sabato 20 agosto 2011

GMG MADRID: Le Catechesi - Bagnasco


MADRID, sabato, 20 agosto 2011 - Di seguito il testo della catechesi tenuta ieri 19 agosto in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.


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Cari Amici, siamo al terzo giorno di catechesi e alla vigilia dell’atteso incontro con il Santo Padre, Benedetto XVI. Egli, Successore dell’Apostolo Pietro, vi ha chiamati e voi, come sempre, avete risposto con generosità: avete avvertito, nella sua voce, la voce di un Altro che vi chiamava con amore perché aveva qualcosa da dire al vostro cuore. Avete sentito che quella era la voce di Gesù che, attraverso la Chiesa suo corpo, invitava ciascuno di voi. Qualcuno, forse, è venuto per curiosità, forse spinto dalla segreta speranza di trovare qualcosa di bello e di vero. Oggi, in effetti, Gesù ha qualcosa di impegnativo e di grande da proporvi: di grande perché dona significato alto all’esistenza e riempie il cuore dei giovani che – anche se a volta sembrano rassegnati alla mediocrità – in realtà sono inquieti e vanno cercando ideali nobili; e poi il Signore vuole presentarvi una proposta impegnativa perché le cose belle chiedono sempre sacrificio. Siete disposti a questo? La domanda è un po’ retorica, perché se siete venuti fino a Madrid dai diversi punti dell’Italia, è perché siete alla ricerca e disposti a pagarne il prezzo. Guardando voi, infatti, mi viene in mente la parabola del tesoro nascosto nel campo o della perla preziosa (Mt 13, 44-46): sono certo che siete come i protagonisti, che sono entrambi pronti a vendere quanto hanno pur di comprare il campo o la perla più bella di tutte.
1. Essere testimoni di Cristo: dove?
C’è un luogo nel mondo dove la testimonianza è più urgente? A dire il vero, non lo so con certezza. Il tesoro – Cristo - è talmente bello e prezioso, che non esiste punto del pianeta dove non vi sia urgente necessità che il Vangelo sia annunciato e testimoniato. E il cuore di ogni uomo, in qualunque cultura e società si trovi, è talmente sconfinato e affamato di infinito, di vita vera, di amore affidabile, che nessuno può stabilire delle graduatorie. Credo però che esista un criterio da considerare: esso riguarda innanzitutto voi, e poi riguarda le culture nel mondo. Prima di tutto voi: il Signore manda i suoi discepoli ad essergli testimoni là dove sono, là dove vivono. E allora, prima di interrogarci su dove Lui mi manda, riconosciamo gli ambienti dove in concreto sono: lì Gesù attende me e la mia testimonianza. E poi, una considerazione di carattere generale: sembra che sia meglio coltivare un terreno vergine piuttosto che un terreno già lavorato con altre sementi. Fuori dall’immagine, nelle culture dove il secolarismo è arrivato e ha seminato a larghe mani la sua zizzania è più difficoltoso seminare il Vangelo per un motivo semplice: perché si crede di conoscere già il cristianesimo - mentre invece spesso lo si conosce in modi incompleti o distorti – oppure perché sono attecchiti pregiudizi pseudoscientifici come se il cristianesimo fosse un’invenzione ben congegnata, o la Chiesa un centro di potere, o il clero una casta di privilegiati, o in cristiani gente poco critica e molto malinconica, oppure come se la fede fosse contro la ragione, la scienza e la libertà. E via discorrendo. Il risultato è l’indifferenza verso qualcosa che si presume di già conoscere e che non interessa, irrilevante per il benessere della vita; oppure è l’ostilità verso una realtà oscurantista che è ritenuta nemica della gioia. Bucare questo duplice muro di indifferenza o di sospetto, certamente non è facile. Se pensiamo al nostro Paese, forse le tinte espresse sono un po’ fosche, ma non si può negare che il secolarismo sul piano teoretico e il consumismo sul piano pratico siano fenomeni presenti.
2. Secolarismo e consumismo
Il Papa Benedetto XVI, all’inizio del suo ministero pontificale, ha parlato dei vari deserti che esistono nel mondo. Deserti che attendono, spesso in forma inconsapevole, l’acqua che disseta: le molte solitudini che stringono la gola di tanti, le innumerevoli forme di violenza che umiliano la dignità di singoli e di popoli, le disperazioni che uccidono il domani, le ingiustizie che rendono la terra piena di spine e di rovi. Alla radice di questi deserti, troviamo in sintesi un soffocante deserto di verità e di amore: tutto ciò che nel mondo si perpetra contro l’uomo, la vita umana, la libertà, la famiglia, non sono che inevitabili conseguenze di questa devastante aridità spirituale e morale. Vorrei, in questa catechesi, mettere brevemente in rilievo i due deserti che sono noti come secolarismo e consumismo.
a) Il secolarismo è un modo di pensare senza Dio, senza alcun riferimento trascendente, come se l’uomo fosse un grumo di materia e la natura fosse il frutto di un grande “frullatore” che casualmente ha dato origine allo straordinario universo che abitiamo come la nostra casa, con le sue armonie e i suoi colori, le espressioni a volte fragorose e impressionanti, a volte sottili e delicate, poetiche fino alle lacrime. E l’uomo è concepito come un risultato di elementi chimici che si differenzia dal resto della natura non perché è qualcuno, ma qualcosa di un po’ più sofisticato nei suoi apparati. Solo, di fronte alla salma di mia madre – che, paralizzata, ho avuto la grazia di assistere per dieci anni in casa con me - ho visto l’anima, il punto incandescente di ordine spirituale che nessuna evoluzione rigida può produrre perché richiede un salto di qualità: l’uomo non è qualcosa, ma qualcuno e qui sta la diversità, la distanza, l’abisso. Tutto l’affetto, la tenerezza, il sacrificio e la dedizione che mia madre aveva elargito alla sua famiglia e a tanti, il mare di sentimenti e di slanci ideali, la tensione verso il cielo e l’amore ai suoi morti per lei sempre vivi nel cuore di Dio…tutto questo, e molto altro, non poteva ridursi al nulla perché risultato di combinazioni chimiche: sarebbe un’ ingiustizia cosmica inaccettabile. E ho sentito – per lo spazio di un attimo – di toccare la corposità imponderabile di quell’anima che si era presentata al cospetto di Dio e che non mi avrebbe lasciato mai. La certezza di quel momento era più solida della mia stessa esistenza. E contro questo, cari amici, non regge nessun argomento. Ricordate: la via alla verità non è solo quella della ragione – importantissima – ma anche quella del cuore – che non coincide con le sensazioni e l’emotività - della bellezza, della fede. Tornando al secolarismo, esso pensa come se tutto appartenesse al tempo terreno a non anche all’eternità, a Dio. E la società che costruisce è guidata da questo presupposto: Dio è una questione privata, non deve avere nessuno spazio nella società, nessun riferimento pubblico. Se c’è, non interessa – come diceva Cornelio Fabro – e deve essere confinato nella più assoluta privatezza individuale. La società che ne esce è asfissiante perché è come una gabbia dentro la quale l’uomo è condannato a stare senza cielo, prigioniero della propria materialità. Ma se la politica ha come scopo la giustizia – che è assicurare nei debiti modi a ciascuno il suo – come potrà essere giusta se esclude a priori la dimensione spirituale e religiosa dell’uomo? Se lo considera un prodotto organico ben confezionato? Come potrà rispondere agli aneliti che il cuore avverte verso l’ infinito, il desiderio di bellezza, la vocazione alla vita piena? “Il mondo senza Dio – scrive il Santo Padre nel Messaggio – diventa un ‘inferno’: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza” (Messaggio, n. 3)
Ciò, evidentemente, non significa creare uno Stato confessionale o teocratico, ma uno Stato non materialista e indifferente nei confronti della religione. Comprendiamo che il secolarismo è un deserto particolarmente arido: verso la religione in genere, ma in modo particolare verso il cristianesimo, ostenta insofferenza e ostilità. Non di rado arroganza.
b) Se il secolarismo è un modo di pensare senza Dio, il consumismo è un modo di vivere senza Dio: il primo è teorico, il secondo è pratico, ma gli estremi s’incontrano. Il buon senso popolare dice che si vive come si pensa, ma spesso si finisce di pensare come si vive. Qui il deserto sta non tanto sul piano delle idee ma delle azioni, del modo di vivere. Il consumo di beni materiali, la ricerca delle comodità e del piacere, la creazione di sempre nuove esigenze fisiche, psicologiche, emotive, diventano non solo un modo di vivere ma di pensare; e questo rafforza e alimenta un certo modo di vivere all’insegna della materialità. Non si nega Dio ma lo si allontana, essendo sempre più dentro ad una spirale che rende evanescenti le voci dello spirito, insignificante la cura dell’anima, flebile il mondo della fede. La stessa dimensione etica si indebolisce sotto la suggestione crescente delle soddisfazioni immediate e materiali. Anche in questo tipo di deserto, si crea una specie di fronte gommoso che non si riesce facilmente a scalfire, ma, naturalmente, non è impossibile con la forza della grazia.
3. “Guai a me se non predico il Vangelo”
I discepoli sono inviati a testimoniare e annunciare Gesù. Possiamo chiederci: ma è proprio necessario dire il Vangelo a tutti? Non basta che ognuno segua la propria coscienza, religiosa, morale, filosofica, e Dio, che giudica i cuori, vedrà la buona fede? E’, questa, una domanda che qualcuno si è posto e, a seconda della risposta, si diventa o no testimoni e messaggeri di Cristo. Non si tratta di giudicare il cuore della gente, si tratta di avere in mano una perla talmente preziosa e bella che non si può tenere per se soli. E la perla preziosa è il Signore Gesù. Se ieri abbiamo riflettuto sulla bellezza unica di Cristo, sulla assoluta novità del cristianesimo, sulla vita nuova e vera, abbiamo forse sentito un brivido di commozione: per questo non possiamo tacere. Il problema, cari Amici, è tutto qui. Se per te, Cristo è importante sì ma senza esagerare, è amico sì ma ce ne sono anche altri, è prezioso come un “soprammobile” caro ma non è la tua casa,…allora continuerai a chiederti: ma non basta che ognuno segua la propria coscienza? Perché scomodarsi e scomodarlo? Forse però bisogna lasciar risuonare sul serio le parole di Gesù: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra” (Lc 12,49), “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare” (Gv 10,16). E queste parole come si spiegano? Possiamo noi silenziarle? sbiadirle? O svuotarle della loro urgenza e della loro passione? Ma allora, con la medesima flemma, potremmo chiederci: ma era proprio necessario un dispendio così grande di energie, fino alla morte di croce? Non si poteva seguire la buona coscienza di ciascuno? Comprendiamo tutti che è in questione ciò che Gesù ha fatto di unico per l’umanità, ma anche è in causa quanto Lui sia importante per me, per ciascuno di noi: “ Cristo non è un bene solo per noi stessi – dice Benedetto XVI – è il bene più prezioso che abbiamo da condividere con altri” (Messaggio, n. 5). Anche noi, come l’apostolo Pietro, dobbiamo dire: “noi non possiamo tacere” (At 4,20).
4. Come fare?
Ma come fare? Che cosa vuol dire essere testimoni oggi, nella nostra parte di mondo, l’Occidente, l’Europa, l’Italia? Tenendo bene in mente che ogni discepolo di Cristo è costituito testimone e quindi anche missionario, mi limito ad alcuni elementi essenziali.
Dobbiamo mantenerci tutti in stato di permanente conversione. Non siamo mai del tutto convertiti, mai arrivati. Il dono della fede è straordinario, il Battesimo ci ha incorporati a Gesù, la Confermazione ci ha resi capaci del coraggio della testimonianza, l’Eucaristia è il pane di vita eterna, la Penitenza il lavacro della riconciliazione…ma sempre di nuovo dobbiamo implorare ed esporci al sole della grazia perché purifichi, converta i nostri cuori e le nostre azioni. Perché ci converta dalle logiche del mondo che insidiano il pensare secondo Gesù. Ritorna la necessità assoluta di una seria vita spirituale come la tradizione e i Santi ci insegnano. Se non cresce il nostro arrenderci a Cristo e la nostra risposta d’amore a Lui, la nostra testimonianza sarà tiepida, la nostra parola non sarà quella di un messaggero, ma di un cronista neutro. Perché la vita e la parola siano contagiose devono nascere da un cuore caldo, magari con le sue cadute e fragilità, ma con un cuore ardente e deciso.
Il testimone, inoltre, deve conoscere il mistero di Cristo e della Chiesa, poiché la testimonianza non nasce da un puro sentimento, ma da una consapevolezza fatta di carne, di intelligenza, di cuore. Le domande alle quali si espone il discepolo, sono oggi molteplici e non facili; richiedono non solo la fede, ma una fede pensata, cioè una preparazione dottrinale sufficiente per comunicare la fede in un mondo complesso e mutevole. La Bibbia, il Catechismo della Chiesa Cattolica, il Compendio della Dottrina Sociale sono strumenti oggi indispensabili: meglio, sono sorgenti sicure e complete per alimentare la nostra fede, per conoscerla, e per comunicarla a chi, oggi, ha dubbi e pregiudizi ma cerca certezze.
Bisogna credere al Vangelo! Mi riferisco in particolare alle parabole del seminatore. Perché il mondo non si converte? Perché Il Maestro non convince tutti? Lui che è nello stesso tempo il seme buono, il messaggero che conosce meglio di ogni altro il cuore dell’uomo e le vie migliori del comunicare? Sono domande che forse i discepoli si facevano, e che toccano anche noi. Nella prima parabola Gesù loda il seminatore che semina con generosità – “opportune et importune” direbbe San Paolo – senza andare a scegliere i terreni buoni, a costo di perdere la semente. Ogni terreno ha bisogno di incontrare il seme buono del Vangelo, incontrarlo con la sua libertà. Non possiamo dimenticare questo duplice richiamo e diventare dei cristiani cupi, polemici, pessimisti. Ricordiamo la generosità del seminatore che è certo che il seme è buono – è Gesù! – ma l’uomo è libero. Nella seconda parabola, il Maestro ricorda che il seminatore – come il testimone di Cristo – deve stare sereno dopo aver lavorato generosamente. Deve andare a riposare sapendo che, nel cuore della notte e del terreno, il seme è vivo. Come a dire che ciò che il discepolo testimonia con l’esempio e con la parola, in qualche misura resta e un giorno, con la grazia di Dio, maturerà. Infine, nella terza parabola, il Signore raccomanda ai suoi Apostoli la pazienza della gradualità, di credere ai tempi di Dio, ai piccoli passi nella crescita. L’immagine dell’albero che germoglia dal piccolo seme di senape, e poi diventa un albero così grande che ospita gli uccelli del cielo, ci raccomanda questo. Cari Amici, tutte e tre le parabole ci invitano ad avere fede, coraggio, generosità e pazienza. Noi tutti vorremmo vedere il risultato subito proporzionato alle nostre fatiche. Ma le cose non vanno così.
Tenere ferma l’immagine evangelica: essere “sale della terra e luce del mondo” (Mt 5, 13-14). Le due immagini vanno tenute insieme, perché se il sale suggerisce la logica dell’incarnazione nella vita quotidiana, quella dei vostri coetanei, degli ambienti di vita della gente, la condivisione dei problemi e delle gioie di tutti. L’immagine della luce ricorda invece che il testimone deve anche essere luce, cioè non solo dentro al mondo, ma anche davanti al mondo. Deve accettare di essere guardato, come la luce sul candelabro o la città posta sul monte; e questa posizione non è affatto comoda! Ma è necessaria per poter testimoniare e annunciare Cristo. Viene in mente l’altra parola del Maestro: “siete nel mondo ma non del mondo” (Gv 17,14) . Il modo di essere nel mondo e amarlo, è quello di non essere del mondo, avere cioè una parola e uno stile di vita diverso perché coerente al Vangelo. Se i discepoli non solo sono nel mondo, nella vita degli altri, della città umana, ma anche si comportano e ragionano secondo le categorie mondane, come possono essere luce? Sono semplicemente omologati. C’è a volte la tentazione di non essere visibili ed evangelicamente differenti in nome dell’incarnazione nella vita degli altri. E’ un inganno. Così ci può essere l’equivoco di essere visibili in nome della luce, ma senza condividere in modo evangelico la storia. L’uno e l’altro modo vanificano la testimonianza. Ma cosa vuol dire essere luce? Forse l’immagine del sale nella pasta della vita può essere più facile da tradurre, ma essere luce? In sintesi, possiamo dire che l’immagine ci rimanda a due modalità: essere luce con la parola ed essere luce con le opere. Abbiamo già visto la necessità di una fede pensata, capace di dare ragione di se stessa; ma la fede pensata è necessari anche per “pensare nella fede” come ricordava Antonio Rosmini: pensare nella fede significa essere capaci di porre un giudizio secondo Cristo, nel bene e nel male. Ma vi è anche la luce delle opere, tenendo conto la prima opera è la nostra vita quotidiana, in famiglia, al lavoro, nel tempo libero. Vi sono anche le opere di carità, di vicinanza al bisogno, di solidarietà con i deboli e i poveri, che fanno parte della tradizione cristiana. Vorrei, al riguardo, fare solo una precisazione: le opere che nascono dalla fede devono portare il volto di Cristo, non devono ridursi a reti di assistenza che, pur lodevoli e quanto mai opportune, non lasciano trasparire l’ispirazione del Vangelo. Devono dire Gesù non solo le nostre parole, ma anche le nostre opere. L’unità di misura, ma innanzitutto la sorgente perenne della carità evangelica, resta la Santa Eucaristia: nello “spezzare il pane” eucaristico, è ricordato che la premura per l’altro non è un settore accanto al culto, ma è radicata nel culto. Come a dire che la dimensione verticale e quella orizzontale non possono essere separate.
Infine, il Signore ha chiesto ai suoi discepoli un miracolo, un miracolo decisivo perché il mondo creda. Abbiamo tutti inteso: si tratta della nostra unità della comunità cristiana, del nostro amore alla Chiesa: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Questa parola deve essere illuminata da un’altra: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). La preghiera di Gesù ha di mira proprio questo: rendere evidente la potenza della Croce che segna l’inizio di una umanità nuova, di un modo nuovo di essere nel mondo. Proprio in quanto la logica del mondo tende a contrapporre e a disgregare, quanto più vive di conflittualità e di polemiche, l’unità dei discepoli è agli occhi di tutti un prodigio, qualcosa che desta sorpresa e rende pensosi perché va contro tendenza, è inspiegabile con le categorie correnti. Si rende visibile così una potenza diversa. Qualcosa di nuovo è accaduto nel mondo: Gesù Cristo, Dio stesso è all’opera nella unità degli uomini. Infatti è Dio che sta all’origine e a fondamento della comunità: è Gesù che unisce i discepoli e li tiene uniti nei momenti di difficoltà e di tensione. Essi devono guardare sempre a Lui per poter guardare i volti diversi degli altri e riconoscerli fratelli. Fuori da questo fondamento, vedrebbero le differenze solo come opposizioni. Ed è nell’Eucaristia che i discepoli ritrovano luce e forza per camminare nella via dell’unità. La Chiesa è una comunione fraterna e gerarchica, dove molte sono le mansioni: così Gesù l’ha voluta. Amare la Chiesa ed essere parte affettiva e attiva di questa comunità, che è il corpo mistico di Cristo, significa dire al mondo che Dio c’è e che le potenze della divisione sono state vinte da Cristo.
Una breve parola riguarda un fronte potremmo dire nuovo della testimonianza cristiana, un fronte che – a quanto mi sembra – deve essere ancora percepito in tutta la sua portata e urgenza. Qual’ è il campo sul quale i discepoli sono chiamati a portare chiara e netta la parola e l’esempio? E’ il campo dei valori che Papa Benedetto ha da subito definito “non negoziabili”, e cioè: la vita umana senza sconti, la famiglia naturale fondata sul matrimonio, la libertà religiosa ed educativa. Questi valori, fondativi della persona, stanno nel DNA della natura umana, sono come un “ceppo” vivo e vitale che genera ogni altro germoglio valoriale necessario come il lavoro, la solidarietà, la cultura, la salute, la pace, e via discorrendo. Sono questi valori che costituiscono l’ “etica della vita”, e che fondano e garantiscono l’ “etica sociale”: “Quando una società – scrive il Santo Padre Benedetto XVI – s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Caritas in veritate, 28). Comprendiamo che è in gioco l’umano dell’uomo; è il problema antropologico che i Vescovi italiani hanno messo a tema da più di quindici anni e che fa da sfondo culturale alla questione educativa del decennio pastorale. E’ su questa linea di confine, tra l’umano e il disumano, che c’è bisogno urgente di testimoni consapevoli e credibili, e questa, in un certo senso, è una sfida nuova soprattutto per voi. E c’è bisogno di educatori accorti per i più giovani.
Cari giovani, non siete soli: la Chiesa è con voi, i vostri Pastori vi sono accanto con affetto e rispetto. Non siete soli. Tra voi dovete intensificare le reti virtuose della preghiera, dello studio, dell’agire, per sostenervi, per meglio comprendere e operare. Con voi vi è la schiera dei Santi e dei Martiri, i grandi testimoni della fede e dell’umanità vera. Essi, nei duemila anni di storia cristiana, si sono opposti agli errori, alle violenze e alle ingiustizie, hanno amato e difeso il Vangelo, la Chiesa, l’uomo. E anche il tempo ha dato loro ragione, riconoscendo – magari con ritardo – la loro forza di profezia irrorata spesso dal sangue della loro vita.
Alla Madonna, la Grande Madre di Dio e nostra, ai Santi, testimoni gloriosi dei secoli, affidiamo i nostri propositi e le nostre comunità cristiane. Affidiamo con amore i nostri Vescovi, i Sacerdoti, il Santo Padre Benedetto XVI che abbiamo accolto con gioia e commozione ripetendo, nei nostri cuori, le parole della liturgia: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.