mercoledì 27 luglio 2011

Il mio cuore cerca il Tuo Volto

Nel giorno in cui ricordiamo Guigo I, monaco certosino e Titus Brandsma, presbitero carmelitano, e all'indomani del richiamo che la Vergine ha fatto a Medjugorje sulla preghiera del cuore, ho pensato di proporre un testo che spieghi che cos'è e come si fa questo tipo di orazione. L'autore del saggio è un monaco certosino.



Il mio cuore
cerca
il Tuo Volto
Prefazione


«Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”.
Ancora oggi, molti uomini cercano dei maestri che insegnino loro a pregare. Più che una dottrina sulla preghiera, desiderano una testimonianza personale.
Ma rari sono quelli che parlano della loro esperienza di Dio, perché a nessuno piace parlare di sé, e inoltre la preghiera procede da un luogo interiore e segreto, il cuore.
Comunque nelle pagine che seguono il lettore incontrerà la testimonianza di un monaco certosino che fu indotto a scrivere una lunga lettera sulla preghiera del cuore.
Non si può pervenire alla vera preghiera se viene trascurata la partecipazione del cuore, quel fondo del nostro essere, al di là dell’intelletto, della volontà, degli affetti.
E’ nel nostro cuore che Dio ha fatto la sua dimora e ci parla nel silenzio del deserto; è il nostro cuore che diventa ardente quando Gesù ci parla per via e ci spiega le Scritture; è nel nostro cuore che lo Spirito Santo prega in noi gridando Abbà, Padre e intercedendo con gemiti inesprimibili.
Una testimonianza non vuole convincere, né provare, né confutare. E’un invito a fare la stessa esperienza, a vibrare in armonia nelle profondità dell’essere.
Non si comunica la preghiera come si fa della scienza; nessuno la può comprendere se non la riceve. Ad essa ci si può soltanto disporre, nella misura in cui il cuore si apre e si abbandona all’azione di Dio.
Sull’esempio di san Bruno, «quell’uomo dal cuore profondo», il monaco vive di preghiera. Tutto ciò che fa è trasformato dalla preghiera e orientato verso la preghiera, in modo che la sua vita sia un’unica e incessante orazione.
Costantemente proteso verso Dio, alla ricerca del suo volto, egli fa proprie le parole del salmista: «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio?».


La Preghiera
del Cuore



M’hai chiesto di parlarti della Preghiera del Cuore. Una domanda del genere m’era stata rivolta già alcuni anni fa, ma allora avevo risposto che non intendevo impegnarmi a parlare di un argomento che non conoscevo abbastanza.
Da allora è passato del tempo e ho un po’ più d’esperienza in merito sia per quello che ho potuto constatare presso altri, sia per le scoperte che io stesso ho avuto modo di fare nella mia ricerca del Signore. Dunque ti affido qui qualche mia riflessione, pregandoti, però, di non attribuirle troppa importanza.
Sai che nella spiritualità della Chiesa orientale la preghiera del cuore è il frutto di una lunghissima esperienza. Quello che dirò ha certamente dei punti in comune con questa tradizione, ma mi rendo perfettamente conto di come io la tratti in maniera molto personale. Ciò di cui ti parlerò forse non è la vera preghiera del cuore.
La mia intenzione non è di disegnare un quadro rigido, una struttura fissa. Piuttosto vorrei indicarti una direzione, un cammino su cui impegnarsi, ma di cui non si può dire in anticipo dove andrà a finire esattamente.
La preghiera del cuore non è una meta da raggiungere, è un modo di essere, una maniera di mettersi all’ascolto e di andare avanti.
Per cominciare, se lo credi, prima di metterti a leggere, mettiti in preghiera e domanda allo Spirito del Signore di illuminarci entrambi, poiché non ho altro desiderio che aiutarlo a rischiarare i nostri cuori.
Abbà, sia santificato il tuo nome
Quando mi metto a pregare, non mi rivolgo al Dio dei filosofi e neppure, in un certo senso, al Dio dei teologi. Mi rivolgo a mio Padre o, meglio, a nostro Padre. Più precisamente ancora, mi rivolgo a colui che Gesù, in grande intimità, chiamava Abbà. Quando i discepoli gli chiesero di insegnar loro a pregare, Gesù disse semplicemente: «Quando pregate, dite: Abbà ...». Chiamare così Dio è essere sicuri di essere amati. E’ una certezza che non è dell’ordine delle idee dotte, bensì dell’ordine delle convinzioni intime.
Una certezza ‑ la fede ‑ cui siamo giunti, secondo la nostra impressione, dopo un certo numero di riflessioni, di meditazioni, di ascolto interiore; ma, in fin dei conti, questa certezza è un dono. Nel nostro cuore noi crediamo all’amore perché è il Padre stesso che ci ha mandato il suo Spirito, poiché ormai il suo Figlio è glorificato.
E proprio perché il Padre mi ama io posso rivolgermi a lui in tutta sicurezza e fiducia. Non lo faccio basandomi sui miei meriti, né su solide ragioni, ma lo faccio confidando nella tenerezza infinita per suo Figlio da parte dell’Abbà di Gesù e che è anche il mio Abbà.
***
Lui è Padre. Che significa questo? Lui dà la vita. Ma la dà non come qualcosa di distinto da sé, qualcosa che si può regalare. La dà donando se stesso. L’unico dono che egli può fare è la sua persona; il risultato di questo dono è un Figlio, un Figlio che lo ama senza misura, un Figlio per il quale non ha che tenerezza e che, a sua volta, non è che tenerezza per il Padre.
Questo è l’Abbà a cui mi rivolgo. L’unico che può darmi la vita, una vita perfettamente ricalcata sulla sua, lui mi vuole adesso a sua immagine e somiglianza, non come una aggiunta esteriore a me stesso, ma perché mi genera a partire dalla sua stessa sostanza.
Ecco che cosa voglio dire quando gli chiedo «Abbà, che sia santificato il tuo nome». Che tu sia perfettamente te stesso, Abbà, in me. Che il tuo nome di Padre si realizzi perfettamente nella relazione che si stabilisce tra noi. Abbà, io ti chiedo di essere mio Padre, di generarmi a tua immagine e somiglianza, per puro amore, affinché a mia volta, io possa divenire, per pura gratuità da parte tua, una tenerezza «verso di te».
***
La preghiera del cuore consiste semplicemente nel trovare la strada che mi permetta di avere, riguardo al Padre, questo atteggiamento grazie al quale potrà lui stesso santificare il suo Nome in me. In me e in tutti i suoi figli. Nel suo unico Figlio, formato dell’Unico e di tutti i suoi fratelli.
Pregare significa accogliere il Padre e partecipare alla vita che egli ci dà per grazia. Accogliere il Padre, ossia permettergli di generare il Figlio, di far nascere il suo regno nel mio cuore. Così lo Spirito potrà produrre tra me e il Padre dei legami indistruttibili, legami di unità che si estenderanno fino a tutti i miei fratelli.
Vedere col cuore
Quale strada dovremo seguire per giungere a quell’incontro col Padre al quale aspiriamo? Quale facoltà è a nostra disposizione per questo? E’ forse l’intelligenza, la capacità di conoscere e di ragionare? Ascoltiamo la risposta di Gesù: «Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelato ai piccoli. Sì, o Padre, poiché così è piaciuto a te» (Mt 11,25‑26).
Ecco una cosa che ha del sorprendente: la strada è chiusa agli intelligenti, a coloro che sanno pensare e calcolare. Non è a loro che Dio ha deciso di rivelare i suoi segreti.
Ma non è forse stato Dio a darci la testa, la capacità di pensare, di rappresentarci le cose, di immaginarle, come mezzo per entrare in contatto con gli altri? Sì, è vero, queste facoltà ci sono state date da Dio. Sono buone. Sono indispensabili. Noi non le disprezziamo. Non le sottovalutiamo. Ma dobbiamo anche saperne vedere i limiti.
Allorché penso a un problema ‑diciamo più precisamente a una persona molto vicina ‑ e la penso con la testa e non col cuore, la tengo distante da me. La afferro, la manipolo, in modo da poterla analizzare a piacimento, senza compromettermi con lei.
In fondo in fondo, non assumo impegni, mantengo le distanze, conservo la mia sicurezza per rapporto a questa persona. Faccio tutto ciò che posso per conoscerla, ma senza lasciarmi coinvolgere o contaminare dal dinamismo che può promanare dal cuore di questa persona. Voglio rimanere libero nei suoi confronti. In taluni casi questo modo d’agire è forse buono. Se, però, voglio amare, non è certo questa la strada da seguire.
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Gesù continua il suo insegnamento: «Tutto mi è stato affidato dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).
«Tutto mi è stato affidato dal Padre». Ciò significa che tra Padre e Figlio sono state abolite tutte le distanze. Nessuno dei due ha cercato di conservare una sicurezza in rapporto all’altro. Hanno accettato di coinvolgersi reciprocamente.
In tal modo possono conoscersi l’un l’altro di quella conoscenza d’amore che è presentata come un mistero cui possono partecipare solo gli iniziati: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio». Nessuno conosce, perché nessuno apre il suo cuore.
Se vogliamo conoscere il Padre, bisogna accettare di ricevere questa conoscenza del Figlio, nella misura in cui egli vede che il nostro cuore è pronto ad accoglierlo.
Per conoscere veramente Dio, bisogna quindi che io rinunci alle mie sicurezze. Devo eliminare le distanze che il pensiero e ogni sorta di rappresentazione mi permettevano di conservare in rapporto a lui. Devo riconoscere di essere vulnerabile.
Questa vulnerabilità che nascondevo così bene, devo accettarla alla luce del sole, viverla, ossia lasciare che le reazioni vere del mio cuore si esprimano liberamente. Solo così facendo potrò entrare in relazione con il Padre e il Figlio... e tutti gli uomini miei fratelli.
Questo significa, nella realtà concreta, che devo accettare di pormi a livello del cuore, devo dargli il diritto di esistere, di manifestarsi, di esprimersi nel modo che gli è proprio, cioè attraverso sentimenti profondi: fiducia, gioia, entusiasmo, ma ugualmente paura, talvolta angoscia... collera.
Questo non significa vivere a livello della sensibilità superficiale; significa, al contrario, accettare che si sviluppino in noi quei movimenti profondi che ci portano a incontrare l’altro nella verità. Ecco che cosa significa essere «piccolo piccolo»: è colui che si esprime in tutta spontaneità e si lascia prendere dall’amore di colui che gli è davanti. Come ci riesce difficile avere il coraggio di essere piccoli piccoli!
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Queste riflessioni si situano sia sulla linea del Vangelo che su quella di un processo psicologico normale. Evidentemente i due livelli sono distinti, ma si completano e si compenetrano. Dobbiamo arrivare a cogliere tutto attraverso lo sguardo d’amore che Gesù ha sulle creature e perfino sulle Persone divine.
Ecco che cosa io chiamo «vedere col cuore»: accettare che il Figlio mi riveli il Padre su quel solo piano dove io sono capace di accogliere questa rivelazione, ossia sul piano in cui, secondo il mio essere umano, c’è in me una immagine della relazione d’intimità che esiste tra il Padre e il Figlio: nel mio cuore.
La purificazione del cuore,
purificazione di tutto l’essere
attraverso il cuore
Non è necessario avere una lunga esperienza dell’esistenza umana e più ancora della vita spirituale per sapere che siamo prigionieri di un mondo quasi sconfinato di disordini: peccati, squilibri affettivi, ferite non cicatrizzate, abitudini cattive... Tutto questo costituisce impurità per il nostro cuore.
Poco fa dicevamo che il linguaggio del nostro cuore si situa al livello delle emozioni. Tutti i disordini che ho menzionato sfociano in emozioni sregolate; si esprimono quasi a nostra insaputa; ci comandano; ci dilaniano; chiudono la porta a Dio; ci legano a una specie di automatismo del male. E tutto questo viene dal nostro cuore! «Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore ed è questo che inquina l’uomo. Dal cuore infatti procedono cattivi pensieri, omicidi... queste sono le cose che inquinano l’uomo» (Mt 15,18‑20). Se voglio liberare il mio essere dall’immondizia, devo per prima cosa purificare il mio cuore.
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Per far fronte a questo bisogno urgente di rettifica, si fa ricorso normalmente a quella che si può chiamare l’ascesi classica. E’ una tecnica sperimentata, messa a punto da lunghe generazioni di monaci, di cristiani, di uomini di buona volontà, decisi a liberarsi dalla schiavitù di cui sono prigionieri.
E’ un impegno che fa ricorso a tutte le risorse della nostra volontà, della nostra energia e della nostra perseveranza, alla luce della fede e dell’amore. Questa ascesi ha i suoi meriti e non bisogna mai smettere di ricorrervi. Ma essa ha anche i suoi limiti.
In particolare, per quanto concerne l’autentica purificazione del cuore, bisogna andare al di là delle tecniche umane. Rileggiamo a questo proposito gli inviti di san Bruno al suo amico Rodolfo:
«Che fare allora, mio caro? Che fare se non credere ai consigli divini, credere alla Verità che non può sbagliarsi? Lei dà questo consiglio a tutti: "Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati e io vi ristorerò" (Mt 11,28). Non è una pena spaventosa e inutile l’essere tormentati dai desideri, di patire continuamente per affanni e angosce, paura e dolore provocati da questi desideri? Quale fardello è più opprimente di quello che col suo peso abbassa lo spirito dalla posizione della sua sublime dignità verso i bassifondi, in pura ingiustizia?» (A Rodolfo 9).
Dunque la prima forma in assoluto di purificazione è rivolgersi a Gesù, andare da lui per ricevere da lui il conforto. Lui ci rivolge questo invito subito dopo averci domandato di rinunciare a essere sapienti e intelligenti, per diventare piccoli piccoli. Entrare nella via del cuore è riconoscere che la sola purezza vera è un dono di Gesù.
«Prendete il mio giogo sopra di voi e venite dietro di me, poiché io sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime» (Mt 11,29).
La purificazione fondamentale si realizza a partire da quando tutte le nostre sozzure, i disordini che ci affliggono si incontrano con Gesù. Non è un compito più facile di quello dell’ascesi classica, ma è più efficace, perché ci obbliga a stabilirci nella verità, la verità di noi stessi, per cui siamo costretti ad aprire gli occhi sulla realtà del nostro peccato; verità su Gesù, che è veramente il Salvatore delle nostre anime non soltanto in modo generale e distante, ma a livello di un contatto immediato con ognuna delle sporcizie da cui siamo afflitti.
Bisogna dunque che io impari ad offrirgli, che impari ad affidargli senza riprendermela più, ogni impurità del mio cuore man mano che essa viene alla luce sia nel gioco delle circostanze, sia per un moto profondo del mio cuore che finalmente vuole ritrovare la sua libertà.
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Ogni volta che constato in me uno di quei legami che mi paralizzano, la cosa più importante non è di dichiarare guerra a questa schiavitù, poiché, nella maggior parte dei casi, arriverei soltanto a tagliare i rami, senza raggiungere le radici. La cosa più importante è di mettere a nudo le radici, di farle venire alla luce, per quanto brutte, per quanto disgustose siano a vedersi.
Si tratta precisamente di assumerle nella loro realtà e di poterle offrire al Salvatore con un gesto libero e cosciente. In tale prospettiva, l’invocazione classica «Gesù, figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore» non corre il rischio di essere una frase fatta. E’ la constatazione, rinnovata senza posa, che sta per avvenire un nuovo incontro tra il cuore purificante di Gesù e il mio cuore tutto macchiato.
E’ evidente che c’è in questo procedimento un elemento di pura psicologia umana, ma questo che cosa ha di sconvolgente? L’opera della grazia non si modella forse sulle strutture della natura? Nel nostro caso, questa diviene il supporto della Redenzione che viene a operare nel mio cuore la trasformazione, la cicatrizzazione delle ferite mediante l’incontro personale col Cristo risorto.
Progressivamente ci si abitua così a ritornare a lui senza posa, movendo specialmente da ciò che in noi è oscuro, tenebroso, inquietante. E’ una disposizione del cuore che all’inizio fa paura.
Ci hanno insegnato per troppo tempo che al Signore non si possono offrire che cose buone, cose belle. Tutto quello che non è atto di virtù non gli può essere offerto. Ma dir questo non è andar in senso contrario alla verità del Vangelo? Gesù stesso afferma che egli non è venuto per i sani, ma per i malati. Bisogna, pertanto, senza falsi pudori, imparare ad essere di fronte al medico celeste come autentici malati, che riconoscono lealmente ciò che in loro è falso, menzognero, contrario a Dio. Lui solo ci può guarire.
Il mio corpo,
luogo di incontro col Verbo
e tempio dello Spirito
Spesso ci si limita a considerare la «preghiera del cuore» come una espressione simbolica. Parlare del cuore sarebbe un modo immaginifico di evocare una realtà interiore, tutta spirituale.
Ma non è esatto. Tutti i moti del cuore, supporto alla nostra relazione con il Padre, sono moti legati al nostro essere sensibile, materiale. L’esperienza ci insegna, talvolta anche con rischio per la salute, che le emozioni veramente profonde toccano anche il nostro cuore fisico.
E’ pertanto impossibile entrare nella preghiera del cuore se non accettiamo di vivere in maniera cosciente e decisa a livello del nostro corpo.
Dio ci ha fatti così. Il racconto della Genesi ci mostra che Yahvè ha modellato l’uomo a partire dal fango della terra e afferma con grande sicurezza che questo essere materiale è veramente a sua immagine e somiglianza.
Il nostro corpo non è dunque un ostacolo alla nostra relazione con Dio. Al contrario, esso è l’opera stessa di Dio che ha costituito proprio noi come figli, chiamati a ricevere lui in eredità.
In tale prospettiva ci colloca anche tutta l’economia dell’incarnazione del Figlio di Dio. La Chiesa dei primi secoli si è battuta in modo accanito per difendere questa realtà ossia che Gesù è veramente un uomo. Nella carne lui è nato, nella carne è vissuto, ci ha istruito, ha sofferto, è morto e risuscitato.
Sono le opere umane del Verbo di Dio a darci la vita giorno dopo. La parola di Dio viene a noi con espressioni umane. Il nostro peccato non viene purificato in maniera simbolica, ma proprio con l’effusione del sangue che sgorga dal corpo di Gesù. Lui è veramente morto e resuscitato nella carne. Ed è proprio questa resurrezione materiale che salva sia le nostre anime che i nostri corpi.
E da ultimo, lo Spirito ci è stato donato soltanto a partire dalla resurrezione corporale del Figlio. E’ lui, il figlio di Maria, che ci manda lo Spirito dal seno del Padre. Non è il Verbo increato, ma il Verbo incarnato, dopo che ha condiviso la nostra esistenza ed è divenuto uno di noi.
***
Oni giorno noi facciamo esperienza di questa incarnazione attraverso i sacramenti, la liturgia, la vita di comunità, l’appartenenza al Corpo della Chiesa. Tutto questo è il fondamento diretto della realtà corporale di Cristo e la sua presenza nelle nostre vite.
Sappiamo accogliere Gesù così come egli viene a noi, cioè rivolgendosi a noi nel nostro corpo. Non affrettiamoci a sbarazzarci troppo presto di questo intermediario che spesso tendiamo a considerare un po’ come un’impurità nelle nostre relazioni con Dio. Non è vero, esso non è un’impurità, anzi è il luogo stesso del nostro incontro col nostro Abbà.
Ci sarebbe impossibile immaginare la vita di comunità se i nostri fratelli fossero degli esseri disincarnati, dei puri spiriti, da raggiungersi al di là degli involucri carnali. Allo stesso modo sarebbe rifiutare la realtà dell’amore di Dio il voler fare astrazione dalla realtà carnale, materiale, greve, del Figlio che viene a noi.
L’Eucaristia che noi celebriamo ogni giorno è veramente la celebrazione di un atto che ha comportato alcune trasformazioni profonde nel suo corpo e nel suo sangue, non perché li ha messi tra parentesi o superati, ma perché ha dato loro pieno senso; costituiscono una realtà materiale che è il Figlio di Dio.
Allo stesso modo il nostro corpo, con tutti i suoi gravami, i suoi limiti, le sue costrizioni è la nostra realtà, quello che siamo noi. E’ proprio il corpo mio che entra in contatto con quella realtà di cui Gesù ha detto: «Questo è il mio corpo».
E’ l’incontro di queste due realtà corporali che stabilisce il contatto di vita tra Dio e me. «Se non mangerete il mio corpo e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi... Come il Padre che è vivo mi ha mandato e io vivo per il Padre, ugualmente chi mangia di me vive per me» (Gv 6,57).
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La conseguenza di questo stato di cose è che non posso pregare senza pregare nel mio corpo. Quando mi rivolgo a Dio, non posso fare astrazione da questa mia realtà incarnata. Allora, quando debbo rivolgermi a Dio, certi gesti imposti e certe cogenti condizioni materiali non sono solo questione di disciplina religiosa. Ciò corrisponde all’unica realtà: Dio mi ama così come mi ha fatto. Perché voler essere più spirituale di lui?
Devo imparare, dunque, a vivere a livello del mio corpo e di tutte le costrizioni che questo mi impone. Cibo, sonno, svago, malattia, la limitatezza delle mie forze... tutto questo non costituisce ostacolo tra me e Dio; al contrario, costituisce la trama del tessuto che stabilisce una ininterrotta continuità tra il più intimo della realtà divina e il più concreto della mia esistenza quotidiana.
Chi di noi non ha fatto l’esperienza, talvolta terribilmente dolorosa, di sentirsi limitato, quasi prigioniero a causa, per esempio, di difficoltà di salute?
Se il nostro cuore è sincero non possiamo che dire questo: è Dio che viene a noi attraverso queste costrizioni dolorose. Esse sono proprio il punto di intersezione dell’amore di Dio nella nostra vita.
Il nostro cuore accoglie Dio proporzionatamente a quanto è attento a questa realtà che noi vorremmo poter considerare inferiore alla nostra vocazione spirituale. Facciamo attenzione a questa menzogna permanente che il Principe della menzogna cerca di istillare così nei nostri cuori. Non giochiamo ai puri spiriti, sappiamo essere molto di più, noi siamo i figli di Dio.
Lo Spirito stesso prega in me
Noi parliamo di preghiera. Ma sappiamo poi pregare? E specialmente so in che cosa consiste la vera preghiera? Onestamente devo confessare che io non lo so. Sento in me un richiamo profondo in una certa direzione, ma sono al buio.
Fortunatamente «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, poiché non sappiamo che cosa chiedere per pregare come si deve; ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti ineffabili e Colui che scruta i cuori sa quale è il desiderio dello Spirito e che la sua intercessione per i santi corrisponde ai piani di Dio» (Rm 8,26‑27).
La preghiera è nel mio cuore. Sgorga dal mio cuore. Tuttavia non è opera soltanto mia. Lo Spirito mi è stato donato; è stato diffuso nel mio cuore ed è lui che prega in me. Lo Spirito viene dal cuore di Dio che desidera accendere nel mio cuore la stessa fiamma che brucia nel suo.
Conosciamo tutti i passi di san Paolo che ci parlano di questo; ma non tendiamo forse a considerarli in maniera puramente teorica o, per esprimerci in modo più elegante, a vederli come verità di fede, cioè come cose di cui si parla con convinzione, ma che si vivono solo nella più profonda oscurità?
Questa presenza dello Spirito nel mio cuore parrebbe una cosa che si situi unicamente a livello di Dio e con essa possa eventualmente comunicare solo attraverso formule intellettuali. La realtà in se stessa, invece, sfuggirebbe totalmente alla mia esperienza. Ma è proprio questo che san Paolo vuol dire?
In reazione agli eccessi di questo atteggiamento, sarà forse allora da esigere che ogni esperienza cristiana autentica sia un’esperienza dello Spirito, alla maniera degli Apostoli quando hanno ricevuto le lingue di fuoco la mattina di Pentecoste? Questo non è mai stato l’insegnamento della Chiesa. Ma tra i due estremi si trova un atteggiamento vero, alla portata di ogni cristiano, secondo cui la presenza dello Spirito nella nostra vita è una realtà che ha un influsso diretto sulla nostra maniera di essere, sulle nostre relazioni d’amore coi fratelli, sulla nostra preghiera.
***
Se riprendiamo le diverse tappe di cui abbiamo parlato, constatiamo una progressione. Rinunciare a considerare il centro della nostra attività di preghiera a livello di testa, di rappresentazioni, di sistemi di pensiero. Entrare nel nostro cuore. Scoprirvi tutto un mondo disordinato di emozioni e di ferite che promanano da esso e che hanno bisogno di essere purificate. Abbiamo scoperto che c’è una possibilità effettiva di integrare tutte queste ferite del nostro cuore nel movimento di redenzione, facendole venire a galla, in modo da offrirle coscientemente all’azione redentrice di Gesù.
Così, senza dirlo, siamo giunti a parlare di un moto dello Spirito in noi. Se possiamo fare quello di cui dicevo è perché lo Spirito del Signore è all’opera dentro di noi e ci permette di discernere, nel reticolo complesso delle nostre emozioni, ciò che possiamo offrire, con pazienza e perseveranza, alla grazia di purificazione e di resurrezione del Salvatore.
Tutto ciò di cui abbiamo parlato è già un’opera dello Spirito. Continuiamo allora sulla stessa linea. Al di là di tutti questi moti disordinati del cuore, specialmente da quando l’opera di Gesù comincia a ristabilire l’ordine, riconosciamo dei moti meno sregolati, che progressivamente giungono perfino ad essere ben ordinati; così, senza che noi ci accorgiamo, il fondo del nostro cuore impara a mettersi in moto spontaneamente verso il Signore.
E’ soltanto dopo un po’, guardando a ciò che ci è capitato, che constatiamo che, di fatto, lo Spirito del Signore era all’opera discretamente, silenziosamente, in fondo al nostro cuore. Man mano che la pace si è stabilita nelle profondità, si mette in azione un certo dinamismo col quale dobbiamo imparare a collaborare.
E’ così che impariamo ad assumere tutti i movimenti del nostro cuore, quelli buoni, quelli meno buoni e anche quelli cattivi per orientarli verso Dio. Gli uni vengono direttamente dal Padre e ritornano a 1ui. Gli altri hanno bisogno di essere trasformati e assunti dalla morte e resurrezione di Gesù. Tutti richiedono di essere integrati coscientemente nel dinamismo dello Spirito diffuso nei nostri cuori.
Si tratta di imparare ad essere vigili ai moti del cuore per unirli volontariamente e coscientemente all’azione dello Spirito Santo che è in noi.
Tutto ciò non implica alcuna grazia mistica. Si tratta solamente di prendere coscienza, con dolcezza e con semplicità, che il nostro cuore è vivo e che questa vita noi possiamo offrirla allo Spirito Santo perché egli la coinvolga nel suo movimento verso il Padre.
***
San Paolo dice che lo Spirito prega in noi con gemiti ineffabili. Quest’ultima parola merita che vi facciamo attenzione. L’azione normale dello Spirito non è darci idee chiare, né darci lumi, né darci alcunché. L’azione dello Spirito è portarci verso il Padre.
«Tutti quelli che lo Spirito di Dio anima sono figli di Dio. Così voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per ricadere nella paura; voi avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa esclamare: Abbà! Padre! Lo Spirito stesso si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio» (Rm 8,14‑15).
Lo Spirito è un testimone; è un dinamismo che ci trascina. Soprattutto non dobbiamo scrutarlo, identificarlo, afferrarlo per controllarlo. Questo sarebbe cacciarlo dal nostro cuore; sarebbe estinguerlo. Lasciamogli tutta la sua libertà di pregare in noi, col suo modo velato, nascosto e misterioso, che noi valutiamo poi dai frutti. Nella misura con cui constateremo che impariamo a pregare; che, senza sapere perché, siamo diventati capaci di domandare a Dio e di essere esauditi; tutto questo è un segno che, a dispetto di tutte le nostre evidenti debolezze, lo Spirito prega in noi.
La mia debolezza,
luogo di scoperta e di incontro
con la tenerezza del Padre
Riprendiamo ora certi orientamenti fondamentali di ciò che abbiamo detto. Riprendiamoli e unifichiamoli, poiché rappresentano un atteggiamento fondamentale della preghiera del cuore.
Il riflesso spontaneo di ogni essere umano è d’aver paura delle sue debolezze. A partire dal momento in cui constatiamo che su un punto o su un altro non possiamo contare sulle nostre forze, tende a stabilirsi in noi un’inquietudine che rischia talvolta di divenire angoscia. Invece tutto quello che abbiamo detto fin qui ci conduce a lasciar perdere le nostre sicurezze personali e a far apparire ciò che abbiamo chiamato la nostra vulnerabilità, i nostri disordini nascosti, i limiti della nostra condizione di creatura, ecc… Ogni volta ci siamo detti: non c’è che una soluzione, ossia riconoscere la realtà di quello che siamo e darla al Signore sì che se ne faccia carico.
Ricordiamoci l’episodio della tempesta sedata. Gli Apostoli sono spaventati dal cattivo tempo che scuote la loro barca e vanno a svegliare Gesù. Lui si volge verso di loro e domanda, stupito: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» (Mt 8,26); poi, con un gesto, placa le onde.
Perché allora aver paura delle mie debolezze? Esse ci sono. Per tanto tempo ho rifiutato di guardarle in faccia. Un poco alla volta mi sono messo ad ammansirle. Ora sono proprio costretto ad ammettere che fanno parte di me. Non sono un qualcosa di esterno di cui un giorno potrei arrivare a sbarazzarmi definitivamente.
Ben di più: se fossi incline a dimenticarle il Padre si incaricherebbe presto di ricordarmele. Permetterebbe quella tal colpa davanti alla quale non potrei più negare la mia realtà di peccatore. Farebbe che la salute mi giochi dei cattivi scherzi per cui mi dovrei riconoscere vinto e consegnarmi senza resistenze all’amore del Padre. Mi farebbe toccare con mano, al di là di ogni dubbio, quanto le mie facoltà siano limitate.
Ma la cosa nuova sta nel fatto che queste debolezze, invece di rappresentare un pericolo, costituiscono per me una possibilità di entrare in contatto con Dio.
Ed è questo il motivo per cui un po’ alla volta devo lasciarmi ammansire da loro. Non più considerarle come il lato inquietante della mia personalità, ma come una dimensione voluta o permessa dal Padre; non la peggiore delle ipotesi, ma una struttura fondamentale dell’ordine della vita divina così come mi è stata data.
E quando mi dovessi trovare improvvisamente davanti a una fragilità che non avevo ancora scoperto in me, il mio primo riflesso non dovrà più essere di scoraggiarmi, ma di domandarmi in qual punto vi è nascosto il Padre.
***
Come allora non porsi una domanda? Questa trasformazione della debolezza, che ha tutte le apparenze di uno scacco, in una vittoria dell’amore è una specie di ricupero con cui Dio trasforma il male in bene o, al contrario, non siamo di fronte a una dimensione fondamentale dell’ordine divino?
Ci sarebbe molto da dire su questo argomento. Accontentiamoci di constatare semplicemente che, anche nell’ordine naturale, ogni amore autentico è una vittoria della debolezza.
Amare non è dominare, possedere, imporsi a colui che si ama. Amare vuol dire accogliere senza premunirsi contro l’altro che viene incontro; a nostra volta abbiamo la certezza di essere pienamente accolti dal partner, senza essere giudicati, condannati o confrontati.
Non ci sono più prove di forza tra due esseri che si amano. C’è una specie di intesa interiore reciproca grazie alla quale ognuno sa che non ha da temere alcun male da parte dell’altro.
Questa esperienza, ancorché imperfetta, è già ben persuasiva. Ma non è che un riflesso della realtà divina. A partire dal momento in cui cominciamo a credere veramente nel nostro cuore alla tenerezza infinita del Padre, ci sentiamo in qualche modo obbligati ad accondiscendere sempre più a una accettazione positiva e gioiosa di un non-avere, di un non-sapere, di un non-potere. E non si tratta di alcuna malsana forma di umiliazione. Stiamo semplicemente entrando nel mondo dell’amore e della fiducia.
***
Così, senza quasi rendercene conto, entriamo in comunione con la vita divina. Le relazioni del Padre e del Figlio nello Spirito, a un livello che sorpassa del tutto la nostra possibilità di capire, sono una forma perfetta di questa debolezza pienamente assunta nella comunione.
In un modo più vicino a noi, questa tenerezza intima del tre volte Santo si manifesta nella relazione del Figlio incarnato in rapporto a suo Padre. Come non essere colpiti dalla serenità e dall’infinita sicurezza con cui Gesù dichiara tranquillamente di non aver niente di proprio, di non poter fare nulla da solo, se non quello che vede fare dal Padre? Quale uomo accetterebbe una simile spogliazione?
Ma non è proprio in questa direzione che siamo obbligati ad impegnarci se vogliamo realmente vivere nelle profondità del nostro cuore, quale il Padre l’ha creato e che trasfigura con la morte e la resurrezione di suo Figlio?
Maria ci orienta nella stessa direzione. Il Magnificat è in un unico slancio un canto di trionfo e il riconoscimento di una spogliazione totale. Le due cose vanno di pari passo. Fin dall’inizio lei ha riconosciuto e accettato la sua totale debolezza; si trova così a essere in grado di accogliere il Figlio che il Padre le dona. Diviene Madre di Dio perché è lei la più vicina alla povertà di Dio.
Entrare nel silenzio
Se si segue il cammino di cui parlo, è normale che progressivamente l’attività intellettuale si plachi durante il tempo della preghiera; e, man mano che le emozioni del cuore sono canalizzate, anche ogni sorta di distrazioni e di divagazione perde la sua ragion d’essere. Il che significa che la preghiera del cuore, con un moto quasi spontaneo, ci orienta verso il silenzio.
Certi giorni questa esperienza è forte e avviene quasi necessariamente che ci si trovi esposti, se così si può dire, alla «tentazione del silenzio».
Il silenzio è un bene che esercita una seduzione su tutti i cuori non appena ne hanno fatto una certa esperienza sapida. Ma ci sono molte forme di silenzio. Non tutte sono buone. La maggior parte di esse è una deformazione piuttosto che un’autentica preghiera di silenzio.
La prima tentazione è di rendere il silenzio un agire, anche se si è intimamente persuasi del contrario. Col pretesto che l’intelligenza non lavora e che il cuore sembra in riposo ci si immagina d’aver raggiunto il vero silenzio dell’essere. In realtà questo silenzio, anche se ha una indiscutibile autenticità, è il risultato di uno sforzo della volontà e questo, alla fin fine, è il più sottile, ma anche il più pernicioso degli agire. Invece di avere i1 nostro cuore in stato di disponibilità, esso ci tiene in uno stato in cui ci imponiamo un atteggiamento artificiale e dove in fin dei conti, noi non offriamo accoglienza al Signore perché ci basiamo sulle nostre forze. Nel caso di persone con una forte volontà questo può rappresentare un più grande ostacolo a una vera disponibilità al Signore. Materialmente parlando, il silenzio è grande, ma è un silenzio ripiegato su se stesso, appoggiato su se stesso.
Un’altra tentazione consiste nel voler fare del silenzio una meta. Ci si immagina che la ragione d’essere della preghiera del cuore, e anche di ogni contemplazione, sia il silenzio. Ci si ferma a una realtà materiale. Non ci si ferma alla persona del Padre o a quella del Figlio o dello Spirito.
Quel che conta è il mio stato e non la relazione reale d’amore e di disponibilità che ho verso Dio. Non è più una preghiera, è una contemplazione di me stesso.
Una tentazione analoga alla precedente consiste nel fare del silenzio una realtà in se stessa. Il silenzio basta. Quando i rumori dei sensi, dell’intelletto, dell’immaginazione sono placati, si stabilisce in noi una autentica soddisfazione... e questo basta. Non si cerca nulla di più. C’è un rifiuto a cercare altro. Tutto ciò che di nuovo introducesse un’idea qualunque, anche sul Signore, anche se venisse da lui, pare un ostacolo. La sola realtà divina in quel momento è il silenzio. Là non c’è preghiera. Non c’è altra cosa che la costruzione di un idolo che si chiama silenzio.
***
Ciò non toglie che un silenzio autentico sia una realtà molto importante, alla quale bisogna attribuire grande valore. Ma se si vuole entrare in un silenzio autentico, bisogna dal profondo del cuore rinunciare al silenzio. Non bisogna avvilirlo, sottovalutarlo, rinunciare a cercarlo; ma evitiamo di farne una meta.
Soprattutto bisogna evitare di credere che il vero silenzio sia il risultato della mia intraprendenza. Non devo costruire il silenzio di sana pianta, come una cosa che si fabbrica. Ci si immagina troppo spesso che il silenzio sia unicamente stabilire la pace nelle facoltà intellettive, di immaginazione e di sensibilità. Questo è un aspetto del silenzio, ma non è tutto il silenzio.
Ci vuole ancora che il nostro cuore profondo, in quanto si identifica con la volontà, sia lui stesso in silenzio, che sia placato ogni desiderio all’infuori di quello di fare la volontà del Padre. Ossia che la mia volontà, invece di essere tesa per imporsi al resto del mio essere umano, sia essa stessa pura disponibilità, ascolto e accoglienza.
Inizia allora ad esistere la possibilità di entrare in un autentico silenzio di tutto l’essere di fronte a Dio, un silenzio nato dalla conformità reale del mio essere profondo con il Padre di cui è l’immagine e la somiglianza.
***
Dio solo basta; tutto il resto è nulla. Il silenzio autentico è la manifestazione di questa realtà fondamentale di ogni preghiera. C’è veramente silenzio nel cuore solo allorquando ne sono sparite tutte le impurità che si opponevano al regno del Padre.
Il silenzio vero si stabilisce solo in un cuore puro, in un cuore divenuto simile al cuore di Dio. E’ questa la ragione per cui un cuore puro può conservare un silenzio completo anche quando è immerso in ogni sorta di attività, perché non c’è più dissonanza tra lui e Dio. Anche se la sua intelligenza e la sua sensibilità sono attive per essere conformi alla volontà di Dio, il silenzio autentico continua a regnare in questo cuore.
«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio».


La Preghiera Teologale


Incontrare Dio o trovare se stesso?
Qualche anno fa ho cercato di parlarti della preghiera del cuore. Era soltanto un’introduzione ad un soggetto vastissimo, troppo vasto forse, perché è molto semplice e noi abbiamo sempre difficoltà ad identificare e a formulare le cose semplici. Oggi vorrei parlarti della preghiera teologale, che in realtà è un altro modo d’avvicinare la preghiera del cuore.
Che significa questa formula: preghiera teologale? Essa vuole evocare un orientamento del cuore che si appoggia sulle tre virtù teologali: la fede, la speranza e l’amore. Suppongo che ciò rappresenti per te qualcosa di abbastanza preciso: sono, in sintesi, le capacità che Dio ci dona, per grazia, di poterlo raggiungere, Lui direttamente. Mentre le altre virtù, le virtù morali, riguardano i mezzi che ci aiutano a camminare verso Dio.
Ritroviamo qui un orientamento essenziale della preghiera del cuore. Essa mira direttamente al cuore di Dio. E’ il mio cuore profondo che è alla ricerca di un incontro diretto con Dio. Non soltanto un incontro affettivo, sotto forma di una specie di esperienza della tenerezza divina che si fa percepire ai miei più profondi e segreti bisogni di gustare ad un livello umano la bontà di Dio. Non tanto questo, ma una possibilità che mi è offerta dal Padre: è Lui che viene a me e, al di là di tutti i mezzi o degli intermediari, vi è incontro perché Egli lo vuole e me ne dona la possibilità.
Ma a questo punto mi chiedo se non avrai voglia di interrompermi subito ponendomi la domanda: «Perché insistere tanto su quel che sembra un’evidenza? Pregare è cercar Dio, è tendere all’incontro più immediato possibile tra Lui e me nell’amore».
Mi pare, appunto, che troppo spesso, anziché pregare in questo modo, sprechiamo il nostro tempo e le nostre energie in attività alle quali, forse, restano soltanto le apparenze della preghiera.
Non è più Dio, ma è l’io di ognuno che diviene il centro d’interesse del suo agire. Ne facciamo tutti l’esperienza, ma forse senza trarne sempre le conseguenze che ciò dovrebbe comportare. Permettimi, a titolo illustrativo, di raccontarti una storia vissuta.
Nell’evoluzione della mia preghiera mi è capitata un’avventura. So che parecchi altri hanno fatto un’esperienza analoga, ma penso che sia utile dirne qualcosa talmente essa mi ha colpito ed ha orientato poi tutto il seguito della mia esistenza.
Ero allora adolescente; un giorno, apparentemente per caso, mi capita in mano un volume delle opere di Teresa d’Avila e, senza pensarci, mi metto a leggerlo. Non so quanto tempo durò la lettura, ma sono certo che in seguito, per anni, non ho più letto una pagina della grande santa Teresa. Ma questa lettura ha trasformato la mia esistenza. Essa aveva in qualche modo fatto zampillare istantaneamente una sorgente nel fondo del mio cuore, una sorgente di cui avrei avuto difficoltà a descrivere il contenuto. Ma della quale sapevo tuttavia che stabiliva tra il mio cuore e Dio un legame infinitamente profondo e vero.
Questa sorgente era sufficientemente abbondante per invadere tutta la mia vita ed è essa che mi ha condotto nella mia cella di certosino dove poi rispondeva a tutti i miei bisogni, sia quelli della solitudine che quelli della liturgia. Potevo, senza nemmeno pormi domande, sempre ritornare alla mia sorgente senza mai esserne deluso.
Tuttavia un giorno si profilò, poi s’affermò un dubbio. Questa sorgente: cosa mi dava? Rispondeva davvero al desiderio ultimo del mio cuore? In altre parole, era Dio che incontravo in essa? Oppure - e qui la domanda mi faceva soffrire - in fin dei conti non era me stesso che trovavo, anche se attraverso ciò mi giungeva il riflesso di Dio che mi seduceva da anni? La cosa divenne sempre più chiara: questa sorgente non era Dio mentre era di Lui solo che avevo sete.
Dovevo dunque abbandonare la mia cara sorgente; se fosse stato possibile l’avrei prosciugata, l’avrei ostruita perché la sentivo ormai come un ostacolo: essa prendeva nel mio cuore il posto di Dio. E fu allora che scoprii la necessità di trovare il mezzo, la disposizione del cuore con la quale avrei aperto la porta direttamente a Colui che invano vi bussava da così tanto tempo perché nella mia preghiera mi occupavo anzitutto di me stesso.
Mi sono soffermato su questo episodio per fare un esempio di quel che mi pare essere uno degli inevitabili tranelli della solitudine; col pretesto di cercar Dio si finisce, in modo molto pio, per trovare se stessi e farne la propria felicità. Come sfuggire a questo trabocchetto?
Ciò che frappone ostacoli alla preghiera
Mi balza spesso agli occhi un’altra difficoltà, sia nella mia vita personale che nell’esistenza religiosa di quelli che mi circondano. Anche se le relazioni che abbiamo con chi ci è vicino sono cordiali, sarebbe difficile affermare che siamo sempre pronti a stabilire con loro dei veri rapporti di intimità.
Se è così con il fratello che vedo, come immaginare che lo stesso fenomeno non si verifichi anche con Dio che non vedo? Se vi è davvero un campo in cui il sacramento del fratello è efficace, questo campo è quello dell’incontro autentico con il Signore diletto.
Il vantaggio del sacramento del fratello è che si situa ad un livello in cui ci è difficile negare un certo numero di evidenze, che sfuggono facilmente quando nel nostro cuore cerchiamo di preparare le vie dell’Altissimo.
Che mi dice, dunque, l’esperienza dell’incontro con il mio fratello? Sono abbastanza accogliente per lasciarlo penetrare nel mio profondo? Oppure, non sono bardato di difese, di corazze, di rifiuti? Queste fortezze interiori fanno parte della mia fisionomia segreta; esse fanno quindi necessariamente la loro parte nella preghiera e frappongono ostacoli all’approccio del Signore in cer­ca del cammino che conduce al santuario intimo del mio cuore.
Se guardo ora al tentativo di andare incontro al mio fratello, nel senso opposto, cioè quando sono io che mi sforzo di andare verso di lui, riesco meglio? Non credo. Penso, ad esempio, a tutte le forme di aggressività che istintivamente metto in atto di fronte ad ogni altro: troppo spesso adotto un atteggiamento estraneo al rispetto, all’attenzione delicata ed amante che egli avrebbe il diritto di attendersi da me. Forse è ancora una forma di paura di lui o di me, ma il fatto si è che questi riflessi entrano in gioco nelle mie relazioni con il mio fratello... e con il Signore.
Chiedo scusa di dilungarmi in queste considerazioni che forse ti parranno fastidiose o scoraggianti, ma Gesù stesso ci dà questo consiglio: «Prima di mettersi a costruire una torre bisogna anzitutto sedersi e fare i propri conti per timore di impegnarsi in un’impresa che supera le nostre forze ed essere costretti a lasciare l’opera a metà» (cfr. Lc 14.28). Nel caso presente è la stessa cosa. Non sarebbe un brutto scherzo parlare di costruire la torre dell’incontro intimo con Dio senza nemmeno preoccuparsi di sapere se abbiamo un terreno libero per porvi le fondamenta? E’ inutile mirare ad un incontro vero di me stesso con il Padre, nella libertà dei figli di Dio se in partenza non prendo coscienza che sono saldamente vincolato in molte maniere e che liberarmene rappresenterà un compito considerevole che, in fin dei conti, soltanto il Signore potrà pienamente realizzare.
Offrire la nostra povertà
Ho davvero l’impressione di non essere per Dio un partner molto attraente. Ma è questa la risposta che Egli attende da me? Dio ha inviato suo figlio per incontrarmi, me, come sono, nella realtà di quel che vivo oggi. Fin da questo punto bisogna cercare di avere una visuale di fede sulla situazione.
Il progetto di Dio è quello di en­trare in comunione con degli esseri senza macchia, senza difetto, senza debolezza? Oppure non ci dice pro­prio il contrario? Il Padre ha inviato suo Figlio per prenderci sulle sue spalle, perduti e feriti come siamo, e ricondurci all’ovile dove vi è una gioia immensa nel vedere i peccatori acco­gliere Gesù nel loro cuore.
Ci avviciniamo così, poco a po­co, a quel che costituisce la preghiera teologale: l’incontro nel mio essere reale, di oggi, con Dio che viene a me, non per respingermi, né per condan­narmi, ma per far di me suo figlio, na­to da lui nella fede: «A coloro che cre­dono nel suo Nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1. 12).
Il tre volte santo non pone come condizione al nostro incontro che io sia perfetto, che io abbia da offrirgli nel mio passato delle opere di valore, né che io sia capace nel futuro di render­gli dei servizi. Tutto questo non lo inte­ressa. Non pone alcuna condizione.
L’unico elemento indispensabi­le perché la nascita possa avvenire è che io abbia fede nel suo amore e che desideri sinceramente essere trasfor­mato. Se posso offrirgli una traccia di questa fede, tutto è possibile!
E’ semplice. E’infinitamente semplice. Ed è forse questo che rende la cosa così difficile per me. E’ un po’ come per Naaman il siro. Era disposto a sottomettersi a tutti i tipi di esigenze difficili e non accettava nemmeno l’idea che Dio potesse guarirlo se si fosse bagnato semplicemente nel Gior­dano fidandosi della parola di Eliseo.
Mi piacerebbe molto di più dire a me stesso che la qualità del mio in­contro con Dio è opera mia. Sarebbero le mie qualità, le mie virtù a far piacere a Dio e l’attirerebbero nel mio cuore. Sarebbe grazie ai miei sforzi che diverrei santo ai miei occhi e agli occhi dell’Altissimo.
Non è questo il programma che ci sedurrebbe, anche se costoso ed esi­gente? Invece il programma proposto da Dio ci sconcerta a tal punto che esitiamo indefinitamente, prima di lan­ciarci e, se incominciamo con un pas­so timido, abbiamo l’impressione di mancare di serietà nel nostro deside­rio di piacere a Dio.
Eppure, non è questo il senso della prima delle Beatitudini? Beati i poveri in spirito, perché di essi è il re­gno dei cieli (Mt 5.3). Quale Regno, se non quello che chiediamo mille e mille volte nel Padre Nostro? Padre, sia santificato il tuo Nome; venga il tuo regno. Il Regno che ci è proposto è di poter glorificare il Nome del Padre; e di potergli dire che è davvero nostro Padre perché ci genera come suoi fi­gli. Ma bisogna essere poveri. E noi abbiamo paura.
Noi tutti siamo esposti alla ten­tazione del giovane che si ritirò tutto triste, perché aveva grandi ricchezze. Ed anche se tutte le nostre ricchezze sono in moneta falsa, ci rassicura l’averle, perché abbiamo paura di es­sere poveri in spirito, radicalmente nel più profondo di noi stessi.
Ecco, forse, l’ostacolo princi­pale che ci dissuade dall’impegnarci sul serio nella preghiera del cuore. E’ al disopra delle nostre forze, pare, presentarci davanti a Dio senza avere da offrirgli null’altro che la nostra povertà, una povertà della quale abbia­mo paura: quella delle nostre ferite, quella della nostra radicale indigenza spirituale, quella della nostra incapa­cità a varcare, con le sole nostre for­ze, la distanza che ci separa dalla san­tità di Dio.
La Fede, apertura verso Dio
Ecco, dunque, il cammino di cui voglio parlarti, perché mi pare corrispondere a quel che il Signore ci chiede: tendere verso un incontro tra lui, tal quale Egli è realmente, e me, tal quale sono in piena verità.
Prima domanda: come raggiun­gere Dio tal quale è? Quando si parla di lui, è spesso più facile rispondere in modo negativo che positivo. E’ più fa­cile dire quel che non è Dio che dire ciò che egli è. Semplificando un po’ le cose, ammettiamo persino che, in realtà, sia impossibile sapere davvero chi egli è.
Con le nostre facoltà naturali non disponiamo di alcun mezzo per entrare direttamente in contatto con lui. In tal caso la causa sarebbe persa in anticipo? No, perché l’Onnipoten­te, da sempre, desidera incontrarci, impegnandosi lui stesso completamen­te in questa ricerca.
Io non posso raggiungerlo con i miei soli mezzi. Ma lui può, quando lo vuole, superare l’infinita distanza che ci separa. «La vera luce illumina ogni uomo» (Gv 1.9) dice san Giovanni... In fondo al cuore di ogni uomo brilla questa fiamma che gli chiede: «tu mi vuoi?». E la risposta in generale è quella di san Giovanni: «Egli è venuto tra i suoi (da te, da me), ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1.11). Allora il Padre della vigna ha inviato i suoi servi, i profeti, che i vignaioli hanno assassinato. Infine ha inviato il proprio Figlio. Ed è lui che, ancor oggi, bussa alla porta del tuo cuore.
Gesù, se oso esprimermi cosi, non è che questo: Colui che è stato in­viato dal Padre. E’ una delle idee principali che dominano la preghiera sacerdotale (Gv 17): «Hanno creduto che tu mi hai mandato». E, dal mo­mento in cui Gesù ha fatto accettare ai suoi discepoli la certezza che egli è l’inviato del Padre, egli ha portato a termine la sua missione. Ritorna pres­so il Padre. Ormai tra noi e lui s’è sta­bilita un’apertura permanente.
Quale è questa apertura permanente che penetra a tal punto i cieli e ci permette di raggiungere questo Dio inaccessibile? E’ la fede. Essa non vede il volto del Padre, ma nel volto di Gesù, la fede dei discepoli ha visto il Padre. E, in maniera analoga, nella parola degli apostoli che ci giunge an­cor oggi, ci arriva la testimonianza di Gesù: «Non prego soltanto per essi, miei discepoli immediati, ma per co­loro che, per la loro parola, crede­ranno in me. Che essi siano uno, i miei apostoli e coloro che crederanno per essi, come il Padre e io siamo uno» (cf. Gv 17.20‑21).
La nostra fede è il frutto della preghiera di Gesù. La fede è questa convinzione del cuore, la cui radice è in Dio stesso; è questa persuasione, che Dio viene a noi, adesso, attraverso suo figlio, attraverso la sua parola, la sua Chiesa, i suoi sacramenti, nello Spirito che ci è definitivamente donato.
Qui sta il punto decisivo: solo la fede ci permette di accogliere davvero Dio stesso che viene a noi. Essa non illu­mina la nostra intelligenza su di lui: rimaniamo nelle tenebre, ma vi siamo in tutta sicurezza, perché abbiamo scoper­to un qualcosa che è al di là delle luci dell’intelligenza: l’Amore del Padre che essa non saprebbe cogliere, ma di cui scopre la verità in questa stabilità che le dà la fede.
Nella fede che trasforma il tuo cuore, tu puoi dunque accogliere Dio stesso presente in te con il suo Spirito: «L’amore di Dio è diffuso nel nostro cuore per mezzo dello Spirito che Dio ci ha dato» (Rm 5.5). Hai qui il mezzo vero, efficace per raggiungere Dio, nella persona del Padre, quella del Fi­glio e dello Spirito, nella loro tenerez­za, nella loro fedeltà, nella loro mise­ricordia per te e per ogni creatura.
Come nasce la fede,
nel nostro cuore?
Forse hai presentito finora una specie di esitazione da parte mia ri­guardo al modo in cui la fede si impianta e cresce nel nostro cuore. E’ vero, si tratta di un punto delicato e non vorrei affogarlo in lunghe spiega­zioni teoriche. Per finire ho detto a me stesso che la cosa più sicura era semplicemente quella di vedere Gesù all’opera nel Vangelo; i racconti di Pasqua ce ne danno, appunto, due esempi notevoli.
Maria Maddalena e i discepoli di Emmaus, in contesti apparente­mente molto differenti, sono giunti al­la fede in Gesù risuscitato per itinera­ri spirituali talmente vicini gli uni agli altri che mi sembrano poter essere ac­colti come una descrizione simbolica dell’itinerario verso la fede totale che tutti siamo destinati a percorrere se vogliamo essere fedeli alla chiamata che ci ha condotti nel deserto.
Ecco i discepoli mentre cammi­nano mestamente sulla strada che li conduce, quella sera, da Gerusalemme a Emmaus. Essi parlano, discutono pur continuando a camminare, ma il loro cuore è triste, immerso nelle tenebre, oppresso dallo scoraggiamento. La loro vita era stata illuminata fino a quel momento dalla predicazione di Gesù, ma costui è morto, proprio morto. Da che parte si volgeranno ora?
Ed ecco che Gesù capita di nuovo al loro fianco. Non lo riconoscono, ma senza rumore, sin dalle prime parole, egli prende di nuovo posto nel loro cuore che una nuova fiamma sta rendendo tutto ardente. Poi, improvvisamente, nel momento in cui il misterioso estraneo si mette a spezzare il pane, guizza il lampo. E’ lui! E già egli è scomparso, ma nel loro cuore brilla la fede, una fede che mai più si spegnerà.
Qualcosa di analogo capita anche a Maria Maddalena. Desolata di non poter almeno recuperare il corpo del Crocifisso, si lamenta davanti all’entrata del sepolcro. Anche lei sembra aver perso la fede autentica in Gesù vivente; una sola preoccupazione l’assilla: hanno rubato il suo corpo; se potrà ritrovarlo andrà a prenderlo poiché, ai suoi occhi, è tutto quel che resta del Signore tanto amato.
Ad un tratto egli è lì, ma lei non lo riconosce. Avrà almeno cercato di guardarlo bene in volto, persa com’era nei suoi ricordi e nel suo progetto di ritrovare il corpo? Sarà stata in grado di supporre che questo estraneo poteva essere lui? Ma basta una parola: «Maria» perché si sprigioni la luce. Ha un bel respingerla, mandarla lontano da sé, nulla potrà più strap­pare la certezza che si è impossessata del cuore della Maddalena.
E’ a questo punto che il Vangelo di cui abbiamo parlato ci rivela il segreto che permette alla fede di nascere nel nostro cuore. Essa ci è data da Ge­sù stesso che di sua iniziativa viene quasi di nascosto, senza farsi ricono­scere, a tenerci compagnia, ad accen­dere un fuoco in noi, sino all’istante in cui scopriamo che è proprio Lui che è qui. Egli si è rivelato sotto una nuo­va luce. Al di là della morte, egli è qui, ben vivo, risorto nel nostro cuore.
Abbiamo appena avuto il tem­po di renderci conto di questa mera­viglia che egli è già scomparso, ma rimane la luce che egli ha acceso nel no­stro cuore, la luce della fede, puro dono gratuito sgorgato dalla sua pre­senza misteriosa e capace di affronta­re la prova del tempo, delle tenebre, delle contraddizioni.
La fede è questa luce scaturita dal Risorto che brilla in noi e illumina tutto quel che tocchiamo per coinvolgerlo nel mistero della risurrezione al di là delle tenebre mortali delle quali, prima, eravamo prigionieri.
Tuttavia la fede non pervade mai d’un sol tratto tutte le profondità della nostra anima. La fede, in qualche modo, penetra per ondate succes­sive nelle zone rimaste ancora nelle te­nebre e ogni volta è più o meno lo stes­so scenario che si svolge. Un giorno scopriamo che la nostra vita di pre­ghiera sembra impegnata su una via senza uscita. Sì: i mezzi di cui disponiamo sono insufficienti per andare più in là; lo scoraggiamento, l’incertezza ci invadono. Soltanto Gesù potrà tirarci fuori da questo buco. Dal momento in cui questa certezza comincia a spuntare nel nostro cuore è il segno che egli è venuto a raggiungerci sulla strada e «che ci interpreta in tut­te le Scritture quel che si riferisce a lui» (Lc 24.27).
Misteriosamente il Signore in­stilla la fede nel nostro cuore; quando egli sparisce è perché le tenebre hanno lasciato il posto alla pace, ad una luce discreta ma forte, che non nasce dalla logica dei nostri ragionamenti, ma che è un dono gratuito dello Spiri­to, più solido e più puro di tutte le sicurezze umane.
Come cresce la fede
nel nostro cuore?
La luce della fede, dunque, ti fa sin da oggi entrare nella vita eterna e soltanto essa può farlo. Tutto il resto rimane al di qua di ciò che Dio ci offre dal giorno in cui Gesù è risorto. Tutte le altre luci dell’intelligenza, tutte le altre esperienze spirituali sulle quali ci piacerebbe talvolta appoggiarci, so­no rispettabili, degne di stima, ma, in fin dei conti, sono sorgente di vita soltanto nella misura in cui sono portatrici di fede.
La fede ci è stata data da Dio sin dal Battesimo, ma è un dono che egli moltiplica in noi nella misura del no­stro desiderio di riceverlo, nella misu­ra della nostra volontà di farlo frutti­ficare. Se lasciamo la nostra fede inat­tiva per ignoranza o per negligenza, essa si arrugginisce, si sclerotizza mentre noi sperperiamo le nostre for­ze in esercizi spirituali che ci piaccio­no di più, ma senza portarci frutto.
Se vuoi vivere la fede, è neces­sario che tu sviluppi quella che lo Spi­rito Santo ha già posto in te: Dio s’aspetta che tu gli chieda, con insi­stenza e con perseveranza, un aumen­to della tua fede. E’ una preghiera di cui puoi essere certo che Dio vuol sempre esaudire più di ogni altra pre­ghiera, perché desidera infinitamente più di te vederti progredire sulle stra­de della vita eterna.
Questo non impedisce che, so­prattutto agli inizi, tu abbia l’impres­sione che il Signore non si affretti a far progredire la tua fede. Questo prova che la tua era ancora ben debo­le e che bisogna, anzitutto, darle delle radici nascoste prima che lo stelo in­cominci a svilupparsi. Non ti scoraggiare, dunque, se le tue preghiere sembrano vane; certamente non lo so­no. Metti in opera la fede di cui sei già portatore credendo fermamente che il Padre tuo dei cieli ti ha già esaudito.
Allora potrai incominciare a vi­vere man mano sempre più nella fede. Nella liturgia, durante i tempi di ora­zione, nel lavoro, il tuo cuore si met­terà più facilmente a contatto col Signore se tu ricevi da lui l’amore oscuro, spesso poco gratificante, ma quanto divino, l’amore che egli ti do­na se gli offri la tua fede e non delle belle idee o i giochi della tua sensibi­lità.
Non ho trucchi da insegnarti. Bisogna chiedere a Dio, nella fede vi­va, che sia lui stesso a insegnarti a pregare. E’ lui che occuperà il tuo cuore, la tua attenzione, anche se tu non hai una immagine precisa sulla quale fissarti. E’ vivo il Signore alla presenza del quale tu stai.
La speranza,
fiducia nell’Amore di Dio
Se permetti alla fede di svilupparsi nel tuo cuore, in modo del tutto naturale sarai condotto a scoprire all’opera in te la speranza. Essa era già attiva sin dall’inizio, nella misura in cui la tua fede si fonda sulla certez­za che sei amato dal Signore. Questa certezza è già un aspetto della speran­za, a partire dal momento in cui non si tratta più soltanto di entrare nella realtà del mondo divino, ma di perce­pire chiaramente come, anche tu, tu esisti per Dio. Tu hai valore ai suoi oc­chi. Egli è pronto a donare universi interi per te solo.
E’ proprio qui il punto di par­tenza della speranza: sapere che Dio ti ama, proprio te, in modo unico. Nessuno potrà prendere il tuo posto nel suo cuore. Ha dato suo Figlio per te e te lo dona ancora ogni giorno nella celebrazione eucaristica. Forte di questa certezza, puoi chiedere al Padre tuo, senza posa e senza esitare, dal momento che tu preghi nel no­me di Gesù. Sarai certamente ascol­tato e i frutti della tua preghiera sa­ranno sempre migliori di quel che ti aspettavi.
Vi è un altro aspetto della spe­ranza che mette spesso alla prova la nostra povera insicurezza umana. Dal momento in cui so che Dio mi ama in modo unico e, di conseguenza, si è in­caricato lui stesso della mia esistenza, tutto è differente. Mi fa intraprendere itinerari sconosciuti nei quali non dipendo più che dalla sua luce, dalla sua forza, dal suo amore. Mi chiede allora, nel senso più banale della pa­rola, di fidarmi di lui, spesso nell’ oscurità, nell’incertezza. ma in ulti­mo, nella pace... se non fuggo dalla sua mano e dal suo cuore.
«Beati i pacifici, perché saran­no chiamati fig1i di Dio». Al di là di tutte le inquietudini che vengono da te stesso o dagli altri, il Padre ti chiede di aiutarlo a far regnare la pace nel tuo cuore per l’unica ragione ‑ più di tutte le ragioni umane ‑ che ti ama e che incessantemente, veglia su di te. Quante tempeste vuol così quietare nel tuo cuore, se tu ascolti il suo invito a fidarti di lui! E, allora, sarai chia­mato figlio di Dio... e lo sarai real­mente (cf. Gv 3.1).
Questa speranza è valida non soltanto per te solo, ma per tutti quelli che ami: se tu intercedi per loro, tu ti identifichi con i loro bisogni... ma an­che con la realtà dell’amore che essi risvegliano nel cuore di Dio. Sei esau­dito nella misura della fiducia che hai in questo duplice amore del Signore per te e per colui che tu ami.
Proprio come la fede, la spe­ranza non è una capacità naturale del tuo cuore. Essa è proprio tua, ma è un dono gratuito; è in te sin dal Battesi­mo ed ha bisogno di crescere, di dive­nire operante sotto l’azione dello Spi­rito Santo e grazie alle occasioni che cogli di allenarla, di renderla docile perché mantenga te stesso disponibile e attento nella mano del Signore.
Ma non dimenticare che, per arrivare là, devi esercitarla, devi far­la lavorare coraggiosamente. In cambio, quale gioia sapere ‑ nella fede ‑ che il Signore trova lui stesso la sua felicità in te!
I tre registri dell’Amore
Resta l’ultima delle virtù teolo­gali, la più grande, dice san Paolo: la carità, l’amore. Essa gioca su tre registri: l’amore del Signore, l’amore dell’altro, l’amore di te. Questi tre amori non sono identici, ma spuntano dalla stessa radice: tutti e tre sono ad immagine dell’amore eterno che uni­sce il Padre e il Figlio nello Spirito. E’ esattamente lo stesso Spirito che ci è stato dato in modo stabile dalla Pentecoste e che ci permette di amare come amano il Padre e Gesù.
Questo amore divino ha, certo, dei punti in comune con l’amore uma­no che, lui stesso è nei nostri cuori un riflesso di Dio poiché Dio è amore: ogni amore vero, quali ne siano i suoi limiti, ci rimanda a Dio anche se spes­so in modo vago.
Ma l’amore divino che ci inte­ressa qui, più ancora della fede e la speranza, è un dono nuovo, scaturito direttamente dal cuore di Dio. Non è una tecnica, anche se dobbiamo impa­rare, passo passo, a farla entrare nel vissuto della nostra vita. Non è una tecnica, è lo slancio stesso che fa le Persone divine: ci è donato in parteci­pazione, perché possiamo vivere a loro immagine.
La realtà dell’amore in te si ri­conosce dalla qualità dello sguardo che puoi posare su di una persona: se sei incapace di condannarla, di non rispettarla, di non ammirarla; tu sei povertà completa davanti a lei, non tenendo per te niente di quel che tu puoi dare. Nello stesso tempo aspiri ad avere una pienezza analoga da parte sua, non come un diritto che puoi pretendere, ma come un compi­mento del tuo amore.
L’amore teologale non va confu­so con i grandi slanci appassionati che destano delle ondate impreviste nel fondo del nostro cuore o della nostra sensibilità. Queste cose non si oppongono necessariamente all’amore vero, ma si situano ad un altro livello.
La carità vera non passa, né in questo mondo, né nell’altro. Le grandi passioni sono come le onde del mare, violente, potenti a volte, ma mute­voli, che possono lasciar posto alla calma assoluta.
L’esperienza pare mostrare che l’ amore più difficile da svilupparsi nel nostro cuore, soprattutto agli inizi, è l’amore di noi stessi. Non ha nulla a che vedere con l’egoismo, l’amor proprio, il ripiegamento su di sé. E’ un dono dell’Altissimo che viene dal fatto che siamo suoi figli: qualunque siano le miserie che possiamo conoscere di noi stessi, in un certo senso esse non contano accanto a questa divinizza­zione. Questa non può che risvegliare in noi ammirazione, gioia, rispetto, amore, nella luce e nella trasparenza. Non trascurare mai questo amore di te; se fosse troppo manchevole, tutta la comunione con Dio ne soffrirebbe.
E’ tutto il discorso dopo la Cena, è tutta la prima lettera di san Gio­vanni che bisogna 1eggere quando si vuol ascoltare cosa ci dice il cuore di Dio sull’amore degli altri. Hai l’occasione di praticarlo incessantemente nella vita corrente, ma devi svilupparlo, approfondirlo senza posa nella preghiera, aprendo sempre più il tuo cuore a quello del Padre e di Gesù.
Quanto all’amore di Dio, esso è il solo scopo di queste pagine. Meta di cui abbiamo ricevuto la caparra sin dall’inizio della vita spirituale, ma di cui non possiamo raggiungere la pienezza prima della Parusia, quando, corpo e anima, nella comunione di tutti i santi, vedremo Dio che si dona a noi e saremo capaci di accoglierlo.
Consegnarci a Colui che ci ama
Dopo aver evocato brevemente il volto delle tre virtù teologali, vorrei dirti una parola su quel che mi pare essere un tratto assolutamente distin­tivo della preghiera teologale. All’ini­zio di queste pagine, ti dicevo che essa ha per scopo il raggiungimento di Dio, di Lui direttamente. E’ questo che vorrei precisare in modo più rigoroso.
La preghiera teologale ci mette in relazione personale con Qualcuno e non con qualche cosa: è incontro vero tra te e il Padre, o suo Figlio, o il loro Spirito. Non è più attraverso la me­diazione di idee ‑ anche sublimi ‑ o di contemplazioni intellettuali del miste­ro, che tu li raggiungi.
La parola di Gesù, che fonda la nostra fede, sfocia direttamente nel suo cuore, senza nessun intermediario, come pure nel Padre o nel Conso­latore, nella semplicità dell’unità di­vina.
Hai notato come, lungo tutto il Vangelo di san Giovanni, il rimprove­ro che Gesù rivolge incessantemente ai «Giudei», a loro che non possono o non vogliono credere, è sempre lo stesso? Sono incapaci o si rendono in­capaci di accoglierlo, Lui. Sentono le stesse parole dei discepoli; sono testi­moni degli stessi segni; sono eredi del­le stesse promesse, ma rimangono lon­tani da Gesù; non entrano in contatto con lui. Non fanno che proiettare su di lui i loro ragionamenti e le loro teorie anziché vedere Lui stesso e lasciarsi illuminare sino in fondo al cuore.
Non credono. Vogliono mantenere una distanza tra le idee delle quali si sentono proprietari e la realtà del dono di Dio che li obbligherebbe a spogliarsi di tutto e ad aprire il loro cuore alla persona del Figlio.
E’ un po’ quel che viviamo, anche noi, nella misura in cui, alla maniera dei «Giudei», ci aggrappiamo a tutte le cose create che ci rassicurano, anziché consegnarci alla persona divina che non ha nient’altro da donarci che se stessa. La preghiera teologale non è forse proprio questo dono di noi stessi, senza limiti né restrizioni, a Colui che ci ama?
La preghiera del pubblicano
(cf. Lc 18.10)
Sento il bisogno di fermarmi qui a lungo, perché essa è davvero una preghiera teologale. Mira a Dio e a lui solo: «Signore, abbi pietà del pecca­tore che sono», a differenza della pre­ghiera in cui il fariseo mette in mostra con compiacenza la propria persona. E’ una preghiera che piace a Dio. Ge­sù stesso ce ne dà la garanzia. E’ una preghiera che ci riguarda tutti, perché tutti non abbiamo altro da dire che implorare la Misericordia divina per il nostro stato di peccatori.
E’ molto importante riconosce­re che mai il nostro peccato ci proibi­sce di presentarci davanti al Padre delle misericordie. Al contrario! Sol­tanto lui può aver pietà e, nel mistero della sua Tenerezza e della sua Poten­za, può fare in modo che siamo giustificati, gradevoli, accolti con benevolenza, perché abbiamo creduto che egli era compassionevole e pieno di misericordia. Insisto su questo punto perché mi sembra che costituisca dav­vero il nocciolo della preghiera teologale dei poveri eredi di Adamo che siamo noi.
Certe tradizioni spirituali falsate, una «educazione cristiana» meschina, fanno sì che nella stragrande maggioranza dei casi il peccatore sia intimamente convinto che agli occhi di Dio egli non ha più il diritto di esistere; il meglio che si può fare è fuggire, fuggire il più lontano possibile dal vendicatore implacabile dei Cieli.
Quale caricatura dell’Evangelo! «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché il mondo sia salvato e non condanna­to...» (cf. Gv 3.16‑17).
Si potrebbero moltiplicare le citazioni del Vangelo e delle Epistole a questo riguardo. Il peccato è diventato il rivelatore dell’infinita profondità dell’amore del Padre per i suoi figli.
Abbiamo tutti una vocazione di pubblicani perché tutti siamo dei pec­catori, chiamati all’intimità con Dio. Egli non ci dice: «Va’ prima a purifi­carti e dopo ti presenterai a me». Al contrario, se riconosciamo la verità della nostra povertà e se ci rivolgiamo alla sua Misericordia, egli ci chiama: «Vieni che io ti purifico. Vieni a ralle­grare il mio cuore e tutto il cielo».
Il paradosso dell’amore divino è talmente forte che non mi sembra eccessivo il dire che la preghiera del Pubblicano è la sola forma di preghie­ra teologale normale per noi. Mai pos­siamo presentarci davanti a Dio senza portare nel nostro cuore degli ostacoli: peccati, tracce lasciate dal peccato, ostacoli involontari, ma molto reali, a compiere l’opera di Dio nelle nostre vite, ecc. Tutti e sempre ci presentia­mo davanti al Padre nostro alla ma­niera del figliol prodigo, sicuri che ci prenderà tra le braccia prima che ab­biamo incominciato il nostro discorso di spiegazioni.
Ci sarebbe molto da dire in que­sta linea sulla preghiera di guarigio­ne, la preghiera di questi innumere­voli peccatori, infermi, ammalati dei quali il Vangelo ci racconta la purifi­cazione grazie alla presenza di Gesù, a una parola della sua bocca, a un suo semplice gesto. E questo è sempre vero.
Chi racconterà queste guarigio­ni immediate o progressive di anime ferite, di cuori prigionieri, di sensibilità rivoltate che, nel segreto di una preghiera rivolta direttamente a Gesù, si sono visti guarire, risuscitare nella misura in cui hanno creduto in lui, hanno avuto fiducia, hanno cer­cato di amarlo?
Si tratta, in tal caso, davvero di una preghiera teologale. Si opera un incontro con il Figlio di Dio e avviene uno scambio: «Prende su di sé le no­stre infermità» (cf. Mt 8.17), mentre la vita divina si mette a brillare nei nostri cuori; non è soltanto una con­solazione quella che ci dà, è la sua stessa vita della quale ci fa partecipi.
Non è forse una preghiera di pubblicano la preghiera di Gesù che, da secoli, gli esicasti ripetono inces­santemente? Il testo stesso è parzial­mente preso dalla formula che Gesù mette sulla bocca del pubblicano: «Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore».
Generazioni di monaci non hanno avuto altra preghiera interiore ed essa li ha condotti all’intimità silenziosa con Dio, nel fondo della loro povertà.
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E’ «il tuo volto che cerco, Signore. Signore, non nascondermi il tuo volto» (Sl 26.8‑9). Questo versetto del salmo, tra molti altri, lascia ben presentire il profondo desiderio del Signore che anima tanti cuori. Trovano il mezzo per riuscire nella loro ricerca? Non sono forse troppi coloro che si perdono per strada oppure, stanchi per l’insuccesso del loro tentativo, si seggono, scoraggiati, sul ciglio della strada?
Mi chiedo se questi cercatori di Dio alla deriva sono sufficientemente aiutati. Conoscere questo dovrebbe essere una ferita per il nostro cuore. Il Padre misericordiosissimo si degni di ascoltare la nostra preghiera per loro.
Per concludere, devo confessare l’imprudenza che ho commesso ini­ziando queste pagine, il cui soggetto supera infinitamente la mia compe­tenza. Grazie di perdonarmela. Amen.


INDICE
PREFAZIONE
LA PREGHIERA DEL CUORE
LA PREGHIERA TEOLOGALE