venerdì 17 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 8. - A proposito di alcuni frutti dello Spirito



A PROPOSITO DI ALCUNI FRUTTI DELLO SPIRITO

L'espressione "frutti dello Spirito" è dovuta all'apostolo Paolo che si sforza di far capire ai primi cristiani che devono vivere non più a partire dalla Legge bensì secondo lo Spirito che han­no appena ricevuto. Perciò avverte il bisogno di indicare i segni che permettono di riconoscere coloro che vivono mossi dallo Spi­rito santo. Questi frutti dello Spirito, come li chiama, appari­ranno in chiunque viva della libertà interiore originata dallo Spi­rito. La lettera ai Galati li elenca: "Il frutto dello Spirito è amo­re, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Questo capitolo si soffermerà su alcuni di questi frutti per­ché costituiscono il terreno su cui ci è dato di imparare a vivere conformemente alla grazia. Ci limiteremo a tre soli: la gioia, il raccoglimento e l'amore.



La gioia

Il più grande desiderio di Gesù è che il nostro cuore si ralle­gri che nessuno possa rapirci questa gioia (cf. Gv 16,22-23). E’ questa l'intenzione della preghiera di domanda: "Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16,24). E anche la ragione della venuta di Gesù: è venuto a portare la vita e la gioia. "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). Già l'annuncio della sua nascita ai pastori fu una buona notizia e un messaggio di gioia: "Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo" (Lc 2,10). E’ dav­vero Gesù ci porta la gioia in pienezza: la sua venuta è la buona notizia per eccellenza, e lui stesso, durante tutta la sua vita, non cesserà mai di diffondere la gioia. In lui l'amore e la bontà di Dio sono apparsi sulla terra; secondo la testimonianza degli evan­gelisti ha fatto bene ogni cosa e ha diffuso ovunque il bene (cf. Mc 7,37). Gesù è straordinariamente mite in mezzo agli uomi­ni: guarisce i malati, risuscita i morti, non fa del male a nessu­no, è fonte di gioia e di consolazione per tutti quelli che incon­tra, soprattutto per i discepoli che aderiscono a lui senza dif­ficoltà. E’ sempre vicino a loro, li rianima quando sono scorag­giati, li porta in un luogo tranquillo in disparte perché possano riprendere le forze. Non appena Gesù è presente, è festa, per­ché è lo Sposo che scaccia ogni tristezza. Ecco perché i discepo­li non digiunano: "Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?" (Mc 2,19). La tristezza, o la penitenza che l'esprime, è il segno che Gesù non è, o non è più, presente. E’ questo il motivo per cui Gesù smette di digiunare dopo la resurrezione, come testimoniano i racconti della resurrezione: è impressionante notare come il pa­ne sia continuamente spezzato e mangiato (cf. Lc 24,30.35; Gv 21,13). Lo Sposo è dunque tornato e il discepolo di Gesù ha immediatamente il diritto di ricevere il centuplo promesso da Gesù già al presente (cf. Mc 10,30). E perché no? Secondo le parole stesse di Gesù, i nostri nomi sono scritti nei cieli, per no­stra grande gioia (cf. Lc 10,20). Dobbiamo però porci la domanda che, anche se avessimo vo­luto evitarla, si sarebbe inevitabilmente imposta: da dove viene questa gioia? Che legame c'è tra questa e la gioia che il mondo può dare? E difficile dare una risposta finché non si è sperimen­tata la gioia data da Gesù: perciò le opinioni sono molto diver­genti, anche tra i teologi di professione. Gli uni insistono sul fatto che la gioia di questo mondo è già un riflesso e un'antici­pazione della gioia futura del regno. Con questo vogliono dire che la gioia di questo mondo non può essere ignorata e che ha la sua importanza, contiene già la gioia futura. Altri invece met­tono l'accento sulla necessità di rinunciare alle gioie passeggere di questo mondo, fissando lo sguardo sulla gioia a venire. Ritro­viamo queste due tendenze nella storia della spiritualità: alcuni insistono sulla continuità tra ciò che è ora e ciò che sarà nell'al­dilà; altri sottolineano il passaggio verso la luce e la rottura che questo comporta. Per questi ultimi, non esiste denominatore co­mune tra la gioia di questo mondo e la gioia di Gesù. Su questo argomento non è sempre necessario arrivare a una sintesi teologica perfettamente soddisfacente. Basta saper con­vivere con le nostre gioie semplici e vigilare sempre più a rice­verle dalle mani di Gesù e attraverso lo Spirito santo. Se ci riu­sciamo, qualcosa trasformerà a poco a poco la nostra gioia, per quanto mondana ed egoista fosse all'origine. Non appena Gesù è implicato in ciascuna delle nostre gioie, non possiamo che cre­scere nella gioia, anche se questo raramente avviene senza rot­tura o strappo: sono i segni di una vita che cresce e quindi an­che di una gioia sempre più profonda e che rimbalza sempre più in alto. Questa stessa tensione tra l'oggi e il domani, tra presente e passato, tra ciò che viene e ciò che permane si trova anche nel­l'evangelo: ci parla incessantemente della gioia eppure non sfug­giamo all'impressione che la gioia di oggi è sempre limitata e che tutto ha una fine. La gioia perfetta e completa di cui parla Gesù non è identica alle gioie del mondo: è come se non potes­simo passare da queste alla gioia futura senza che sopraggiunga qualcosa di sconvolgente, addirittura su scala planetaria. Dav­vero il regno di Gesù non è di questo mondo (Gv 18,36), anche se il seme è già stato seminato e sta germogliando in modo mi­sterioso. Nella vita di Gesù e in quella dei suoi discepoli ci sono mo­menti in cui sembrano incappare in punti morti: potremmo chia­marli momenti di deserto. Facciamo un esempio: Gesù annun­cia la Parola, non senza successo; una folla numerosa si raduna, conquistata dalla sua Parola, lo segue entusiasta per due, tre, addirittura quattro giorni, fino a un luogo sperduto nel deserto. Improvvisamente tutti si rendono conto che la notte si sta avvi­cinando, che la folla ha fame e che non c'è nulla per sfamarla. Eppure la loro fiducia non sarà delusa: Gesù moltiplica i pani. Nulla poteva essere più adatto a infondere nuovo entusiasmo nella folla che decide di fare di Gesù il suo re: Gesù è alle soglie di una carnera politica. Ebbene, in quel preciso momento Gesù si ritira e fugge, perché non può imboccare quel cammino: il suo regno è altrove, lontano dal successo e dalla felicità che il mon­do e i discepoli gli offrono. Gesù acconsente per un attimo ad accogliere i favori della folla, arriva perfino a servirsene fino a un certo punto, per il bene della Parola. Anche un successo mon­dano può servire all'annuncio della buona novella, ma solo per un certo tempo. Nel momento decisivo, quando il successo im­mediato minaccia di accaparrare tutto, compresa la persona di Gesù, questi viene allontanato da qualsiasi riuscita mondana, verso qualcosa di radicalmente diverso. Qualcosa che ci appare strano, talmente strano che Pietro, al primo annuncio della pas­sione, vi si oppone apertamente. L'esperienza di Pasqua avrà aspetti analoghi: dapprima sembra essere uno scacco definitivo e la fine di ogni gioia. Gesù muore al mondo per tornare, al col­mo della gioia, presso il Padre, lasciandoci solo una vaga pro­messa di ritorno. Il legame tra Gesù e la nostra gioia in questo mondo non è facile da individuare. Se vogliamo seguire Gesù sul cammino della sua gioia, saremo sempre fortemente tentati di allontanarcene per cercare le nostre piccole gioie provvisorie e limitate, corren­do così il rischio di perdere per sempre la gioia autentica. E co­me se la gioia di Gesù procedesse a spirale fino a un punto cen­trale: noi dovremmo seguire il più fedelmente possibile la curva di questa spirale, ma nel contempo siamo incessantemente ten­tati di partire per la tangente, per uscire dalla spirale e conti­nuare da soli. Allora aumenta il rischio che ci allontaniamo dal regno di Dio al centro della spirale per perderci - temporanea­mente o definitivamente - nelle nostre piccole gioie umane. Qui ritorna la domanda: dobbiamo allora rinunciare alla gioia per se­guire Gesù? E, se sì, in quale misura? Oppure, al contrario: la penitenza e la mortificazione non significano forse percorrere la via di Gesù per raggiungere la gioia perfetta, la gioia in pie­nezza (cf. Gv 15,11)? Come esiste un amore spinto all'estremo, che passa per la morte di Gesù (cf. Gv 13,1), non potrebbe es­serci una gioia spinta all'estremo, attraverso questa stessa mor­te e resurrezione? Prima di andare oltre, sottolineiamo un attimo che la gioia autentica non è innanzitutto un sentimento di esaltazione. Non bisogna confondere la gioia con le sue diverse espressioni ai vari livelli: c'è il piacere, il benessere, la gioia intellettuale e artisti­ca, la soddisfazione per il lavoro ben fatto o per l'impresa rea­lizzata; ci sono soprattutto le innumerevoli gioie dei rapporti uma­ni, compresa la gioia dell'amore, che deve accompagnare l'uo­mo durante tutta la sua vita. Eppure tutte queste esperienze sono solo forme esteriori della gioia. Più queste forme sono impor­tanti, più hanno radici profonde; la gioia autentica si trova a una grande profondità e dobbiamo scavare molto profondo in noi per permetterle di sgorgare. E senza dubbio il senso dell'e­spressione che usiamo abitualmente per esprimere una grande felicità: "Sono profondamente contento". Ecco perché ogni grande felicità è anche silenziosa: non può essere espressa, è indicibile, raramente affiora in superficie e saremmo incapaci di farne sfog­gio. E’ proprio alla radice del nostro essere che siamo abitati dalla nostra gioia. La gioia è il terreno in cui ogni vita mette radice per essere in grado di esistere. Senza la gioia non potremmo vivere, o me­glio, non potremmo sopravvivere. La gioia sgorga in modo par­ticolare in occasione di momenti esistenziali eccezionali, quan­do ci è dato di fare esperienza della nostra realtà profonda, del­la bellezza o della vita. Pensiamo alla gioia che può procurare un'opera d'arte: A thing of beauty is a joy for ever (una cosa bella è una gioia per sempre). Nel godimento artistico sboccia la vera gioia, proprio perché, grazie all'arte, scopriamo meglio l'essere delle persone e delle cose e, in qualche misura, lo tocchiamo. E’ qualcosa che non possiamo osservare tramite la via normale dei sensi: la realtà profonda degli altri è normalmente qualcosa di inesprimibile, ma la gioia che proviamo al contatto di un es­sere è sempre il segno che ci è donata una profonda comunione con lui. Questa gioia è destinata a crescere nella misura in cui cresce l nostro essere, perché la gioia è la caratteristica di un essere vivente e in crescita, di un essere che si sviluppa verso un plus­essere. La gioia è quindi sempre legata alla dinamica degli uomi­ni e delle cose, possiede in sé un ritmo che, per il nostro svilup­po, è importante abbracciare. Inoltre la gioia che giace alla sor­gente del nostro essere ci spinge sempre in avanti; il suo compi­to specifico è quello di farci crescere nell'essere. Solo la gioia ne è capace. Dove la vita è in crescita, là sgorga sempre una gioia nuova. L'esempio più lampante è la gioia legata alla paternità e alla ma­ternità, a partire dal concepimento, il cui piacere è il segno di una gioia e di un amore che vengono da un ambito più alto di quello umano. Ovunque l'uomo partecipi alla creazione, sorge una gioia nuova e sconosciuta. Analogamente la gioia è legata anche al processo della crescita spirituale, soprattutto quando qualcuno può accogliere una vita nuova da parte di Dio: è la gioia profonda del pentimento, quando Dio ci ricrea nel suo amore misericordioso. Essere toccati dalla grazia e dalla misericordia di Dio per vivere nuovamente in lui è indubbiamente uno dei momenti esistenziali più intensi della nostra vita. E’ un'esperienza simile all'amicizia, quando ci sentiamo accettati da un altro con il nostro essere più profondo, con quella realtà ancora provviso­riamente nascosta ai nostri occhi ma tuttavia già riconosciuta dall'amore di un altro. Nell'amicizia autentica l'incontro non com­porta più alcuna minaccia: siamo incoraggiati a essere pienamente noi stessi, in modo più profondo che nelle apparenze. Ecco per­ché diciamo che l'amicizia "ci fa bene": intendiamo dire che es­sa ci sostiene e ci aiuta a sviluppare il meglio di noi stessi. La gioia è quindi una caratteristica dell'essere, a condizione che questo cresca e allarghi le proprie frontiere. In un certo senso, la nostra gioia anticipa sempre di poco il luogo in cui ci trovia­mo al momento: è una chiamata e una sfida. E gioia nella misu­ra in cui accettiamo di essere già situati più lontano - in un al­tro, o in Dio -, più lontani di dove ci troviamo attualmente. Ma nella misura in cui la gioia ci fa entrare nella spirale della felici­tà, esiste anche il rischio di deviare e di smarrirsi nella ricerca di un'altra felicità. Sul sentiero della gioia incontriamo spesso dei bivi in cui ci è data la possibilità di imboccare la tangente verso una felicità ristretta e limitata, nella quale rischiamo, alla lunga, di invischiarci. Questa gioia immediata non proviene ne­cessariamente dal maligno, però non è più la nostra gioia di og­gi, la gioia che corrisponde al nostro ritmo profondo, nel mo­mento preciso in cui ci troviamo. Per quanto preziosa, ci separa dalla nostra dinamica interiore: potremmo essere più avanti, già più vicini alla gioia assoluta, al centro della spirale. Vivere in­fatti è crescere, e crescere sempre di più; vivere è svilupparsi: una vita che cessa di svilupparsi è già morta. Ecco perché la vita autentica arreca sempre una certa lacerazione, per muoversi verso una rinascita incessantemente più profonda: lacerazione para­gonabile ai dolori e alla gioia del parto. L'unica ascesi che possa essere imposta alla gioia ne abbrac­cia il ritmo, è il movimento della spirale che abbandona progres­sivamente i cerchi esterni per flettersi verso il proprio centro più intimo. L'ascesi della gioia è quindi la gioia stessa. La gioia autentica, come l'amore autentico, porta in sé la propria purifi­cazione; per purificare una gioia non bisogna mai restringerla dall'esterno, basta seguirla nel suo sentiero, sposarne la spirale: allora ci sarà impossibile sottrarci alla purificazione, perché questa risiede nella gioia stessa. Per salvare la gioia autentica dobbia­mo sempre staccarci da ciò che ne è solo un'espressione provvi­soria. In ogni istante dobbiamo essere pronti a mollare una po­vera felicità limitata per scavare fino a una gioia più profonda, fino alla gioia estrema che coincide sempre con l'amore estremo. Non è possibile parlare di ascesi o di penitenza se non in vi­sta della gioia. La penitenza non deve mai aggredire la nostra gioia, come se ogni gioia dovesse sempre essere guardata con so­spetto e andasse vissuta in cattiva coscienza, come se ogni gioia dovesse essere corretta o ristretta dall'esterno. L'ascesi non è altro che offrirsi alla vita autentica e alla gioia profonda che ci abitano. In questo senso non è tanto un agere contra, un "agire contro", ma piuttosto un agere secundum, un "agire secondo" la gioia, in armonia con il nostro essere profondo; o, se voglia­mo accentuare ancora la dinamica particolare della gioia, l'asce­si può essere solo un agere ultra, un "andare oltre", un superamento della gioia provvisoria e limitata che era data solo per ie­ri e oggi e che domani sarà interamente nuova. Ecco perché la vera ascesi ha poco a che fare con la forza di volontà e non deve mai sfociare nell'irrigidimento. Al contra­rio, l'ascesi è un abbandono sciolto e morbido di fronte alla gioia che ci abita, una distensione e un'apertura che permettono alla vita di trascorrere senza ostacoli e quasi senza fatica. E’ la libe­razione e la nascita di un uomo nuovo: l'ascesi ricorda allora stra­namente quello che viene chiamato parto indolore. Più la futura madre è ansiosa e tesa, più si oppone inconsciamente al proces­so fisiologico che si compie in lei, maggiori saranno i dolori del parto. Viceversa, più si distende, più si abbandona con natura­lezza al frutto maturo della vita cui apre un cammino attraverso il proprio corpo, più si arrende pacificata alla gioia della mater­nità, maggiori saranno le probabilità che il parto avvenga senza dolore. Il parto indolore è la più bella immagine dell'ascesi, che im­plica gioia e dolori insieme: esprime l'unica ascesi possibile in un'ottica cristiana, un'ascesi che si fonda sulla gioia e ad essa si abbandona. La misura dell'ascesi sarà quella della gioia se ciò che ha di mira è di essere senza dolore: è necessariamente "gioiosa penitenza" (Pe#ectae Caritatis 7) perché si tratta della vita di Gesù che sta nascendo in noi, che, attraverso il nostro corpo e il no­stro cuore, si apre un cammino per impossessarsi di tutto il no­stro essere. Gesù ha utilizzato questa immagine del parto indolore par­lando delle sofferenze inevitabili degli ultimi tempi, che tutta­via saranno fonte di gioia profonda e definitiva: "In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricor­da più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uo­mo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vo­stra gioia" (Gv 16,20-23a). La donna che partorisce soffre a causa della vita che cresce in lei, ma nel contempo è colma di gioia causa del bambino di cui sarà madre. Più si avvicina la sua liberazione, meno soffrirà e più facilmente potrà abbandonarsi con riconoscenza alla gioia e alla vita che nascono da lei. Ogni discepolo di Gesù, in cui la vita di Gesù deve crescere incessantemente è, come questa partoriente, in preda alla fatica e alla gioia della crescita. Vive di questa gioia, a partire dalla piena statura dell'età adulta in Cristo alla quale tende. Ecco per­ché la sua ascesi è sempre gioiosa e l'unica misura della sua asce­si va ricercata nella gioia che gli è donata dallo Spirito santo. Benedetto non dice forse nella sua regola che ogni ascesi o mor­tificazione straordinaria ha valore solo se può essere offerta a Dio nella gioia che viene dallo Spirito santo (cf. RB 49,6)? E quindi importante che ogni discepolo di Gesù aderisca alla sua gioia. Ci sono due modi di ferire la gioia e, nel contempo, la vita di Dio in sé: mirare più in alto della gioia che è stata effettiva­mente ricevuta, oppure rimanere al di qua della gioia che ci èstata assegnata. Nel primo caso vogliamo compiere uno sforzo, anche se siamo privi di gioia. E’ il tipico esempio di un'ascesi cattiva, un'ascesi che non è guidata dall'impulso dello Spirito santo, di cui la gioia è il frutto sensibile. Agli occhi di Dio una simile ascesi è nulla e non avvenuta, non è altro che sforzo pa­gano, il più delle volte mescolato a sufficienza e orgoglio. Qui è possibile incontrare tendenze masochiste che trovano la pro­pria soddisfazione in pratiche di penitenza sospette. Tutto que­sto ha poco o nulla a che vedere con la grazia: nel migliore dei casi vi si rivela un segno di buona volontà, che Dio d'altronde non lascia senza risposta, ma di cui non ha, in realtà, alcun biso­gno. Un'ascesi pagana ci fa puntare al di là di quanto ci è dato come misura di grazia nella gioia dello Spirito; a lungo andare potrebbe addirittura spegnere questa gioia e smorzare pericolo­samente la nostra sensibilità spirituale. Ma più spesso accadrà che miriamo al di qua della gioia dona­taci e che facciamo in tal modo torto alla grazia e alla vita di Gesù in noi. Per paura della sofferenza sempre collegata a ogni processo di crescita, restiamo attaccati alla nostra piccola felici­tà limitata. Questo può addirittura imparentarsi con una gioia realmente spirituale: una consolazione nella preghiera, un suc­cesso nell'apostolato... E’ infatti possibile anche attaccarsi a una gioia spirituale, in modo tale che non ci permette più di progre­dire verso una gioia più profonda. Ecco perché è bene, ogni tanto, pregare per scoprire in noi questa gioia profonda o, meglio an­cora, perché un giorno ci afferri veramente. Quando l'ascesi sa­rà in pieno accordo con la gioia, allora sarà libera, felice e rag­giante. Non sarà più necessario aggrapparsi a qualche piccola fe­licità passeggera: la gioia stessa di Gesù si aggrapperà a noi e ci trascinerà attraverso ogni mortificazione verso la sua resurre­zione e la vita nuova.



Raccoglimento e silenzio

Il silenzio, sempre in rapporto con l'interiorità e il raccogli­mento, è anch'esso un terreno eminente di incontro con la gra­zia. Solo la grazia infatti può attirarci all'interno di noi stessi e placarci accanto alla Parola di Dio, per esprimere così davanti a Dio, senza parole, il nostro essere e quello del mondo. D'al­tronde il silenzio ha sempre a che fare con la parola: o si accor­da a una parola che siamo chiamati ad accogliere, oppure è lo spazio in cui prendiamo noi stessi la parola. Ma prima che questo avvenga, il silenzio non è privo di am­biguità: può essere espressione di impotenza e di peccato, ma anche di pienezza e di fecondità. Nel libro della Genesi, Ada­mo prima del peccato è per eccellenza un uomo che parla: pren­dendo la parola, svolge un ruolo attivo nella creazione; Dio lo invita addirittura a dare un nome a tutte le creature e viene di persona a dialogare con l'uomo al calar del sole, alla brezza del­la sera. Questo dialogo fu interrotto dal peccato. Quando Dio si manifestò nuovamente nella sua passeggiata serale, Adamo ed Eva si nascosero per la vergogna, non osando più accogliere Dio. Anche tra di loro il dialogo è interrotto: Eva tenta Adamo e Ada­mo accusa sua moglie davanti a Dio. La loro parola non esprime più l'amore bensì l'impotenza e l'odio, non sarà più parola di benedizione: ora è capace di maledire. La confusione delle lin­gue alla torre di Babele è un'immagine evidente della divisione che ormai regna tra gli uomini perfino nel linguaggio, la cui di­versità ostacola notevolmente l'intesa reciproca. Anche all'in­terno dell'uomo adesso regna la divisione e la confusione: non è più capace di essere leale nei confronti della sua stessa parola. L'uomo è diventato mentitore e con la sua lingua può far torto alla verità: la bocca infatti parla dalla pienezza del cuore (cf. Mt 12,34). Il cuore dell'uomo è diventato cattivo, perciò la sua pa­rola è ambigua, può fare il bene come il male: è uno strumento con il quale possiamo sia lodare Dio che fare del torto ai fratel­li, scrive Giacomo in un brano significativo della sua lettera in cui insiste sui pericoli che può provocare la lingua (cf. Gc 3,1-12). Ecco una prima ragione per essere attenti a maneggiare con serietà la parola, e anche, eventualmente, per tacere: la nostra impotenza e la nostra povertà. Spesso è meglio osservare il si­lenzio perché, parlando, si corre un rischio: Gesù stesso ci ha detto che verremo giudicati per ogni parola inutile (Mt 12,36), ammonimento che sottolinea sia il valore che l'ambiguità della parola. Questa prima forma di silenzio non sembra decisamente positiva, però ci aiuta più spesso di quanto crediamo. E’ bene vivere come esseri feriti, che conoscono le loro ferite e che, con tutti i loro atteggiamenti, dimostrano di cercare la guarigione. Questo stesso silenzio, che nasce dalla nostra impotenza, re­gna a volte tra Dio e noi, specialmente al momento della pre­ghiera. Non è ancora il silenzio che ci afferra dall'interno, quando una parola di Dio sorge improvvisa come una luce nel nostro cuore. Al contrario, è un silenzio che nasce dall'eccessiva distanza tra Dio e noi, però un silenzio che è pieno di speranza e di atte­sa e che può veramente purificarci in profondità. Noi crediamo che Dio un giorno scavalcherà tutti i nostri peccati e sarà il pri­mo a riprendere la parola per darci un segno di pura grazia. Il nostro mutismo esprime questa speranza e il desiderio di dire la nostra attuale insoddisfazione: è il silenzio del mendicante che non cessa di tendere la mano, il che include il rifiuto di tutto ciò che potrebbe distrarre da Dio. Il povero autentico è colui che è persuaso che solo Dio può salvarlo e che solo la sua Parola può compiere meraviglie. Una meraviglia simile è già apparsa nella vita di Gesù: questi è venuto sulla terra non tanto per tacere quanto piuttosto per ristabilire il dialogo spezzato tra Dio e Adamo. E’ lui che toglie la dissonanza che impedisce al nostro cuore di entrare veramen­te in dialogo con Dio. Gesù lo fa con facilità ancora maggiore per il fatto che è nel contempo Dio e uomo. Come Dio, è la Pa­rola vivente e perfetta del Padre che ci è concesso di ascoltare molto chiaramente; come Dio, Gesù è nello stesso tempo la ri­sposta del Padre al punto che, in quanto uomo, era il solo in grado di restaurare il dialogo tra l'umanità e Dio. Gesù è innanzitutto la Parola del Padre rivolta a noi. È quan­to appare chiaramente in ciò che dice il Padre nella Trasfigura­zione: "Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo" (Lc 9,35). Gesù stesso ha sovente ricordato di essere soltanto la Parola del Padre: è l'inviato del Padre e non può far altro che trasmettere ciò che ha ricevuto dal Padre. Ai giudei, che si meravigliavano di vederlo presentarsi come Maestro, dice esplicitamente: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16). Il fatto che Gesù si esprima in questi termini suppone in lui un'intensa apertura e un abbandono totale al Padre, il che è anche una forma di silenzio e di interiorità. Per essere soltan­to Parola del Padre, Gesù deve essere, fin nella sua umanità, unicamente silenzio, attenzione e ascolto del Padre. Per essere risonanza di quanto il Padre vuole comunicare, bisogna che Ge­sù sia impregnato di riservatezza, che assuma un atteggiamento essenzialmente di ascolto, in sintonia completa con il Padre. Gesù è in grado di essere Parola di Dio fin nella sua umanità perché al fondo del suo essere regna un silenzio infinito. Tuttavia Gesù è nel contempo risposta dell'uomo a Dio. Grazie al suo silenzio e alla sua Parola, il dialogo, interrotto da Adamo, è ristabilito. Paolo, nella seconda lettera ai Corinti, ha espresso in modo sintetico questi due aspetti di Gesù-Parola: "Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi (...) non fu si e no, ma in lui c'è stato il si. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute sì. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro amen per la sua gloria" (2Cor 1,19-20). E’ proprio perché Gesù è così disinteressato e così trasparente alla Parola del Padre che è stato anche la risposta migliore e più po­sitiva dell'uomo. E’ stato il primo Amen, al quale acconsentia­mo e ribadiamo il nostro accordo a ogni liturgia: Amen, Allelu­ja. Il silenzio essenziale e infinito dell'umanità di Gesù era così riempito fino al colmo dal sì dell'umanità, dall'amen del cielo come da quello della liturgia terrena. Amen non è forse il nome che Giovanni ha dato a Gesù nell'Apocalisse: "Così parla l'A­men" (Ap 3,14)? Per dire ed essere sempre l'Amen, Gesù ha do­vuto abbandonarsi alla Parola, alla volontà e all'amore del Pa­dre. "Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!" (Mc 14,36). In quel momento decisivo la volontà umana di Gesù si è per co­sì dire zittita e ha raggiunto la pace assoluta. Oggi, il silenzio di un credente si riallaccia a quelle parole di Gesù, perché ab­biamo bisogno di tempo e di pace per essere in grado di pronun­ciare consapevolmente quelle stesse parole di fronte al Padre. E perché, a un dato momento, quelle parole basteranno per sem­pre: Amen! Alleluja!


Crescere verso l'interiore

Le motivazioni del silenzio potrebbero essere ambigue e la sua pratica ha bisogno di un certo apprendistato: potrà crescere so­lo poco alla volta. C'è stato un periodo della nostra vita in cui abbiamo osserva­to un silenzio assoluto e nel contempo abbiamo vissuto intensa­mente, un tempo in cui crescita rapida e mutismo si confonde­vano. Era il tempo in cui non disponevamo ancora della parola, prima e dopo la nostra nascita. In quel silenzio obbligato c'è stata una scoperta progressiva della parola che avremmo un giorno balbettato all'indirizzo dei nostri genitori. Quel silenzio era d'al­tronde relativo: fin dall'inizio, infatti, il contatto con i genitori è stato estremamente intenso, lo scambio era incessante e l'esperienza non faceva che aumentare. Fin dal giorno stesso della nascita il contatto con la madre si è stabilito attraverso il corpo e la pelle; ben presto siamo stati in grado di riconoscere i nostri genitori con lo sguardo: da quel momento tra loro e noi c'è sta­to un linguaggio visivo. Un passo ulteriore avvenne qualche set­timana più tardi: il sorriso; con il sorriso gli abbiamo fatto sape­re che li riconoscevamo, consolidando così il legame tra loro e noi. A quel punto eravamo già capaci di registrare le loro parole e, in una certa misura, di capirle. La prima parola che abbiamo padroneggiato e, per così dire, inventato è stata "mamma" o "pa­pà": conferma e chiamata, maturate in un lungo silenzio. Si trat­tava già allora della migliore espressione di noi stessi, di come ci percepivamo, avvolti nell'amore dei nostri genitori. Ma pri­ma ci sono voluti mesi di silenzio, un lento e paziente scavo di questa nuova capacità, senza dubbio anche molta sofferenza. Il primo frutto è stata una parola d'amore, parola densa di signifi­cato, una vera parola. Molto più tardi, quando ormai sapevamo padroneggiare il linguaggio, siamo stati a nostra volta sorpresi dalle parole: ci oltrepassavano, erano ben lungi dall'essere sem­pre vere e chiare. Abbiamo imparato per esperienza che l'uomo è capace di usare una parola in disaccordo con la propria verità, e di nascondervisi dietro: ogni uomo può diventare bugiardo. La parola gli serve allora da difesa, lo separa dal prossimo, da se stesso e a volte anche da Dio. Le parole possono essere solo formalismo e convenzione, una maschera dietro la quale restia­mo invisibili. Tutto questo può renderci avidi di silenzio, ma di un silenzio che è ancora il silenzio di una certa impotenza: vorrei sbaraz­zarmi della maschera superficiale con la quale inganno gli altri e me stesso. Per essere veramente fecondo, il silenzio dev'esse­re qualcosa di più: deve rivelarmi il desiderio che vive in me, nascosto sotto molto rumore e molte parole, deve aiutarmi a rag­giungere il mio intimo in cui si trova la fonte del silenzio auten­tico. Dovremo procedere a lungo fino al cuore della nostra inte­riorità, là dove ci aspetta il Padre da cui procede ogni paternità (cf. Ef 3,15) e di cui cerchiamo di articolare il nome. Nel nostro intimo più profondo, infatti, c'è un altro legame d'amore, di cui quello che ci univa ai genitori era solo il segno: il legame con il Padre, nel Figlio e per mezzo dello Spirito. E lo Spirito che ci fa balbettare: "Abba, Padre" (Rm 8,15). La stessa invocazio­ne, che è stata un giorno la nostra prima parola umana, viene ora nuovamente balbettata, al di là di un silenzio che è diventa­to solo pienezza d'amore. Si crea così un andirivieni tra il silenzio che ci imponiamo al­l'esterno e il silenzio interiore, o interiorità, di cui cominciamo a discernere in noi la profondità insondabile. E il processo non è ancora finito: poco alla volta questa interiorità rimpiazzerà il silenzio esteriore perché questo è chiamato a trasformarsi in in­teriorità, una realtà che è silenzio che respira la vita, in quanto è vita essa stessa, vita interiore, vita spirituale, vita eterna. Isacco il Siro sostiene che il silenzio è la lingua del mondo futuro. Per favorire questa interiorità è necessario non solo il silenzio este­riore, ma anche quello interiore. Quest'ultimo è molto più im­portante del primo anche se, purtroppo, è molto meno conosciuto. Il nostro universo interiore non è spontaneamente in accordo con Dio, salvo il suo nucleo più profondo, là dove il nostro esse­re si riceve dalle mani di Dio. Questo nucleo è ricoperto da una cappa di desideri e di pensieri che impedisce un contatto diret­to con Dio che ci abita. Come il nostro corpo, così anche il no­stro essere interiore conserva delle tracce del peccato: ecco per­ché è sempre necessaria una vigilanza interiore per non cedere al primo desiderio che si presenta. Una certa povertà o sobrietà di desideri e di pensieri aprirà in noi un vuoto, creerà una cavi­tà attraverso la quale la vita dello Spirito potrà sgorgare, come sorgente inarrestabile, nel fondo del nostro cuore. La sorgente è forse l'immagine migliore del silenzio, perché questo ha sem­pre a che fare con lo Spirito, immagine d'altronde già usata da Gesù: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ri­cevuto i credenti in lui" (Gv 7,37b-39). Grazie al silenzio e al raccoglimento, lo Spirito santo scava in noi un vuoto, una cavi­tà che sarà lo spazio che consentirà alla sorgente di scaturire: questa sorgente è lo Spirito stesso. Siamo infatti nati da acqua e da Spirito (cf. Gv 3,5), da un'acqua che sgorga non appena il silenzio le crea lo spazio. Scavare diventa allora inutile perché il silenzio autentico, quello interiore, si sostituisce al silenzio im­posto dall'esterno. L'acqua scava da sola il proprio letto, sem­pre più profondo: basta lasciarla scorrere.




L'umile amore

Nulla rivela un essere meglio della sua capacità di amare, an­che se è altrettanto evidente che questa capacità non è imme­diatamente disponibile. Solo dopo un processo di maturazione, che può durare anni - e a volte anche tutta una vita -, arriviamo a liberare progressivamente tutto l'amore che è racchiuso nel no­stro cuore. Il nostro sviluppo spirituale e l'esperienza acquisita svolgono un ruolo importante in questo processo. In fondo l'a­more ha a che fare con Dio - Dio infatti è Amore - e noi possia­mo amare solo nella misura in cui abbiamo potuto sperimentare qualcosa dell'amore di Dio e della sua grazia. L'abbiamo già visto più volte in questo libro: è al cuore della tentazione e della conversione che impariamo come prendere con­tatto con la grazia e come vivere conformemente ad essa. È lì infatti che incontriamo la misericordia straripante di Dio. Nel­la misura in cui ogni amore è il frutto dello Spirito in noi, una simile esperienza della nostra impotenza e della misericordia, fatta al momento della conversione, si ripercuote forzatamente sulla nostra capacità di entrare in contatto con gli altri attraverso l'a­more. Questa esperienza infatti libera in noi un amore che va ben al di là dei limiti del nostro amore naturale, un amore che finisce per somigliare all'amore del Padre celeste, di cui Gesù testimonia che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni (Mt 5,45). L'amore andrà così lontano che Gesù vuole che si estenda non solo a quelli che ci amano - anche i pagani fanno altrettanto - ma addirittura a quelli che ci odiano, perfino ai no­stri nemici (Mt 5,44). E’ una missione gravosa, impossibile da realizzare finché lavoriamo solo con la nostra generosità. Solo una lunga familiarità con la grazia, o meglio con l'agire della grazia in noi, un agire paziente e generoso, mite e forte insieme, ci in­segna come amare sempre meglio. Non è tanto facile parlare del­l'amore come esperienza spirituale: fino a poco tempo fa, l'a­spetto sensibile dell'amore creava a molti un certo disagio. Da allora molte cose sono state scritte a questo proposito, ma non è detto che la situazione si sia evoluta così velocemente come lascerebbe pensare la marea di parole e di scritti: affermazioni scottanti, anche se ben intenzionate, generalmente non basta­no a infiammare un cuore; e la precipitazione con cui si parla di una cosa solitamente tradisce il malessere che proviamo nei suoi confronti. Non è mia intenzione soffermarmi su questa difficoltà: vor­rei soltanto ricordare una duplice deformazione dell'amore, che a volte si incontra ancora ai nostri giorni e la cui origine risale forse all'atteggiamento adottato dalle generazioni precedenti nei confronti della tenerezza e dell'amore sensibile. Una prima de­formazione concerne il fatto che l'amore è stato spesso forzato nel senso di un servizio attivo: per amare non sarebbe essenzia­le sentire qualcosa ma, al contrario, fare qualcosa. La seconda de­formazione porta ad accentuare in modo unilaterale gli aspetti sociali dell'amore, a danno degli aspetti personali: è più facile che ci venga chiesto di amare un popolo, una classe, una giusta causa, magari la chiesa stessa, piuttosto che la persona che in­contriamo per caso all'angolo della strada. Questa duplice deformazione procura seri rischi all'amore. E’ indubbio che l'amore deve portarci a dedicarci a quanti ne han­no veramente bisogno: ogni pagina dell'evangelo ce lo ricorda. Tuttavia non bisogna dimenticare che in ogni amore autentico quello che conta innanzitutto è che io stesso mi senta indigen­te. La mia povertà in amore ha un ruolo altrettanto importante del bisogno materiale o spirituale del mio prossimo. A prima vi­sta, ciò può apparire egoista, ma non è così: se mi preoccupo troppo in fretta del servizio da offrire all'altro, salto una tappa importante dell'amicizia, forse addirittura una tappa essenzia­le. E’ anche possibile che, inconsciamente, questa omissione ci venga a costare meno: in fondo è più piacevole fare qualcosa per un altro piuttosto che accettare che si avvicini a me come a un povero. E’ tuttavia per l'amore è essenziale che io sia per primo ferito dall'altro, gli devo lasciare l'occasione e il tempo di procurarmi questa ferita. Quando amo, sorge in me un bisogno che può ve­nir colmato solo dalla persona amata; amare significa dire a qual­cuno: "Sei la mia gioia, senza di te non posso vivere, ho biso­gno di te". L'amore desta un bisogno, rende indigente e pove­ro, arriva a farmi dipendere dall'altro. L'amore mi apre all'altro, mi insegna ad ascoltare, mi rende ricettivo. In questo senso l'amore non può mai essere dissociato dall'autentica umiltà: e so­prattutto l'amore che mi rende umile nei confronti di colui ver­so il quale mi sento così fortemente attratto. E forse quanto c'è di più difficile nell'amicizia: non il carattere troppo sensibile del­l'amore e i problemi che pone, ma il fatto che l'amore ci porti a riconoscere che abbiamo bisogno dell'altro, un altro che solo può darci quello che ci manca, nella misura in cui ci abbando­niamo a lui. E’ comprensibile che molti oppongano inconsciamente resistenza a quanto può apparire debolezza o viltà, e che faccia­no tutto il possibile per evitare questa prova. Allora un'attività generosa diventa spesso la via d'uscita più onorevole che lusin­gherà il nostro amor proprio. Un simile amore, che pretende di essere disinteressato, è un sistema facile per schivare l'amore vero e soprattutto l'autentica umiltà dell'amore. Mostrarsi eroici nel­l'amore del prossimo è relativamente semplice. "Eroe della ca­rità!": curiosa espressione che ha trovato molto presto diritto di cittadinanza. Un simile eroismo ha però poco a che fare con l'amore autentico, il quale riguarda piuttosto la vulnerabilità e la fragilità della persona amata. Non si parla mai di eroi dell'a­micizia, né di amore coniugale eroico: l'amore non sa che farse­ne dell'eroismo che potrebbe essere al massimo un amore che schiaccia. L'amore è amore e basta a se stesso. Un altro modo di schivare il confronto con la nostra debolez­za sarebbe quello di indirizzare il nostro amore solo verso gruppi di persone. Ci si dedica attivamente agli altri (al plurale!), al­la parrocchia, alla chiesa, alla patria, ai paesi sottosviluppati. E’ una semplice distrazione se non si menziona mai l'uomo con­creto? E così facile amare al plurale, di un amore astratto e idea­lizzato che non fa male a nessuno - né a noi, né agli altri - ma che non fa neanche del bene ad alcuna persona concreta. Allora si può essere occupatissimi con un prossimo lontano (già la con­traddizione dei termini dovrebbe dirci qualcosa!), in qualche pae­se straniero, ed essere in difficoltà con tutti i propri compagni di lavoro: è ancora un modo di sfuggire all'amore autentico, che si vive sempre al singolare. Non si ama un gruppo, ma innanzi­tutto una persona, qualcuno che mi può ferire, davanti al quale accetto di perdere la faccia e al quale faccio l'onore di essere l'unico che, in un dato momento, mi salva dalla miseria. Questa capacità di essere feriti dall'amore, questa debolezza che nasce in ogni relazione d'amore possiamo impararla solo da Dio e dalla sua grazia. E’ lui che ci ha lasciato l'esempio assoluto dell'amore nella sua azione redentrice, lui il cui amore si occupa di noi ogni giorno. Non ha forse tanto amato il mondo da offri­re il suo Figlio unigenito (Gv 3,16)? E suo Figlio non ha forse detto - lui, il buon pastore - che abbandonerebbe le novantano­ve pecore nel deserto per cercare la pecora smarrita (cf. Lc 15,4)? Non si è forse paragonato al Padre che ogni giorno si mette di sentinella per correre verso il figlio prodigo e abbracciarlo non appena lo vede sbucare all'orizzonte (cf. Lc 15,20)? E quando, alla vigilia della sua passione, ha voluto dare un segno del suo amore infinito, non si è forse tolto la veste e, come un servo, non si è inginocchiato davanti ai suoi discepoli, Giuda compre­so, per lavar loro i piedi (cf. Gv 13,5)? La vulnerabilità di Dio di fronte all'uomo è così grande, il suo desiderio di lui è così intenso, il prezzo che è disposto a pagare è così alto che non c'è gioia più grande in cielo di quella che solo il peccatore è in grado di dare a Dio quando decide di tornare dal Padre suo (cf. Lc 15,7). L'amore di Dio non schiaccia mai, anzi: è discreto e umano, mite, umile e riconoscente. L'amore umile, humilis caritas, ecco forse la virtù evangelica per eccellenza. E’ molto più rara di quanto lascerebbe supporre l'uso odierno del termine amore; è l'amore a immagine di Dio: generoso, paziente, mite con tutti, con il prossimo vicino come con quello lontano, con l'amico come con il nemico, un amore che si offre anche al primo venuto. Un abate cistercense del XII secolo, Guerrico d'Igny, l'ha espresso a modo suo: "Proprium est amicitiae humiliari pro amicis. Proprio dell'amicizia è umiliarsi per gli amici". Persone simili sono una grande grazia per la chiesa e per il mondo. Di solito sono persone facilmente riconoscibili perché l'amore autentico attira gli altri, a sua insaputa. A volte vivono nascoste, in disparte, ma una sola delle loro parole, pronunciata sulla porta del loro eremo, può bastare a gettarci a terra, come è capitato a Paolo, e a farci gustare qualcosa della grazia di Dio. Vorrei concludere questo capitolo sui frutti dello Spirito con il ricordo personale di un pellegrinaggio presso alcuni eremiti del Monte Athos. C'è poco da dire, se non che me li ero imma­ginati completamente diversi: magari come uomini rozzi, rudi e duri, degli eroi dell'ascesi e della solitudine, restii a ogni con­tatto umano. La realtà è stata tutt'altra: raramente ho potuto sperimentare un amore simile, un amore mite e umile che mi ha immediatamente fatto sentire accolto nella loro preghiera e mi ha trascinato, come mio malgrado, verso Dio. Raramente mi sono anche sentito così vicino agli uomini, immesso nel cuore stesso del mondo che non cessa di battere per Dio e che così pochi, purtroppo, sanno ascoltare.