giovedì 8 settembre 2011

Guglielmo di Saint-Thierry - Natura e grandezza dell'amore


Guglielmo di Saint-Thierry


Sulla natura e grandezza dell’amore

De natura et dignitate amoris





I. L’ORIGINE DELL’AMORE.

L’INFANZIA DELL’AMORE.


1.1. L’arte delle arti è l’arte dell’amore. La natura stessa e Dio artefice della natura ne hanno riservato a sé l’insegnamento. Per­ché l’amore, che è suscitato dal Creatore della natura, se la sua purezza naturale non è intorbidata da affetti adulteri insegna se stesso: ma solo a quanti si lasciano ammaestrare da lui, am­maestrare da Dio. 2. L’amore è infatti una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio. Sì: ogni creatura, sia spirituale che corporea, ha un luogo ben preciso cui è naturalmente condotta e un certo qual peso naturale da cui è condotta. 3. E il peso, come dice qualcu­no che veramente è filosofo, non sempre conduce in basso: il fuoco va verso l’alto, l’acqua verso il basso, e così è di ogni cosa. Anche l’uomo è mosso dal suo peso, che conduce natu­ralmente lo spirito verso l’alto e il corpo verso il basso, ciascuno luogo e al fine che gli è proprio. 4. Qual è il luogo del corpo? È scritto: «Tu sei terra e andrai alla terra». Sullo spirito invece nel libro della Sapienza è scritto: «E ritornerà lo spirito a Dio che l’ha creato».

Osserva l’uomo nel momento in cui si dissolve! Osserva co­me in virtù del suo peso egli venga condotto nella sua interezza al luogo che gli è proprio: 5. quando tutto procede bene e nel­l’ordine stabilito lo spirito torna a Dio che l’ha creato, il corpo invece torna nella terra, e non solo nella terra ma in tutti gli elementi dei quali era composto e formato. 6. Quando la terra, il fuoco, l’acqua e l’aria rivendicano qualcosa di lui, quando la natura dopo aver operato la composizione opera la dissoluzio­ne, ogni cosa in virtù del suo peso si riaccosta al suo elemento: 7. e la dissoluzione è piena allorché è compiuto il ristabilimen­to di ciascuna di esse nel luogo che le è proprio. Si tratti di cor­ruzione, di imputridimento, o non sia meglio piuttosto parlare, come si è fatto, di dissolvimento, giudichi chi vuole. 8. Certo è che nessuna di queste realtà si allontana dal sentiero stabilito dalla sua natura; solo l’anima miserabile, spirito degenere che pure di per sé vi tende naturalmente, corrotta dalla malattia del peccato non riesce, o impara faticosamente, a tornare al suo prin­cipio. 9. Dal suo peso naturale lo spirito è spinto costantemen­te a una meta precisa: desidera la beatitudine, sogna la beatitu­dine, quindi nient’altro cerca se non essere beato. E beato co­lui, e non altri, il cui Dio è il Signore. 10. Ma cercando la beatitudine fuori dalla regione e dalla via che gli è propria si al­lontana grandemente dal suo tendere naturale: e così perde l’i­struzione della natura. Ormai ha bisogno di un uomo da cui es­sere istruito, un uomo che su quella beatitudine che è natural­mente cercata attraverso l’amore lo istruisca ricordandogli dove essa vada cercata, e come, in quale regione, per quale via.


2.1. L’amore dunque, si è detto, è stato posto naturalmente nell’anima umana dall’artefice della natura, ma dopo che ha per­duto la legge di Dio dev’essere istruito da un uomo. Istruito non perché ci sia, come se già non ci fosse; ma perché sia purificato e sul modo di esser purificato; perché avanzi e sul modo di avan­zare; perché si solidifichi e sul modo di solidificarsi.

2. Prova ne sia che anche il turpe amore carnale ebbe un giorno dei maestri della sua turpitudine, maestri accorti ed efficaci nel­l’essere corrotti e nel corrompere. Tanto che il dottore dell’arte di amare fu costretto dagli amatori e compagni di quella tur­pitudine a ritrattare ciò che aveva cantato con così poco ritegno e a scrivere sul rimedio dell’amore: lui che aveva scritto sull’in­cendio dell’amore carnale, lui che con tutta la sua intelligenza si era dedicato a suscitare attraverso misteriosi pruriti stimoli d’amore già noti o a trovarne di nuovi. 3. Egli in ogni caso non cercava di insegnare la foga dell’amore carnale, che già divam­pava sia negli allievi che nell’insegnante di un fuoco naturale in alcun modo mitigato dalla ragione: con la sua disciplina priva di disciplina egli volgeva a una sorta di lasciva follia la forza na­turale di esso; e con il suo dare esca senza tregua alla lussuria la sollecitava a una sorta di folle lascivia.

4. Perché in quegli uomini perversi e corrotti, ricolmi com’e­rano del vizio della concupiscenza carnale, l’ordine di natura era interamente venuto meno. E così, quando secondo l’ordine ri­chiesto dalla natura il loro spirito avrebbe dovuto obbedire al suo peso naturale e lasciarsi portare dal suo amore verso l’alto, a Dio che l’aveva creato, esso fu invece atterrato dalle lusinghe della carne e non comprese; si mise sullo stesso piano delle be­stie da soma prive di ragione e divenne simile a loro. 5. Essi divennero tali da far dire: «Il mio spirito non resterà in questi uomini perché sono carne». Nella loro persona, come dice il pro­feta, «il mio cuore è diventato come cera, si fonde in mezzo alle mie viscere». 6. È proprio così: da parte del Creatore della na­tura il cuore è stato collocato naturalmente in una nobile parte del corpo ove si trova in posizione centrale. Di là è chiamato a reggere e governare sia la roccaforte dei sensi superiori che quella sorta di repubblica che è la parte inferiore del corpo, quasi popolo minuto, nonché tutta la regione circostante dei pensieri e delle azioni. 7. Tuttavia si è fuso al fuoco della concupiscen­za carnale in una sorta di degenere mollezza ed è defluito inte­ramente nel ventre, al centro del ventre. Ora non gusta se non le cose del ventre e che dal ventre scendono sempre più in bas­so, tutto confondendo, tutto degenerando, tutto falsando, per­vertendo l’affezione naturale dell’amore in un qualsiasi grosso­lano appetito della carne. 8. Un appetito che non solo ricerca ciò che non è lecito oltraggiando il corpo in passioni vergognose, ma è a tal punto dimentico della sua originaria no­biltà che dopo essere stato creato solo per Dio ha finito per es­ser ritenuto da quanti l’hanno corrotto e ne sono stati corrotti come il naturale domicilio della lussuria e la sentina di tutti i vizi.

Infelici coloro che, malgrado le proteste della natura, si sono a tal punto sviliti ai loro stessi occhi da eleggere la dimora della propria anima, destinata a Dio creatore ad esclusione di ogni altra creatura, a sede di Satana e di sporcizia e di ogni im­mondezza!


3.1. Dovendo dunque parlare dell’amore, nella misura in cui lo concederà Colui verso il cui amore tutto il creato si affatica, cominciamo la nostra esposizione partendo dall’origine di esso; passeremo poi a tracciare lo sviluppo dei suoi progressi come per età che si succedono l’una all’altra fino a una feconda vecchiaia: una vecchiaia piena non di dolore senile, ma di misericordia fe­conda. 2. Come secondo il crescere o il decrescere delle forze vitali il fanciullo si muta in giovane, il giovane in uomo maturo, l’uomo maturo in vecchio mutando i nomi delle età a seconda dei mutamenti di qualità, così a seconda dei progressi di virtù la volontà si espande in amore, l’amore in carità e la carità in sapienza.

3. Dev’esserci ben chiaro, a proposito dell’amore di cui stia­mo parlando, da chi esso ha sortito i natali, di quale insigne li­gnaggio può vantarsi, di qual luogo è originario. 4. Innanzitutto dunque, Dio è il suo luogo di nascita. Là è nato, là è stato nutri­to, là è cresciuto. Là esso è cittadino, non forestiero, ma nati­vo. L’amore infatti è donato da Dio solo; e in lui rimane, poi­ché a nessuno è dovuto se non a lui e a causa di lui.

5. E dato che si sta parlando dei suoi natali, quando Dio Tri­nità creò l’uomo a sua immagine plasmò in lui una certa somi­glianza con la Trinità, in cui risplendesse l’immagine della Tri­nità creatrice. Grazie a tale somiglianza quel nuovo abitatore del mondo era destinato ad aderire indissolubilmente al suo prin­cipio, a Dio suo creatore, se l’avesse voluto: il simile si riaccosta naturalmente al suo simile. Ciò fu fatto perché quella trinità inferiore creata non venisse sedotta, trascinata, distratta dalla multiforme varietà delle creature sì da allontanarsi dall’unità del­l’altissima e creatrice Trinità.

6. Allorché infatti questa infuse nel volto dell’uomo nuovo un respiro di vita, forza spirituale o intellettuale, come dan­no a intendere i termini espirazione e respiro, e anche forza vi­tale o animale, come dà a intendere il sostantivo vita, e nell’at­to di infondere lo creò, essa collocò in quella sua specie di citta­della la forza della memoria che gli ricordasse sempre la potenza e la bontà del Creatore. Subito, senz’alcun intervallo di tempo, la memoria generò da se stessa la ragione; e la memoria e la ra­gione produssero da se stesse la volontà. 7. Perché la memoria possiede e contiene in sé l’obbiettivo cui tendere; la ragione, la via per cui tendere; la volontà tende. Queste tre realtà sono qualcosa di unico ma sono anche tre efficacie, così come nell’al­tissima Trinità una è la sostanza e tre le persone. 8. E come in questa il Padre è generante, il Figlio è generato e lo Spirito santo procede da entrambi, così dalla memoria è generata la ra­gione, dalla memoria e dalla ragione procede la volontà. 9. Perché dunque l’anima razionale creata nell’uomo aderisse a Dio, il Pa­dre rivendicò a sé la memoria; il Figlio la ragione; lo Spirito santo procedente da entrambi, la volontà procedente da entrambe.


4.1. Ecco da chi la volontà ha sortito i natali; ecco qual è la sua nascita, la sua adozione, la sua dignità, la sua nobiltà. 2. Per mezzo della grazia preveniente e cooperante, essa comincia ad aderire con il suo buon assenso allo Spirito santo che è amore e volontà del Padre e del Figlio: comincia così a volere con vee­menza ciò che Dio vuole e ciò che la memoria e la ragione sug­geriscono di volere, e volendo con veemenza diventa amore. Poi­ché nient’altro è l’amore se non una volontà veemente riposta nel bene.

3. Di per sé infatti la volontà è un affetto neutro, posto nel­l’anima razionale in modo tale da essere capace sia di bene che di male. È riempito di bene quand’è aiutato dalla grazia; di ma­le quando lasciato a se stesso vien meno nel proprio intimo. 4. Perché infatti nulla mancasse da parte del Creatore all’ani­ma umana, le è stata data una volontà libera di volgersi dall’una e dall’altra parte. Quando concorda con la grazia che la soccor­re acquista dignità e nome di virtù, e diventa amore; quando, lasciata a se stessa, vuole usufruire di sé in totale autonomia sperimenta il proprio intimo venir meno, e riceve i nomi dei vizi, tanti quanti ne possiede: cupidigia, avarizia, lussuria e altri no­mi di questo tipo.


5.1. All’inizio del suo cammino, insomma, la volontà si trova quasi al bivio della lettera di Pitagora ed è costituita libera. Se, secondo la dignità conferitagli dalla sua natura, si innalza fino all’amore essa avanza nel modo che si è detto secondo l’or­dine naturale delle sue potenzialità: dall’amore alla carità, dalla carità alla sapienza. 2. Altrimenti, priva di ordine in se stessa ma all’interno del giusto ordinamento di Dio, trascinata in pre­cipitosa rovina e sopraffatta dalle tenebre della confusione vie­ne sepolta nell’inferno dei vizi, a meno che non giunga per lei prontamente il soccorso della grazia. 3. Se a questo punto ab­bandona la via dell’inferno e prende a volgere il passo verso l’alto; se docile alla grazia che la conduce e la nutre cresce fino all’a­more, una volta che è stabilita nella forza della giovinezza co­mincia a passare da uno spirito di timore a uno spirito di pietà. Fino allora temeva la pena come fa il fanciullo; da ora comincia ormai a gustare una grazia che le è nuova, poiché comincia or­mai ad amare Dio e a dargli culto nella pietà. Sta scritto a que­sto riguardo: «La pietà è il culto di lui».

4. Il giovane dunque a questo punto dia prova di quella for­za e di quel vigore che sono naturali non all’età, ma alla virtù, senza perdere gli stimoli naturali della giovinezza ma servendo­ si della ragione per vietarsi di corromperli. 5. A causa di tali stimoli diventano folli quanti corrompono, quanti cioè passano come ombra, il cui spirito è come quello delle fiere e del bestia­me, la cui carne secondo il profeta è come la carne degli asini: molto più dunque sarà lecito diventar folli in un modo tutto lo­ro a quanti, nel fervore di una giovinezza spirituale, sono nella verità dell’amore e sono mossi dai suoi stimoli spirituali. 6. Sarebbe motivo di profonda vergogna per la natura se potes­sero fare più strada nel male quanti la corrompono che non nel bene quanti davvero la amano.



II. LA GIOVINEZZA DELL’AMORE


6.1. Ascolta una santa follia. L’apostolo dice: «Se siamo fuori di senno è per Dio». Vuoi udire ancora una follia? Ecco: «Se perdoni loro il peccato, perdona; altrimenti cancellami dal libro che hai scritto». Ne vuoi un’altra? Ascolta lo stesso apostolo: «Vorrei essere anatema, separato da Cristo per i miei fratelli». 2. Non ha forse l’aria di un’assennata follia, propria di un cuo­re mosso dal bene, quest’atteggiamento interiore così determi­nato verso qualcosa che nei fatti è impossibile? Voler essere ana­tema da Cristo per Cristo! 3. Fu questa l’ebbrezza degli apo­stoli alla venuta dello Spirito santo, questa la follia di Paolo quando Festo gli diceva: «Sei pazzo, Paolo». Era proprio co­sì strano che fosse dichiarato pazzo chi in immediato pericolo di morte cercava di convertire a Cristo addirittura i giudici da cui veniva giudicato per Cristo? 4. Ma non era la troppa scien­za a provocare in lui quella follia, come diceva il re che intende­va la verità ma la dissimulava; era invece, come si è detto, l’eb­brezza dello Spirito santo. Paolo si adoperava a rendere poco o tanto simili a sé quanto ad essa coloro che lo stavano giudi­cando. 5. E per non moltiplicare gli esempi, quale follia più gran­de e più impensata di quella per cui un uomo che ha abbando­nato il secolo e desidera e brama aderire a Cristo aderisce nuo­vamente al secolo per Cristo, costretto da obbedienza e da carità fraterna? Che mentre tende al cielo immerge se stesso nel fan­go? 6. Ecco Beniamino adolescente, che nei trasporti del suo spirito non avverte più né se stesso né qualcosa di suo, ma sol­tanto colui nel quale si è totalmente lasciato trasportare. Di questa follia erano folli anche i santi martiri che ridevano fra i tormen­ti. Perché non dire allora quello che nel fervore della sua lasci­via diceva quel lascivo poeta? «È bello diventar pazzi».


7.1. Dunque si slanci pure, a questo punto, il fervore giovani­le, il cammino fervente della vita religiosa. Allo stadio attuale esso ancora non ha e non deve avere freno. Tuttavia deve sottomettersi al freno della ragione. 2. Non giova al fervore novizio quel certo discernimento misericordioso verso se stes­so, e le concessioni che l’accompagnano, e le facili indulgenze che vengono dal proprio personale giudizio. Tuttavia non devo­no essere rifiutate qualora provengano da un giudizio altrui.

3. Da parte di se stesso verso se stesso dev’essere rigida la cen­sura e inflessibile la severità; invece riguardo alla carità e all’at­tenzione paterna o fraterna che regge e che consiglia, in ogni cosa dev’essere soave ed obbediente l’umiltà. Se l’una o l’altra viene a mancare, da chi è pigro e tiepido non mi attendo perse­veranza nel cammino, per chi è avventato temo la rovina. 4. Ecco perché il discernimento del novizio dev’esser tutto rivolto a rendersi stolto in ogni cosa per Cristo e a dipendere dal giudizio altrui: soprattutto se ha accanto un anziano di cui si possa dire con certezza che impara da Dio ciò che insegna agli uomini. 5. In questa fase colui che avanza ed obbedisce non deve arrogarsi facilmente il potere di giudicare (se proprio non gli viene ordinato qualcosa di manifestamente contrario a Dio), fino a che una lunga e paziente esperienza non avrà dato al suo ascolto la comprensione di tali verità. 6. Si applichi dunque sempre con la massima attenzione a quell’obbedienza di cui è scritto: «Dopo aver purificato i vostri cuori nell’obbedienza della carità». Questa è la volontà di Dio, buona, a lui gradita e perfetta.


8.1. Per ottenere ciò e conservarlo occorre cercare il soccorso continuo di una preghiera assidua e longanime. In essa ci de­v’essere tanta fede da sperare tutto; tanta donazione di se stes­so da sembrare costringere Dio; tanto amore da sentire di otte­ner nella preghiera tutto ciò che si domanda; una tal confidente umiltà da scegliere che in ogni cosa si compia in sé non la volon­tà propria ma quella di Dio. 2. Egli si applichi anche ad ac­quisire e a vivere senza riserve la purezza di cuore, il decoro del corpo, il silenzio e l’ordine nel parlare; abbia occhi stabili e non troppo rivolti in alto, orecchie non eccitate, cibo e sonno so­bri che producano, e non impediscano, il compimento quotidia­no delle buone opere. Poi mani trattenute e andatura calma; non il riso, che manifesta la fatua allegria del cuore, ma il sorriso luminoso che ne rivela la grazia; e assidue meditazioni spiritua­li, letture convenienti e non curiose; 3. la sottomissione nei con­fronti dei superiori, il rispetto nei confronti degli anziani, la di­lezione nei confronti dei giovani. Non desideri comandare, ami restare sottomesso, cerchi di giovare a tutti coloro con cui si trova a vivere. Non sia oppresso dalla severità né svuotato dall’indul­genza. Abbia serenità sul volto, dolcezza verso tutti nel cuore, piacevolezza nell’operare. 4. È questo anche il luogo e il tempo per amputare le passioni, per estirpare tutti i vizi, per spezzare le volontà: sì che la volontà naturale e vera, una volta troncati e amputati i suoi vari simulacri (ché volontà non sono) come si fa con i polloni bastardi quando nascono da sé, possa con mag­gior forza sperare di svilupparsi. Quelle altre non sono volontà, ma appetiti dell’anima: sono la concupiscenza della carne, la con­cupiscenza degli occhi e la vanità del secolo.


9.1. Qui, chi più ama più corra: qui è la fatica, qui è l’opera. Fatica di grandi sudori, opera di grandi fatiche. 2. Soprattutto quando l’amore compie ciò che compie essendo ancora cieco, e ancora non sa di dove viene e dove va, e opera con la sua af­fettività come un cieco con le mani: questi opera con esse senza però vedere le mani con cui opera né l’operazione che realizza. 3. E come uno che vede istruisce in un lavoro colui che non vede, e lo porta con sé, lo fa curvare e raddrizzare, lo spinge ad organizzarsi, guidandolo piuttosto all’uso pratico che alla teoria dell’operazione intrapresa, allo stesso modo l’amore ancora cie­co, attraverso tutti i mezzi di cui si è detto, è formato dal di fuori a una certa bellezza di vita e di costumi. 4. E quando la sostanza dell’uomo interiore, resa duttile dal lungo esercizio della disciplina, sarà in grado di essere formata e plasmata secondo quello stampo, allora essa opererà un frutto pacatissimo di sal­vezza; allora in realtà, e non in apparenza, percepirà l’utilità di questi strumenti e di altri simili.

5. Al presente infatti le osservanze che abbiamo delineato non sono ancora radicate nell’intimo: esistono soltanto nel deside­rio e nel magistero impartito dalla ragione, e a loro riguardo ci si limita a cantare umilmente a Dio: «Io mi consumo nel deside­rio delle tue giustificazioni». 6. Ma per riprendere il parago­ne del cieco, anche se l’occhio ancora non vede la mano non de­sista dall’operare. Chi vuole avanzare nelle grandi cose sia fede­le in quelle più piccole; e là ove la generosità del creatore gli ha già accordato piena potestà, egli compia il servizio della buo­na volontà. Questo luogo è il proprio corpo. 7. Con esso si com­porti come dice l’apostolo: «Parlo con esempi umani a causa della debolezza della vostra carne. Come avete messo le vostre mem­bra a servizio dell’impurità e dell’iniquità a pro dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione». 8. Come a dire: Quando l’amore si sarà tra­sformato in carità, quando l’anima avrà raggiunto la purezza piena che le compete, allora vi dirò e vi renderò noto qualcosa di gran lunga più elevato e divino. Per intanto accogliete questo linguag­gio umano: se nel tempo dell’antica negligenza e dell’antico pec­cato siete stati liberi nei riguardi della giustizia non facendo com­piere alle vostre membra in nulla il servizio della giustizia, ma in tutto quello del peccato a pro dell’iniquità, d’ora in poi met­tete le vostre membra a servizio della giustizia per la santifi­cazione. 9. Se in ciò il monaco come si è detto si sarà mostrato fedele,comincerà a sperimentare in se stesso quel che dice Davide: «Nel tuo nome alzerò le mie mani. Si sazi l’anima mia come di grasso e di abbondanza». 10. Se infatti con l’aiuto dello Spirito ha fatto morire le opere della carne, se ha glorificato Dio nel suo corpo, ecco che l’anima saziata con il grasso della grazia e con l’abbondanza dello Spirito santo comincia ad essere rinnovata nello spirito della sua mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.


10.1. Da questo punto il volto delle cose comincia ad apparir­gli ormai in modo nuovo; i carismi più grandi, cui fino allora faticosamente aspirava, cominciano ad aprirglisi come cosa fa­miliare; il corpo umiliato nelle sante discipline, sull’onda di quella che è ormai una consuetudine al bene passa spontaneamente al servizio dello spirito; il volto interiore dell’uomo nuovo si rin­nova di giorno in giorno e si scopre fino a riflettere come in uno specchio la bellezza di Dio. 2. Ormai frequenti e improvvise teofanie assieme agli splendori dei santi cominciano a risto­rare e illuminare l’anima travagliata incessantemente dal desi­derio. Perché quella sapienza che ci viene incontro ben disposta per le strade, al dire di Giobbe «nelle sue mani nasconde il chia­rore e gli comanda di tornare di nuovo; e riguardo ad essa an­nunzia al suo amico che è in suo possesso e che egli può salire fino a lei».

3. A questo punto l’anima affaticata da un lungo travaglio comincia ormai a recepire dentro di sé, quasi in germe, delle di­sposizioni insolite e dolci. In esse soavemente riposa se sono pre­senti, si tormenta se le vengono tolte e non tornano secondo i suoi desideri. 4. È come se, allevata in campagna e avvezza a un cibo rozzo, entrasse finalmente nella sala del re e comincias­se a gustare le disposizioni di cui si è detto. Ogni tanto viene ignominiosamente scacciata, violentemente espulsa: con quan­ta fatica acconsentirà a tornare nella dimora della sua povertà!

5. E correndo continuamente alla porta, intempestiva, insistente, affannata, come bisognosa, come mendicante, sperando e sospi­rando, guarda dentro, guarda in su se le si porge qualcosa o se a un certo punto le si apre. E finalmente con la sua insistenza e la sua intempestività supera ogni ostacolo e passa; mossa da un desiderio vorticoso si insinua fino alla mensa interiore della sapienza giungendo a sedervisi da convitata e a sentir dire: «Man­giate, amici, bevete; inebriatevi, o cari». Essa è un’impruden­te, ben presto verrà espulsa di nuovo. Ma da ora spunta ormai in lei l’amore per la santa povertà, l’inclinazione al nascondi­mento, l’odio per le distrazioni secolari, la consuetudine alla pre­ghiera, la salmodia assidua.


11.1. Ecco che tuttavia se non si è vigilanti interviene il grave ostacolo di una tentazione, che presso molti è in grado di ritar­dare grandemente una corsa fino a quel momento fortunata e felice, e talvolta di farla volgere indietro verso una fiacca pigri­zia. 2. Ciò che nel mettersi in strada si è ricevuto da un padre buono per non venir meno, si comincia a possederlo quasi ba­stasse: e ponendo lì il termine del proprio avanzamento, si co­mincia ad arretrare non appena si cessa di avanzare. 3. Addirittura, calpestando la grazia di Dio e fabbricandosi una fiducia vana riguardo ad essa ma contro di essa, ci si vanta con la bocca o con il cuore di non essere stati mai abbandonati da Dio: così si mangia e si beve la propria condanna ogni volta che si riceve da Dio la grazia di una visita e di una consolazio­ne. Da qui si giunge a porre la fiducia non più in Dio, ma nell’e­secuzione delle proprie volontà. 4. Eppure «i nemici del Signo­re», dice il salmista, «gli hanno mentito, e il loro tempo sarà in eterno. Ed egli li ha nutriti con fiore di frumento, li ha sazia­ti con miele di roccia». 5. Ascolta: sono nutriti e sono nemi­ci; sono saziati e gli hanno mentito. Ascolta: si parla non sem­plicemente di frumento, ma di fiore di frumento; non di roccia, ma di miele della roccia, cioè di quella occulta e divina grazia dei sacramenti di cui si afferma che sono saziati quanti sono di­mostrati nemici. 6. Se non fossero nemici non potrebbero tan­to rapidamente essere saziati: infatti chi è saziato non chiede più di,quanto ha ricevuto perché è pieno, e ciò che ha gli basta.

7. È quello di cui parla l’apostolo: dopo una prima illumina­zione, dopo aver gustato il dono celeste, dopo la partecipazione allo Spirito santo, dopo aver gustato la buona parola di Dio e le forze del mondo futuro, è un crocifiggere di nuovo, un calpe­stare per se stessi il Piglio di Dio peccando volontariamente do­po aver ricevuto la conoscenza della verità; è un ritenere profa­no il sangue dell’alleanza nel quale si è stati un giorno santifica­ti; è un disprezzare lo Spirito della grazia. 8. Perché che altro è il crocifiggere per sé il Piglio di Dio, se non fare il male affinché venga il bene, peccare confidando anticipatamente nel per­dono e caricare sulla croce di Cristo qualunque cosa essi com­mettono nel loro peccato? 9. Oh se essi ascoltassero quel che segue: «Una terra imbevuta della pioggia che spesso cade su di essa, se genera erbe utili a quanti la coltivano riceve benedizio­ne da Dio; ma se produce pruni e spine non ha alcun valore ed è vicina alla maledizione: sarà infine arsa dal fuoco!». Ma tor­niamo, come dice ancora l’apostolo, a cose migliori e più vicine alla salvezza.






III. LA MATURITÀ DELL’AMORE



12.1. Dunque, questo giovane carico di buone speranze, di cui Dio comincia a rallegrare la giovinezza, comincia ormai a cre­scere verso lo stato di uomo perfetto, verso la misura che con­viene alla piena maturità di Cristo. Il suo amore comincia or­mai a essere saldo e illuminato, ad acquisire una realtà interiore e un nome di ben altro valore e di ben più alta dignità. 2. L’amore illuminato è infatti carità; l’amore che proviene da Dio, che vive in Dio e che muove verso Dio è carità. E la carità a sua volta è Dio: sta scritto che «Dio è carità». Una lode bre­ve ma che riassume ogni cosa. 3. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità: tenendo presente tuttavia che, secondo che si consideri quest’ultima in quanto dono o in quan­to donatore, nel donatore questo nome è sostanza, mentre in ciò che è donato è qualità. Solo a titolo di enfasi anche il dono della carità è detto Dio, in quanto più di ogni altra virtù la virtù della carità aderisce a Dio e gli è assimilata.

4. Che diremo della carità? Abbiamo udito la sua fama, non l’abbiamo conosciuta, non la vediamo. L’apostolo l’ha co­nosciuta, lui che, chiamandola via migliore, tutto si effonde nella sua lode e dice: «E io vi mostrerò una via migliore di tutte. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non aves­si la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede co­sì da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze come cibo per i poveri, e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna; la ca­rità non è invidiosa, non agisce con cattiveria, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il suo interesse, non si adira, non pensa il male, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della ve­rità. Tutto soffre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità».

5. È questo il giogo dolce del Signore, il suo carico leggero: carico che porta e alleggerisce chi lo porta, carico leggero che è l’Evangelo, dolce a coloro cui dice il Signore: «Non vi chiamo più servi, ma amici miei». 6. Chi infatti in precedenza non poteva portare i precetti della Legge, in seguito vede leggeri i precetti dell’Evangelo in virtù della grazia che coopera a que­sto. Chi prima non poteva adempiere al «non uccidere», in se­guito trova leggero dare la vita per i fratelli, e così per tutto.

7. È come quando si impone un grave carico a una bestia da soma. Essa lo rifiuta in quanto impossibile da portare. Le viene allora condotta una quadriga che corre con facilità, l’Evangelo che si diffonde per tutta la terra. E così quel carico che prima essa rifiutava in quanto troppo pesante, in seguito lo tira senza fatica, e tira anche il doppio. 8. Così pure l’uccellino ancora im­plume e senza ali non può portare se stesso; ma se gli si aggiun­ge il peso delle piume e delle ali vola senza fatica. 9. Così, an­cora, il pane duro che non può passare senza un aiuto basta che riceva l’aggiunta di un po’ di latte o di altro liquido e scivola nella gola con facilità.


13.1. L’amore dunque compie qualche iniziale tentativo e prova un certo affetto; la carità raggiunge l’effetto. È così: ormai la mano della carità opera con una scioltezza tanto più grande quan­to più l’aiuta l’occhio illuminato. 2. Dapprima noi operiamo con la mano; ma poi con quella stessa mano puliamo il nostro oc­chio, per cui vien detto: «Dai tuoi decreti ricevo intelligen­za». Essa comincia ormai ad avere intelligenza riguardo alle proprie opere e a discernere gli affetti; 3. è ormai tanto presa dalle virtù che, come per Dio essere coincide con l’essere buo­no, così ormai per l’anima giusta e santa essere non è altro che essere in santità, giustizia e purezza: in santità entro se stessa, in giustizia verso tutti, in purezza verso Dio. 4. Con l’accresci­mento della grazia di Dio un’affezione profonda per la giustizia permea l’anima giusta a un punto tale che ormai in nessuna espres­sione di sé (si tratti di pensieri, di affetti o di atti) né sa né può essere altro che giusta in tutto il suo essere e in ogni sua manife­stazione, perché presa in modo pieno e indissolubile dalla giu­stizia. È parlando di questo che l’apostolo dice: «La carità non avrà mai fine». 5. Certo, talvolta la realizzazione di una di­sposizione interiore o di un’opera esita e devia, dato che in que­sta vita la carità non può vedere se non in modo imperfetto, e come in uno specchio in maniera confusa. Ma l’affezione che ne è all’origine permane sempre integra e salda nella sua forza.


14.1. Va notato che altro è l’affezione, o affetto, altro è la di­sposizione interiore. L’affezione, o affetto, è ciò che possie­de il cuore, per un dono di grazia, con una forza complessiva e una solidità perennemente ferma e stabile; le disposizioni in­teriori invece sono quelle situazioni variabili che la realtà varie­gata delle cose e dei tempi fa nascere in noi. 2. Ciò perché que­sta povera carne resa debole dal peccato d’origine spesso inciam­pa, spesso cade, spesso ferisce gravemente ed è ferita; e intanto il cuore soffre nel profondo, subisce più che non compia il male che accade al di fuori nella carne. Tuttavia non perde mai la ca­rità, ma nella carità geme e grida verso Dio: «Sono uno sventu­rato! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» 3. Ecco allora l’apostolo che dice: «Io con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato». E ancora: «Non sono io a far questo, ma il peccato che abita in me».

4. Di conseguenza chiunque egli sia, come dice il beato Gio­vanni, per il fatto che è nato da Dio, cioè secondo il criterio dell’uomo interiore, non pecca nella misura in cui odia invece di approvare quel peccato che il corpo di morte opera al di fuori di lui: il germe della nascita spirituale, quello per il quale egli è nato da Dio, lo protegge dall’interno. 5. E anche se di tanto in tanto è ancora ferito e logorato da un’irruzione del peccato, basta che la radice della carità sia piantata in alto ed egli non perisce: anzi, cresce con rinnovato vigore in una fecondità e una vitalità che sono promessa di buoni frutti, e si rialza. 6. Tale è il senso di quel che dice il beato Giovanni: «Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio». 7. Notiamo la forza di queste parole. Dice «non commette peccato» per il fatto che chi è nato da Dio lo subisce più che commetterlo; e «non può peccare», perseverare cioè nel peccato, fino a che ha cura di sottomettere alla legge di Dio cui serve nella propria mente anche quella carne che sotto l’assalto della tentazione e del pec­cato pareva servire alla legge del peccato. 8. Pietro quando peccò non abbandonò la carità: peccò più contro la verità che contro la carità, poiché mentendo con la bocca negò di appartenere a colui cui invece apparteneva interamente con il cuore. Perciò la verità ch’era carità subito lavò con le lacrime la negazione ch’e­ra falsità. 9. Così pure Davide quando peccò non perse la cari­tà: in lui piuttosto la carità divenne in qualche modo insensibile di fronte al colpo violento della tentazione. Non avvenne per nulla in lui una soppressione della carità, ma come una sorta di assopimento. E non appena si destò alla voce accusatrice del pro­feta, subito egli eruppe in quella confessione di ardentissima carità: «Ho peccato contro il Signore!» E subito meritò di sen­tirsi dire: «Il Signore ti ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai».


15.1. Ancora a lode della carità, si può ricordare il fatto che l’amore esiste nella fede e nella speranza; la carità esiste in se stessa e per se stessa. Può anche accadere che la fede e la spe­ranza esistano senza carità; ma che la carità non contenga in se stessa la fede e la speranza, questo non può accadere. Infatti la fede assicura che quanto si ama esiste, la speranza lo promet­te. 2. Ama dunque colui che ama nella fede e nella speranza, nel senso che si può amare solo quanto si crede e si spera. La carità invece già possiede ciò che crede e spera, già lo stringe e lo abbraccia. L’amore desidera vedere il Dio della sua fede e della sua speranza perché lo ama; la carità lo ama perché lo ve­de. Essa è infatti l’occhio che permette di vedere Dio.

3. Perché anche l’anima ha i suoi sensi, ha la sua vista, l’oc­chio che vede Dio. Come il corpo ha i suoi cinque sensi con i quali viene unito all’anima per l’intermediario della vita, così anche l’anima ha i suoi cinque sensi con i quali viene unita a Dio per l’intermediario della carità. 4. In ragione di questo l’a­postolo dice: «Non conformatevi alla mentalità di questo seco­lo, ma rinnovatevi nella novità del vostro senso, per poter di­scernere la volontà di Dio buona, a lui gradita e perfetta». Appare qui che per i sensi del corpo invecchiamo e ci confor­miamo a questo secolo, mentre per i sensi interiori ci rinnovia­mo per la conoscenza di Dio in novità di vita secondo la volontà e il beneplacito di Dio. 5. Cinque sono i sensi animali o cor­porali con i quali l’anima dà sensibilità al proprio corpo: comin­ciando dal più basso sono il tatto, il gusto, l’odorato, l’udito, la vista. 6. Similmente cinque sono i sensi spirituali con i quali la carità dà vita all’anima: cioè l’amore carnale che è quello per i propri congiunti, l’amore sociale, l’amore naturale, l’amore spi­rituale, l’amore per Dio. 7. Attraverso i cinque sensi del corpo, per l’intermediario della vita, il corpo viene unito all’anima; at­traverso i cinque sensi spirituali, per l’intermediario della cari­tà, l’anima viene associata a Dio.


16.1. Al tatto si può paragonare l’amore per i congiunti. Poi­ché quest’affetto, che è a disposizione di tutti ed è in certo qual modo materiale e palpabile, a tutti si offre e si presenta con tal naturalezza che anche volendo è impossibile sfuggirlo. 2. Il tatto a sua volta è un senso interamente corporale che è procurato dal contatto fra ogni tipo di corpi, alla sola condizione che viva almeno uno di essi o che vivano entrambi: allora il tatto potrà esserci. 3. E come non può il tuo corpo, ovunque tu ti volga, essere senza tatto, così neppure la tua anima senza quest’affet­to. 4. È per questo che nelle Scritture tale amore non è molto raccomandato, anzi, viene piuttosto contenuto perché non sia eccessivo. Dice infatti il Signore: «Se uno non odia il padre o la madre non può essere mio discepolo».


17.1. Al gusto si può paragonare l’amore sociale, l’amore fra­terno, l’amore della chiesa santa e cattolica di cui è scritto: «Ec­co quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insie­me!». Perché come attraverso il gusto si somministra la vita al corpo, così a questo amore il Signore dona la benedizione e la vita. 2. Inoltre il gusto viene esercitato in un contesto corpo­rale, e tuttavia genera un sapore all’interno dal quale l’anima è toccata. È dunque un senso soprattutto corporale ma cui va anche riconosciuto in certa misura un carattere animale. 3. Così l’amore sociale si presenta come soprattutto animale per il fatto che si suggella attraverso l’abitazione in uno stesso luogo mate­riale, attraverso la somiglianza di professione, attraverso una co­munanza di inclinazioni o altre cause di questo genere, e che si nutre di servizi reciproci. 4. Ma in grande misura è anche spi­rituale: perché come il sapore è nel gusto, così l’affetto della ca­rità fraterna arde in quest’affezione di cui è scritto: «È come olio profumato sul capo che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come rugiada del­l’Ermon (cioè della luce elevata) che scende sui monti di Sion».


18.1. All’odore si può paragonare l’amore naturale, che ama ogni uomo in modo naturale a causa della somiglianza di natura e della comune partecipazione ad essa senz’alcuna speranza di ricompensa. Provenendo dagli strati più profondi della natura e offrendosi all’anima, nulla permette che le sia estraneo di ciò che è umano. 2. Si presenta come un senso più animale che corporale (sto parlando dell’odorato), poiché per produrlo all’in­terno di sé il corpo non mette in opera altro che una lieve aspi­razione di quel suo strumento che sono le narici: respiro che av­viene mediante il corpo ma che agisce sull’anima, non sul cor­po. 3. Così l’amore naturale si presenta come più spirituale che animale, poiché al di fuori della considerazione di una comune appartenenza alla natura umana non si bada in esso per nulla a consanguineità, né a società, né a vincoli di nessun tipo.


19.1. All’udito si può paragonare l’amore spirituale, l’amore dei nemici. L’udito infatti non agisce per nulla all’interno, cioè en­tro il corpo, ma come all’esterno: percotendo le orecchie chia­ma fuori l’anima perché esca e ascolti. 2. Così l’amore dei ne­mici nessuna forza di natura, nessun tipo di vincolo di affetto lo suscita nel cuore, ma solo l’obbedienza, che è indicata dall’u­dito. 3. Quest’amore può dunque essere detto spirituale, anche nel senso che fa passare alla somiglianza con il Figlio di Dio, alla dignità di figli di Dio, come dice il Signore: «Benedite quanti vi odiano perché siate figli del Padre vostro celeste», eccetera.


20.1. Alla vista si può paragonare l’amore per Dio. Infatti la vista è il senso principale, così come fra tutte le disposizioni in­teriori l’amore per Dio tiene il primo posto. 2. A partire dalla vista degli occhi tutti gli altri sensi si dice che vedono, benché soltanto l’occhio veda. Diciamo infatti: Tocca e vedi, assaggia e vedi, e così via. 3. Allo stesso modo a partire dall’amore per Dio le altre cose che vengono amate bene sono dette amate. È più chiaro della luce che nulla dev’essere amato se non a causa di Dio, e che non è amata una realtà che lo è a causa di qual­cos’altro, ma piuttosto ciò a causa del quale essa viene amata. Per questo è scritto: «Dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome».

4. La vista è una sorta di forza dell’anima, semplice, potente e pura. Così l’amore per Dio è potente perché opera grandi co­se; è anche puro perché, come disse qualcuno, nulla di contami­nato in esso s’infiltra. Dio infatti non tollera di essere amato assieme a qualche altra cosa che non venga amata a causa di lui. 5. La vista è posta nel luogo più elevato del corpo, nella parte più ragguardevole del capo, e in conseguenza della disposizione del corpo ha sotto di sé nell’ordine, nella dignità e nel potere tutti gli strumenti degli altri sensi e i sensi stessi: più vicini quelli per così dire più animali, più lontani quelli più corporali. Il più basso di tutti, il tatto, che è meno nobile degli altri, anche se pare diffuso in tutto il corpo ha tuttavia la sua sede privilegiata nelle mani. 6. Così la mente, capo dell’anima, e la parte più elevata di questa mente dev’essere la sede dell’amore per Dio, in modo che abbia sotto di sé gli altri amori, li regga e li illumi­ni, nulla lasciando in essi che si sottragga al suo calore e alla sua luce: più vicini avrà quelli più spirituali, più lontani quelli più animali o carnali. Ciò avverrà quando ameremo il Signore Dio nostro con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra forza e poi il prossimo nostro come noi stessi.

7. La vista, ancora, avendo come si è detto la sua sede nel luogo più nobile del corpo, sembra tendere al tempo stesso ver­so qualcosa che è al di sopra delle potenzialità proprie dell’ani­ma. Per quanto ne è capace cerca di imitare il potere della men­te, della memoria: nello spazio di un momento varca a volo la metà del cielo, in un solo istante passa a volo grandi estensioni di terra. 8. Così l’amore illuminato per Dio, fissando la sua se­de nell’anima cristiana, la innalza a una certa somiglianza con la divina potenza nel momento in cui le fa apparire ogni creatu­ra come misera e meschina, anzi come nulla di fronte a Dio; nel momento in cui quest’anima confida che tutto ciò che è del Pa­dre è anche suo; in cui dunque tutto concorre al suo bene, e Paolo, Cefa, la morte, la vita, tutto è suo, e il mondo intero con le sue ricchezze appartiene all’uomo fedele.


21.1. Dunque la vista, naturale luce dell’anima per la visione di Dio, creata dall’autore della natura, è la carità. 2. In questa vista due sono gli occhi, sempre palpitanti in una sorta di ten­sione naturale verso la visione della luce che è Dio: l’amore e la ragione. 3. Se uno dei due opera senza l’altro non avanza di molto. Invece possono molto se si soccorrono a vicenda, se di­ventano un solo occhio come dice lo sposo nel Cantico: «Tu mi hai rapito il cuore, amica mia, con uno solo dei tuoi occhi». 4. Ed essi si affaticano grandemente ciascuno a suo modo, per il fatto che uno dei due, la ragione, non può vedere Dio se non in ciò che Egli non è, mentre l’amore non acconsente a riposare se non in ciò che Egli è. 5. Cosa c’è infatti che con tutti i suoi sforzi la ragione possa comprendere o trovare, di cui osi dire: Questo è il mio Dio? Può trovare ciò che è unicamente nella misura in cui trova ciò che non è.

6. Precisiamo ulteriormente. La ragione ha certi suoi cam­mini sicuri, sentieri diritti sui quali procede; l’amore per contro avanza di più grazie a ciò che ha smarrito, apprende di più per la sua ignoranza. 7. La ragione sembra avanzare verso ciò che è passando attraverso ciò che non è; l’amore si rallegra di smar­rirsi in ciò che è lasciando da parte ciò che non è: di là infatti è uscito, e naturalmente anela al suo principio. La ragione pos­siede una maggiore sobrietà, l’amore conosce una maggiore bea­titudine. 8. Ma se come ho detto si soccorrono a vicenda, se la ragione istruisce l’amore e l’amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l’amore acconsente a lasciarsi trat­tenere entro i confini della ragione, essi possono fare qualcosa di grande.

9. Che è mai questo qualcosa? Ebbene, come colui che avan­za in tali realtà non può avanzare né impararle se non facendo­ne l’esperienza, così non gli è possibile comunicarle a chi non ne ha fatto l’esperienza. Perché come si dice nella Sapienza, «alla sua gioia non parteciperà l’estraneo».


22.1. A questo punto ormai la dilezione forte come la morte trafigge l’anima, fin allora teneramente nutrita dalla dolcezza e dalle delizie dell’amore e talora ferita dalle correzioni della te­nerezza paterna; con la dolce spada dell’amore la uccide e la di­strugge in radice quanto all’amore e all’attaccamento al mondo, proprio come la morte distrugge il corpo: sì che di lei si può dire come di Enoch, che non viene trovato nei comportamenti del mondo perché Dio l’ha portato via. 2. Ma il corpo dalla sua morte è reso morto quanto a tutti i suoi sensi; l’anima invece per la sua morte cresce maggiormente, è vivificata e rafforzata nei suoi. Ormai essa procede con forza, costanza e sapienza sui suoi sentieri e in ogni passo: anche là dove fin allora, in preda all’ignoranza, al dubbio e all’incertezza osava appena porre il piede del suo accordo con il bene. La via del Signore è infatti la forza dell’uomo semplice.

3. Un simile rendersi morto quanto ai comportamenti del mon­do e all’attaccamento ad esso è quello di cui parlò anche l’apo­stolo Paolo quando disse: «Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo». L’uno non si curava dell’altro, legati com’erano entrambi ai loro attaccamenti propri; non potevano accostarsi l’uno all’altro, non se ne curavano. Paolo e il mondo erano crocifissi l’uno per l’altro. 4. Tuttavia, benché la vita di Paolo fosse interamente nei cieli, ogni volta che era necessaria agli uomini in terra egli non si tirava indietro. Per questo dice­va fra i gemiti: «Bramo essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio». 5. E veramente, quanto è meglio essere con Cristo! Che Cristo fosse con Paolo, come lui stesso ha detto: «Ecco, io sono con voi fino alla fine del mon­do», che Cristo, dico, fosse con Paolo è la grande sicurezza di Paolo. Ma che lui fosse con Cristo, sia di qua grazie alla con­templazione sia di là grazie alla presenza beatificante, è la beata e gloriosa felicità di Paolo. 6. Dunque la carità di Dio lo innal­zava verso l’alto; ma la carità del prossimo lo premeva verso il basso come un peso al suo collo. Per questo subito dopo egli di­ce: «D’altra parte è necessario per voi che io rimanga nella carne».


23.1. La carità aderisce indissolubilmente a Dio; a partire dal volto di lui raccoglie tutti i propri giudizi onde agire e provve­dere all’esterno come le detta all’interno la volontà di Dio buo­na e gradita. Essa trova dolce fissare perennemente lo sguar­do su quel volto; e leggervi per sé, come nel libro della vita, le leggi necessarie per vivere; e capire, illuminare la fede, raffor­zare la speranza, suscitare la carità. 2. Ormai lo stesso spirito di conoscenza istruisce con chiarezza l’anima santa su che cosa debba fare e in che modo; lo spirito di fortezza le procura le forze, le energie per farlo; lo spirito di consiglio dà disposizioni. E quando a quell’anima è data la libertà di liberarsi per Dio, di aderire a Dio, essa diviene simile a Dio attraverso un atteg­giamento profondo di donazione e l’unità di volontà. 3. Se poi è costretta a tornare verso gli uomini e le cose umane stornan­dosi dalla legge del volto di Dio, essa riporta agli uomini un vol­to illuminato nei fatti e nelle parole dall’olio della divina carità e da quella sorta di gloria e di grazia che è conferita al­l’uomo esteriore. Allora con una dolcezza che le è divenuta abi­tuale, con la grazia che da lei promana, esige da se stessa e pro­duce in loro un tale senso di rispetto da ottenere immediatamente la loro obbedienza in qualunque ambito la richieda.

4. Talvolta, è vero, al suo uscire dal luogo del nascondimen­to per appressarsi ai vizi dei peccatori e ai costumi corrotti di quanti si sono sviati essa appare come cornuta e terribile a cau­sa della verità e della severità dei giudizi del volto di Dio. Quando poi però diventa chiaro a chi dev’essere corretto secondo l’in­dissolubile legge della verità che ogni cosa viene eseguita e di­sposta con ponderazione e misura, allora ci si arrende alla ca­rità, e anche quell’ira è compresa come un insegnamento di carità.

5. In conclusione, le ruote nelle quali è lo spirito di vita si muovono sempre per compiere la volontà di Dio, e non tor­nano indietro a fare la propria. 6. Se a questi uomini si richie­de di presiedere, presiedono con sollecitudine; se si richiede di sottomettersi, lo fanno in letizia; se di stare alla pari con altri, lo fanno nella carità. Se sono in posizione elevata sono come dei padri verso i figli; se sudditi, come dei figli verso i loro pa­dri; se vivono assieme ad altri si fanno servi di tutti. 7. Pieno di attenzioni è il loro affetto verso tutti, dolce il loro consenso a ciò che è buono. L’incontro con loro avviene nella letizia, la vita comune procede nella grazia, il distacco diventa manifesta­zione di carità. 8. Verso i più piccoli mostrano in vario modo un affetto improntato a mitezza comprovandolo con le opere; verso i padri mostrano amore fino alla sottomissione; verso i su­periori, deferenza fino a un rapporto di servitù. 9. Non cerca­no il loro interesse ma quello di tutti. Spesso, se è possibile, fanno proprie le cose che rispondono all’interesse di tutti anche se sono contrarie a loro. 10. E trovano facile mettere al servi­zio di tutto questo il loro corpo e la loro buona volontà, qualun­que cosa la legge altissima ordinerà loro: hanno ricevuto la ca­parra o pegno dello Spirito santo, questa servitù della creatura e delle sue membra destinata ben presto a mutarsi in adozione e rivelazione dei figli di Dio.


24.1. Ma veniamo ora a quella comunanza di spirito di cui parla l’apostolo, forma di vita degna di lode; a quel bene, a quella gioia che è la vita comune di fratelli in uno stesso luogo, ove il Signo­re dona la benedizione e la vita e di cui il Signore dice: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dar­vi il regno».

2. Questa forma di vita sì degna di lode ha tratto origine da­gli apostoli. Essi secondo quanto appreso dal Signore, o dallo Spirito santo della cui potenza erano stati poco prima rivestiti dall’alto, istituirono per sé un modo di vivere assieme nel quale la moltitudine aveva un cuore solo, un’anima sola e ogni cosa comune e stavano sempre unanimi nel tempio. 3. A imitazio­ne di questo modello di vita apostolica, alcuni non hanno case né asili all’infuori della casa di Dio, casa di preghiera. Qualun­que cosa facciano la fanno nel nome del Signore. Abitano assie­me vivendo la stessa vita, sottomessi alla stessa legge, senza nulla di proprio, senz’avere in loro potere neanche i loro corpi né le loro volontà. 4. Assieme dormono, assieme si alzano; assie­me pregano, assieme cantano i salmi, assieme fanno la lettura spirituale. Hanno come principio fisso e immutabile di obbedi­re a quanti sono loro preposti e di star loro sottomessi. 5. Questi ultimi, dal canto loro, vegliando su di essi come chi ha da ren­der conto delle anime loro, ad essi predicano la stessa cosa che in Geremia si legge essere stato predicato da Godolia al popolo d’Israele: «Io risponderò di voi ai caldei che vengono a noi. Ma voi fate pure la raccolta del frumento, del vino e dell’olio nei vostri vasi, e abitate sicuri nelle vostre città». 6. Mentre im­molano ogni giorno a Dio in loro favore Isacco, riso e gioia del proprio cuore, figlio della donna libera, figlio della promessa salvano Ismaele, figlio della schiavitù, per servire a lui. Ciò avviene ogni volta che a causa loro rinunziano ai frutti dello spi­rito. Nel farsi servitori della salvezza di quelli pospongono agli atti necessari al loro servizio ogni progresso interiore proprio. 7. Predicando loro un sabato perenne li rendono estranei alle sollecitudini del mondo e liberi dalle ansietà create dal bisogno: 8. bisogno ridotto a realtà modestissime, per cui si vive di po­co. Le vesti sono di scarso valore, sobrio è il vitto, e tutto è de­terminato secondo i criteri certi di una norma fissata in anticipo. In tal modo nessuno ha più di quanto è lecito avere e di quan­to e sufficiente a tutti; nessuno desidera avere di più, dato che tutti hanno ciò che è lecito avere.


25.1. Non è forse vero che questo è un paradiso non terrestre ma celeste? In questo paradiso solo a quanti sono posti in alto si permette di mangiare costantemente dall’albero della cono­scenza del bene e del male, cioè di essere ministri delle disposi­zioni dettate dal discernimento; quanto ai sudditi, cui è chiesto di fare obbedienza, non di operare il discernimento, se qualcu­no toccherà quel legno certamente morirà. 2. Tutti poi in ogni momento custodiscono il silenzio della bocca e si parlano Invece con l’affetto del cuore. Le frequenti esortazioni di quelli che presiedono gettano olio sulla fornace dei fratelli, anche se questi si stimolano ancor più con il reciproco esempio. 3. Si prevengono l’un altro a gara nell’onore e nell’ossequio secondo il comando dell’apostolo, sfidandosi a vicenda nella sfida della carità e a vicenda sostenendosi. 4. Non tollerano che alcuno fra di loro se ne stia solitario, perché non gli dica Salomone: «Guai a chi è solo!». E solitario reputano chi non vuole avere un com­pagno nella sua coscienza in virtù della confessione, oppure chi con macchinazioni frutto di novità e concepite in solitudine turba la comunità dei fratelli. 5. Se talvolta la situazione lo esige ed è permesso, vi è un pacato colloquio su questioni necessarie al­l’anima o al corpo; altrimenti regna dappertutto un ancor più pacato silenzio. 6. La custodia della preghiera è dappertutto og­getto di una dedizione tanto grande e continua che ogni luogo in cui ci si trova a pregare diventa luogo del dominio di Dio. 7. La salmodia è così attenta, così sinfonica, così fervente che i fratelli sembrano raffigurare e immolare a Dio, per una simili­tudine di consonanze, un’altra melodia, fatta di vita, di gesti quotidiani, di affetti buoni, composta non secondo le regole della musica ma secondo quelle della carità. 8. Scorgendo reciproca­mente in se stessi la presenza della divina bontà nel comune im­pegno religioso come pure in quella certa grazia che penetra i volti, i corpi e gli atteggiamenti, si abbracciano con affetto pro­fondo: sì che arde ciascuno a causa dell’altro come avviene tra i serafini per il desiderio dell’amore di Dio, e in alcun modo quel che uno dona all’altro può esser sufficiente a colui che dona.


26.1. Questa è la scuola particolare della carità; qui se ne coltivano gli studi, e si tengono dibattiti, si fissano soluzioni non tanto per via di raziocinio quanto piuttosto mediante la ragio­ne, la verità stessa delle cose e l’esperienza. 2. Qui colui che è affaticato nel suo avanzare, se rimane presso i bagagli che an­cora si porta dietro a causa dei bagagli, delle necessità sue e di quanti vivono con lui, non morirà: e neppure sarà costretto da alcuna legge a tornare indietro o a procedere oltre. E se rima­nendo fedelmente là avrà custodito i bagagli, nel trionfo della vittoria colui che sarà giunto più avanti differirà ben poco da lui. 3. Il luogo dei bagagli non è forse quello in cui noi soppor­tiamo quanti con la loro potenza ci opprimono schiacciandoci la testa, i nemici che pongono pesi sulle nostre spalle, i figli che con le loro strette si attaccano al cuore? Battaglie all’esterno, timori al di dentro. Quotidiana, anzi continua la preoccupazio­ne per tutti. 4. E Idithun ha ancora qualcosa da oltrepassa­re; ancora lungo resta il cammino per chi sale al monte del Si­gnore, alla casa del Dio di Giacobbe. Tuttavia non è più pos­sibile procedere oltre con i bagagli.



IV. LA VECCHIAIA DELL’AMORE


27.1. Alla vecchiaia è dovuto il rispetto che si merita. Perché ecco, ormai comincia la vecchiaia, non fatta per portare i baga­gli, veneranda in quanto calcolata non dal numero degli anni ma da quello delle virtù, spirante maturità come frutto di sapien­za e pace come dono delle fatiche, quasi premio di una milizia portata a termine con pieno merito. 2. E in effetti la sapienza, che prende su di sé il cammino della crescita spirituale per con­durlo a compimento, non avvilisce in nulla la carità, non l’ab­bandona; anzi, la fa progredire. Tutto il suo fastidio, si è detto, sta nel portarne i bagagli, dato che mentre veglia su faccende diverse cerca al tempo stesso di prepararsi e disporsi ad entrare nella gioia del suo Signore. 3. Essa odia ogni genere di ansie­tà: talvolta, è vero, intraprende qualche lavoro, ma dei lavori non ama le preoccupazioni. Non le mancano le forze per cari­carsene, ma rifugge dall’impedimento che esse rappresentano. 4. Ecco perché il Signore, stimolando l’anima santa a quest’ul­teriore crescita e invitandola, come si è detto, ad entrare nella sua gioia, le dice: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente».


28.1. Si esigono da noi quattro affezioni nei confronti di Dio, e queste nella loro interezza. Nel dire «con tutto il tuo cuore» egli rivendica a sé tutta la volontà; nel «tutta l’anima», tutto l’amore; nel «tutte le forze» indica il potere della carità; nel «tutta la mente» la gioia procurata dalla sapienza. Inizialmente infatti è la volontà che muove l’anima verso Dio, poi l’amore progredi­sce, la carità contempla e la sapienza si rallegra. 2. La sapienza può essere collocata in modo appropriato nella mente. Questa è chiamata mente perché si rammenta o anche perché è in posi­zione eminente nell’anima: è quindi giusto che venga assegnata a quel potere che è in posizione eminente rispetto ad ogni altro potere dell’anima. La mente è una forza dell’anima per la quale aderiamo a Dio e in lui ci rallegriamo. 3. E tale rallegrarsi av­viene in un assaporare il divino: un sapore da cui la sapienza. Questo assaporare, poi, avviene in un gustare. Nessuno può espri­mere in modo adeguato questo gustare, neppure chi merita di provarlo. 4. «Gustate e vedete quanto è dolce il Signore», è scritto. Con tale gusto secondo l’apostolo si gusta la buona pa­rola di Dio e sono gustate le ricchezze del mondo futuro.

5. Ma su questo gusto che ha in sé quell’assaporare da cui riceve sapore la sapienza occorre indagare più a fondo. 6. Va detto subito che, benché colui che ascende giunga per gradi fi­no al culmine della sapienza, se tuttavia la sapienza, come essa stessa afferma nel libro che da lei prende nome, non cercasse dappertutto in ogni gradino fino all’ultimo quanti la cercano e non andasse loro incontro per le strade mostrandosi in letizia, la volontà non si muoverebbe né l’amore progredirebbe; la cari­tà non sboccerebbe in contemplazione né la sapienza in allegrezza. Al modo in cui abbiamo cominciato, proseguiamo ora parlan­do del gusto.


29.1. Il corpo di Cristo è la chiesa universale, sia dell’antico che del nuovo testamento. Alla testa di questo corpo, cioè in quella sua parte che è la chiesa primitiva, sorta prima, più anti­ca e più alta, vi sono quattro sensi: la vista, l’udito, l’odorato e il tatto. 2. Gli occhi sono gli angeli per l’acutezza della con­templazione; le orecchie sono i patriarchi per la virtù dell’obbe­dienza; le narici o l’odorato sono i profeti per la percezione del­le cose che ancora non sono; il tatto è un senso comune a ciascuno. 3. Tutti questi sensi prima della venuta del Media­tore erano nella testa; ma languivano perché la parte inferiore del corpo era del tutto spenta a causa dell’assenza di un solo senso, il gusto. Senza il sostegno di quello il corpo non poteva vivere né potevano i sensi sviluppare tutta l’energia della loro vitalità. 4. Prova a mettere accanto, sotto, attorno ai vari sensi e al cor­po nel suo complesso ciò che fa da cibo all’intero corpo: a che serve se il solo gusto viene a mancare? Versalo nelle orecchie, introducilo nelle narici o da qualunque altra parte: è possibile che sia di danno, è impossibile che giovi. 5. Il gusto apre a una certa dolcezza dell’assaporare, e l’anima che la prova nelle sue profondità in modo singolare e non comunicabile agli altri sensi discerne e giudica tutto ciò che riceve; in tal modo vivifica e rafforza se stessa e tutti i sensi. 6. Il gusto dunque, posto co­m’è al confine fra la testa e il corpo, nella gola, come a collegare queste due parti, indica Colui che per la condizione della carne è stato reso poco più piccolo degli angeli. 7. E per la pazien­za e l’umiltà da lui mostrata si è reso in qualche modo più picco­lo e più umile anche di Mosè, di Elia e degli altri patriarchi e profeti. Quelli con la potenza ricevuta abbattevano i nemici di Dio e i propri, questo invece insegna ai suoi discepoli: «Se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l’altra».


30.1. Egli viene dopo i profeti e i patriarchi, come limite fra la legge e la grazia, fra la testa e il corpo. Tutto ciò che vi è di salutare nella legge, nei profeti e nei salmi, tutto ciò che è vitale e utile a questo corpo si può dire che la sua bocca, grazie al mi­stero dell’umanità, della passione e della resurrezione, lo degu­sti: cioè ne abbia intelligenza in se stesso e lo trasmetta al corpo che ne abbia intelligenza attraverso di lui. L’uomo Cristo insom­ma, per quel sapore interiore della divinità per il quale Cristo sapienza di Dio è diventato sapienza per noi, sente il sapore di queste cose e ce le rende saporose e utili. 2. Avendo in sé la vita, animando e corroborando attraverso di sé la totalità del corpo, dona gioia a se stesso e agli angeli per il completamento del corpo; dona gioia ai patriarchi e ai profeti per la visione del suo giorno, come egli stesso dice: «Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò»; dona gioia e vita all’intero corpo. Allora noi, in un tripudio del­la mente vivificato e corroborato da quel tatto spirituale diffu­so dappertutto, possiamo gridare: «Ciò che abbiamo veduto e udito, ciò che le nostre mani hanno toccato riguardo al Verbo della vita».

3. Ecco il motivo per cui a tutte le nostre preghiere aggiun­giamo «Per Cristo nostro Signore»: sia perché indirizziamo tut­te le nostre preghiere e i nostri sacrifici a Dio Padre attraverso di lui come attraverso il nostro mediatore; sia perché quanto spe­riamo dal Padre della luce, ogni buon regalo e ogni dono perfetto, chiediamo che ci venga versato non attraverso l’o­recchio, né attraverso le narici, ma attraverso lui stesso che è la nostra bocca, il nostro gusto, la nostra sapienza. Così sarà pro­ficuo a chi lo assume.


31.1. E questo è il gusto che lo spirito di intelligenza ci fa pro­vare in Cristo: l’intelligenza delle Scritture e dei misteri di Dio. Per cui quando il Signore apparve ai discepoli dopo la sua risur­rezione l’evangelista dice che «allora aprì loro il senso all’intel­ligenza delle Scritture». 2. Si tratta di cominciare non solo ad avere l’intelligenza, ma anche per così dire a palpare e tocca­re con quella sorta di mano che è l’esperienza il senso interiore delle Scritture e la potenza dei misteri e dei segreti di Dio. Ciò non avviene se non attraverso un senso della coscienza, un ap­prendimento dato da un’esperienza in grado di comprendere, più ancora, di leggere entro se stessa e di sentire la bontà e la potenza di Dio che l’azione della grazia opera in bontà sovrana con potenza efficace nei figli della grazia.

3. Allora finalmente la sapienza compie ciò che è suo; allora essa istruisce su ogni cosa mediante la sua unzione quanti giudi­ca degni; allora dà impronta e forma a tutto ciò che è nostro, pacificato ormai e ingentilito da quest’unzione, ponendovi il si­gillo della bontà di Dio. E se trova qualcosa di duro o di rigido lo schiaccia e lo spezza, 4. finché l’anima santa, ricevuta la gioia della salvezza di Dio e sostenuta dallo spirito sovrano della sa­pienza, lieta canti a Dio: «È impressa su di noi, Signore, la luce del tuo volto. Hai messo gioia nel mio cuore». 5. In tal senso il Signore ha detto: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo».

6. Beata conoscenza in cui è racchiusa la vita eterna! Questa vita è originata da quel gusto, poiché gustare è avere intelligen­za. 7. L’infimo degli apostoli, saziato, rallegrato, confermato nella sapienza che gli veniva da questo gusto attraverso questo assaporare poté dire: «A me, che sono l’infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunziare ai gentili le imper­scrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli in Dio creatore dell’universo: perché sia manifestata ai Principati e al­le Potestà nel cielo per mezzo della chiesa la multiforme sapien­za di Dio, secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, nel quale abbiamo il coraggio di avvici­narci in piena fiducia a Dio per la fede in lui». 8. E poco sotto: «Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla ter­ra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, che la virtù sia rafforzata dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori; e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità».

9. È bene leggere con cura questo passo, per vedere se siamo in grado di penetrare in qualche misura il senso della sapienza dell’apostolo.


32.1. Posti di fronte al quattro di Dio, noi siamo debitori di due. Quattro realtà sono in Dio: la potenza, la sapienza, la cari­tà e la verità o eternità, che è lo stesso: nulla infatti esiste vera­mente se non ciò che è immutabile. Ad esse ci è conveniente rispondere in due modi. 2. Alla potenza che può punirci e alla sapienza cui nulla può restare nascosto dobbiamo il vero timo­re, quello cioè che non è impedito dal torpore proveniente dalla sicurezza né dal rifugio costituito dalla simulazione. Si ha simu­lazione quando facciamo credere a noi stessi che adempiere al comandamento sia per noi una grande fatica, oppure quando di nostra iniziativa mettiamo in Dio una misericordia al di là di ogni ragione. 3. Alla carità e alla verità dobbiamo il vero amo­re, cioè quello che non è impedito dalla tiepidezza dell’affetto né dall’inquietudine del sospetto. Che cosa infatti si deve alla carità se non la carità? 4. E la verità della carità e la carità della verità rimuovono ogni inquietudine di sospetto. Parlo di quel sospetto per cui si pensa che la carità non ami, che la verità in­ganni, che l’eternità passi.

5. Per questo Paolo dice: «E così siate in grado di compren­dere con tutti i santi quale sia la lunghezza, l’ampiezza, l’altez­za e la profondità». Nell’altezza intendi la potenza; nella pro­fondità la sapienza; nell’ampiezza la carità; nella lunghezza l’e­ternità o verità. Questa è la croce di Cristo. 6. Altrove poi lo stesso apostolo, esprimendo con ancor maggiore chiarezza la potenza dell’altissima sapienza operante in noi dice: «Perciò an­ch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, non cesso di render grazie per voi, ricordando vi nelle mie preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per la conoscenza di lui. Egli illumini gli occhi del vostro cuore perché sappiate qual è la spe­ranza della sua chiamata rivolta ai santi, quale il tesoro di gloria della sua eredità nei santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza, che egli operò in Cristo quando lo risuscitò dai morti».


33.1. Allorché dunque, in seguito alla preghiera dell’apostolo e all’esaudimento da parte di Dio, ci è dato lo spirito di sapien­za e di rivelazione per la conoscenza di lui, quello cioè grazie al quale lo conosciamo e l’assaporiamo o piuttosto lui stesso si fa assaporare da noi; quando sono illuminati i nostri occhi per­ché vediamo il bene, perché divenuti buoni comprendiamo i beni cui ci attira la speranza della sua chiamata e che sono il tesoro di gloria della sua eredità nei santi, in tutto questo ci appare la bontà, la benevolenza di Colui che illumina e chiama. 2. Quando poi ci viene aggiunta anche la forza di seguire Colui che chiama, ecco che attraverso l’esperienza stessa dello spirito di sapienza ci è rivelata la misura e la qualità della straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi. 3. Da questo momen­to chi si trova in tale situazione, il cui palato del cuore è stato risanato dal gusto della contemplazione divina, discerne e giu­dica ogni cosa. In Cristo autore di ogni bene la prima cosa che egli assapora è la sua conversione a Dio; poi la remissione dei suoi peccati; in seguito lo straordinario accrescimento di grazie che tiene il posto dell’ira di cui eravamo tutti figli. 4. E tut­to ciò per nessun altro tramite che per il Signore nostro Gesù Cristo. Egli è il nostro mediatore, la nostra sapienza la cui stol­tezza è più forte degli uomini.


34.1. Infatti la bontà di Dio abbondava di simili ricchezze e le offriva a tutti; ma non c’era nessuno che le accogliesse, né che fosse capace di accoglierle, né che istruisse altri ad accoglierle; e nessuno che potesse salire al luogo in cui questi beni vengono distribuiti né che potesse portarli quaggiù. Occorreva perciò un mediatore fra noi e Dio, grazie al quale ciò che è nostro si avvi­cinasse a Dio e i beni di Dio si avvicinassero a noi. 2. La Trini­tà tenne dunque consiglio, quel consiglio di cui il profeta dice: «Il tuo vero consiglio antico si faccia».

3. Perché Dio ben vedeva come in ciò che attiene all’uomo tutto fosse confuso, tutto turbato; come nulla stesse al suo po­sto, nulla procedesse secondo l’ordine proprio. Vedeva che l’uomo si era inoltrato tanto a fondo nella regione della dissomiglianza che con le sue forze non sapeva né poteva più tornare indietro. 4. L’angelo si era arrogato la somiglianza con Dio quando ave­va detto: «Porrò la mia dimora a settentrione e sarò simile all’Altissimo». Allo stesso modo l’uomo volle essere Dio per­ché gli si era fatto credere: «Sarete come dèi». 5. «Dunque, disse Dio Padre, il Figlio mio, irradiazione della mia gloria e impron­ta della mia sostanza, in questa stessa somiglianza con me avrà tanti rivali, tanti compagni pari a lui?». Ed entrambi furono pre­cipitati. 6. Allora il Dio Figlio immagine di Dio, vedendo che l’angelo e l’uomo creati ad essa, a immagine di Dio senza tutta­via essere l’immagine medesima di Dio, erano periti per un di­sordinato appetito di immagine e somiglianza, disse: «Ahimè, solo la miseria non suscita invidia. Ma bisogna soccorrere co­lui che la giustizia non vieta di soccorrere. Mostrerò all’uomo me stesso come uomo disprezzato e ultimo degli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, perché egli ricerchi e imiti in me l’umiltà. Per essa giungerà alla gloria cui si affretta con tanta impazienza, e allora potrà udire da me: Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime».


35.1. Il Figlio di Dio si cinse così le vesti, e intraprese a recu­perare attraverso l’umiltà colui che era perito a causa della su­perbia ma poteva essere recuperato. 2. Facendosi intermedia­rio fra Dio e l’uomo, che allontanatosi da Dio era stato preso e incatenato dal diavolo, in questo modo rivestì il ruolo e la fun­zione del buon mediatore. Si fece uomo: 3. «Un germoglio spun­tò dalla radice di lesse, un virgulto germogliò dalla sua radice. Su di lui si posò lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di cono­scenza e di pietà, e lo spirito di timore del Signore lo riempì». 4. Comprendi ciò che ti vie n detto: al nostro for­tissimo atleta, entrato nel campo del mondo, per il cimento vie­ne unto il corpo con l’olio dello Spirito santo. Egli è il gigante che esulta nel percorrere la via del disegno di salvezza a fa­vore dell’uomo. 5. Osserva anche come il profeta abbia comin­ciato dai doni più alti e sia disceso poi a quelli più bassi, poiché annunziava la discesa del mediatore. Noi dal canto nostro, quando servendo ci di queste stesse grazie dello Spirito santo cerchiamo di penetrare lo svolgimento dell’opera di quel mediatore e il suo ritorno alle realtà superiori, cominciamo dai doni più bassi, cioè dal timore.

6. Cristo dunque provò il timore nei confronti del Padre. Ma un timore casto, filiale, in virtù del quale riportò a lui in ogni cosa l’onore dovutogli dicendo: «Mio cibo è fare la volontà del Padre mio che è nei cieli». E nel salmo: «Si rallegri il mio cuore perché tema il tuo nome». E molte altre espressioni del ge­nere. 7. Fu ancora in conseguenza di questo timore che egli ri­teneva giusto abbassarsi, umiliarsi, dimenticarsi: solo così avrebbe potuto riconsegnare al Padre, riparata e rinnovata, quell’opera che il Padre aveva fatto per mezzo di lui ma che si era perduta.


36.1. In tal modo il nostro mediatore ebbe verso l’alto il timo­re nei confronti del Padre; verso il basso ebbe la pietà nei con­fronti del misero da riconciliare; ebbe la conoscenza nei confronti di entrambi sapendo ciò che bisognava offrire a ciascuno. 2. Tuttavia per adempiere al ministero della sua mediazione ave­va bensì dall’alto la volontà buona del Padre, ma nulla aveva dal misero che giaceva in basso. La natura e il metodo della me­diazione richiedeva ch’egli avesse qualcosa da lui: per questo gli richiese la fede. 3. Richiese la fede accordando in anticipo la pietà. Nessuna richiesta poteva essere più dirompente: perché non era certo difficile all’uomo misero consegnarsi a colui dal quale si vedeva prevenuto nella pietà. 4. Tuttavia ancora non poteva consegnarsi a lui dato che gli mancava la speranza: chi infatti si consegnerebbe a uno nel quale non ha speranza? As­sieme alla fede quindi gli donò la speranza, aggiungendo alla spe­ranza il timore senza cui non poteva esistere speranza. La spe­ranza era quella di non essere abbandonato da un sì amorevole mediatore.

5. Ricevuta dal suo imputato questa garanzia così importan­te per la salvezza, il mediatore tornò al Padre. Ciò avvenne quan­do salì sul monte solo a pregare, e quando in preda all’agonia pregava più intensamente con sudore di sangue dicendo: 6. «Padre, glorifica il Figlio tuo. Ecco cosa offrirò a te e a lui. Ecco ciò che posseggo da te e da lui. Io sono il mediatore, e i metodi della mia mediazione mi sembra concorrano già alla sua salvezza. 7. Tuttavia egli è ancora imprigionato e in cate­ne. Un uomo forte lo ha legato: e se non sopraggiunge uno piùforte di lui non gli rapirà le sue cose. Manda me, che sono la tua mano, dall’alto, e strapperò il prigioniero dai suoi potentis­simi nemici nello spirito di fortezza che è fortezza tua, potenza tua. 8. Perché so quel che farò. Morirò innocente per il col­pevole: e la mia bontà potrà incomparabilmente più che la mali­zia del nemico, la pena della mia innocenza più che la pena del­l’umana disobbedienza». E il Padre disse: «L’ho glorificato e lo glorificherò!».


37.1. A questo punto al fortissimo mediatore occorre lo spiri­to di consiglio: perché se il dominatore del mondo avesse capito non avrebbe crocifisso il Signore della gloria. 2. Nasconden­dogli in ogni cosa la potenza della sua divinità e presentandogli solo la debolezza della carne escluso il peccato, con la giustizia della sua vita provocò la gelosia del malvagio nemico, e con la debolezza della sua carne gli diede la speranza della vittoria. A provocare la gelosia sopraggiunsero poi i miracoli, con i quali irrobustiva la fede in lui presso quello che doveva essergli ricon­ciliato. 3. L’antico ingannatore, ingannato, inflisse a lui non sot­tomesso ad alcun peccato la pena del peccato, cioè una morte atroce. 4. Ma il giusto, ucciso ingiustamente per la giustizia, strappò al nemico una giustizia nuova, derivante dalla morte in­flittagli ingiustamente. Dato che egli non ne aveva bisogno, in quanto senza peccato, la comunicò all’uomo peccatore assolvendo l’imputato grazie alla pena della propria innocenza; 5. e posto­gli in mano il suo corpo e il suo sangue disse: «Mangia e bevi questo, di questo vivi». 6. Poi, presentandolo al Padre dis­se: «Ecco, Padre, il prezzo del mio sangue. Se vuoi trarre ven­detta del peccato di costui, ecco il mio sangue per lui. Signore Padre, tu hai elargito la tua benevolenza e la terra del mio cor­po ha dato il suo frutto. Ormai davanti a te camminerà la giu­stizia e tu porrai i tuoi piedi sulla via della salvezza dell’uomo. Perché fosse ormai salvato con giustizia colui che era perito con giustizia, tu, Signore, hai fatto ciò che è retto, diritto e giusti­zia hai fatto in Giacobbe».


38.1. L’uomo dunque, saziato del frutto di quest’opera, me­diante la sapienza di Dio non solo viene riconciliato, ma diven­ta anche sapiente; perché gli è saporoso ciò che mangia. 2. Egli mangia e beve il corpo e il sangue del suo redentore, la manna celeste, il pane degli angeli, il pane della sapienza. E mangiando è trasformato nella natura del cibo che mangia; perché mangia­re il corpo di Cristo non è altro che diventare il corpo di Cristo e il tempio dello Spirito santo. 3. Questo tempio, una volta adornato con la collocazione delle virtù prescritte e dedicato se­condo il rito dedicatorio di cui si è detto, non può più ricevere alcun titolo estraneo e nessun abitatore se non Dio che l’ha co­struito e creato. 4. Quell’anima santa non ama e non coltiva più nulla di terreno, nulla di materiale, nulla di corruttibile, a partire dal momento in cui è uscita dal luogo dei bagagli. Utiliz­za talvolta qualcuna di tali realtà quasi passandovi in mezzo, ma non accetta di porvi la sua gioia. 5. Se allora accade qualche evento felice essa va oltre; se capita qualche avversità non si tur­ba. Assapora fino in fondo ciò che riceve; e per chi ama non può non aver sapore ciò che discende in dono, quasi saliva, dal capo che è Cristo. 6. Tutto ciò che attiene al corpo, buono o cattivo che sia, gli è esterno, e non può arrivare a lui che è al­!’interno. Ecco perché l’apostolo, giacendo nello squallore del carcere e in catene, circondato nel corpo da tribolazione e mise­ria, scrisse ai discepoli: «Manderò a voi Timoteo perché sappia­te ciò che è attorno a me». «Ciò che è attorno a me»: cioè nell’uomo esteriore, nella tunica esteriore della carne, ma che non può arrivare fino a me che sono all’interno.


39.1. È questa la sapienza di cui l’apostolo dice: «Tra i perfetti parliamo di sapienza». Ne parliamo come gente che ne ha sentito parla­re ma che non l’ha vista, come parleremmo di una città che non abbiamo visto ma di cui abbiamo sentito molte cose: chi l’aves­se vista ne parlerebbe in modo ben diverso, con ben altra vivezza.

2. Questa sapienza però ne ha un’altra speculare a sé, una sapienza dal nome infausto, che l’apostolo dice essere dei domi­natori di questo mondo. Essa è come il nero rispetto al bianco, come le tenebre rispetto alla luce, e di lei si dice; «La sapienza vince la malvagità». 3. La malvagità a sua volta è l’assapo­rare il male; anche qui un assaporare da cui viene la sapienza. Quando dunque assapora il male e non mancano astuzia e vo­lontà per perseguirlo, la sapienza dei dominatori di questo mondo è in tutto contraria alla sapienza che viene dall’alto. 4. È la mal­vagità che la sapienza odia. Nell’una è il sapore del bene in se stesso, nell’altra il sapore del male in se stesso; nell’una per per­seguire ciò che si desidera si ha a disposizione la prudenza; nel­l’altra, come si è detto, non manca l’astuzia.


40.1. Fra queste due vi è poi una sapienza intermedia, come un colore intermedio fra il nero e il bianco. Si colloca nei con­fronti dei due estremi superiore e inferiore in modo da avere come esito il fine ricercato e voluto da chi se ne serve. 2. È quella sapienza che l’apostolo dice essere di questo mondo e che egli pone in posizione intermedia fra la sapienza di Dio e la sapien­za dei dominatori di questo mondo. È volta interamente a ciò che è utile e onesto, ed è governata da una certa qual pru­denza che ha la propria radice in se stessa. 3. È praticamente tutta compresa nella conoscenza, grazie alla quale diventa capa­ce di discernere con prudenza, di giudicare ciò che è utile e ciò che è inutile, ciò che è onesto e ciò che è disonesto: anche se questo può non essere in accordo con la vita e i comportamenti reali, 4. dato che la scienza gonfia, la carità edifica. Quanti la posseggono a volte indagano con fatica in quegli ambiti, ma al solo scopo di sapere: il che serve unicamente alla curiosità. Oppure lo fanno per esser ritenuti o riconosciuti sapienti: il che serve alla vanità. 5. È una ricerca che può avanzare ed elevarsi nella misura concessa alla ragione priva di amore.


41.1. Tale filosofia si divide in scienza delle realtà umane e scienza delle realtà divine. Finché si trattiene nelle realtà uma­ne è nell’ambito che le appartiene. Quando invece si innalza al­le realtà divine, quanto più in alto ascende tanto più in basso cade. Si adempie allora per essa questa parola: «Perché mi hai sollevato e scagliato a terra». 2. Talvolta quanti la pratica­no vengono condotti dallo sforzo della loro intelligenza natura­le ad avere nozione dentro di sé, interiormente, di ciò che al dire dell’apostolo è noto di Dio, cioè di quanto la ragione può comprendere di lui. Dio infatti lo ha loro rivelato, poiché li ha creati in modo che abbiano in se stessi i mezzi per conoscerlo naturalmente. 3. Così dalla loro etica si innalzano a una sorta di fisica: contemplano con l’intelletto le perfezioni invisibili di Dio fin dalla creazione del mondo nelle opere da lui compiute, come pure la sua eterna potenza e divinità. 4. Essi sono dun­que inescusabili perché non vogliono procedere, passare oltre se­condo le loro possibilità per giungere alla vera teologia: perché pur conoscendo Dio non gli danno gloria né gli rendono grazie come a Dio, ma vaneggiano nei loro ragionamenti e si ottenebra la loro mente insipiente. Mentre si dichiarano sapienti sono di­ventati stolti. 5. E dopo aver perso la teologia per la loro insi­pienza, decadono miseramente anche dalla fisica allorché cam­biano la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. 6. Perciò non è loro concesso neppure di rimanere nell’etica, ma Dio li ha abbandonati ai desideri del loro cuore, all’impuri­tà, sì da disonorare in se stessi i propri corpi; li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata sicché commettono ciò che è indegno.

7. Invece la sapienza vince sempre la malvagità. In comunio­ne di vita con Dio sa andare sempre oltre e non cedere mai, si estende da un confine all’altro con forza e governa soavemente ogni cosa. Si comporta sapientemente nelle realtà divine, cautamente in quelle fisiche, prudentemente in quelle morali.


42.1. Così l’anima sapiente, purificata da ogni affetto estraneo, come si è detto prima, assapora Dio solo e si spoglia dell’uomo nell’uomo. Conquistata pienamente e interamente a Dio, consi­dera ogni creatura posta al di sotto di Dio con lo sguardo stesso di Dio: tutto dispone e ordina nella luce e nella forza della sa­pienza; agisce e giudica su ogni cosa in conformità a ciò che Egli è e vive; opera il giudizio e la giustizia a partire da Colui donde essa è e vive. 2. Infatti la sapienza, come essa stessa dice, è «splendore della luce perenne, specchio senza macchia della mae­stà di Dio, emanazione genuina della gloria del Dio onnipoten­te ed effluvio della sua potenza». 3. Di conseguenza l’anima sapiente contiene in sé come uno splendore della luce perenne, uno specchio della maestà di Dio: quando si protende verso la creatura essa esprime ed espone l’immagine della bontà e della giustizia di Dio. E come al suo interno porta l’effluvio della po­tenza di Dio, così all’esterno effonde l’emanazione della gloria e della carità di Dio. 4. È ciò che in un altro punto dice Salo­mone: «La sapienza dell’uomo ne rischiara il volto». E in un al­tro punto ancora: «Gli occhi del sapiente sono sul suo capo»: perché essi si effondono all’esterno senz’allontanarsi dal capo, per nessun’altra ragione che per la naturale interna potenza del cervello, cioè della sapienza.

5. Dice Salomone: «L’abbondanza di sapienti è la salvezza del mondo». Come sarebbero felici le cose umane se dapper­tutto gli insipienti servissero i sapienti! E così pure, come sa­rebbero felici le cose umane se come dice un filosofo solo i sa­pienti regnassero, o tutti i regnanti fossero filosofi! 6. E invece i sapienti rifuggono sapientemente dal regnare sugli insipienti, e allo stesso modo gli insipienti rifuggono insipientemente dallo stare sotto i sapienti. Così tutto vaneggia, tutto è confuso e in disordine. I sapienti vivono inosservati e nascosti, i ragazzi re­gnano e signoreggiano. Si fanno principi che banchettano fin dal mattino: guai a quella terra! Ma torniamo al nostro pro­posito.


43.1. Dunque, l’anima è rischiarata dallo spirito di sapienza: essa che ama la giustizia e detesta l’empietà, e per questo Dio l’ha consacrata con olio di letizia, quello stesso con cui Cristo è stato consacrato a preferenza dei suoi compagni. Dio l’ha anche cosparsa di grazia. Ora quindi piace a tutti, è amata da tutti. 2. Anche quelli che vivono di valori opposti, al vedere una cosa tanto grande sono presi da timore e rispetto: per quan­to la malvagItà, indurita, si rifiuti di imitare il bene che vede in chi è buono, la natura non può non riconoscerlo. 3. I sapien­ti poi hanno fra loro una sorta di grazia propria, una sorta di linguaggio angelico: lingua di angeli mediante la quale si parla­no nel reciproco affetto con una sorta di grazia spirituale, men­tre il loro stesso aspetto esteriore ne è partecipe. 4. Nessuno conosce questa lingua tranne il Re degli angeli e gli angeli suoi, quelli che appartengono alla stirpe di Israele e i cittadini di Ge­rusalemme. Nessun egiziano, nessun cananeo la conosce.

5. Perché se nella santità della loro vita, nella gloria del loro uomo interiore, nella contemplazione della divinità e nel gioio­so abbandono ad essa costoro sembrano già pregustare in que­sta vita la beatitudine della vita futura e già esservi iniziati così anche della gloria del loro corpo che conseguiranno in pienezza nell’al di là conseguono qualcosa in questa vita. 6. Oltre a quella grazia di cui si è detto, per la quale vivendo insieme si rallegra­no di se stessi in Dio e di Dio in se stessi, essi sentono che tutte le contraddizioni della carne sono cessate, al punto che l’intera loro realtà di carne non è altro per essi che strumento di buone opere. 7. Sebbene infatti si consumino per le sue miserie e in­fermità, proprio grazie a questo si rinvigoriscono ulteriormente nell’uomo interiore: «Quando sono debole è allora che sono più saldo e forte», dice l’apostolo. 8. Anche i loro sensi conse­guono una grazia nuova e di tipo spirituale: occhi semplici, orecchi controllati. Talvolta nel fervore della preghiera spira una tale fragranza di profumo mai sentito prima, una tale dolcezza di gusto anche senza alcun gusto sensibile, un tale stimolo di carità spiri­tuale dato dal contatto reciproco che essi hanno l’impressione di portarsi dentro un paradiso di delizie spirituali. 9. E per la calma interiore del volto e di tutto il corpo, per la bellezza della vita, del costumi e degli atti, per le devote manifestazioni di re­ciproco servizio e il loro grato accoglimento, si congiungono e si uniscono l’un l’altro nel beneplacito di quella loro grazia fino a essere veramente un cuore solo e un’anima sola. 10. Ecco allora che nella purezza della coscienza, nella grazia delle loro reciproche relazioni essi iniziano già qui la gloria futura dei loro corpi, in attesa di possederla in modo perfetto nella vita futura ed eterna.


44.1. Sì: perché come ora tutte le cose viventi sono immerse nel chiarore del sole e sono viste vicendevolmente immergersi in esso come noi ci vediamo a vicenda vivere quaggiù senza pe­raltro vedere la vita di cui viviamo, allo stesso modo in quella vita futura Dio sarà visto da ciascuno in tutti e da tutti in cia­scuno. Non si vedrà certo la divinità con gli occhi del corpo; ma la glorificazione dei corpi rivelerà, in virtù di, una certa loro grazia manifesta, la presenza della divinità. 2. È a questo che serve nella vita terrena la frequentazione del sacramenti, che si somministrano nell’economia della corporeità. Ben poco infatti finché passiamo in immagine riusciamo a capire di ciò che non è corporeo e non ha a che fare con il corpo. Perciò veniamo legati a Dio dai sacramenti affinché non ci allontaniamo da lui: e da quest’essere legati viene il termine religione. 3. Quando poi l’anima fedele, istruita da tali mezzi, comincerà a non averne più bisogno, a passare dalle realtà corporali a quelle spirituali e da queste al creatore delle realtà sia spirituali che corporali, ebbene questo sarà veramente l’uscire dai bagagli. 4. Superato il corpo con tutte le preoccupazioni e gli impacci corporali l’anima si dimentica di tutto ciò che non è Dio; e non curandosi di nulla se non di Dio, quasi ritenendosi sola di fronte a Dio solo dice: «Il mio diletto è per me e io per lui. Che altro vi è per me in cielo? Fuori di te che cosa bramo sulla terra? Vengono meno la mia carne e il mio cuore; il Dio del mio cuore e la mia porzione è Dio per sempre».

5. Finché si arriva alla morte: così infatti chiamano questo passaggio verso la vita gli infelici che non credono. Quelli che credono come la chiameranno, se non Pasqua? Nella morte cor­porale l’uomo muore compiutamente al mondo onde vivere com­piutamente per Dio, entra nel luogo del mirabile tabernacolo, entra fino alla casa di Dio. 6. Se allora tutto procede bene e secondo ordine, come si è detto all’inizio, ogni cosa è sospinta dal proprio peso al luogo che le è proprio: il corpo nella terra dalla quale è stato tratto, per essere a suo tempo risuscitato e glorificato; lo spirito a Dio che l’ha creato.


45.1. Ma che cos’è questo passaggio a Dio? Una volta rotto ogni vincolo e superato ogni impaccio nella perfetta beatitudine e nel­l’eterno amore, l’anima veramente santa aderisce ormai perfet­tamente a Dio; si unisce anzi a lui al punto da divenire una di coloro cui si dice: «Io ho detto: Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo». 2. Questo è il punto d’arrivo di coloro che mettono Gerusalemme al di sopra di ogni loro gioia, ai quali l’un­zione del santo Spirito insegna tutto, che dispongono sapiente­mente le ascese nel loro cuore di potenza in potenza fino a ve­dere il Dio degli dèi in Sion: il Dio degli dèi, beatitudine dei beati, gioia di chi ben gioisce; l’unico bene, l’altissimo fra tutti i beni.

3. Dal confine di quel buon proposito che è all’inizio dell’ascesa fino all’altro confine del pieno compimento, la sapienza si estende con forza: custodisce la fortezza di chi ascende verso di lei perché nell’ascendere non venga meno; dispone con dolcezza ogni cosa; ogni cosa avversa o favorevole ordina e volge per l’anima al bene, fino a quando non l’abbia ricondotta al suo principio, nascosta al riparo del volto di Dio. 4. Dal canto suo ogni sapiente che ascende deve sapere che i gradini di questa ascensione non sono come i gradini di una scala. Le varie realtà interiori di cui si è detto sono necessarie solo nei tempi appropriati, e non in altro tempo; 5. ognuna di esse ha nello svolgimento dell’ascesa il tempo e il luogo che le è proprio, gra­zie al quale e per la cooperazione delle altre essa si mostra più attenta esecutrice della parte che le è stata assegnata. Tutte pe­rò vi concorrono e cooperano, si prevengono e si seguono a vi­cenda, e spesso i primi divengono ultimi e gli ultimi primi.