venerdì 5 agosto 2011

Trasfigurazione 3: Omelie di don Divo Barsotti


LA TRASFIGURAZIONE DEL CRISTO:
ESSERE LA LUCE DEL MONDO


6 agosto 1989

Tempo liturgico: Festa della Trasfigurazione — Anno C
Letture: Dn 7, 9-10. 13-14; dal Sal 96; 2Pt 1, 16-19; Lc 9, 28-36 Omelia
«La stella del mattino»
Giustamente sono state proclamate tre letture, perché non si potrebbe capire quello che è essenziale a questo evento della vita di Gesù senza la lettera di Pietro. L'evento al quale assistettero Pietro, Giacomo e Giovanni, fu un fatto isolato nella vita del Signore? Riguarda soltanto Gesù? Ecco quello che possiamo domandarci. La risposta ce la dà San Pietro stesso: quella che è stata l'esperienza dei tre apostoli, deve divenire l'esperienza di tutti i cristiani. Essi debbono prima di tutto aderire alla rivelazione che viene comunicata loro attraverso i profeti e gli apostoli ma, aggiunge san Pietro, essere disponibili «finché non sorga la stella del mattino nei vostri cuori». Tutta l'azione della Chiesa è un'azione pedagogica. La Chiesa non si frappone fra noi e il Cristo, ma ci conduce a Cristo. Ed è soprattutto poi in questa nostra trasformazione nel Cristo che si realizza la nostra vocazione divina. Cosicché la Trasfigurazione diviene un evento che ci riguarda tutti: non solo perché noi dobbiamo assistere alla gloria del Figlio di Dio risorto da morte, ma perché noi siamo uno con il Cristo e la sua gloria investe anche noi, trasformando anche il nostro corpo, la nostra anima e soprattutto il nostro spirito. Giustamente la teologia ortodossa insegna che con la Trasfigurazione non cambia nulla in Cristo, ma cambia qualche cosa negli occhi degli apostoli, i quali finalmente vedono quello che il Cristo è sempre stato: il Figlio di Dio.
Noi dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo in cui tutto è velato. Non è una illusione il mondo di quaggiù, tuttavia Io possiamo interpretare in due modi: come realtà che ci nasconde Dio, oppure come trasparenza pura alla divina presenza. Non si nega la realtà del mondo; nemmeno la gloria di Dio lo cancella in senso ontologico, ma certamente il mondo non è più un qualche cosa che ci vela la realtà ultima che è Dio, perché Dio ha unito a sé la natura umana e ha fatto partecipe questa natura della sua medesima gloria.
La gloria di Dio c'investe...
Miei cari fratelli, non è un fatto straordinario la trasfigurazione di Cristo, non è un fatto straordinario la gloria di Gesù; è straordinario piuttosto il fatto che, assumendo Dio la natura umana, questa natura umana una volta a contatto con la divinità non bruci e non consumi. Gesù camminava per le vie del mondo come uno di noi; viveva la nostra stessa passibilità nei confronti del freddo, del caldo, della notte, del giorno, della stanchezza. Era un uomo vero. Questo certamente è il fatto più stupefacente che si possa pensare, come cioè la gloria della divinità abbia investito l'umanità di Gesù, senza renderla immediatamente luce e gloria fin dalla sua incarnazione.
Quello che è avvenuto per Cristo, avviene per noi. Era Figlio di Dio Gesù, quando viveva nell'umile casetta di Nazareth, quando si riposava stanco al pozzo di Sicar; era Figlio di Dio, uguale al Padre, quell'uomo oltraggiato, vilipeso, coronato di spine e infine crocifisso. Era Figlio di Dio! Così noi: siamo figli di Dio! Certo, noi per adozione, lui per natura; ma non c'è differenza che sul piano dell'essere. Sul piano della gloria no, perché la gloria che ha investito l'umanità di Gesù, investe anche noi, se siamo un solo corpo con lui.
...tutto ciò che è di Dio ci appartiene!
La Trasfigurazione dunque non riguarda più Gesù, anche perché il fatto della Trasfigurazione, durante la sua vita mortale, è stato un evento molto ridotto nel tempo; forse non è durato nemmeno un'ora. Ma anche se avesse occupato tutta una giornata, sarebbe stato sempre un evento di poco rilievo. La trasfigurazione del Cristo riguarda noi, ci dice che cos'è la nostra vita: siamo figli di Dio! Noi non riusciamo a capire come, essendo figli di Dio, possiamo avere il dolor di denti; come essendo figli di Dio, dobbiamo conoscere la povertà propria della condizione umana: la stanchezza, la fame, il sonno. Qualche volta nostro Signore sospende queste leggi, ma sono casi; in generale ci fa vivere quello che Egli stesso ha vissuto: una vita passibile, una vita di povertà, una vita di umiltà, una vita di semplicità, come tutti. Gesù in mezzo agli uomini era uno di loro, non appariva diverso; altri, sul piano sociale valevano più di Gesù, avevano più prestigio, avevano un potere maggiore. Così anche noi, che siamo figli di Dio. Siamo consapevoli noi di questa nostra grandezza? Ci rendiamo noi conto che ognuno di noi partecipa della stessa natura divina? E che partecipando della stessa natura divina - per diritto! - dovremmo vivere la stessa gloria di Dio? Per diritto! Non è una elargizione gratuita. Elargizione gratuita è che noi siamo figli di Dio, ma una volta che lo siamo, è nostro tutto quello che è di Dio, perché appartiene al figlio quello che è proprio del padre. Siamo noi consapevoli di questa grandezza?
Miei cari fratelli, la Comunità vuole questo da noi: che siamo consapevoli della nostra grandezza e che in qualche misura noi la facciamo trasparire. Tanti istituti religiosi vedono il loro carisma in un avvenimento, in un evento del Vangelo; noi lo vediamo nel mistero della Trasfigurazione di Gesù. Noi siamo Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte; il nostro carisma è la preghiera, una preghiera che implica il rapporto del Figlio con il Padre, che importa l'unità più profonda con Dio. Ma in questa unità più profonda con Dio, che cosa noi dobbiamo vivere? La Trasfigurazione.
Riflettere la luce che è Dio
È certo che i cristiani prima di tutto debbono trovare una conferma alla loro fede nei profeti e negli apostoli. Ma, dice san Pietro, «Finché non sorga». Che cosa vuol dire tutto questo? Una cosa molto semplice. Certo noi non possiamo illuminare il mondo, non possiamo essere questa trasfigurazione del Cristo per gli uomini di oggi se non viviamo nella luce di Dio. Quello che dicevano i Padri si deve avverare anche per noi; la Chiesa non è il sole e tanto meno siamo noi il sole. Dicevano i Padri che la Chiesa è la luna, e anche noi dobbiamo dire che siamo come la luna, come la stella del mattino. Ha una sua luce propria la stella del mattino? Ha una sua luce propria la luna? No; la luce che rimandano questi corpi celesti è la luce del sole che si riflette su di loro e da loro viene a noi. Noi, come la luna, dobbiamo essere luce per il mondo. Non possiamo esserlo se non viviamo in una continua comunione con Dio. Se viviamo dinanzi al volto di Dio, se rimaniamo nella contemplazione del Padre, il Padre con la sua luce ci investe e questa luce da noi si irradia anche sugli altri. Noi dobbiamo essere questo.
Noi non abbiamo opere specifiche; abbiamo detto che siamo contemplativi. Adagio! Ricordatevi che non si può dividere la santità dalla missione! lo non posso disinteressarmi del mondo che si perde per il fatto che sono chiamato ad una vita contemplativa, ad una vita di puro silenzio e di preghiera continua. Non posso disinteressarmene perché mancherei di carità. Ma qual è il nostro apostolato? Quello di essere luce. Se tu sarai santo, nulla ti si chiede di più. Nulla può chiederti di più la Chiesa, nulla può chiederti di più il Signore, perché tu dovrai essere in mezzo agli uomini il sacramento vivente e visibile di Gesù benedetto.
Ascoltare la Parola
Gesù, come altre volte vi ho detto, dopo l'Ascensione gloriosa si è reso invisibile al mondo; ora egli deve rendersi visibile. in noi. Non può rendersi visibile in noi che in quanto noi viviamo quello che dice oggi il brano evangelico: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo». Se noi rimaniamo nell'ascolto del Figlio, se noi viviamo questo ascolto della voce, noi diveniamo la parola. II Padre non dice che una parola, dice il suo Figlio. Se noi ascoltiamo la parola del Padre, il Padre genera in noi il Figlio, perché egli non può dire altra parola. Ascoltare il Padre vuoi dire per noi ricevere il Verbo; ma nella misura stessa che accogliamo in noi il Figlio di Dio, noi diveniamo il Figlio di Dio. Perché non si può possedere Dio come un oggetto da mettersi nella cassaforte! Possedere Dio vuoi dire trasformarci in Lui. Non si potrà mai possedere Dio, fintantoché non saremo Dio in Dio stesso.
Ecco allora che cosa si impone da oggi in avanti per noi: dobbiamo mantenerci disponibili ad accogliere in noi il Verbo di Dio. È stata questa la vita della Vergine. Se in noi vive Cristo, sorge in noi la stella del mattino; si fa presente in noi l'esperienza stessa di questa presenza del Cristo che ci illumina e ci trasforma in sé.


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LA TRASFIGURAZIONE DEL CRISTO:
CONDIZIONI PER LA VITA DI INTIMITÀ CON DIO


Firenze, 6 agosto 1984 Tempo liturgico:Festa della Trasfigurazione – Anno A
Letture: Dn 7, 9-10. 13-14; dal Sal 96; 2Pt 1, 16-19; Mt 17, 1-9
Omelia
Il primato della preghiera
Due sono le feste che a noi sono particolarmente care, perché ci ricordano quello che soprattutto siamo chiamati a vivere in forza della nostra vocazione, se pure non l'abbiamo perduta: è una vocazione alla preghiera, all'intimità con Dio, alla contemplazione. Se noi avessimo fiducia nella grazia divina, ci sarebbe un po' da vergognarci a parlare di queste cose. Davvero possiamo dire che la nostra vita ha risposto a una vocazione di preghiera e di contemplazione divina? Oh, certo, non si chiedono cose straordinarie, però si tratta sempre di una vita che deve avere come suo carattere precipuo il primato della preghiera: di una preghiera che non consiste soltanto in alcuni esercizi di pietà e nella recita della preghiera del giorno, nell'assistere alla Santa Messa e nella comunione quotidiana. Per poter dire che la preghiera per noi è veramente il respiro della nostra vita, per poter dire veramente che noi viviamo il primato della preghiera, dovremmo vivere già un'esperienza di preghiera, un'esperienza cioè di conoscenza intima di Dio. Senza di questa noi siamo soltanto dei bugiardi, ci presentiamo nella Chiesa e al mondo sotto il segno della menzogna, perché quello che dovrebbe distinguerci è precisamente questo: una vita nella quale Dio veramente è presente, è vivo, e l'anima lo conosce e lo ama, e l'anima vive di Lui.
Non si tratta di vivere una contemplazione straordinaria, né dovremmo chiedere mai che il Signore ci favorisse di particolari doni di contemplazione infusa: non sono necessari e qualche volta possono anche fare del male. Si tratta invece di questo: che veramente, con sincerità, noi vogliamo far sì che Dio abbia il primo posto nella nostra vita interiore, così che la nostra vita sia la conoscenza di Lui.
Il ricordo di Dio
Si parlava dell'importanza che ha la memoria nella vita cristiana. Il «ricordo di Dio», espressione cara a san Basilio Magno, che è in fondo il dottore della vita contemplativa nell'Oriente, il maestro del monachesimo orientale, è precisamente questo lento essere investiti dalla presenza di Dio in noi, cosicché noi abbiamo coscienza precisamente di questa sua Presenza nella nostra vita. Bisogna che sempre più, sia pur lentamente, questa invasione di luce penetri in noi e ci trasformi, faccia sì che tutta la nostra vita sia un'adesione pura alla luce divina. Non si tratta di far grandi cose, anzi: la vita contemplativa semplifica. Se ora dite tante preghiere ne direte meno, però direte una preghiera che investe tutta la vita, ed è, come diceva San Gregorio di Nissa, il «sentimento di Dio»: di Dio non come una presenza a noi estranea, non come una presenza contigua davanti a noi, ma come una Presenza che ci investe nell'intimo. Ci sentiamo posseduti da Lui, sentiamo che la sua presenza in noi ci trasforma, diveniamo come lo strumento della sua azione. Posseduti dal Signore, sentiamo che Egli vive attraverso le nostre potenze, pensa con la nostra intelligenza, ama col nostro cuore, opera con le nostre mani.
Cristo vive in me
Fintanto che non viviamo questo, non possiamo dire di vivere la nostra vocazione nella Comunità. Bisogna che veramente il Signore ci strappi a noi stessi ed Egli stesso viva in noi. Siamo un solo corpo con Lui e, se siamo un solo corpo con Lui, è Lui che deve vivere in noi. Le parole di San Paolo dovrebbero essere vere per ogni cristiano, ma debbono assolutamente esserlo per noi, se non vogliamo essere dei mentitori: «Vivo io ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive in me» (Gal 2, 20). Certo, siamo persone distinte dal Verbo Incarnato, ma siamo un solo corpo, siamo un solo spirito con Lui. Attraverso di noi Lui stesso deve vivere: i nostri occhi devono essere gli occhi di Gesù e contemplare il Padre; le nostre mani debbono essere le mani di Gesù e operare il bene; il nostro cuore deve essere il cuore di Gesù e amare con la sua stessa purezza. Tutta la nostra vita interiore sempre più deve divenire la vita stessa del Signore.
Ma perché? Perché la vita è l'attività propria dell'anima e l'attività del cristiano è l'attività propria dello Spirito del Cristo che vive in noi. Se non vive in noi lo Spirito del Cristo non siamo cristiani, dice San Paolo, ma se vive in noi lo Spirito del Cristo la nostra vita è la vita di Gesù.
A che punto siamo?
Ed è questo che dobbiamo chiedere ogni giorno al Signore. Pensate: riceviamo tutti i giorni la comunione! Possibile? Ma noi giochiamo! Che possiamo dire della nostra vita? Che abbiamo giocato tutta la vita! Riceviamo il Signore tutti i giorni e ancora il Signore non ci ha trasformati in Sé! Oh, lo so bene che siamo delle povere creature, delle misere creature, ma so anche quanto questo dipende da noi, dal nostro poco impegno, dalla nostra scarsa volontà e soprattutto dal nostro orgoglio; crediamo di aver fatto tutto e ancora abbiamo da cominciare la vita cristiana. Meglio di noi sono i peccatori, i pubblici peccatori; non lo credete? Io lo credo! È mai possibile che noi si possa parlare di queste cose ed essere ancora così lontani dall'averle realizzate? Tutti i giorni ne parliamo, eppure viviamo una vita distratta, dissipata, superficiale; ancora siamo pieni di noi stessi, di amor proprio, ancora non sappiamo liberarci da tante suscettibilità. Possibile? Veramente Egli si dona a noi, ma noi non ci doniamo a Lui.
Miei cari fratelli, bisogna fare sul serio! Passano gli anni, fra poco saremo morti. Mi ricordo di quando stavo alla Calza, e alcune di voi erano giovinette e ora sono vecchiette: che cammino abbiamo fatto in tutto questo tempo? Certi santi in pochi anni hanno raggiunto la perfezione cristiana. Guardavo poco fa l'immagine di Caterina Tekakwitha [1656-1680], la prima pellirossa che si sia convertita; di famiglia pagana [padre irochese, madre algonchina], si battezzò, dopo quattro anni morì e ora è santa [è stata proclamata beata nel 1980]. E noi? Sono passati altri che quattro anni per noi, e che cosa abbiamo fatto? Che cosa ha fatto questa Comunità? lo mi vergogno. Perché tanti veramente si sono impegnati e si impegnano con serietà e noi no? Eppure Dio si è donato a noi!
Docilità allo Spirito Santo
Basterebbe davvero che Egli ci possedesse, basterebbe che noi ci abbandonassimo alla sua azione. Una cosa sola si impone, lo diceva anche il cardinal Mercier [Désiré-Félicien-François-Joseph Mercier, prelato e filosofo belga, 1851-1926; arcivescovo di Bruxelles dal 1906 e cardinale (1907)] e prima Lallemant [Louis Lallemant, gesuita francese, mistico, 1588-1635]: la docilità allo Spirito Santo. Si tratterebbe soltanto di questa docilità, di strapparci ai nostri egoismi, di lasciarci possedere da Dio in umiltà e semplicità, in una grande pace interiore, e la nostra vita conoscerebbe la gioia. Perché vedete, miei cari fratelli, ha ragione proprio il padre Lallemant quando dice che per paura di essere infelici noi scegliamo di essere infelici tutta la vita. Abbiamo paura cioè di donarci a Dio. Proviamo un certo sgomento, vogliamo tenere il timone nelle nostre mani, vogliamo essere noi a guidare il nostro cammino, e così non ci doniamo a Dio, e così rimaniamo infelici. Credo infatti che nessuno di noi sia contento interamente di sé. Oh, certo, noi dobbiamo essere contenti di Dio, se non altro per averci sopportato fino ad oggi! Noi dobbiamo essere certo contenti di Dio, per il suo amore che mai ci ha sottratto. Anche stasera ci chiama, anche stasera Egli ci dice: «Vuoi tu essere per me? Io sono tutto per te, io mi donerò tutto a te, e tu in cambio vuoi darmi te stesso?». Non possiamo certo non essere contenti di Dio: ma chi di noi può dire di essere contento di sé? Chi è contento di sé non può essere altro che un disgraziato! I santi, quanto più erano santi, tanto più sentivano l'infinita distanza che li separava da Dio: e noi?
Miei cari fratelli, non dobbiamo disanimarci. Che cosa chiediamo tutti i giorni nella preghiera di Sant'Efrem? «Liberaci dallo spirito di oziosità, dallo scoraggiamento»: è la seconda cosa che chiediamo. Prima di tutto l'oziosità, perché dobbiamo metterci d'impegno, non dobbiamo giocare, non dobbiamo dormire! Passano gli anni e dobbiamo impegnarci sul serio non soltanto ad ascoltare Dio, ma anche ad abbandonarci a Lui. Poi lo scoraggiamento. Dio è l'onnipotenza: abbiamo perso tutti questi anni? Coraggio! Anche in meno di quattro anni Lui può farci santi. Ma noi dobbiamo fare sul serio, bisogna cessare di giocare. Gli anni passano e si vive una vita così povera, così insulsa, tante volte! Eppure Dio ci ama: come facciamo a dubitare? Miei cari fratelli, uno dei peccati più gravi è Io scoraggiamento, perché scoraggiati noi rinunciamo già ad essere santi. Invece no: Dio può tutto e noi sappiamo che Dio opererà per noi se noi crediamo. Noi sappiamo benissimo che è la fede che scioglie l'onnipotenza di Dio; se noi crediamo realmente, Dio opererà. Ma bisogna credere che Lui ci ama, credere che Lui veramente farà quello che ci fa desiderare e noi dobbiamo umilmente abbandonarci alla potenza della sua grazia perché ci trasformi.
Sentirci ricolmi di Dio
Si celebra oggi la festa della Trasfigurazione del Cristo: noi dobbiamo trasfigurarci! Come vi ho già detto, la nostra trasformazione prima di tutto avviene nel più intimo e profondo del nostro essere, e noi non possiamo averne nemmeno l'esperienza: avviene già nel Battesimo, per il fatto che nel Battesimo noi siamo inseriti nel corpo del Cristo. Ma poi l'azione della grazia investe le potenze spirituali: l'intelligenza e la volontà. Perciò la prima cosa che si impone per noi, dopo questa trasfigurazione compiuta dai sacramenti divini, specialmente da quei sacramenti che hanno impresso in noi il carattere, è la conoscenza di Dio: conoscenza che non è puramente astratta, è piuttosto la coscienza di Dio. Come noi siamo coscienti di noi stessi, così dobbiamo esser coscienti che Dio ci investe, che Dio ci possiede, che Dio è in noi. Sentirci come la pisside che contiene il corpo di Cristo, ma veramente come un'anima vivente che si sa penetrata, che si sente piena di Lui.
Noi siamo veramente la dimora di Dio, il luogo di Dio; dobbiamo sentirlo. Nulla c'è per noi di più sacro di noi stessi; nemmeno il paradiso è più sacro di me, perché in paradiso Dio sarà per gli altri, ma Dio è per me in quanto è nel mio cuore. E io devo scendere nell'intimo mio per prendere coscienza di questa presenza di Dio in me, per lasciare che Dio nella sua presenza totalmente mi riempia e non ci sia più vuoto che Egli non riempia di Sé. Sentire in noi questa presenza di Dio, presenza del Cristo: ecco, questa è la prima cosa che noi dobbiamo realizzare. Ed è di qui che nasce la vita di contemplazione, ed è di qui che nasce la vita di preghiera, perché non può essere mai che si possa vivere una continua preghiera se non abbiamo questo sentimento di Dio che lentamente penetra tutta la nostra vita e la riempie di Sé. È un sentimento ora più forte ora meno forte, ma è sempre presente. È come la coscienza che abbiamo di noi stessi; alcune volte è più forte, altre meno forte. Questa coscienza di noi stessi l'abbiamo attraverso la coscienza, per esempio, del mal di testa, oppure la coscienza di vedere il cielo, le cose, ma attraverso questa esperienza delle cose c'è sempre, come riflesso indiretto, anche la coscienza che siamo noi a vedere e a sentire. Così è per quanto riguarda la vita interiore, questa vita di preghiera. Certo che non possiamo vivere sempre una preghiera attuale, ma possiamo avere questo sentimento di Dio che sempre ci accompagna: basta che noi cerchiamo di non essere totalmente distratti, di non abbandonarci alla curiosità, alla disattenzione.
Sradicarsi dalle dissipazioni
Battista da Crema [frate domenicano, 1460?-1534], uno dei maggiori maestri spirituali d'Italia, diceva che la curiosità, la dissipazione volontaria, è uno dei peggiori mali dell'uomo. Sono questi infatti i mali dell'uomo; lo scoraggiamento, la dissipazione volontaria. E i peccati? I peccati ci sono sempre, ma non date peso ai peccati! Più importante è eliminare gli stati abituali dell'anima che impediscono alla grazia di entrare in voi. Se commettete adulterio, beh, vi rialzerete! Ma se voi vivete nello scoraggiamento, non vi rialzerete mai. E se voi vivete nella dissipazione abituale, voi vivrete una vita sciupata per sempre. Capite? I peccati hanno meno importanza per la nostra vita interiore di quello che hanno certe disposizioni interiori. I peccati ci saranno sempre, saranno più o meno coscienti, ma il peccato attuale è meno grave di una disposizione abituale dell'anima che chiude le porte a Dio, che impedisce a Dio di penetrare in noi, di vivere in noi. Di qui vi chiedo prima di tutto; non scoraggiamento, mai! Abbiate fiducia in Dio che vi ama, in Dio che vuole la vostra santità, in Dio che opererà la vostra santità. Abbiamo fiducia in Dio! E poi manteniamo un certo raccoglimento interiore. Questo lo chiedo specialmente a voi che vivete nel mondo.
È impossibile che possiate vivere la vostra vocazione in Comunità se non cercate di vivere un certo raccoglimento; questo si impone per tutti. Vedete, io, quando sono a casa San Sergio, la mattina scendo giù in biblioteca e fino alle dodici non ritorno su: perché? Per evitare tutto quello che mi distrae, perché se vado girando di qua e di là, a parlare a questo, a parlare all'altro, è finita! La mia vita non ha più unità. Ora io non parlo di me per propormi ad esempio - me ne guardi bene il Signore -, dico però che è necessario per noi cercare di non moltiplicare quelle azioni che ci portano fuori di noi stessi. Certamente, se tu sei mamma, devi stare coi bambini, altrimenti non fai la volontà di Dio; ma non importa mica che tu vada a curiosare nelle case o a chiacchierare con la tale o con la tal'altra se non sono cose che ti riguardano. Mantieni la tua anima in attenzione pura al Signore. È questo che dobbiamo fare. E anche il vivere una nostra unione fra noi non è per curiosare, non è per chiacchierare, non è per perder tempo: è per stimolarci l'un l'altro a vivere questa attenzione a Dio.
L'essenziale:…
Vedete, se noi vogliamo vivere una vita di preghiera, sono essenziali due cose. Prima di tutto credere, aver fiducia in Dio e credere che Dio ci dà la grazia perché Lui ci ha chiamato. Poi, metterci nelle condizioni più adatte perché la grazia possa agire in noi. Se noi non viviamo un certo raccoglimento, una certa attenzione al Signore, è inutile pretendere di vivere una vita spirituale; non si vive una vita spirituale! E infatti, che cosa ci dice anche la preghiera di sant'Efrem? «Liberami dallo spirito di oziosità, dallo scoraggiamento, dalla volontà propria e dalle vane parole». Questa liberazione si impone, perché se non viviamo questo è impossibile che la grazia di Dio entri, non può penetrare; sono chiuse tutte le porte. E allora vi chiedo questo, miei cari fratelli: cerchiamo di mantenere un certo raccoglimento. Non vi dico di non fare il vostro dovere, tu in ufficio, tu in fabbrica; certamente dovrete fare quello che il vostro lavoro richiede, ma non cercate motivi di uscir da voi stessi. Quando avete fatto il vostro dovere, voi dovete sentire questo appello a ritornare in voi stessi per vivere alla presenza di Colui che vi ama e che voi volete amare. Un innamorato quando deve lavorare, lavora, ma appena cessa di lavorare immediatamente corre dall'amata che l'aspetta. E allora, perché il nostro pensiero, una volta liberato da quello che lo impegna giorno per giorno, ora per ora, non ricorre quasi naturalmente a Dio? È come un sospiro naturale dell'anima, diviene connaturale al nostro spirito questo ricorrere continuamente a Colui che amiamo. Come la calamita sempre si volge al suo polo, così l'anima che ama si volge naturalmente al suo polo che è Dio.
...una vita semplice, non povera
Vi chiedo questo soltanto, perché Dio possa operare la realizzazione della nostra vocazione. Guardate un po' se potete semplificare la vostra vita; non vi si chiede di impoverirla, siete voi che la impoverite cercando tante cose. Quanto più l'acqua si spande tanto meno resiste all'evaporazione; se tu metti l'acqua in un secchio e Io fai pieno, anche se c'è il sole è difficile che possa prosciugarla, ma se tu butti quest'acqua in terra dopo mezz'ora di sole non c'è più nulla, vero? E così è per l'anima. Se tu la diffondi in tante cose, non rimane più nulla; se invece mantieni la tua anima raccolta in Dio, anche le difficoltà, anche le prove, anche i lavori, non possono più sottrarti alla sua azione, sottrarti al sentimento di Dio. E allora è inevitabile che vengano a te queste aspirazioni a Lui: «Signore, non voglio che te! Dolcezza infinita, riempimi!». È impossibile che l'anima non si volga a Dio, non senta il bisogno di ravvivare quest'incontro con Lui, questa comunione con Lui. Al resto penserà il Signore. Quando io mi son messo nella disposizione di accoglierlo, Egli si donerà a me e mi trasformerà in Sé.
Ecco, vorrei lasciare prima di tutto a quelle che vivono qui - ma poi a tutti quelli che vivono la vita comune e poi a tutti quelli che vivono i voti, e poi a tutti quelli che vivono la consacrazione - questi due ricordi soli. Lo scoraggiamento mai, mai, mai! Siate sicuri che non vi mancherà mai la sua grazia se voi siete sinceri. Ma la fiducia in Dio suppone che voi vi manteniate nella disposizione di poter accogliere la sua grazia con ogni attenzione. Se Dio vi parla e voi pensate ad altro, voi non lo potrete ascoltare. Mantenete la vostra anima aperta, disponibile alla grazia divina. Quando diciamo la preghiera di Sant'Efrem, non la diciamo tanto per dirla. Non sono formule, sono impegni: «Liberami dallo spirito di oziosità, dallo scoraggiamento, dalla volontà propria, dalle vane parole». Questo per liberarci dagli ostacoli, poi viene: «Concedi al tuo servitore lo spirito di castità» - la purezza del cuore - «di umiltà» - che meraviglia questo sparire nella luce divina! - e poi «di pazienza e di amore», termine di tutto! Non vi sembra che sia un programma di vita? E quale programma di vita! Ma vedete, la cosa importante è questa, ed è bella; si fa dipendere tutto da Dio. «Liberami, concedimi»: è Dio che fa tutto. Umiltà per accogliere la grazia che il Signore ci vorrà donare, se noi vorremo accogliere il suo dono.
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LA TRASFIGURAZIONE DEL CRISTO:
SEGNO DELLA NOSTRA GRANDEZZA


Casa San Sergio, 6 agosto 1983 Tempo liturgico: Festa della Trasfigurazione - Anno C
Letture: Dn 7, 9-10. 13-14; dal Sal 96; 2Pt 1, 16-19; Lc 9, 28-36
Omelia
Una sola umanità
Noi dobbiamo cercare di sottolineare, nella festa di oggi, prima di tutto quello che dice l'Oremus, che cioè questa festa, mette il mistero della trasfigurazione del Cristo in rapporto alla nostra adozione filiale.
Quale rapporto vi è? Sono due le feste della gloria: una è l'Epifania e l'altra è la Trasfigurazione. Nell'Epifania la gloria di Dio si manifesta nell'umiltà del bambino: Dio che assume la povertà, la debolezza, l'impotenza dell'infanzia. La Trasfigurazione invece è l'umanità che, assunta da Dio, risplende di tutta la gloria dell'Unigenito.
Ed è questa umanità, glorificata prima ancora della Passione, che ha un rapporto con noi tutti: è infatti un'anticipazione della gloria escatologica che attende l'umanità, perché è l'umanità glorificata quella che noi oggi adoriamo: l'umanità del Cristo.
Quella umanità, che ha conosciuto la debolezza dell'infanzia, il nascondimento della giovinezza e la passione, quella umanità oggi invece, sottraendosi alla passibilità che Egli aveva assunto in quanto si era fatto solidale con noi, risplende di tutta la gloria che è propria del Figlio di Dio.
Ora questa umanità è la nostra umanità: la trasfigurazione del Cristo, dunque, è una prefigurazione, è un'anticipazione della gloria che ci aspetta tutti, perché non è più Dio che si umilia facendosi uomo, come nell'Epifania, è l'umanità invece che, assunta da Dio, risplende glorificata di tutta la gloria di Dio. Questa umanità, che è la nostra.
Egli ha voluto che noi ci rendessimo conto che l'umanità che aveva assunto, è la nostra stessa umanità, una umanità che ha conosciuto tutte le nostre sofferenze e le nostre prove, tutte le nostre impotenze e debolezze, e perfino la morte. L'umanità del Cristo, è questa umanità: la nostra, la mia, la tua; questa umanità è glorificata oggi in Cristo Gesù. E questa glorificazione perciò del Cristo, prima della sua morte, è anche l'adempimento di quella profezia che Gesù aveva già annunciato ai discepoli: «Vi dico in verità che vi sono alcuni, qui presenti, che non moriranno prima di aver veduto il Figlio dell'uomo venire nella Sua gloria» (Mt 16,28). Essi Io vedono, prima ancora della Passione, vedono questa umanità glorificata. E questa umanità glorificata, che umanità è? È la nostra. Ma la nostra in quanto ritornata ad essere quella umanità che, liberata dal peccato, era stata chiamata da Dio alla regalità universale.
Il nuovo Adamo
Ed ecco, allora, la prima lettura. Cioè, in Cristo glorificato è la nostra umanità, ma quale umanità? Non l'umanità di noi, che dopo il peccato di Adamo dobbiamo conoscere la passibilità e la morte, la debolezza e l'impotenza, ma l'umanità del primo Adamo, che ora, ecco, risorge nel Cristo nuovo Adamo. E mentre Adamo fu chiamato da Dio ad essere re dell'universo, ma dopo il peccato invece divenne schiavo proprio del male, di tutte le cose, ora invece, nel Cristo, questa nostra umanità riacquista il suo diritto a una regalità universale. Noi abbiamo ascoltato infatti il Salmo Responsoriale: «Il Signore regna». Il Signore; chi è il Signore? Il Kyrios, il nuovo Adamo. Signore, non in quanto è Figlio di Dio: in quanto è Figlio di Dio, certamente a Lui appartengono tutte le cose: è Dio! Ma allora il suo regno non ha inizio. Invece ha inizio il Suo Regno come Nuovo Adamo, nella umanità che Egli ha assunto.
«Fare le tende»
E un altro insegnamento noi dobbiamo sottolineare. Pietro dice: «Come è bello, Signore, star qui! Se Tu vuoi, facciamo tre tende: una per Mosè, una per Elia e una per Te». Che vogliono dire queste parole? Hanno un senso queste parole? Il Vangelo dice che «non sapeva quel che diceva».
Lo sapeva? Lo sapeva e non Io sapeva. Vediamo un poco perché lo sapeva e non lo sapeva. Che cos'è, il fare le tende, il fare le capanne? È la festa delle Capanne nella quale gli Ebrei celebravano la discesa di Dio in mezzo al Suo popolo, nel deserto. E questa festa delle Capanne era la festa che voleva anticipare per i Giudei l'era messianica in cui Dio, il Re Messia, sarebbe sceso fra loro e vissuto fra loro come nuovo Re. Allora aveva ragione Pietro, perché il Cristo si era manifestato veramente Re, si era manifestato veramente Nuovo Adamo, si era manifestato veramente come Messia: aveva dunque ragione.
Perché allora non aveva ragione e «non sapeva quel che diceva»? Ma semplicemente perché Mosè ed Elia parlavano a Gesù della Sua dipartita. Infatti, la via per la quale Egli poteva entrare in possesso del Regno, la via per la quale Egli veramente veniva investito di questa regalità - che era anticipata in quell'ora ma non era ancora donata permanentemente -, esigeva la morte, mentre Pietro non voleva la morte; voleva la gloria ma senza la morte e per questo «non sapeva quel che diceva».
Noi stessi, molte volte, non sappiamo quel che diciamo, perché anche noi pretendiamo che Dio ci liberi dalle nostre prove, ci renda più facile il nostro cammino. È bello che il Signore ci chieda delle prove, non vi sembra? È molto bello ed è molto giusto, perché «Oportebat - dice il Vangelo - Christum pati»: «bisognava che il Cristo patisse, per raggiungere la Sua gloria».
Partecipi della sua passione
E se anche noi non proviamo qualche difficoltà, qualche patimento, qualche sofferenza, è inutile: non potremo mai essere cristiani. Per essere veramente uniti al Cristo Re, al Cristo nuovo Adamo, per essere salvati da Lui e in Lui fatti figli di Dio con questa glorificazione della nostra umanità, bisogna passare attraverso la croce: non c'è altra via per giungere a questa gloria se non la croce. Ecco perché, nonostante che il Cristo sia trasfigurato sul monte, la Trasfigurazione non anticipa minimamente la gloria della Resurrezione, perché anzi, proprio nella stessa Trasfigurazione del Cristo, Mosè ed Elia, parlano con Lui della Sua Passione, parlano con Lui della Sua morte imminente. Per questo, dopo la Trasfigurazione, subito tutti e tre gli evangelisti sinottici dicono che Egli predice la sua Passione: «Ecco il Figlio dell'uomo salirà a Gerusalemme e sarà consegnato nelle mani dei peccatori e Io oltraggeranno e lo schiaffeggeranno e gli daranno la morte, lo crocifiggeranno; ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi non capirono nulla, come non capiva nulla san Pietro quando, vedendo Gesù trasfigurato sul monte, credette che ormai tutto fosse passato e cominciasse davvero la gloria per tutti: «Si fanno tre tende, si rimane qui; ci si sta tanto bene!»
Ora, le ha fatte san Pietro le tende lassù, ma noi ancora non ci siamo, vero? Per loro c'è stata un'anticipazione della gloria futura nella visione del Cristo. Anche per noi qualche volta ci sono certi anticipi della gloria futura, quando Dio particolarmente si fa sentire al nostro cuore, riempie la nostra anima della Sua pace e della Sua gioia, ma sono momenti. Sono momenti che il Signore ci dona perché possiamo più facilmente santificarci nelle prove che seguiranno. A nulla tuttavia valse per san Pietro, proprio per colui che voleva rimanere col Cristo, a nulla valse nemmeno l'esperienza della Trasfigurazione, quando venne la prova: e Pietro rinnegò Gesù.
Noi dobbiamo cercare di capire l'economia del Signore. Se il Signore ci dona una certa partecipazione alla Sua gioia in alcuni momenti della nostra vita, noi dobbiamo sapere che questa gioia è sempre qualche cosa non solo di gratuito ma anche di fuggevole. Quello che rimane è la nostra condizione umana e la nostra condizione umana è una condizione di pena, una condizione di limiti, una condizione di mortalità. Ed è in questa condizione di mortalità che noi dobbiamo ora accompagnarci a Gesù, ascoltare Gesù e seguirlo. Questo infatti ci ha detto il Padre, perché, anche quando la gloria di Dio, che prima risplendeva sul suo Volto, sarebbe cessata, dovevano continuare i discepoli a seguire, ad ascoltare, il Signore; anche quando Gesù sarebbe stato solo. Come dice un altro Vangelo della Trasfigurazione: «e lo videro solo» (cf. Mt 17,8). Ecco, lo dovevano seguire proprio nella Sua solitudine e nella Sua Passione.
E noi dobbiamo seguirlo così. Siamo figli di Dio e come figli di Dio siamo riserbati a questa gloria infinita, immensa, che per un istante rifulse nella umanità di Gesù, prima anche della Passione. Ma per noi non rifulgerà mai in modo permanente se non dopo la morte, se non dopo le prove, le difficoltà della vita, se non dopo le nostre pene e la nostra partecipazione alla Passione del Cristo.
Segno della nostra grandezza
In questo, dunque, la Trasfigurazione è da noi celebrata, in quanto la trasfigurazione del Cristo ci assicura la nostra filiazione divina, nonostante la nostra povertà, nonostante la nostra miseria. Per un istante rifulse, ma i discepoli dovevano capire che anche quando questa gloria non sarebbe più apparsa, rimaneva Lui, il Figlio di Dio, rimaneva Colui di cui il Padre aveva detto: «Egli è il mio Figlio prediletto nel quale mi son compiaciuto: ascoltatelo»! Rimaneva il suo Figlio, e noi rimaniamo i Suoi figli anche se siamo quello che siamo: umile, povera gente. Non solo poveri uomini, ma poveri peccatori, e siamo tuttavia figli di Dio!
Quello che il Signore voleva insegnare con la sua trasfigurazione ai tre discepoli, Io deve insegnare anche oggi a noi; insegnarci la nostra dignità, insegnarci la nostra grandezza, anche se questa dignità e grandezza ora sono velate e non appaiono. È stato soltanto un momento in cui Dio ha sospeso l'economia propria del tempo presente per l'umanità di Gesù: è stato un momento soltanto in cui rifulse la gloria futura di questa umanità. E questo momento fu voluto da Dio proprio per rafforzare la fede dei discepoli. Anche per noi è così. Qualche volta anche per noi rifulge la gloria di Dio nel Volto di Cristo, anche per noi qualche volta, come dice San Paolo, la gloria di Dio ci inonda e ci riempie. Ma sono momenti fugaci, momenti che debbono aiutarci poi a vivere la nostra vita quotidiana umile e oscura, spesso molto umile e molto oscura, spesso anche faticosa e dura. In questi momenti, in questo cammino della nostra vita, ricordiamoci che siamo figli di Dio, il Signore ce l'ha assicurato con la sua trasfigurazione.
Donare qualcosa a Dio
Il velo che nasconde questa gloria non toglie questa dignità e questa nostra grandezza; la difende piuttosto e la protegge. La difende e la protegge nei confronti degli uomini, ma la difende e la protegge anche per noi, perché troppo spesso, se fossimo sempre nella gioia, noi probabilmente invece di amare Dio, ci accontenteremmo di essere amati, invece di dar prova del nostro amore a Lui, della nostra fedeltà nella pazienza, nell'amore e nell'umiltà. Troppo spesso invece saremmo felici di tutti i doni che il Signore ci dà, senza dar nulla noi in cambio.
Ricordiamoci quello che disse un santo una volta, apparendo ad un suo amico: «La cosa più grande che noi, anche nel cielo, rimpiangiamo è di non poter più soffrire». Infatti, lo dice anche santa Teresa di Gesù Bambino, ora, in questa vita, è il momento per noi di donare qualcosa a Dio, di dargli la prova della nostra fedeltà, nell'umiltà, nel nascondimento, nella fedeltà a Lui anche nelle prove; ora è il momento di amarlo. Poi domani sarà il momento di Dio, il momento in cui ci amerà Lui, come ci ama del resto anche ora, ma di amarci in tal modo da colmare il nostro cuore di una felicità immensa. Allora non potremo più dire di amarlo, perché in fondo non potremo dare altra prova a Lui del nostro amore, talmente il Suo amore avrà reso impossibile a noi di donare qualche cosa a Lui che sia nostro. La sofferenza invece è nostra e non è di Dio. Se Egli ha sofferto, ha sofferto in quanto ha assunto la nostra umanità ma la sofferenza, come anche l'umiltà, il nascondimento, la fedeltà nelle prove, tutto questo è proprio dell'uomo, non è proprio di Dio; questo dunque possiamo dare a Dio. Questo per noi è il momento di provare a Dio il nostro amore. Ringraziamo dunque il Signore anche delle prove che ci manda, ringraziamolo per le difficoltà della nostra vita, ringraziamolo per tutto quello che ci dà pena, perché è questa la nostra gioia; ora possiamo dare a Dio qualche cosa. Poco, evidentemente ben poco, ma è qualche cosa di nostro e non è Suo.
Questa fedeltà a Lui nella sofferenza e nell'umiltà mi sembra l'insegnamento più bello e più vero che ci può dare oggi la festa della Trasfigurazione.