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Oggi 23 Ottobre celebriamo la XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno A |
Dio ordina il mondo con armonia e concordia Dalla «Lettera ai Corinzi» di san Clemente I, papa |
MESSALE Antifona d'Ingresso Sal 104,3-4
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ALTRI COMMENTI 1. Congregazione per il Clero La prima Lettura enuncia: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20), ed è ben giusto che, prima dell’avvento di Cristo, le Scritture invitassero ad una tale accoglienza! Ma con Cristo, e nel Suo Corpo che è la Chiesa, nessuno è straniero! Ciascuno, preso da Cristo e reso, in Cristo, figlio del Padre e fratello tra fratelli, è a pieno titolo membro della Civitas Dei e, pertanto, cittadino della Chiesa. Come nessuno è straniero nella Chiesa, così ciascuno di noi, quotidianamente, sperimenta una estraneità ultima a tutto ciò che esiste, perfino a se stesso. Potremmo allora dire che esiste una estraneità, un “essere stranieri” che deriva dal peccato degli uomini – e contro questo dobbiamo continuamente lottare, con l’aiuto della grazia, per limare le spigolature della nostra umanità –, ed esiste una estraneità, un “essere stranieri” che è costitutivo dell’esistenza umana e proporzionale alla profondità della nostra vita spirituale. Il cristiano è necessariamente straniero in un mondo che non riconosce Dio; è straniero in un mondo che non ama la vita ed è immerso nella cultura della morte, è straniero in un mondo, che stravolge l’ordine naturale e censura le leggi della creazione; è straniero in un mondo, dove non c’è posto per la persona, per l’ultimo e per il povero, ma solo per gli individui, il potere, il denaro. In Cristiano, e più ancora il sacerdote, è necessariamente straniero in un mondo immerso nel relativismo, nell’edonismo, in una cultura del piacere, che, in realtà, si risolve in una generale anestesia della ragione, la quale ha, come unico esito, una profonda estraneità agli uomini. “Essere stranieri”, in un tale contesto, non è un male, ma rappresenta l’indice della nostra fedeltà a Cristo e al Vangelo, ed è il presupposto della forza profetica del ministero al quale siamo chiamati. I due grandi comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, indicati nella pagina evangelica, rappresentano, allora, la suprema sintesi di un corretto percorso, che, riconoscendo il primato di Dio, è capace di amore ai fratelli. È necessario superare tutte quelle forme di antropocentrismo, così diffuse nei decenni passati, che immaginavano una propedeuticità della promozione umana ad ogni forma di evangelizzazione. Esse affermavano: “Prima diamo da mangiare e poi annunceremo Gesù Cristo”. L’intera Dottrina sociale della Chiesa indica, invece, come l’evangelizzazione e la promozione umana costituiscano una unità inscindibile, che, in alcun caso, può essere scissa. È proprio annunciando il Vangelo che si dilata la possibilità di un’autentica promozione umana e, in definitiva, non c’è miglior promozione umana che fare incontrare Cristo ai nostri fratelli, introducendoli, progressivamente ed efficacemente, nel mistero del rapporto con Lui e nella comunione della Chiesa. Dovunque siamo, in ogni circostanza della vita, possiamo spandere il buon profumo di Cristo che è, essenzialmente, frutto della nostra identità cristiana e della comunione autenticamente vissuta. Ci protegga e custodisca la Beata Vergine Maria, Ancella del Signore, Tabernacolo di Dio e Stella di fulgida carità. Chi vive con Maria, non può mai smarrirsi, perché, in qualunque parte del mondo, non è mai straniero. 2. p. Raniero Cantalamessa |
La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torah (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torah, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (cf. Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi, come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (cf. Lv 19,18; Mt 22,39). La Torah, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è Vangelo.
Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come “perenne” è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero “al tramonto del sole” il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?” (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.
La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: “perché voi siete stati immigrati nel paese di Egitto” (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subitedai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.
La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Un apoftegma dei padri del deserto narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: “Dov’è il tuo vangelo?”, rispose: “Ho venduto colui che mi diceva: ‘Vendi quello che possiedi a dallo ai poveri’”. Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.
Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.
Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. “Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente” (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono “un altro”, sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.
La somiglianza (cf. Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20).
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3. Altro commento di padre Raniero Cantalamessa
Omelia tenuta all’Eremo dell’Amore Misericordioso di Cittaducale, Rieti
“I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» Gesù gli disse: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: Ama il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (Matteo 22, 28-34).
Anzitutto una precisazione. Amare Dio e il prossimo è il più grande dei comandamenti; ma i comandamenti non sono, nel cristianesimo, la cosa più grande. Se lo scriba avesse chiesto a Gesù: “Quale è la cosa più importante da fare?”, la risposta non sarebbe stata: “Amare Dio e il prossimo”, ma sarebbe stata “Credere! Credere nell’amore di Dio”. “Il regno di Dio è venuto –diceva Gesù all’inizio del suo ministero -: convertitevi e credete!” (Mc 1,15), cioè: l’amore di Dio è venuto a voi gratuitamente, senza che voi abbiate fatto nulla per meritarlo: accoglietelo mediante la fede! È l’interpretazione che ne da san Paolo: “Quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (Tito 3, 4).
Il nostro amare Dio non è la causa, ma l’effetto del suo amore per noi. “In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi…Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo”1 Gv 4, 10.19).
Messa in chiaro questa verità, possiamo ora riflettere sul comandamento, limitandoci questa volta al primo di essi: amare Dio con tutte le forze e con tutta l’anima. Gesù si limita forse a ribadire il comandamento della Legge, senza apportare nessuna novità in un campo così importante e decisivo come è l’amore? Noi cristiani siamo forse, in questo campo, nella stessa situazione del dottore della legge e degli uomini dell’Antico Testamento? Assolutamente no! E qui vi dico qualcosa che si è fatto chiaro anche a me solo oggi, preparando questo commento al vangelo.
Prima di Cristo, l’amore per Dio era un amore “a distanza”. Oh, sì, Dio era presente al suo popolo, ma gli uomini non lo vedevano e continuavano a gridare a lui nei salmi: “Il tuo volto, Signore, io cerco… Mostrami il tuo volto… Mostraci il tuo volto e noi saremo salvi”. Adesso Dio ha, finalmente, mostrato il suo volto, perché “Gesù –diceva sant’Ireneo – è il volto visibile del Padre invisibile”. Lui stesso ha detto: “Chi vede me vede il Padre”. Amare Gesù è ora amare Dio, amarlo nel modo con cui lui vuole essere conosciuto e amato. Non “per procura”, ma di persona. In passato si facevano dei matrimoni per procura. Un povero giovane emigrato in America sposava una ragazza rimasta in Italia in attesa di tornare in patria. Si sposavano senza essersi mai visti, sperando che l’amore nascesse in seguito, una volta conosciutisi…Non è così che vuole essere amato Dio. Non dobbiamo intendere tutto questo nel senso che chi ama Gesù è come se amasse il Padre. No, chi ama Gesù sta, ipso facto, amando il Padre, perché Gesù e il Padre sono “una cosa sola”.
Perché, allora, quel giorno Gesù ha risposto allo scriba limitandosi a ripetere alla lettera il primo comandamento della Legge? Perché non ha detto: “Il più grande comandamento è amare me” ? Per lo stesso motivo per cui, durante la sua vita, non ha detto mai apertamente: “Io sono il Messia”. (Lo ha detto, ma solo davanti al sinedrio, quando ormai non c’era più pericolo di interpretare il titolo in modo sbagliato).
Durante la sua vita terrena Gesù ha rivolto spesso la domanda: “Credi tu?”, “Credi che io possa fare questo?”, “Credete in me?”, ma mai ha posto la domanda: “Mi ami tu?” Lo ha fatto solo con Pietro dopo la Pasqua: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” Perché? Perché voleva prima morire per noi, darci la prova suprema del suo amore. Anche ora, con Gesù, vale infatti la legge che abbiamo ricordato all’inizio: il nostro amore è sempre la risposta, l’effetto, non la causa dell’amore di Dio. Noi amiamo Gesù perché egli per primo ci ha amati e ha dato la sua vita per noi.
Nel canto natalizio Adeste fideles c’è una frase che purtroppo non sempre si è conservata nelle traduzioni in altre lingue: “Sic nos amantem quis non redamaret?”, cioè: “Come non riamare uno che ci ha amato tanto?”. Dante Alighieri mette in bocca a Francesca da Rimini la famosa affermazione: “Amor che a nullo amato amar perdona”: l’amore non permette a chi è amato di non riamare a sua volta.
Ma ascoltiamo su questo punto il grande innamorato di Gesù, Paolo: “L’amore di Cristo ci spinge (altra possibile traduzione: ci stringe da tutte le parti, ci assedia), al pensiero che uno è morto per tutti” (2 Cor 5, 14); in tono vibrante, alla fine della prima lettera ai Corinzi: “Se uno non ama il Signore Gesù, sia scomunicato” (1 Cor 16, 22); in tono confidenziale, ai Galati: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1, 20). Notare qui l’uso del singolare al posto del plurale: “per me”, anziché “per noi”. Cristo è infatti è morto per ciascuno individualmente. (Ricordate? Gesù sa contare solo fino a uno, ma quell’uno è ognuno di noi).
Il grande filosofo e mistico Pascal, in preghiera, si sentiva rivolgere da Gesù queste parole: “Io ti sono amico più del tale e del tal altro, perché ho fatto per te più di loro ed essi non soffrirebbero mai quello che ho sofferto io da te, non morirebbero mai per te nel tempo dei tuoi tradimenti e delle tue crudeltà come ho fatto io e sono disposto a fare per ognuno dei miei eletti”.
Ma è ora che ci poniamo la domanda: che significa amare Gesù? Una prima risposta ce la da lui stesso nel vangelo di Giovanni: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti”. Lo abbiamo ascoltato anche nell’acclamazione al vangelo di oggi: “Se uno mi ama osserverà la mia parola”. In altre parole, obbedienza.
Ma non solo questo. Quando Gesù chiedeva a Pietro: “Mi ami tu?”, non intendeva solo dire: “Sei disposto a obbedirmi?” No, intendeva anche quello che intendiamo noi quando rivolgiamo a una persona (quando il fidanzato rivolge alla fidanzata, la moglie al marito e viceversa) la fatidica domanda: “Mi ami?” ; cioè, senti un trasporto verso di me? Mi desideri, mi vuoi?” Il mio nome e il mio ricordo fa vibrare il tuo cuore?
Il mondo è pieno di amore “freddo”, per dovere, per abitudine. “Faccio tutto il mio dovere verso di lui –dicono alcune mogli parlando del marito e alcuni mariti parlando della moglie – non gli faccio mancare niente”. E con questo credono di essere a posto, anche se il loro cuore è altrove, o da nessuna parte, cioè amano un’altra persona o non amano nessuno.
Bisogna innamorarsi di Gesù e per fare questo è necessario – l’ho detto altre volte – passare dal Gesù “personaggio” al Gesù “persona”. Il personaggio è uno di cui si può scrivere e parlare quanto si vuole, ma al quale e con il quale non si può parlare. La persona è uno al quale e con il quale si può parlare. Gesù risorto è una persona viva, più reale e presente di ogni altra persona al mondo.
C’è uno, il cui compito è precisamente quello di insegnarci ad amare Gesù, a ricordarci le sue parole, a metterci nel cuore la fiamma viva del suo amore: lo Spirito Santo! Ascoltare le parole di Gesù, contemplarlo sulla croce possono cominciare a smuovere qualcosa nel nostro intimo, a produrre qualche incrinatura nel cuore di pietra, ma chi può veramente comunicarci l’amore per Gesù è il Paraclito. Egli, nella Trinità, è l’amore del Padre per il Figlio e ora, nel tempo, ci permette di amare Gesù con lo stesso amore con cui lo ama il Padre perché è lui stesso questo amore. “Lo Spirito Santo, diceva ancora sant’Ireneo, è la stessa nostra comunione con Cristo”.
C’è un motivo esistenziale per il quale è tutto nostro interesse innamorarci di Gesù, ed è che questo amore riempie il cuore, fa felici. Due giorni fa parlavo agli studenti di Varsavia, in Polonia, nella cappella universitaria gremita all’inverosimile di giovani. Ho terminato con questo appello che ora oso rivolgere anche a voi: “Giovani, innamoratevi di Cristo. Egli solo rende felici. Non annulla gli altri amori – per la donna o l’uomo della vostra vita, per l’amico, per i genitori, per i maestri – ma li sostiene, perché ogni forma di amore viene da lui. Io mi sono innamorato di Gesù e sono felice.”
COMMENTI DALLA TRADIZIONE PATRISTICA
Fra tutte le cose passate in rassegna, di quelle sole si deve godere che abbiamo ricordato essere eterne e immutabili; delle altre ci si deve solo servire e servircene in modo da giungere al godimento delle altre. Notare qui che noi, che o godiamo o usiamo le altre cose, siamo in certo qual modo delle cose. E in effetti l'uomo è una cosa grande perché fatto a immagine e somiglianza di Dio: non quindi in quanto è incluso in un corpo mortale ma in quanto è superiore alle bestie per la dignità dell'anima razionale. Da cui sorge il gran problema se gli uomini debbano godere di se stessi o servirsi di se stessi o fare tutte e due le cose. È vero infatti che ci è stato comandato di amarci gli uni gli altri, ma è discusso se l'uomo debba essere amato dal suo simile per se stesso o in vista di qualcos'altro. Se lo si ama per se stesso, si gode di lui; se lo si ama in vista di altri, si fa uso di lui. Quanto a me, mi sembra che lo si debba amare in rapporto a qualcos'altro, poiché in ciò che si deve amare per se stesso si consegue la vita beata, dalla quale al presente siamo consolati sebbene non la possediamo nella realtà ma ne abbiamo solo la speranza. Maledetto però l'uomo che ripone nell'uomo la sua speranza.
Se vi si riflette convenientemente, nemmeno di se stesso è lecito godere, tant'è vero che nessuno può amare se stesso per se stesso ma in vista di colui del quale si deve godere. In realtà, l'uomo è allora perfetto quando tutta la sua vita è orientata verso la vita immutabile e si unisce a lei con tutto il cuore. Se invece uno si ama per se stesso, non si riferisce a Dio ma ripiega su se stesso, e non essendo rivolto a qualcosa di immutabile, gode sì,di se stesso ma esperimenta numerose lacune. È infatti più perfetto quando aderisce totalmente e totalmente si lascia incatenare dal bene incorruttibile che non quando da quel bene si distacca per ripiegarsi sia pure su se stesso. Se dunque devi amare te stesso non per te stesso ma in ordine a colui in cui si trova, quando è sommamente ordinato, il fine del tuo amore, non si adiri un altro uomo se ami anche lui in riferimento a Dio. In questo modo infatti è stata stilata da Dio la legge dell'amore: Amerai, dice, il prossimo tuo come te stesso, ma Dio lo amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Il che vuol dire che devi riferire tutti i tuoi pensieri e tutta la vita e tutta l'intelligenza a colui dal quale hai ricevuto quei beni che con lui confronti. Dicendo poi: Con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, non ha lasciato alcuna parte della nostra vita cui sia consentito starsene oziosa né le ha dato spazio di godere cose diverse da lui, ma, qualunque cosa si affacci al cuore per essere amata, deve essere sospinta là dove tende impetuoso tutto lo slancio dell'amore. Chi pertanto ama rettamente il prossimo questo deve da lui ottenere: che anch'esso ami Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Amandolo in tal modo come se stesso, convoglia tutto l'amore che ha per se stesso e per l'altro a quell'amore di Dio che non tollera che alcun ruscello, anche se piccolo, sia dirottato fuori di sé perché da ogni dispersione di acqua ne risulterebbe diminuito.