domenica 16 ottobre 2011

Le chiamate di Dio: Samuele

Con Samuele comincia la profezia in Israele: prima di lui “la parola del Signore era rara”. Ma la sua chiamata è così sommessa che, da solo, egli non riesce a riconoscerla. Quando si cerca di capire che cosa sia l'incontro con Dio, tutte le nostre immaginazioni sono esposte alla contraddizione: Dio bisbiglia a qualcuno che gli è vicino, grida a qualcun altro che gli è lontano. Samuele viveva, se così si può dire, sotto lo stesso tetto di Dio, ma Dio lo chiama con una voce che sembra quasi l'illusione di un dormiente; Saulo andava a Damasco a perseguitare i cristiani, e Dio lo rovescia da cavallo e gli taglia la strada in modo assolutamente inevitabile e inequivocabile.

Gli incontri con Dio non sopportano statistiche, ma è probabile che il tipo di chiamata che Dio preferisce o che rivolge alla maggioranza degli uomini sia quella sommessa e oscura con cui si è scelto Samuele. Anche questo grande profeta, forse il più ascoltato in Israele, “non conosceva il Signore”: lo serviva nella fede ma non sapeva quale voce avesse o che cosa volesse da lui.

L'uomo biblico ha percepito questa condizione spirituale con una acutezza e una costanza che non sempre vengono giustamente riconosciute: i salmi sono pieni di invocazioni come “Fammi conoscere la strada da percorrere... Insegnami a fare il tuo volere... Fammi conoscere il sentiero dei tuoi ordini... Mostrami Signore la tua via perchè nella tua verità io cammini...”. Queste invocazioni esprimono la coscienza che l'incontro con Dio è facile e difficile insieme: impossibile e pure necessario, offerto e pure nascosto, è come un dono che l'uomo deve soltanto vedere e prendere. Ma anche questo è difficile, anzi è così difficile che il vero incontro sta non nell'andare alla ricerca di Dio fino a che lo trovi, ma nel vederlo quando egli è già arrivato e presente.

Poiché ogni uomo è chiamato, ossia per ogni uomo Dio ha un progetto, bisogna pensare che il mondo sia pieno di segni, appelli, inviti bisbigliati da Dio al nostro sonno, e sia anche pieno di provvisori, forse inconsapevoli profeti destinati a farci capire i segni. Se ciò è vero (e come potrebbe non esserlo?), si comprende quanto sarebbe errato credere che la nostra vocazione dipenda da un certo numero di fatti o atti “religiosi” svolgentisi entro una zona “religiosa” della vita, e che fuori di lì ci sia soltanto l'uniforme, sterminata landa della moralità convenzionale, dove Dio non si avventura e di cui si occuperà, al massimo, nel giorno del giudizio. Invece è proprio nel “villaggio”, come dice Bonhoeffer, e con il dialetto del villaggio che egli ci viene incontro, e forse è un uomo del villaggio (e neppure il migliore) che ce lo addita. Ed ecco allora, inattesa anche quando è desiderata, la parola di Dio per noi risuona nel familiare dialetto del villaggio, e all'uno dice: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”, a un altro dice: “Oggi devo fermarmi a casa tua”, a un altro ancora: “Dammi da bere”, o “Perchè piangi?”. Ascoltarla è un'avventura, a volte grande a volte minima: ma non è mai meno grande dell'avventura di Samuele nel santuario o di Mosè al roveto ardente.

Paolo De Benedetti, La chiamata di Samuele, Brescia 1976, pp. 60-63