gusto francescano, e, diciamo pure, senso evangelico.

Ma la piccolezza rimane la misura del quadro, anche sotto un altro aspetto, che, per altro verso, grandeggia di meravigliosa irradiazione spirituale, vogliamo dire quello della vita religiosa. Anche questa è semplice, popolare e ordinaria; essa è formata alle fonti più accessibili della preghiera comune; alimentata da letture che di poco si estendono oltre i primi elementi della dottrina cristiana, e dal Manuale di Filotea, allora assai in voga, del Can. Riva di Milano. Suoi maestri sono due Parroci di campagna, magnifici Sacerdoti, ottimi pastori, assai virtuosi, il Setanassi e il Guidi, ma entrambi senza pretese di vasta cultura e di pensiero originale. Anche il nome, che definirà la Famiglia religiosa fondata da Clelia Barbieri, metterà in evidenza la dimensione scelta, sull’esempio e in onore d’un grande umilissimo Santo, Francesco da Paola, per caratterizzare l’istituzione delle «Suore Minime dell’Addolorata». Minime.

Ma questa esatta impressione di piccolezza non dice tutto della nuova Beata, anzi non dice le ragioni dell’esaltazione, che meritamente la Chiesa oggi le tributa. Un’altra impressione succede, quella della scoperta. Avviene spesso nella vita dei Santi. I titoli della loro vera personalità bisogna scoprirli, e perciò bisogna cercarli. Quelli che credono che la santità abbia come manifestazione ordinaria il miracolo spesso si illudono. Il miracolo potrà verificarsi, e costituire il segno di virtù e di carismi straordinari, e quindi santità meritevole di speciale onore e di fiducioso credito. Ma questa santità dev’essere cercata in altre sue manifestazioni, le quali esigono nell’osservatore particolari condizioni di spirito, che sono poi quelle che da un lato rendono a lui benefico il culto dei Santi e dall’altro lo giustificano; cioè dev’essere cercata nella somiglianza, che il Santo riflette su di sé, di Cristo, il modello, il maestro, il vero Santo. Il culto dei Santi è una ricerca di Cristo in alcuni suoi seguaci, più fedeli e più favoriti.

LA VIA REGALE DELLA NUOVA CITTADINA DEL CIELO

E allora pare a Noi di riudire la voce del Signore fare l’apologia dei suoi eletti; ed ora di questa sua fedelissima Beata; la voce, diciamo, di Lui, rimpicciolito perfino sotto il nostro livello (cfr. Phil. 2, 7-8), di Lui, fattosi povero quand’era la ricchezza stessa (cfr. 2 Cor. 8, 9), diventato fratello a tutti noi per essersi definito «il Figlio dell’uomo» (Matth. 8, 20 ecc.) e ritenuto socialmente il «Figlio del fabbro» (Matth. 13, 55); di Lui, che effondendo al Padre l’amarezza e la dolcezza insieme del suo cuore, posto a contatto con gli uomini ribelli e con quelli fedeli, svela il piano segreto della sua rivelazione: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così Ti è piaciuto!» (Matth. 11, 25-26).

IL CANDORE DELL’ANIMA FONDAMENTO D’OGNI EROISMO

E dove Ci conduce la Nostra ricerca di Cristo nella Beata di cui appunto stiamo celebrando la somiglianza con Cristo, sulla quale la Chiesa fonda la sua certezza di dichiararla cittadina del Cielo? Oh! se Noi abbiamo avuto una prima impressione di piccolezza, adesso, ravvisando nell’umile sua figura, nella breve sua vita, nella silenziosa sua opera i tratti del volto evangelico del Signore, un’impressione di ‘meraviglia e di letizia in Noi, un’impressione di bellezza e un’impressione di grandezza invece a lei relative inonderebbero il Nostro animo, se volessimo soffermarci ad uno studio così delicato e così attraente, cioè se volessimo tessere l’elogio della Beata o narrarne la biografia. Altri, e primo fra questi un’alta figura di Pastore, il Cardinale Gusmini, Arcivescovo di Bologna, dal 1914 al 1921, lo hanno fatto, e voi che Ci ascoltate tutto sapete in proposito; né più vi diremo, se non per confidarvi, correndo, ciò che al Nostro spirito ha recato maggiore edificazione, e più benefico incanto, mentre, in ordine a questa beatificazione, C’informavamo della Serva di Dio da dichiarare Beata.

Piacque specialmente a Noi l’innocenza di questa singolare creatura, quella purità che lascia trasparire nel volto e negli atti il candore interiore; il candore, che suppone ed alimenta un continuo, quasi connaturato colloquio con quel Dio meglio conosciuto per via d’amore, che di ansiosa speculazione; Ci pareva d’ascoltare S. Agostino ragionare della verginità: «in carne corruptibili incorruptionis perpetua meditatio» (De sancta Virg., c. 13; P. L. 40, 401), una meditazione continua della Purezza incorrotta in un essere tuttora corruttibile. E da così limpida bellezza Ci pareva ovvio di vedere sgorgare una bontà semplice, affettuosa, attraente; quella che quasi spontaneamente dapprima, e poi urgentemente cercò di farsi indotta e sapiente maestra comunicativa del proprio interiore tesoro di amorosa verità e di sperimentare, fino alla dedizione materna, incantevole in una così giovane vita, l’ansia di servire la propria Parrocchia, di educare gli altri, di formarsi un cerchio di sorelle e di amiche, con cui pregare e lavorare, e poi costituirsi in «ritiro», in cenacolo religioso qualificato all’orazione e al servizio dei poveri e dei sofferenti, come appunto fanno le figlie di Clelia Barbieri, le ottime Suore Minime dell’Addolorata.

PARTECIPAZIONE PATERNA ALLA ESULTANZA DI BOLOGNA

Godiamone tutti. Voi, sì, per prime, Suore pie e gentili, che traducete in opere di carità lo spirito della Beata; voi, che date testimonianza di ciò che può in una comunità ecclesiale l’esempio, l’ardore, l’azione della gioventù femminile affascinata dal volto di Cristo, trasportata dalla sua grazia e compresa di quanti bisogni soffrono i fratelli e di quanto bene essi siano capaci rincorrendo, lo slancio giovanile della purezza apostolica; voi, che offrendo al Signore la vostra vita tutto perdete e tutto guadagnate nell’esercizio assiduo ed eroico della carità.

E goda Bologna di questa sua Figlia, che la Chiesa celebra nell’ineffabile gloria del misterioso mondo celeste, e solleva davanti a quello terrestre come degna di ammirazione, d’imitazione, di fiducia. Noi sentiamo il dovere di congratularci con Lei, caro e venerato Signor Cardinale Lercaro, che per il compimento dei voti rivolti a questa gloriosa giornata ha prodigato le sue cure sagge ed assidue, e che può ben allietarsi di vedere oggi coronato col suo il desiderio dell’amatissima Arcidiocesi Bolognese. E sentiamo il bisogno di condividere con Bologna e con il suo presente e degno Arcivescovo Monsignor Poma la gioia di vedere questo nuovo fiore di fede e di santità testimoniare la perenne e moderna vitalità d’una secolare tradizione cattolica, che in Clelia Barbieri attesta le antiche virtù d’un popolo forte e cristiano, e dice al mondo come ancor oggi il Vangelo, ed oggi più che mai, si manifesta non solo sensibile e comprensivo degli umani bisogni, ma là, dove la giustizia, dove la fratellanza, dove l’indigenza reclamano chi li soccorra e li serva con pieno e silenzioso sacrificio di sé, esso, il Vangelo, ha pronto un suo dono generoso e misterioso di vite consacrate ed immolate.

Ed il Nostro invito a godere dell’avvenimento, che oggi è stato celebrato, vuol essere espresso a quanti sono qua accorsi per essere non solo spettatori, ma partecipi: tali sono certo le Autorità civili e politiche di Bologna e della terra emiliana e romagnola, alle quali siamo lieti, nel nome di Clelia Barbieri, di porgere il Nostro deferente saluto ed il Nostro voto augurale di prosperità e di pace.

PREZIOSI INSEGNAMENTI PER TUTTI I DISCEPOLI DI CRISTO

Così salutiamo le personalità ecclesiastiche del Clero Bolognese, Mons. Vicario Generale, i Reverendi Canonici e i Parroci della Città e dell’Arcidiocesi, fra questi quelli specialmente delle Budrie, e di San Giovanni in Persiceto, i rappresentanti del Laicato cattolico, i parenti ed i congiunti della nuova Beata e quelli che hanno goduto della sua miracolosa intercessione; e poi tutti i pellegrini e i visitatori e i fedeli presenti d’ogni provenienza, affinché abbiano tutti nella Nostra riconoscente e paterna benedizione il pegno della protezione della nuova celeste cittadina e sentano tutti, con l’impegno ch’ella ci affida a seguirne gli esempi e a tenerne desto lo spirito, l’impulso gioioso degli interiori carismi capace di rendere possibile e facile e felice la moderna militante sequela di Cristo.

Ma non possiamo congedarci da questa entusiasmante assemblea senza rivolgere un pensiero specialissimo ai gruppi di Alunni, con i loro Superiori e Maestri, dei vari Seminari, che abbiamo la fortuna di vedere d’intorno a Noi, specialmente quelli del Seminario Regionale «Benedetto XV» delle Diocesi di Bologna, Ravenna, Bertinoro, Cesena, Comacchio, Forlì, Sarsina, Rimini e Montefeltro, le quali così salutiamo nei pegni più preziosi delle loro spirituali speranze; poi quelli del Seminario arcivescovile di Bologna; quelli dell’«Onarmo»; quelli del Pre-seminario di Borgo Capanne; e quanti altri nelle rispettive Diocesi, nella Nostra di Roma ovviamente, ovvero nelle loro Famiglie religiose, maschili e femminili, si preparano a far dono a Cristo e alla sua Chiesa, della loro freschissima vita. A voi, giovani, l’augurio che possiate pienamente godere della presente glorificazione dell’umile virtù; a voi, l’esortazione che abbiate l’intuito sapiente di ciò che oggi più occorre alla Chiesa e alla moderna società, il fatto esistenziale cioè della santità.

Di santi ha bisogno la Chiesa, di santi il mondo. Di santi, diciamo, dei quali l’imitazione di Cristo e la tradizione ecclesiastica c’insegnano le vie aspre e soavi; di santi, che nel tumulto delle esperienze moderne, delle ideologie correnti, delle contestazioni di moda, sanno essere, ad un tempo, personali e sociali, liberi cioè dal mimetismo collettivo, e spontaneamente, fermamente consacrati al servizio di Dio e dei fratelli. Fate, carissimi figli, della vostra vita un esperimento totale di santità; non fermatevi a metà, non contentatevi di compromessi mediocri, non lasciatevi suggestionare dalle formidabili fatuità di cui è piena la nostra atmosfera; siate veramente discepoli del Maestro, veramente membra vive ed operanti della Chiesa di Dio, veramente esaltati ed umili della vostra scelta, fra tutte la più difficile e fra tutte la più dolce, fra tutte l’ottima per la vita presente e quella futura, la scelta della santità. Così vi parli nel cuore la nuova Beata; così vi attragga e vi avvalori quel Cristo nostro Signore di cui oggi, celebrando la festa della sua regalità, la Chiesa ci ricorda essere Lui l’unico a orientare le nostre speranze, l’unico a unire i nostri cuori, l’unico a salvare i nostri destini.